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Per una nuova amministrazione penitenziaria

Antigone

Se non ora, quando?

Proposte e riflessioni per una rinnovata amministrazione penitenziaria

 

Camera dei Deputati

27 Luglio 2006

 

 

Mauro Palma

 

Veniamo da giorni caratterizzati da un gran parlare della situazione negli Istituti penitenziari italiani. Tutte le istituzioni del Paese, dal Parlamento al Presidente della Repubblica hanno denunciato la situazione presente come insostenibile sia per chi in carcere è detenuto – o per espiazione di una pena o in situazione di presunta innocenza, in attesa in attesa di sentenza definitiva – sia per chi in carcere lavora. Sia, infine, per una società democratica che vede nella propria capacità di rispondere alle azioni delittuose, di accertare responsabilità e irrogare sanzioni adeguate, sempre però in un contesto di scrupolosa tutela dei diritti fondamentali delle persone responsabili di tali azioni, un punto centrale della qualità della propria democrazia e della propria capacità di gestire positivamente fenomeni che attengono alla sua stessa complessità.

 

La pena, lo sappiamo alla luce degli insegnamenti dei nostri maestri di diritto, deve sempre trovare quel punto di equilibrio tra il riconoscimento del danno inferto alla vittima del reato, la massima tutela della collettività esterna dal riproporsi di simili azioni e il recupero alla società del reo, pur attraverso quella sofferenza legale che la sanzione sempre porta con sé.

Ha, quindi, una connotazione di necessità, ma deve essere sempre soggetta a un continuo controllo del proprio limite. Il diritto penale assume così, come ha scritto Luigi Ferrajoli nella sua complessiva opera sulla teoria del garantismo penale, «due fondamentali e distinte funzioni preventive: prevenire i delitti e prevenire le pene arbitrarie e sproporzionate».

Questa collocazione nella zona di limite tra diverse esigenze, apparentemente conflittuali, che ho ricordato molto sommariamente grazie alla possibilità di confidare in questo consesso di grandi competenze e riflessioni che vanno ben al di là delle mie parole, è ancor più stringente quando la pena è privativa della libertà personale. Quando cioè si concretizza nella detenzione.

Ma, sappiamo anche che i diritti fondamentali delle persone hanno una antecedenza logica rispetto a qualunque decisione positiva: riguardano le persone in quanto tali e non sono modulabili in base alla loro temporanea collocazione in luoghi a parte dal comune consorzio sociale o in base alle loro responsabilità. La loro assolutezza li ha posti all’interno di quel paniere di principi non derogabili, enunciato quasi sessant’anni fa da parte di tutte le nazioni che uscivano dalla drammaticità del conflitto mondiale, da cui discendono obblighi altrettanto assoluti per tutti gli Stati. Tra essi, è il principio che nessuno possa essere sottoposto a trattamenti o pene inumane o degradanti, cioè contrari al criterio di umanità che sovrintende ogni regola del vivere sociale e allo scrupoloso rispetto della dignità di ogni persona.

Questo principio è stato per l’Europa ripreso all’interno della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, che ha valore di trattato vincolante per gli Stati aderenti e che giustamente è considerata un vanto della civiltà giuridica delle nazioni europee.

E’ in virtù di tali principi e obblighi che la pena detentiva trova la sua espressione appunto nella mera privazione della libertà e che ogni altra sofferenza imposta non ha legittimazione.

 

Richiamare questo aspetto in giornate di discussione su affollamento carcerario, numeri e possibili provvedimenti di riduzione dell’attuale criticità della situazione detentiva è doveroso perché a fronte di legittimi richiami a sanzioni effettivamente adeguate ai reati commessi ed efficacemente deterrenti occorre anche ricordare il rischio di tramutare di fatto le sanzioni legali in improprie forme di afflizioni che incidono sull’integrità delle persone recluse e affievoliscono la loro dignità.

Questo obiettivo rischio impone un limite all’azione punitiva, che non è possibile oltrepassare perché – come del resto ha in anni recenti stabilito la Corte dei diritti umani di Strasburgo – anche qualora non ci sia alcuna intenzione di sottoporre una persona a trattamenti contrari al senso di umanità e al riconoscimento della sua dignità, può essere la situazione detentiva in cui tale persona viene collocata a costituire di per sé un simile trattamento, per problemi di affollamento, di mancanza di igiene, di mancato accesso alle cure, di mancata protezione, di abbandono.

