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iniziative

Spazio, sviluppo/espansione urbana e criminalità. 

 

Abstract della ricerca  

La ricerca ripercorre le fasi dello sviluppo della città di Roma nel secondo dopoguerra e, contemporaneamente, tenta di delineare le linee di evoluzione della criminalità di strada (riferita ad un numero ristretto e specifico di reati) in relazione alla configurazione dello spazio urbano.Il lavoro è caratterizzato da un quadro d’analisi più approfondito relativamente agli anni ’90.

Lo sviluppo urbano e demografico, 1950/1990. Il periodo immediatamente successivo al dopoguerra costituisce la fase più concitata ed intensa dello sviluppo della città. Nel periodo 1950/1980 Roma vede quasi raddoppiata la popolazione residente che arriva a sfiorare i tre milioni di abitanti. Contrariamente alle linee di sviluppo indicate nei piani regolatori della città del 1931 e del 1962, l’area urbana esterna all’antica zona muraria (centro della città) si estende a macchia d’olio con conseguenze disastrose sul traffico veicolare; il sistema pubblico dei trasporti urbani, terrestri e sotterranei, infatti, rimane sottodimensionato rispetto alle esigenze di spostamento della popolazione. Il centro cittadino diventa, sempre più, oggetto di attrazione per le attività terziarie di alto livello legate al mondo professionale e finanziario; per tale ragione si assiste contemporaneamente ad un apprezzamento degli immobili ed a un progressivo svuotamento della popolazione residente. L’industria romana in questo periodo si lega, soprattutto, all’intensissima attività costruttiva. Distinguiamo tre tipi di espansione urbana; quella speculativa legata agli interessi dei grandi gruppi immobiliari, soprattutto nelle fasce intermedie della città dove i prezzi elevati delle abitazioni impediscono l’accesso agli strati sociali economicamente meno dotati, quella promossa attraverso il finanziamento pubblico diretto o indiretto, in alcune zone intermedie e periferiche della città, quella di carattere privato e abusivo, esercitata nelle zone periferiche esterne alla città e situate nell’Agro romano. Secondo alcune stime la città abusiva costituisce, ad oggi, quasi il 30% del tessuto urbano e della sua popolazione. Lo “spontaneismo edilizio” conosce almeno due fasi. Negli anni ’50 questo fenomeno è legato alle necessità abitative della nuova ondata immigratoria e alle loro possibilità di auto-promozione e auto-costruzione, connotandosi per l’estrema semplicità e povertà delle caratteristiche edificatorie. Dagli anni ’60 in poi, l’abusivismo assume caratteri di convenienza e di piccola speculazione da parte di gruppi sociali dotati di un discreto potere economico, non espulsi dal mercato legale, ma orientati verso una scelta che consente vantaggi considerevoli in termini economici e di qualità abitativa; durante questo lungo periodo di tempo il mercato illegale delle abitazioni viene a strutturarsi secondo le regole organizzative di quello legale. L’entità del fenomeno è tale che le autorità comunali dagli anni’70 in poi devono adottare un atteggiamento di progressiva legalizzazione delle aree abusive, anche in virtù della pressione dei neonati comitati cittadini operanti nelle periferie che chiedono per queste zone servizi e collegamenti. Negli stessi anni si registra un momento di crisi profonda della città. Comincia ad indebolirsi l’attrattiva del grande centro urbano ed emergono con chiarezza le contraddizioni e le conseguenze dello sviluppo disordinato. La qualità della vita tocca il suo momento più basso anche a causa di una perdurante crisi politica economica che attanaglia il Paese, ma che vede proprio Roma quale teatro degli scontri e delle contestazioni sociali più dure. Negli stessi anni trova rinnovato impulso l’iniziativa pubblica per la costruzione di nuovi quartieri destinati alle popolazioni meno abbienti, ma con esiti non esaltanti. Le nuove aree si trasformano ben presto in ghetti urbani ad alta concentrazione di disagio e di criminalità. Negli anni successivi molte energie dell’amministrazione comunale saranno dedicate al recupero di queste e di altre aree periferiche.

L’economia romana. Dal punto di vista economico la città, caratterizzata principalmente dalla presenza e dall’attività di tutte le amministrazioni centrali dello Stato in virtù dell’ormai secolare ruolo di capitale, vede crescere, nel corso degli anni ’80 il peso del settore dei servizi, già rilevante nel periodo precedente. La quota assorbita da questa settore supera l’80% del totale delle attività, mentre gli altri settori come l’agricoltura, ma soprattutto l’industria, rivestono un peso piuttosto trascurabile. Roma, rispetto ad altre città italiane, soprattutto del Nord, non ha una vera e propria storia industriale. La sua classe operaia più consistente è quella edile, la sua industria tradizionale è la produzione di burocrazia. Il settore dei servizi però cresce in maniera notevole in settori ad alta specializzazione.

