L’EDITORIALE: Lettera aperta al Presidente
Bertinotti
di Patrizio Gonnella e Franco Corleone
Signor Presidente,
proprio a ridosso delle dichiarazioni del ministro Mastella in
Parlamento sulle linee d'azione del Governo nel delicato settore della
giustizia siamo spinti a scriverLe perché sentiamo una forte
preoccupazione. Quello che il ministro non ha detto è che la nostra è
una giustizia di classe. La clemenza oggi è la risposta in via di
urgenza a un sistema che sta implodendo nella sua iniquità e violenza.
Siamo di fronte all'ennesimo paradosso per quanto riguarda il
provvedimento di amnistia e indulto.
Pare
che non siano sufficienti il Suo impegno a calendarizzare il
provvedimento, la determinazione del ministro, le adesioni autorevoli
agli appelli della società civile. In galera l'estate è torrida. I 20
mila detenuti in surplus rispetto alla capienza regolamentare fanno
vivere tutti in condizioni insopportabili.
Agosto è il mese più duro in carcere. Le chiediamo che il prossimo
agosto la Sua Camera si occupi di giustizia, quella dei poveri, degli
esclusi, degli emarginati. Sarebbe un segnale forte, autorevole, di
qualità. Pensiamo che una sessione estiva di lavoro sul carcere possa
far bene a tutti, dentro e fuori le aule parlamentari e le carceri.
L'amnistia e l'indulto sono necessari per poi costruire un nuovo sistema
penale e penitenziario.
La
metà dei detenuti è il prodotto di due leggi, quella sulle droghe e
quella sull'immigrazione. In attesa della loro indefferibile abrogazione
le norme criminogene dovranno essere previste nell'amnistia, in
particolare i reati previsti dall'articolo 73, 5° comma, del DPR 309/90
e la violazione delle norme sull'espulsione da parte degli immigrati
senza permesso.
Non
osiamo pensare alle conseguenze incontrollabili nelle carceri
dell'ennesimo fallimento della proposta di amnistia e indulto. La
delusione sarebbe più che giustificata. Le obiezioni della destra
possono essere superate sperimentando un terreno di dialogo che veda
nell'amnistia del '90 la base di partenza. Le obiezioni di Di Pietro e
di pezzi dei Ds possono essere superate non disperdendo il lavoro di
riforma del codice penale fatto da Grosso due legislature fa. La
commissione Pisapia lavori sulla seconda parte del codice penale, quella
dei reati e delle pene, e depositi subito al ministro e al Parlamento la
prima parte, in modo che si dia un segnale di attenzione a chi pensa che
la clemenza debba essere preceduta da riforme strutturali. Nel frattempo
nelle galere si muore di caldo, di malattia, di disperazione.
Per
questi motivi Le proponiamo di mettere in cantiere una sessione estiva
speciale della Camera sui problemi del carcere che in ogni caso
rappresenterebbe un segno di attenzione e di partecipazione. Vi sono
alcuni provvedimenti che possono apparire minori, ma sono di grande
valore simbolico, di impatto pratico e di affermazione dei diritti. Ci
riferiamo all'istituzione del Garante (o difensore) dei diritti dei
detenuti, alla previsione dell'affettività in carcere, al diritto di
voto dei detenuti, alla giurisdizionalizzazione dei reclami dei
detenuti, all'ordinamento penitenziario minorile, al diritto di visita
degli istituti penitenziari da parte dei sindaci, alla previsione del
reato di tortura.
Riteniamo che su questo pacchetto si potrebbe anche verificare un
accordo vasto e non solo di uno schieramento.
Signor Presidente, Lei aveva proposto una razionalizzazione dei lavori
dell'aula, noi suggeriamo che per questo anno, ad inizio di legislatura,
si possa prevedere una pausa dei lavori parlamentari assai contenuta e
che proprio in agosto, il mese più terribile in carcere per assenza di
attività, il Parlamento risponda alle attese che rischiano di
trasformarsi ancora una volta in tragiche illusioni.
Lavoare ad agosto per i carcerati sarebbe un gesto di responsabilità,
consapevolezza e dialogo con gli ultimi.