Tale inadeguata capacità delle autorità responsabili può trasformare la privazione della libertà in qualcosa di diverso, in una pena che attenta la sua integrità e che contrasta con un paradigma basilare su cui si fonda lo stato di diritto nelle società moderne, quello della intangibilità dell’integrità fisica e psichica della persona detenuta.

Il dibattito sviluppato in questo periodo è consapevole della necessità e di tale limite. E tuttavia non è scevro di quell’ambiguità che circonda le discussioni attorno a questo tema. Ambiguità sintetizzabile nella dicotomia tra i dibattiti sul carcere e la realtà carceraria.

Da un lato, in ogni convegno sul tema e in ogni articolo che analizzi la fisionomia della situazione detentiva attuale, in Italia e un po’ in tutta l’Europa, emerge consenso nel richiedere un limite al ricorso alla pena carceraria, proponendola come una tra le punizioni possibili: la più dura, da prevedere in casi di effettiva gravità. Dall’altro, l’espansione della detenzione non si arresta e le politiche penali concrete fanno sempre più ricorso al carcere, quasi proponendolo come unico luogo del punire, in ciò attribuendogli un valore simbolico foriero di un presunto consenso d’opinione. Così, mentre si discute del ridurre, si assiste alla continua crescita del numero dei detenuti e alla loro reclusione in luoghi sempre meno adeguati, perché disegnati per accoglierne un numero molto minore.

 

Non c’è bisogno qui di soffermarci sui dati italiani. I dati dell’attuale situazione ce li fornisce – con puntualità e rigore – la stessa amministrazione penitenziaria. Ce li ha forniti, per esempio, per quanto attiene il diritto alla salute, in una iniziativa del marzo 2006 in cui sono emerse le deficienze nella tutela di tale diritto e la fumosità di un sistema che, avendo deciso il passaggio della responsabilità di tale settore al servizio sanitario nazionale non ha dato seguito a tale decisione, pur formalmente assunta dal Parlamento[1].

Sono dati che fanno capire l’urgenza della nostra discussione, che chiedono un’inversione di tendenza, non certo una riduzione dell’incisività dell’azione di indagine e conseguente irrogazione di pene, ma una capacità di attribuire a esse non un valore simbolico, ma effettivo. Perché solo attraverso il recupero della funzione di rieducazione sociale della pena e, quindi, attraverso l’investimento positivo su progetti e programmi è possibile dare una tutela reale – e appunto non solo simbolica – a quella più volte richiamata richiesta di sicurezza che proviene dalla società. Sappiamo bene che è proprio l’investimento in tale settore congiunto con l’avvio di diverse politiche sociali a poter ridurre quell’incidenza della recidiva che attualmente è alla base di tale richiesta. La segregazione invece rinvia soltanto il problema, senza incidere sui meccanismi del suo riproporsi.

 

Antigone, nella sua ormai lunga storia, ha sempre sottolineato la necessità di tenere insieme tre aspetti che rischiano di essere considerati spesso separatamente. Quello della complessiva politica penale, dell’individuazione di cosa punire e come punire; quello della politica penitenziaria, centrato sul come punire e quello dell’amministrazione del sistema delle pene e, quindi, della funzionalità dell’organismo amministrativo a esse preposto.

Sono tre aspetti che non possono essere tenuti disgiunti, pena l’ineffettualità di ogni decisione assunta o di ogni legge approvata, pur positiva nel suo testo, ma destinata a rimanere un mero manifesto di intenzioni.

Sul piano penale guardiamo con fiducia alla ripresa di una discussione sul nuovo codice. Siamo tuttavia certi che alcune norme produttrici di quell’espansione detentiva di cui discutiamo debbano essere riviste con assoluta urgenza, in particolare relativamente ai reati connessi all’immigrazione clandestina, al consumo di droghe, all’incidenza della recidiva sull’accesso a misure alternative alla detenzione.