La criminalità nel dopoguerra. Negli anni del dopoguerra, in concomitanza con il brusco aumento demografico e con la rapida e incontrollata espansione urbanistica, si registrano indici di criminalità crescenti, soprattutto per ciò che concerne i reati contro la proprietà. Alla fine degli anni ’60, con il consolidarsi del benessere economico, la criminalità urbana inizia a manifestarsi con una certa evidenza: cresce il numero delle rapine alle banche, agli uffici postali, ai portavalori e quello dei furti, nelle abitazioni, nelle strade, a danno di cose e persone. In questi anni, dunque, nel momento di massima espansione demografica, edilizia ed economica, inizia a delinearsi quell’immagine di pericolosità che caratterizza i grandi agglomerati urbani. La percezione di insicurezza e la stigmatizzazione degli abitanti delle zone centrali e intermedie verso la cintura periferica delle borgate supera la localizzazione e i confini della periferia estrema estendendosi, con l’aumento della mobilità urbana, alla città nel suo insieme. Gli anni ’70 coincidono con il momento di massima crisi dell’idea progressiva e positivista dello sviluppo urbano; inoltre, accanto alla crescita della criminalità comune, si registra l’accentuarsi del terrorismo politico[1] che, in una situazione di crisi economica generalizzata e di acuto scontro sociale, contribuisce a rendere particolarmente negativa l’immagine dello spazio urbano. Gli anni ’80 segnano il momento di massimo consolidamento dell’espansione della criminalità cresciuta in particolar modo alla fine del decennio precedente, soprattutto per quanto concerne la criminalità di strada, rapine e furti in particolare, mentre il fenomeno del terrorismo, subisce un brusco ridimensionamento. Accanto alla recrudescenza della criminalità, tra cui si evidenzia una crescita dei reati legati al traffico degli stupefacenti, la città deve iniziare a confrontarsi con i problemi legati al crescente flusso immigratorio dai paesi dell’Est e da quelli in via di sviluppo.

Anni ’90. L’ambiente urbano e la criminalità.

Nel corso degli anni ’90, le geografie sociali e urbane “tradizionali” divengono sempre più indefinibili: il rapporto gerarchico tra centro e periferia si sfuma, da un lato per la “scoperta” di zone di degrado urbano situate nel centro della città, dall’altro per il robusto travaso di ceti medio-alti in aree più periferiche dell’agglomerato urbano. Roma viene sempre più configurandosi come una sommatoria di luoghi, come un’aggregazione di più centri diversificati con caratteristiche proprie. Le espressioni del conflitto e del disagio tendono a “molecolarizzarsi” e a perdere quella dimensione collettiva e sociale tipica degli anni ’70, in cui dietro alla protesta si agitavano i grandi temi della trasformazione sociale e l’aspirazione a modelli alternativi di vita. Le proteste cioè acquisiscono una dimensione individualistica, legata agli interessi di piccoli gruppi e a quelli di associazioni localizzate territorialmente. Il meccanismo di elezione diretta del sindaco, introdotto agli inizi degli anni ’90, sembra aver ulteriormente accentuato la frammentazione e la moltiplicazione della protesta. Il sindaco diventa, proprio in forza della delega conferitagli dagli elettori, l’oggetto diretto delle proteste. Le numerose emergenze sociali della Roma degli anni ’90, immigrazione extracomunitaria, calo dell’occupazione, nuove forme di povertà e marginalità, disagio giovanile, trovano ancora terreno di convergenza nel problema abitativo. In linea con le tendenze espresse nel passato la disponibilità di abitazioni a basso costo continua a costituire un problema. La sistemazione del territorio urbano continua ad essere una delle priorità dell’amministrazione comunale. Durante gli anni ’90 si precisano le linee strategiche che ispirano il nuovo piano regolatore della città e che si esplicitano in tre direttrici principali: la valorizzazione del sistema ambientale, la priorità della mobilità su ferro e la riqualificazione delle periferie. L’evoluzione demografica della città segue le linee generali del Paese.

La popolazione nel corso degli anni ’90. La popolazione residente a Roma nel 2001 è risultata pari a 2.546.804 unità con una perdita netta di circa 187.000 residenti rispetto al 1991, pari ad un calo del 6,8%. Risulta così confermata quella tendenza alla disurbanizzazione della città iniziata nel decennio 1981/1991, quando la perdita era stata del 2,3%. La struttura demografica della popolazione residente nell’area metropolitana si è evoluta lungo un progressivo invecchiamento della popolazione legato alla contemporaneità di due fenomeni: calo della mortalità e calo della fecondità.

