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Per una nuova amministrazione penitenziaria

PER UNA NUOVA AMMINISTRAZIONE PENITENZIARIA

 

L’amministrazione penitenziaria ha un mandato che è direttamente definito dalla Costituzione. Gli articoli 13 e 27 della Carta Costituzionale definiscono quali sono i limiti e quali le finalità della propria mission. È questa una particolarità rispetto a tante altre amministrazioni dello Stato, che pur nella complessità delle loro funzioni, hanno obiettivi più strettamente contingenti, prefissati dalla classe politica che temporaneamente governa.

 

L’amministrazione penitenziaria è per necessità costretta a governare una organizzazione difficile e complessa. La sua complessità sta nei contenuti, nelle forme, nei numeri. Per quanto riguarda i contenuti deve assicurare il rispetto delle norme costituzionali, internazionali e nazionali in materia di carceri e diritti umani e deve rassicurare la classe politica e l’opinione pubblica sul tema della sicurezza. Qual è la mission dell’esecuzione penale: quella prevista dall’ordinamento giuridico (risocializzazione e rispetto della dignità del detenuto), o quella esistente de facto (neutralizzazione e sicurezza)?

 

Per quanto riguarda le forme l’amministrazione penitenziaria deve essere capace di raccordarsi, superando consolidate tentazioni di primarietà, con molte altre amministrazioni dello stato, del territorio, del privato profit e del privato non profit. Per quanto riguarda i numeri deve governare una macchina che fra operatori, utenti e terzi interessati a qualsiasi titolo coinvolge più di duecentomila persone. Per fare questo non va bene una macchina strutturata in modo piramidale quale quella attuale, che appare pensata principalmente per evitare che succedano eventi gravi e non invece per governare grandi questioni quali: uso razionale delle risorse umane, capacità di coinvolgimento delle imprese, raccordo con le regioni e gli enti locali, tutela della salute in luoghi oggettivamente patogeni. 

 

Sono due quindi i piani di ragionamento. Il primo politico-costituzionale. Il secondo amministrativo-gestionale. Una amministrazione penitenziaria nuova è una amministrazione che per cultura, opzione ideale, capacità manageriale sappia contestualmente occuparsi di ambedue i piani. Che sappia e voglia miscelarli opportunamente, che non scelga uno dei poli del tradizionale contendere pubblico, ma che, pur sempre nella consapevolezza della complessità, sappia riconoscere nella Costituzione e nelle leggi il faro della propria azione amministrativa. Una amministrazione che non legittimi, come è accaduto in questi ultimi cinque anni, violazioni di legge nel nome della sicurezza o della classe politica di turno. Che non rincorra le emergenze, o le pseudo-emergenze (vedasi circolari sul prototipo del detenuto che evade), che non si accontenti della autoreferenzialità, che non difenda corporativamente se stessa o pezzi di se stessa (vedasi la medicina penitenziaria) a scapito dell’interesse generale e del mandato istituzionale, che non spenda tutte le proprie energie nella propria sopravvivenza o nella sola auto-conservazione, che sia disposta a dismettere pezzi del proprio potere a favore di altri comparti dello stato o degli enti territoriali.

 

Le carceri non appartengono alla sola amministrazione penitenziaria. Sarebbe cosa buona e giusta agli inizi di ogni anno una sorta di grande conferenza di servizi dove l’amministrazione penitenziaria, il ministero della sanità, quello delle infrastrutture, le regioni, le province e i comuni, il terzo settore e il volontariato ragionino e programmino insieme il lavoro di un anno, le priorità su cui investire, i problemi da affrontare primariamente, le sinergie da promuovere, le proposte normative da suggerire al Parlamento.  

 

Il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria non deve più detenere il monopolio esclusivo della gestione della esecuzione penale. Deve compartirla con gli altri attori. Deve snellirsi nelle funzioni e nei numeri. Se mai è nata una seconda repubblica, è opportuno che nasca anche una nuova amministrazione penitenziaria. Una amministrazione agile, efficiente, che risponda in tempi brevi alle sollecitazioni, che dialoghi con tutti in condizione di parità, che tratti un sindaco come è giusto che sia trattato, che non tema i parlamentari dello stato perché questi ultimi sono eletti dai cittadini. Una amministrazione che non sia gerarchizzata, che costruisca un rapporto bi-direzionale con i Provveditorati, che metta questi ultimi in condizioni di funzionare quali centri efficienti di azione amministrativa, che valuti il lavoro dei direttori e del personale di polizia non per quello che hanno evitato ma per quello che hanno fatto, che non intimidisca o inibisca il lavoro innovativo della periferia ma ne sia di stimolo e promozione. Vanno previsti ed elaborati indicatori di valutazione di efficienza e di efficacia. Non è ardito pensare che la tecnica della customer satisfaction sia applicabile al sistema dell’esecuzione penale, dove il “cliente” di tale sistema è il detenuto.