La discussione sul nuovo Codice dovrà senza dubbio aprirsi alla parte speciale, relativa a reati e pene conseguenti, procedendo alla ridefinizione delle fattispecie; dovrà aprirsi a una consistente depenalizzazione di reati minori, alla cancellazione di reati che non rispondono a requisiti di offensività e di materialità – i cosiddetti «reati senza vittime» e «reati senza fatto» - alla ricerca di altre forme di ricomposizione dei conflitti, che non intervengano nell’ambito penale

Ma dovrà anche aprirsi alla previsione di pene alternative alla detenzione – che già la bozza elaborata dalla Commissione Grosso nella XIII Legislatura aveva, seppur timidamente, introdotto. Pene alternative di tipo limitativo, con sottrazioni parziali di quote di libertà o imposizioni di prescrizioni e pene alternative di tipo positivo, eventualmente introdotte come sostitutive di sanzioni limitative, che siano imperniate sulla possibilità di costruire un percorso di risocializzazione attraverso prestazioni, compiti, ruoli di assistenza, di recupero di utilità sociale.

In questo contesto crediamo debbano essere tenute in conto le indicazioni europee che provengono dalle Raccomandazioni del Comitato dei Ministri n. 22 del 1999 sul sovraffollamento carcerario e sulle diverse politiche penali e n. 22 dell’anno successivo, 2000, proprio sull’incremento di sanzioni e misure alternative.

 

Non credo invece che il sistema penitenziario richieda nell’immediato nuovi strumenti normativi. E questo non solo per le note difficoltà che un eventuale riordino troverebbe negli stretti margini numerici dell’Assemblea Parlamentare. Soprattutto perché abbiamo bisogno di rendere effettivo quanto già normativamente stabilito, piuttosto che inaugurare una nuova stagione di riforme sulla carta.

Tre riferimenti devono essere tenuti presenti: due in ambito internazionale e uno in quello nazionale. Il primo è costituito dalle nuove Regole Penitenziarie Europee, adottate quest’anno, che danno indicazioni di massima per le politiche penitenziarie e indicazioni stringenti per la tutela dei diritti dei detenuti. Si tratta di uno strumento non sempre noto a chi ha anche responsabilità nel nostro Dipartimento per l’Amministrazione penitenziaria e che invece dovrebbero costituire uno strumento di lavoro per l’attuazione delle politiche penitenziarie concrete. Il secondo, connesso al precedente e anch’esso di ambito europeo, riguarda le raccomandazioni rivolte all’Italia dal Comitato europeo che ha il compito di ispezionare i luoghi di privazione della libertà e di formulare conseguentemente indicazioni e raccomandazioni ai relativi governi: il Comitato per la prevenzione della tortura, dei trattamenti e delle pene inumane o degradanti, il cui lungo nome richiama l’obbligo formulato dall’articolo 3 della già ricordata Convenzione europea sui diritti umani.

Le raccomandazioni hanno valore vincolante per gli Stati, pur non fissando i tempi della loro attuazione e sono alla base del dialogo che il Comitato mantiene con le autorità nazionali. Anche qui – forse a causa della diversa incisività che il termine «raccomandazione» ha nella lingua inglese, in cui vengono formulate, e in quella italiana, in cui vengono tradotte – l’attuazione è vaga e anche la conoscenza è scarsa. Se mi è permessa un’annotazione che ha riflessi anche personali, osservo con perplessità che negli ultimi cinque anni, il Capo del Dipartimento, al contrario dei suoi predecessori, non ha trovato tempo o forse interesse per incontrare chi in tale Comitato rappresenta questo Paese e poteva, quindi, fornire indicazioni sulla loro attuazione nel contesto del panorama europeo.

Ma, il terzo dei tre riferimenti a cui ho accennato è del tutto interno. Mi riferisco al Regolamento di esecuzione del 2000[2], la cui attuazione – e ciò è stato oggetto di una specifica verifica da parte di Antigone, ma richiederebbe un approfondimento istituzionale – è lontana dall’essere minimamente soddisfacente.

Il programma penitenziario potrebbe limitarsi alla sua semplice attuazione, perché questa porta con sé una ridefinizione di ruoli, compiti, un diverso rapporto con il territorio e, quindi, una evoluzione delle professionalità e una diversa macchina organizzativa.

 

Quest’ultimo aspetto apre al terzo pilastro che, insieme a quello della politica penale e a quello della politica penitenziaria, converge al ridisegno di un nuovo sistema detentivo.