Patrizio Gonnella, Presidente di Antigone
Franco Corleone, Garante dei detenuti del Comune di Firenze

Ripresa l'attività dell'Osservatorio nazionale sulle
condizioni di detenzione
a cura della Redazione
L'Osservatorio nazionale sulle condizioni di detenzione di Antigone ha
organizzato una giornata di monitoraggio e di visita negli istituti di pena
italiani lo scorso 16 giugno. Sono stati visitati complessivamente una
quarantina di carceri, da Padova ad Agrigento, da Biella a Napoli
Poggioreale, passando per Roma e Sulmona, tutte sovraffollate fino
all'inverosimile, in molti casi senza doccia né acqua calda in cella e con
violazioni al regolamento penitenziario che sono all'ordine del giorno.
Le 207
carceri italiane sono ormai arrivate ad ospitare 61.392 detenuti, vale a
dire 18.433 in più rispetto alla capienza regolamentare che è di 42.959
posti. Il numero dei detenuti è in ascesa pressoché costante dal 1999 a
oggi: da 51.814 che erano alla fine di sette anni fa, sono diventati 53.165
a fine 2000; 55.275 a fine 2001; 55.670 a fine 2002; 54.237 a fine 2003;
56.068 a fine 2004 e 59.523 a fine 2005.
Dopo la
giornata di visite multiple, con la quale è ufficialmente ripartita
l’attività dell’Osservatorio per quest’anno, si è tenuta una conferenza
stampa presso la Camera dei Deputati durante la quale è stato fatto il punto
sulle innumerevoli violazioni al nuovo regolamento penitenziario del 2000:
l'89,4% dei detenuti non ha la doccia in cella, il 69,31% è senza acqua
calda, il 60% delle detenute non ha il bidet, il 12,8% vive in carceri dove
nelle celle il bagno è vicino al letto e non in un vano separato, il 29,3%
non può accendere le luci dall'interno della cella.
E’
costituzionalmente sancito che la pena deve tendere alla rieducazione, ma si
è riscontrato ancora una volta che i detenuti nelle carceri italiane
trascorrono la maggior parte del tempo in celle dove lo spazio vitale è
ridotto al minimo. A Napoli Poggioreale, ad esempio, molti reparti sono
estremamente fatiscenti, con cameroni di 4 per 9 metri nei quali vivono fino
a 18 detenuti insieme, dividendosi l'unico tavolo e l'unico bagno. Vale a
dire che ciascun detenuto può contare su 2 metri quadri a testa e trascorre
in cella quasi l'intera giornata (22 ore). Ad Agrigento le celle misurano 9
metri quadrati e nella sezione dei detenuti in attesa di giudizio arrivano a
viverci più di tre persone che trascorrono 18 ore in cella e hanno il water
accanto al letto.
La
situazione di sovraffollamento, come è ovvio, si ripercuote anche sui numeri
del personale: in media nelle carceri italiane è presente un educatore ogni
207 detenuti, uno psicologo ogni 148, un assistente sociale ogni 48. Numeri
che rendono quasi inesistente la possibilità di percorsi individuali di
reinserimento per i detenuti, come invece è previsto dalla legge.
I dati
dell’Osservatorio parlano di circa 20 mila detenuti stranieri e di 16.135
tossicodipendenti, con una percentuale di sieropositivi che, alla fine del
2005, ha
raggiunto il 2,6%. Le donne in carcere, sempre a fine 2005, erano 2.804
quelle in stato di gravidanza 38, i bambini sotto i tre anni in cella con le
proprie madri 64.
Circa un
quinto dei detenuti, per l'esattezza 12.204, è in attesa di primo giudizio.
Gli "appellanti" sono 6.682, i "ricorrenti" 2.776, i "definitivi" 36.676,
mentre gli "internati" sono 1.185. Il 61% deve ancora scontare fino 3 anni,
il 20% da 3 a 6 anni, il 14% da 6 a 20 anni, il 5% oltre 20 anni o
l'ergastolo. La gran parte dei detenuti, ben il 61%, sta scontando una pena
fino a tre anni, quindi molti di loro potrebbero beneficiare di un eventuale
provvedimento di clemenza.
Si è
riscontrata una volta di più la necessità di affrontare il problema carcere
nell'ottica del ripensamento del sistema penale complessivo; per questo
l’Associazione Antigone ha chiesto con urgenza l'abrogazione della legge
conosciuta come 'ex Cirielli' sulla recidiva e della legge 'Pecorella' sulla
legittima difesa, oltre che l'istituzione del garante nazionale per le
persone private della libertà.