Le più recenti tendenze dell’economia romana. L’economia romana ha seguito le tendenze già espresse nel corso degli anni ’80. Il settore della attività connesse alle consulenze professionali, alla ricerca, all’informatica, all’intermediazione immobiliare, alle attività creditizie, finanziarie e assicurative è quello che, nel corso del decennio 1991/2001 ha mostrato il più alto standard di crescita occupazionale nel numero degli addetti (7,7%), mentre, nello stesso periodo i comparti industria e commercio hanno fatto registrare perdite nette di addetti pari, rispettivamente, al – 2,8% e –7,0%.

Immigrazione, povertà e disagio a Roma. Roma è il primo luogo di smistamento della grande immigrazione che proviene dai paesi in via di sviluppo e concentra il maggior numero di stranieri regolari e irregolari esistente in Italia. L’arrivo degli stranieri non è collegato solo al bisogno di manodopera in settori ancora importanti per la struttura economica nazionale e locale, (rifiutati dai lavoratori “indigeni”), ma si lega anche ad altri fattori la cui natura fa emergere la complessità del fenomeno: fuga da paesi in guerra o caratterizzati da una situazione politica/economica particolarmente instabile, ma anche il desiderio di migliorare la propria posizione economica e la propria istruzione. La capacità attrattiva della capitale è molto rilevante: nella provincia di Roma si concentrano 9 soggiornanti stranieri su 10 della regione Lazio La presenza degli immigrati regolari a Roma nel corso degli anni ’90 si è decisamente irrobustita: erano 48.168 al censimento del 1991, 145.289 al 31 dicembre 1998, aumentando con un ritmo medio annuale del 28,8% (quasi 14.000 l’anno), fino ai 169.064 del 2000.Alcuni dati recentemente pubblicati dalla Caritas evidenziano che la popolazione immigrata regolare costituisce il 6% dell’intera popolazione residente. Questo robusto afflusso non ha creato micro-città a dominanza etnica; gli stranieri si distribuiscono abbastanza uniformemente nelle varie municipalità del territorio comunale. Inoltre, l’immigrazione a Roma si distingue per un considerevole tasso di policentrismo etnico. Le indagini condotte nel corso degli anni ’90 hanno rilevato il permanere di consistenti sacche di disagio sociale legate al nomadismo dei “senza fissa dimora”, alle tossicodipendenze, ma anche all’aumento del rischio povertà per numerose famiglie per le quali il problema economico rimane il principale dilemma da affrontare quotidianamente.

La criminalità negli anni ’90. Nel periodo 1990-1999 il totale dei delitti denunciati alle forze di polizia operanti nella capitale è diminuito; si assiste cioè ad una inversione di tendenza rispetto alla crescita costante dei delitti denunciati che, nell’arco di almeno trent’anni, non aveva mostrato alcun segno di flessione. I delitti presi in considerazione si riferiscono all’insieme dei delitti (reati di particolari gravità) previsti dal codice penale italiano vigente. Un segnale negativo proviene invece dalla delittuosità minorile i cui dati dimostrano una tendenza alla crescita: negli anni ’90 (in modo più netto dal 1997 in poi) il numero dei minori denunciati è cresciuto. Per quanto concerne più specificamente l’insieme dei reati specifici presi in considerazione dalla ricerca, ovvero furti, rapine, omicidi, reati legati alla prostituzione e al traffico di stupefacenti, alle violenze sessuali, si nota una diminuzione complessiva sia a livello provinciale che a livello comunale. Gli omicidi diminuiscono: 68 nel 1990, 26 nel 1999. I furti, con l’esclusione di quelli commessi in appartamento, diminuiscono: dai 156.678 del 1990 ai 142.575 del 1999. Le rapine, invece, fanno registrare un aumento: dalle 2.979 del 1990, dopo un periodo di forte diminuzione –1.684 nel 1995 -, si passa alla brusca impennata negli anni successivi, 3.913 del 1999. Anche le violenze sessuali risultano in crescita, sia quelle a danno dei minori di 14 anni, che quelle a danno dei maggiori di 14 anni. Per quanto concerne il traffico di sostanze stupefacenti, le denunce legate a questa tipologia di reato hanno un andamento, nel corso del decennio, piuttosto costante, con un picco di denunce registrate circa a metà degli anni ’90. Infine, anche i reati di sfruttamento e il favoreggiamento della prostituzione sono in crescita: 37 nel 1990, 125 nel 1999.