Il pilastro di un diverso modello di amministrazione penitenziaria. Un’amministrazione in grado di gestire situazioni complesse – perché complesso è il mondo della detenzione – in grado di interloquire con attori istituzionali diversi – dalla magistratura alle realtà istituzionali locali, senza le quali non si ha politica della detenzione volta superare il mero contenimento – in grado di far emergere le professionalità esistenti e di fornire una sistema detentivo corrispondente a quello che la legge disegna e richiede. Non corrispondente all’utopica volontà di alcuni, non discendente da diverse impostazioni di filosofia del diritto. Semplicemente un sistema legale, cioè corrispondente a quanto normativamente è definito.

Veniamo da un periodo in cui l’Amministrazione sembra essersi concentrata sul mero evitare danni maggiori, sull’assicurare più o meno la tenuta del sistema, senza particolari incidenti e senza toccare gruppi di potere interni via via consolidatisi. Un’amministrazione che sembra non avere un progetto.

 

E’ per questo che la locuzione chiave di una diversa amministrazione penitenziaria è «recupero di una normalità progettuale». Ogni amministrazione complessa deve infatti avere un proprio progetto per rispondere al mandato assegnatogli. Il progetto si sviluppa nell’assicurazione della legalità di quanto amministrato, nella capacità di sviluppare nuove linee di attuazione, nell’individuazione delle linee tendenziali del sistema che amministra, nello studio e nella conseguente formazione degli operatori, nell’utilizzo al meglio delle proprie risorse umane e finanziarie, nella capacità manageriale di portare avanti la propria azione e nella trasparenza. Sono parole che non si addicono all’attuale situazione, pur in presenza – lo ripeto – di professionalità interne esistenti, ma non effettivamente utilizzate o potenziate. Il mutamento della stessa composizione sociale del panorama detentivo sembra a volte trovare impreparata un’amministrazione che lo insegue cercando di piegare a esso figure professionali obsolete, cercando di evitare il sorgere di ulteriori problemi, senza più interrogarsi in positivo sulla propria missione istituzionale e rinchiudendosi negli spazi di una gestione burocratica. Che spesso cerca di non vedere, per non mutare consolidate consuetudini.

 

Il recupero di una normalità progettuale passa attraverso il recupero della legalità. Ritorna la prima necessità di dare attuazione al Regolamento così come a leggi a suo tempo approvate, quale quella sulla sanità penitenziaria. Perché nulla è più disastroso che far vivere chi non ha recepito il senso della legalità e, quindi, ha commesso reati, in una situazione di palese non corrispondenza tra quanto normativamente definito e quanto attuato e vissuto; in una situazione, dunque, giustamente vissuta come riduttiva dei propri diritti. L’illegalità concreta a fronte della legalità teorica rafforza la vaghezza delle norme e la loro non tassatività e certamente non può non incidere in istituzioni il cui compito è invece proprio quello di ricondurre alla legalità.

Del resto, il ritorno alla normalità è benefico per la complessiva politica della giustizia, non solo per il sistema delle pene. Una politica della giustizia che non sia ristretta nei limiti angusti in cui è stata rinchiusa negli ultimi anni: centrata sullo spostamento degli equilibri di potere, sull’uso improprio, blasfemo, delle garanzie, divenute artifici formali e procedurali e progressivamente strumento di disuguaglianza tra chi da esse può trarre benefici e chi invece vede a esse come mere enunciazioni; basata sull’esposizione crescente del ruolo del carcere a divenire un contenitore di sofferenza e il simulacro della declinazione penale delle mancate politiche del territorio; incapace di dare risposte sia alle vittime dei reati che attendono risposte vere e non simbolicamente crudeli, sia ai loro autori sempre più implicitamente spinti nella morsa della reiterazione delle condotte criminose.

 Questo è il sistema che non rende giustizia: e il verbo rendere è importante quando, appunto, si ricerca una normalità nell’azione di giustizia. Renderla alla vittime e renderla anche a chi ha sbagliato.