Il Vaso di Pandora
a cura del Coordinamento Osservatorio
Nazionale
L'Osservatorio Regionale del Veneto
di Francesca Vianello
Il carcere veneto si
caratterizza negli anni per il fatto di condurre all’esasperazione le tendenze
più preoccupanti che determinano la problematica situazione delle carceri
italiane nel loro complesso. In particolare, la situazione dei più di 2700
detenuti che riempiono le nostre prigioni può essere assunta come paradigmatica
della realtà di buona parte degli istituti delle regioni del Nord, aree di forte
immigrazione e crocevia per i mercati illegali: un tasso di sovraffollamento,
anche rispetto alla capienza tollerabile, superiore a tutte le altre regioni
italiane; una percentuale di stranieri incredibilmente elevata che supera, in
alcuni istituti, l’80% della popolazione reclusa; un alto numero di detenuti
tossicodipendenti, in alcuni istituti fino al 60%, sempre superiore alla media
nazionale. Tutti gli altri problemi passano in secondo piano, pur ovviamente
risultando esacerbati dalle situazioni sopra descritte, di fronte alla carenza
di spazio vitale, alla contemporanea presenza negli istituti di detenuti
provenienti da decine di paesi diversi e all’esigua dotazione interna agli
istituti di personale specializzato in grado di prendersi cura di
tossicodipendenti e sieropositivi.
1. SOVRAFFOLLAMENTO
Qualche dato offerto
dall’Assessorato regionale alle politiche sociali a gennaio di quest’anno può
illustrare l’effettiva portata del sovraffollamento patito dalle carceri venete,
dove è possibile trovare fino a nove detenuti in una cella di 20 metri quadri.
La casa di reclusione di Padova registrava, al 31 gennaio, 719 presenze a fronte
di una capienza regolamentare di 446; il carcere circondariale 218 detenuti con
una capienza di 98; a Belluno erano presenti 130 detenuti per una capienza di
84; 96 nel carcere di Rovigo che ha una capienza di 66; 263 detenuti riempivano
l’istituto di Treviso con una capienza prevista di 128; l’istituto circondariale
di Venezia ne ospitava 230 invece che 111; quello di Verona 688 per una capienza
di 554; quello di Vicenza 277 previsto per 136 posti. La situazione appare meno
drammatica negli istituti femminili: il carcere circondariale veneziano della
Giudecca ospitava 46 detenute per 38 posti, mentre la casa di reclusione era
“solo” quasi al completo (101 detenute per una capienza di 111). Tenuto conto
del numero dei detenuti e del tasso di sovraffollamento, la situazione più
problematica rimane quella del circondariale di Padova, dove la cronicità
dell’emergenza è legata anche ad uno straordinario turn over (1300 ingressi nel
2005).
2. STRANIERI IN CARCERE
Secondo i dati
dell’Osservatorio regionale sull’immigrazione presentato all’inizio di quest’anno,
gli stranieri costituiscono complessivamente circa il 55% della popolazione
carceraria del Veneto (un totale di 1536 reclusi stranieri nel 2005). La
percentuale si alza al 66% se si considerano, invece che le presenze, gli
ingressi negli istituti di pena. Infatti, l’elevata presenza di detenuti
stranieri che interessa gli istituti della regione caratterizza in particolare
le carceri circondariali: gli stranieri, se in attesa di primo giudizio,
finiscono in carcere molto più frequentemente degli italiani e costituiscono
buona parte di quella popolazione detenuta per reati legati al piccolo spaccio
cui viene comminata una pena inferiore ai tre anni. Anche qui il triste primato
va senz’altro al carcere circondariale di Padova, dove la percentuale
complessiva di reclusi stranieri non scende mai sotto l’80% e, nel corso di
quest’anno, sono entrati detenuti provenienti da 31 nazioni differenti. Da
sottolineare è anche la caratteristica composizione della popolazione
dell’Istituto Penale per i Minorenni di Treviso, dove le presenze si attestano
intorno alle 20 unità, il 75% delle quali di nazionalità straniera, in carcere
prevalentemente per reati di piccolo spaccio.