 

 

Un Dap rinnovato è un Dap che deve avere il coraggio di non essere sempre la fotocopia di se stesso. Una organizzazione complessa più che grandi numeri richiede personale specializzato. Un buon capo del dipartimento, così come buoni capi delle altre direzioni generali, possono essere manager pubblici, personale provenienti dalla carriera penitenziaria, esperti di settore, donne o uomini con lavoro politico nell’ambito della giustizia, accademici. La giustizia non è solo affare di giudici e avvocati. Perché non affidare la complessa organizzazione del personale, o della formazione, o dei beni e servizi rispettivamente a manager formati nel settore delle risorse umane o dirigenti della periferia abituati a lavorare con le persone, a professori universitari o esperti penitenziari, a ingegneri o economisti? Ad esempio il sovraffollamento è “a macchia di leopardo”,  e richiede la necessità di utilizzare appieno il patrimonio edilizio penitenziario. Bisogna evitare sprechi e operare per una razionalizzazione delle risorse. Non sempre l’incremento delle risorse produce benefici effettivi se non si investe anche nella cultura organizzativa.

 

Perché non distinguere la gestione degli imputati da quella dei condannati e affidare quest’ultima a esperti interni del trattamento? Perché non assecondare il dettato legislativo e affidare alle regioni la sanità, e nel frattempo affidare a un dirigente medico o un esperto manager sanitario la gestione transitoria della medicina penitenziaria? Perché non affidare esperti/dirigenti del servizio sociale o a qualcuno che proviene dagli enti locali la gestione della esecuzione penale esterna, visto che essa è prioritariamente ricerca di opportunità sociali e lavorative? Vi è la necessità di pensare al sistema “esecuzione penale” e non esclusivamente al carcerario. Per progettare un’autentica “politica penitenziaria” occorre avere una prospettiva che comprenda anche l’area penale esterna e, al tempo stesso, un’attenzione alle specificità del carcere come organizzazione complessa.

 

Un Dap rinnovato deve rinnovare il proprio rapporto con le singole carceri. L’ultima grande circolare organizzativa è quella che prevedeva la istituzione delle aree. È possibile che non si riesca a fare un passo in avanti? Il mondo delle professioni è oggi molto più vario di quello che vediamo all’interno degli istituti di pena. La popolazione detenuta è cambiata. Molti sono gli stranieri. Va adeguata la formazione degli operatori attualmente in servizio alla differente utenza, vanno selezionate nuove professioni (agenti di sviluppo locale, mediatori culturali), va rotta la divisione rigida tra militari e civili, va ripensata la scala gerarchica interna.

 

Il Programma dell’Unione per la giustizia dedica molto spazio alla cultura organizzativa che dovrebbe sostenere la riforma dell’amministrazione giudiziaria nel nostro Paese. Lo stesso discorso si possa e si debba fare anche per quanto riguarda la riforma dell’amministrazione penitenziaria.

 

Tra le priorità di metodo della riforma penitenziaria vi è quella di conoscere per progettare. Qui si pone la questione delle statistiche penitenziarie e della conoscenza complessiva del sistema. Raccogliere statistiche non è sufficiente se non per produrre numeri fini a se stessi. Invece devono essere utilizzate produrre informazioni operative. Bisogna far crescere una cultura della statistica.

 

Dieci questioni per una nuova politica penitenziaria

 

  1. La questione della formazione del personale: formazione congiunta (coinvolgimento di tutti gli operatori penitenziari, gli operatori sociali esterni e del volontariato) e non giuridico-centrica.

 

  1. La questione delle strategie di collaborazione con gli altri attori che si occupano dell’esecuzione penale: lavoro di rete in antitesi alle tendenze egemoniche dell’amministrazione penitenziaria.

 

  1. La questione della polizia penitenziaria: superamento del conflitto sicurezza/trattamento.

 

  1. La questione del coinvolgimento del personale penitenziario e tecniche di rilevamento (esempio del Prison Social Climate Survey statunitense).

 

  1. La questione del management penitenziario. La legge Meduri sembra aver prodotto un esercito di generali senza aver fornito gli strumenti effettivi per poter esercitare la leadership all’interno delle strutture penitenziarie.

 

  1. La questione della privatizzazione di alcuni servizi dell’amministrazione penitenziaria.

 

  1. La questione del decentramento dell’amministrazione penitenziaria: quale ruolo per le regioni, gli enti locali e i soggetti economici sul territorio?

 

  1. La questione della riforma della sanità penitenziaria.

 

  1. La questione delle ispezioni e dei controlli esterni all’amministrazione penitenziaria.

 

La questione della magistratura di sorveglianza: giudici dell’esecuzione penale o garanti dei diritti dei detenuti?

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