L’obiettivo del recupero di una normalità progettuale non è, quindi, obiettivo minimale, ma alto. Passa – è vero – attraverso la rapida risoluzione di quei meccanismi che, riproducendo e ampliando carcerizzazione, non permettono alcuna possibilità di pensare in modo meno contingente. Passa, lo sappiamo, attraverso la riduzione del numero della popolazione detenuta attualmente esistente e attraverso la riduzione del suo riproporsi – ho già accennato agli interventi sugli ingressi di stranieri che rispondono di mere infrazioni amministrative trasformate in penali così come ai necessari interventi nell’area della detenzione e consumo delle droghe – passa anche attraverso l’inibizione dei meccanismi di ritorno in carcere, messi in atto dal valore assegnato alla recidiva nel provvedimento adottato allo scadere della passata Legislatura.

Ma passa anche attraverso una nuova fisionomia dell’Amministrazione penitenziaria.

Questa diversa fisionomia richiede preliminarmente di interrogarsi su quali siano i bisogni attuali. Al primo bisogno – il recupero di legalità – ho già accennato.

Il secondo è un bisogno di maggiore e diversa conoscenza del sistema. La gestione del Dipartimento richiede la continua conoscenza degli attori che sono coinvolti nel sistema che esso amministra, dei soggetti a cui esso si rivolge e richiede l’adeguamento continuo degli strumenti utilizzati. Il Dipartimento non è, infatti, solo un erogatore di servizi essenziali ai soggetti a esso affidati; è l’implementatore effettivo delle politiche nazionalmente definite verso soggetti dei quali ha diretta responsabilità.

La conoscenza a cui mi riferisco non si restringe a una funzione statistica, ma si amplia a una funzione centrata sul continuo re-indirizzamento delle proprie azioni sulla base di un costante monitoraggio delle esigenze. L’approccio da prevedere è di tipo pro-attivo, ex ante, di individuazione di linee tendenziali e non di tipo re-attivo, ex post, quasi una rincorsa di processi già avvenuti. Riguarda gli interventi formativi sia all’inizio di carriera, sia soprattutto per gli operatori in servizio, secondo uno schema adeguato alle diverse nuove esigenze.

Il terzo bisogno riguarda la capacità di attirare attenzione e investimenti sulla propria azione, attraverso una diversa articolazione tra amministrazione centrale e amministrazione territoriale: anche quest’ultima deve essere sede di progettazione soprattutto per tutto ciò che trova nell’ente locale l’interlocutore privilegiato per la sua attuazione. Qui si sono manifestate finora grandi tentennamenti del Dipartimento che oscilla tra un controllo centralizzato, tale da inibire l’espressione di alcune potenzialità di taluni Provveditorati e un affidamento totale della responsabilità, in altri Provveditorati che sono diventati – o rischiano di diventare – luoghi di potere locale rispetto ai quali l’amministrazione centrale recede in una sorta di implicito patto di non belligeranza.

Il dinamismo territoriale è una risorsa di ogni sistema e va potenziato responsabilizzando i Provveditorati locali e gli Istituti, pur mantenendo ferme la funzione di indirizzo nazionale e quella di controllo e coordinamento.

Un ultimo bisogno riguarda l’attendibilità dei flussi di informazione che giungono dalla periferia al centro e che a essa ritornano, relativamente alla vita negli Istituti, alle condizioni materiali di detenzione e alla conseguente definizione di priorità nell’assegnazione di stanziamenti e risorse, basata sull’urgenza di provvedere a interventi di manutenzione e trasformazione che rendano gli Istituti idonei a svolgere la propria funzione, in condizioni coerenti con quanto il Regolamento di esecuzione garantisce.

 

Lungo queste linee del recupero di normalità, che vanno dalla riduzione dei numeri, all’attuazione di quanto legalmente previsto, alla definizione progettuale, all’individuazione di nuove professionalità e conseguenti esigenze formative, alla ricostruzione di corretti e continui strumenti di informazione, fino all’abolizione di esistenti gruppi di micro-potere, deve delinearsi il profilo di una diversa amministrazione penitenziaria.

 

Il problema di come assolvere questo delicato compito che la collettività affida a chi ha responsabilità di amministrare l’esecuzione penale non è ovviamente soltanto italiano.

Può essere utile mettere a confronto due o tre modelli che caratterizzano il sistema nei Paesi europei. Molto sommariamente, vi sono sistemi che centrano la propria organizzazione sui «luoghi» di esecuzione della sanzione penale, altri sullo stato giuridico dei soggetti amministrati, altri ancora sulle responsabilità territoriali.