3. TOSSICODIPENDENZA
La regione si è
caratterizzata negli ultimi anni per una percentuale di detenuti
tossicodipendenti (circa il 37%) normalmente superiore del 10% rispetto alla
media nazionale. E anche in questo caso il triste primato va al carcere
circondariale di Padova, dove si registra una percentuale di detenuti
tossicodipendenti che arriva fino al 70%. L’accorpamento statistico dei dati
relativi a consumo e dipendenza gonfia probabilmente la reale entità del
fenomeno e il buon coordinamento tra il SerT e l’istituto penitenziario ne
mitiga almeno in parte la problematicità. Ciò nonostante, tutti gli operatori
confermano una trasformazione in corso nella qualità della tossicodipendenza di
chi entra in carcere, segnalata già alcuni anni fa dalla carovana-osservatorio
guidata da Gianfranco Bettin: appaiono sempre meno gli eroinomani e crescono
invece le polidipendenze (cocaina, droghe sintetiche, ma anche alcool) nei
confronti delle quali l’amministrazione è assolutamente impreparata.
Se ce ne fosse bisogno, ad
offrire un’ulteriore testimonianza della drammatica condizione in cui versano i
detenuti nelle carceri del Veneto è l’aumento, registrato negli ultimi due anni,
dei casi autolesionismo e di suicidio. I due suicidi del 2004, uno a Belluno e
uno a Padova, sono diventati sei nel 2005, uno a Venezia, uno a Vicenza e
addirittura quattro a Padova. Nell’Istituto Penale per i Minorenni di Treviso
sono stati registrati quattro episodi di autolesionismo nel 2004, otto episodi
nello scorso anno.
Per contattare l'Osservatorio Regionale del Veneto:
osservatorioveneto@associazioneantigone.it

La nuova biblioteca del Centro di studi e
documentazione di Antigone
di
Roberta Bortolozzi
Con l’idea di mettere
on-line e di rendere fruibile da parte di studenti e studiosi il patrimonio
librario e documentario dell’Associazione Antigone nasce la Biblioteca del
Centro di studi e documentazione che dallo scorso aprile è entrata a far
parte del Servizio Bibliotecario Nazionale (SBN). Tale servizio è la rete
delle biblioteche italiane promossa dal Ministero per i beni e le attività
culturali con la cooperazione delle Regioni e Università. Tali biblioteche
(attualmente 2715) sono raggruppate in Poli locali (61) che però a loro
volta sono collegati al sistema Indice SBN, nodo centrale della rete, che
contiene il catalogo collettivo delle biblioteche della rete. Ciò vuol dire
che è sufficiente collegarsi al sito ufficiale di SBN,
www.sbn.it, per avere accesso ai cataloghi delle singole biblioteche, e
quindi anche a quello del nostro centro di documentazione.
Per la peculiarità dei
materiali raccolti negli anni di vita di Antigone, il Polo che maggiormente
risultava attinente a tali interessi e all’interno del quale la biblioteca è
confluita, è quello degli Istituti culturali di Roma (IEI) cui aderiscono
altre quattordici biblioteche tra cui quella dell’Istituto dell’enciclopedia
italiana, quella di storia moderna e contemporanea, quella della Fondazione
Lelio e Lisli Basso e quella della Fondazione dell’Istituto Gramsci.
Nell’attesa del
trasferimento dell’Associazione presso la nuova sede di via Principe Eugenio
31, sono stati inseriti i primi dati della biblioteca che realisticamente
inizierà ad essere aperta al pubblico a partire dal prossimo ottobre. Sarà
aperta a tutti gli studiosi, previo appuntamento, il martedì – mercoledì –
giovedì.
Per dare la possibilità
di reperimento da parte degli studiosi di materiale difficilmente
disponibile altrove (se non introvabile) si è presa la decisione di
catalogare anche tutti gli spogli di giornali, riviste, atti parlamentari e
legislativi, circolari, atti di convegni, singoli interventi, ricerche
tematiche, concordando le modalità con quelle che sono le caratteristiche
formali di SBN. In particolare si renderanno visibili tali materiali tramite
un’accurata soggettazione degli stessi.
L’impegno, oltre quello
della catalogazione del patrimonio già presente, è quello dell’allargamento
dello stesso con la specifica finalità di far diventare tale Centro di
documentazione un punto di riferimento nazionale, se non addirittura
europeo, per tutte quelle tematiche che riguardino il diritto penale,
penitenziario, sanità in carcere, tossicodipendenze, tutela dei diritti
umani, tortura, immigrazione.
Con la messa a punto del
nuovo portale dell’Associazione, il centro di documentazione avrà la sua
pagina web dalla quale sarà possibile arrivare al catalogo on-line di SBN.