Politiche di controllo del crimine e sicurezza. Per quanto concerne le politiche di controllo del crimine va rilevato che la gestione della sicurezza rimane ancora saldamente in mano all’autorità nazionale, sia dal punto di vista legislativo (diritto penale e processuale), sia dal punto di vista della gestione operativa e finanziaria delle risorse per il funzionamento del dispositivo di sicurezza pubblica. Le autorità locali, però, partecipano, direttamente o indirettamente, alla gestione della sicurezza sul loro territorio. Anzi, il ruolo esercitato in tal senso, soprattutto negli ultimi anni, è notevolmente aumentato. Il paradosso è che l’attenzione verso il problema “sicurezza” è andata aumentando proprio in un decennio in cui gli indici di criminalità, soprattutto se paragonati a quelli degli anni ’80, sono diminuiti. Si può, dunque, parlare di una diffusa aspirazione, non tanto ad una riduzione della criminalità (che, caso mai, costituisce la “punta dell’iceberg”) quanto di una diffusa aspirazione che viene configurandosi come “domanda sociale di protezione”. Gli anni ’90, quindi, (almeno a Roma e in Italia) non sono stati tanto gli anni della criminalità, quanto gli anni in cui una serie di punti di riferimento tradizionali dell’Italia del secondo dopoguerra sono scomparsi in maniera irreversibile, lasciando spazio ad una serie di questioni aperte e la cui risoluzione appare ancora velata da molte incertezze. Tali circostanze hanno indotto alcune modificazioni istituzionali ed operative nel controllo del territorio: immissione di nuovi soggetti nella gestione della sicurezza o una diversa organizzazione dell’attività di polizia verso nuovi modelli di prevenzione o di dissuasione (basati, in qualche caso, sulla militarizzazione del territorio).

Conclusioni. Il rapporto tra spazio urbano e criminalità non è soltanto un problema di dimensioni, ma si inquadra in un contesto caratterizzato da una maggiore complessità: la composizione dei diversi gruppi sociali nei quartieri delle città; le connessioni tra socializzazione e trasformazioni urbanistiche; il problema del degrado socio-ambientale il disagio legato alle migrazioni interne ed esterne verso i grandi poli urbani. Alcuni difficili tentativi di razionalizzazione dello sviluppo urbano hanno condotto, come in molte altre grandi città, alla creazione di veri e propri ghetti caratterizzati dalla marginalità rispetto ai servizi e da un accentramento del disagio sociale, mentre la speculazione edilizia e il costo degli affitti hanno ristretto un certo numero di abitanti in ambiti determinati, contribuendo alla selezione di gruppi omogenei in aree separate delle città, facilitando la comunicazione ed il conseguente rafforzamento dei modelli devianti. Il legame criminalità-sviluppo economico va individuato in relazione ai processi di emarginazione legati alle strutture sociali, all’organizzazione della produzione, alle speculazioni in materia edilizia, alla distribuzione dei servizi tipici delle grandi città piuttosto che secondo un modello di interpretazione situazionale che lega la diffusione del comportamento criminale all’attrattività della città. In secondo luogo, si deve registrare il fenomeno diffuso della crescita del sentimento di insicurezza tra gli abitanti delle grandi città a conferma che il rapporto spazio urbano/criminalità debba aprirsi anche al tema, fino ad oggi sottovalutato, della percezione della sicurezza da parte dei cittadini, che come è stato dimostrato, risulta essere spesso indipendente rispetto ai tassi effettivi di criminalità. Il bisogno di sicurezza non va inteso, quindi, solo come bisogno di protezione dalla criminalità o dai processi di vittimizzazione: il bene pubblico della sicurezza corrisponde, in quest’ottica, al bisogno di sentirsi garantiti nell’esercizio di tutti i propri diritti. E’ in questa prospettiva che la questione degli spazi pubblici viene interpretata come la trasposizione urbanistica ed architettonica del problema più generale della rigenerazione della sfera pubblica nella società contemporanea. Il problema, infatti, non va ridotto all’opportunità di una dimensione spaziale comune esterna alle case, ma va esteso fino alla necessità di contrastare la tendenza a creare omogeneità fortificate e rassicuranti “che stanno trasformando le città contemporanee in un arcipelago di isole, difese culturalmente e praticamente, tra cui il cittadino spaventato possa navigare lungo strade protette”(Amendola, 1997). Contrastare tale tendenza significa anche recuperare l’essenza della città, il cui nodo cruciale è il rapporto con l’altro, con il diverso da sé. 

oggi costituisce una novità nella topica tradizionale del governo del bene pubblico della sicurezza è l’accezione locale e, spesso, urbana che sempre più l’accompagna


[1] Si tratta di un fenomeno non specificamente attribuibile ai caratteri e alle peculiarità dello sviluppo dell’area urbana romana, ma è legato all’evoluzione del contesto politico, sociale ed economico nazionale.

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