Nel primo tipo di modello l’amministrazione è suddivisa in due principali nuclei, quello per la gestione della pena intramuraria e quello per la gestione dei soggetti in esecuzione penale esterna. Al primo fanno riferimento tutti coloro che sono in situazione detentiva, indipendentemente se siano imputati, ricorrenti o persone in esecuzione penale; al secondo tutti coloro che sono sottoposti a una misura alternativa alla detenzione. E’ un modello che attiene a una vecchia fisionomia carceraria che si ostina spesso a considerare altro da sé l’esecuzione penale esterna e che comunque finisce per tenere insieme soggetti con status personale profondamente diverso l’uno dall’altro – dall’imputato al condannato. Il rischio è che la detenzione si moduli principalmente attorno al nodo di assicurare sicurezza, anche a scapito di favorire iniziative di reintegro sociale.

Il secondo tipo di modello tiene nettamente separati imputati e condannati, attraverso due diverse responsabilità, la prima centrata sulla provvisorietà della situazione e, soprattutto sulla mera tutela dei diritti delle persone a essa assegnate, la seconda sullo sviluppo di progetti volti al ritorno – vicino o molto dilazionato nel tempo – dei soggetti assegnati, alla vita sociale. Quest’ultima responsabilità, trova quindi, l’interlocutore principale nella realtà territoriale che dovrà prendere in carico la persona al termine dell’esecuzione penale. In questo contesto le misure alternative tornano maggiormente al loro ruolo primigenio di tappe graduali verso il reintegro sociale, abbandonando quella fisionomia attualmente prevalente di mera diminuzione dell’afflizione, discrezionalmente concessa, a volte senza un definito progetto, sulla base dell’adeguamento del soggetto alle regole, sia quelle chiare sia quelle tacite, dell’istituzione.

Il modello totalmente decentrato – quello per esempio spagnolo o quello dei lander tedeschi o ancora quello delle federazioni multietniche sorte nelle repubbliche balcaniche dopo il conflitto – centra la propria azione sull’accentuata autonomia delle singole realtà locali, a cui di fatto è demandata l’esecuzione penale. A livello locale le articolazioni soggettive del sistema sono più facilmente realizzabili – dalla scuola al lavoro, alla previsione di specifici direzioni per le donne o per alcune comunità con connotazioni culturali omogenee, quali i Rom – ma spesso si riproducono in scala minore problemi delle amministrazioni centrali, con anche il rischio di situazioni fortemente disomogenee tra una parte un’altra del territorio.

 

La soluzione riorganizzativia che molti Paesi stanno adottando è centrata sul secondo dei modelli enunciati: la chiara distinzione tra imputati (o ricorrenti) e condannati e l’adozione di strategie diverse per gli uni e per gli altri. Ovviamente però questo modello funziona se si accompagna a una vasta azione di autonomia delle situazioni locali, pur nei binari già indicati di indirizzo nazionale e di standard a tutti garantiti.

Penso a un’ampia articolazione territoriale che affidi a sedi decentrate l’elaborazione del percorso esecutivo, in pieno coordinamento con la realtà locale. Che lasci al sistema centrale il problema di coloro che sono in attesa di sentenza definitiva e al più i casi di esecuzione del circuito di coloro che scontano pene per reati che investono un grave allarme sociale o che si riferiscono a forme organizzate di criminalità.

Nel contesto di un’auspicata separazione di responsabilità, tra chi si occupa di imputati e chi di condannati, va comunque, quindi, invertita l’attuale tendenza centripeta che caratterizza il Dipartimento, dando possibilità locale di sviluppo dell’esistenti risorse umane e progettuali. Non solo verso i Provveditorati, ma anche verso gli stessi Istituti o reti di Istituti, in un’ottica di nuovo dimensionamento delle responsabilità.

Ai luoghi centrali devono essere affidate competenze che definirei residuali, di indirizzo, di allocazione di risorse, nonché ovviamente di controllo della coerenza dei processi di servizio locali, con gli indirizzi nazionali e regionali.