Comunicazioni
del ministro della Giustizia Clemente Mastella sulle linee programmatiche
del suo dicastero
davanti la Commissione Giustizia della
Camera dei Deputati
Le
gravi difficoltà della Giustizia e l’eccessiva durata dei processi
Il mondo
della giustizia presenta notevoli complessità e sempre più spinosi problemi,
alcuni antichi che le varie strategie di intervento non sono riusciti a
risolvere. E’ qualche tempo ormai che il tema dell’inadeguatezza delle
prestazioni offerte dal nostro sistema giudiziario sembra aver perso molto
del suo appeal, a favore di diatribe tra i poteri interni e tra
questi e la classe politica o della ricerca di soluzioni tecnicistiche per
risolvere i problemi di pochi. La sensazione che se ne ricava è quella che,
al di là delle enunciazioni di principio sulle necessarie riforme di
carattere procedurale ed organizzativo e sulla centralità della domanda
espressa dai cittadini, l’Amministrazione si stia sempre più allontanando
dall’utente finale, al punto di rischiare di dimenticarsene e di farsi
risucchiare da un dibattito tutto esterno alle problematiche reali. Eppure,
i quasi 9 milioni di processi pendenti, i 2 milioni e mezzo di reati
denunciati, i 61.000 detenuti che affollano le carceri sono lì a ricordare
quali sono i problemi veri che si agitano sul tappeto e quale sia la portata
dell’impatto del sistema giudiziario sulla popolazione: il 90 % degli
italiani, lo dice un’indagine del Censis di qualche tempo fa, boccia la
giustizia, considerandola lenta, costosa ed iniqua. C’è, prima di tutto, la
scarsa capacità di esaurire in tempi rapidi i procedimenti che nella
sensibilità collettiva e delle forze politiche costituisce un problema da
soddisfare in via prioritaria. Le cause sono molteplici: l’arretratezza
dell’”apparato giudiziario” che stenta ad articolare la gestione delle
risorse secondo modelli propri della cultura dell’organizzazione; una
tendenziale deresponsabilizzazione dei protagonisti di giustizia, cioè dei
magistrati e del funzionariato, che spesso mancano di cultura dell’
organizzazione; una legislazione sovrabbondante (tra le 140 e 150.000 leggi,
oltre la normativa secondaria), talvolta scorretta e contraddittoria che
finisce per moltiplicare il contenzioso; la consistenza quantitativa e
qualitativa della domanda di giustizia che non trovando risposte in altre
occasioni istituzionali, grava sui tribunali e ne ritarda le risposte con
una consistente esposizione finanziaria per effetto della legge Pinto sulla
responsabilità da ritardi.
A questo proposito credo sia necessario un organico monitoraggio non solo
dei tempi dei processi, ma anche dei tempi di pagamento delle somme
liquidate dalle Corti di appello a titolo di equa riparazione. Purtroppo,
questa figura speciale di risarcimento, è stata gestita male senza alcun
coordinamento, per cui va predisposto un intervento correttivo della legge
n. 89 del 2001. Per di più la Corte europea dei Diritti dell’Uomo ha
censurato i criteri di liquidazione delle indennità riparatorie da parte dei
giudici nazionali, ritenendo la legge italiana non compatibile con la
Convenzione dei Diritti Umani. La situazione va affrontata anche ripensando
a forme alternative di conciliazione, che attraverso fasi pregiurisdizionali
molto snelle possano risolvere le relative controversie con l’apporto
dell’Avvocatura; infatti, la spesa ha avuto un incremento notevolissimo,
poiché a fronte di 2681 decreti di condanna per euro 1.266.354,84 nell’anno
2002, si è passati a 1654 decreti per euro 5.478.871,69 nel 2003, a 2014
decreti per euro 6.627.974, 36 per il 2004 ed a 2494 decreti per euro
8.921.525,11 nel 2005, senza considerare che le anzidette cifre riguardano
pagamenti già effettuati e non anche le maggiori somme rimaste da erogare.
La
riorganizzazione dell’apparato
Quanto
alla macchina giudiziaria dico subito che respingo la suggestione di mettere
mano a riforme di ampio respiro, un versante – come è noto - non agevolmente
praticabile. Credo sia preferibile concentrarsi su come riorganizzare il
sistema e in questa prospettiva inserire innovazioni legislative
indispensabili per ridare efficienza attraverso provvedimenti amministrativi
generali e piani di sviluppo, sulla falsariga di quanto consiglia nel suo
programma-quadro la “Commissione europea per l’efficacia della giustizia”
istituita nell’ambito del Consiglio d’Europa.