In questo quadro, come in altre occasioni altri interlocutori hanno osservato, bisogna portare a conclusione i processi di autonomia delle singole aree, avviati oramai da lungo tempo, e ridefinire i rapporti tra le diverse responsabilità, incluso quello tra direttore a comandante di reparto negli Istituti penitenziari, nell’ottica di avvicinare i bisogni della popolazione detenuta e la conoscenza stessa di tale popolazione, al territorio, per un effettivo sostegno delle iniziative di recupero sociale espresse sia dagli Istituti sia dagli Uffici di esecuzione penale esterna.

 

La gestione di un sistema complesso non si affronta né con strumenti organizzati in modo piramidale né con processi meramente lineari. Richiede la molteplice connessione di diverse competenze e responsabilità, gestite però in un quadro organico, chiaro e soprattutto trasparente.

Questo ultimo punto apre alla necessità di avere un gruppo dirigente coeso in grado di guidare questo processo. E di avere apicalmente sia la conoscenza dell’attuale sistema sia la capacità di far interagire positivamente attori diversi. Richiede soprattutto la volontà di essere sempre aperti al controllo esterno, ritenendo di assolvere una funzione in nome della società e a essa sottoponendosi per un continuo monitoraggio.

Sappiamo bene che il primo punto apre al problema della squadra che governerà nel futuro – che ci auguriamo imminente – l’amministrazione penitenziaria, alla sua volontà di agire in una direzione di cambiamento. Il sistema italiano ha finora previsto, diversamente dagli altri Paesi europei, la presenza di un magistrato al vertice dell’amministrazione, quale funzione di assoluta indipendenza e garanzia. Pensiamo che l’assoluta necessità della funzione di garanzia esercitata dal potere giudiziario si debba esplicare prioritariamente nella funzione di controllo sugli Istituti e non necessariamente sulla diretta responsabilità gestionale ai vertici dell’Amministrazione. E’ un tema che sappiamo essere delicato, ma ci preme affermare che punti prioritari sono per noi la conoscenza e la volontà di conoscenza del complesso sistema – e,  quindi, l’impegno attivo per la sua efficace gestione – la volontà di investire progettualità in esso, l’apertura all’esterno.

Tali requisiti possono attualmente essere trovati anche in figure esterne alla magistratura che provengano dall’interno dell’amministrazione o dal mondo di coloro che in questi anni hanno guardato con attenzione al nostro sistema detentivo.

Ma, ben al di là di queste decisioni che sono ovviamente affidate a chi ha responsabilità politica, ci preme oggi porre con urgenza la necessità di investimento intellettuale in questo sistema per una sua effettiva trasformazione nel solco di quel ritorno alla normalità legale, da cui sono partito in questa mia rfilessione.

 

Quello che poniamo con forza è la trasparenza del sistema.

Perché se è vero che un mondo così delicato, quale è quello ove sono ristrette anche persone responsabili di gravi reati o appartenenti a strutture criminali articolate, richiede cautela e sviluppo di capacità di informazione interna, è altrettanto vero che trovare nell’amministrazione del sistema delle pene di un Paese democratico la tendenza a costruire, direttamente o indirettamente, reti di informazioni interne volte a potenziare il ruolo di singoli, direttamente rispondenti al capo dell’Amministrazione, quali quelle che sono emerse in una recente interrogazione parlamentare e sono state viste con attenzione e preoccupazione nella stessa risposta del governo, è un sintomo inequivocabile della patologia di una istituzione e della sua scarsa propensione alla gestione democratica.

 

Nel progetto per le istituzioni reclusorie che il filosofo Jeremy Bentham definì come «panopticon» si descrive una struttura ove tutto può essere visto all’interno, ma nulla può essere visto dall’esterno. Alla completa visibilità interna corrisponde l’opacità verso chi è fuori. Crediamo che l’amministrazione penitenziaria di un Paese democratico debba realizzare invece visibilità verso l’esterno, essere aperta a sguardi che possono anche aiutarla nel proprio compito. E che sia giunto il momento di avere un Dipartimento centrato su una parola chiave: «trasparenza».


 

[1] Legge delega 30 novembre 1998 e il decreto legislativo 22 giugno 1999, n. 230, di attuazione della delega, che indica le linee di indirizzo per il riordino del servizio sanitario penitenziario.

[2] Decreto presidente della Repubblica 30 giugno 2000, n. 230.

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