Perciò mi soffermo prima di tutto sui profili di riorganizzazione della
macchina per poi passare alle innovazioni legislative che ritengo
necessarie.
Risorse, personale, strutture dell’apparato di giustizia vanno impiegati
secondo modelli operativi che hanno bisogno di una razionale raccolta dei
dati per misurare l’impatto ai fini della realizzabilità dei programmi, per
valutare la produttività, per operare un’idonea distribuzione del reticolo
giudiziario e per gli adattamenti via via necessari. In realtà i metodi di
rilevazione fino ad ora usati tendono ad offrire elementi conoscitivi
aggregati su grandi categorie mentre la materia giudiziaria è più complessa
ed ha numerose variabili che riguardano il territorio, l’intensità e la
natura della domanda, le scelte di politica criminale e spesso l’intero
contesto in cui tribunali e corti sono inseriti. A queste esigenze i centri
di rilevazione del Ministero si devono necessariamente adattare realizzando
una rete di monitoraggio che consenta di controllare la distribuzione del
lavoro e la resa dei singoli uffici per evitare vuoti di efficienza, fasce
oscure o ingestibili sovraccarichi di lavoro. Conosciuti i bisogni e
predisposte le risorse disponibili occorre fissare standard di produttività,
tema non facile perché comporta la valutazione ponderale di udienze,
procedimenti e sentenze; ma la moderna scienza econometrica offre
metodologie idonee a tarare e misurare anche queste risultanze, superando le
difficoltà incontrate in passato dalla Commissione mista del Consiglio
superiore e del Ministero. Ebbene, se si ottiene un panorama conoscitivo
della macchina giudiziaria e delle sue dinamiche, se si fissano in anticipo
gli standard di produttività e in anticipo si misurano i necessari bisogni
strumentali, è più agevole elaborare programmi per fasce di uffici accorpati
secondo la dimensione, la caratura operativa e le tipologie dimensionali;
soltanto l’elaborazione di programmi riferiti all’impiego delle risorse e ai
relativi risultati consente riscontri di produttività e adattamenti
costanti; inoltre l’insieme rappresenta un prezioso materiale per futuri
giudizi sulle capacità dei capi e degli stessi magistrati.
L’essenziale funzione del personale amministrativo
Bisogna
riconoscere che l’organizzazione della giustizia poggia in larga misura
anche sull’attività del personale amministrativo: una ricchezza
fondamentale, necessariamente da valorizzare perché l’efficienza degli
uffici giudiziari dipende dall’opera di questo personale che oggi risulta
mortificato soprattutto dalla mancata realizzazione della riqualificazione
professionale.
Si tratta di un problema delicato sia per i profili di disparità di
trattamento con altre amministrazioni dello Stato, sia per la situazione
determinatasi a seguito delle numerose decisioni giurisdizionali
sull’argomento, ma per avviare un percorso meno accidentato e trovare una
soluzione occorre percorrere tutte le strade possibili, nel rispetto del
principio di imparzialità e in coerenza con le decisioni della Corte
costituzionale, salvaguardando la duplice esigenza del riconoscimento
professionale e del riassetto dell’amministrazione: risolvere questi
problemi significa dare fiducia ad un settore essenziale delle nostre
risorse e stimolare maggior impegno ai fini dell’efficienza dell’intera
struttura.
I
responsabili dell’organizzazione
I poteri
e le responsabilità dell’organizzazione del sistema-giustizia appartengono
al Consiglio superiore e ai capi degli uffici. Nonché al Ministero che ha
responsabilità per la dotazione delle risorse strutturali e di personale
secondo l’art. 110 della Costituzione.
Ecco
perché occorre una politica di piano per la giustizia, secondo un programma
articolato in tre fasi:
-
censimento analitico dei bisogni ufficio per
ufficio monitorati con tecniche econometriche;
-
previsione di produttività e relativi costi;
-
nuovi assetti di efficienza con relative linee
di indirizzo concordate fra Ministro e Consiglio superiore della
magistratura.
Dunque,
il Ministero può avviare piani generali in vari settori, come la geografia
giudiziaria, la ristrutturazione gestionale degli uffici, l’eliminazione
delle costose pendenze dei corpi di reato affidati a terzi, gli interventi
nel settore informatico. E’, quest’ultimo, un obiettivo primario e in tale
quadro occorre completare il progetto per il processo civile telematico con
la previsione della notifica con tale mezzo per gli atti notificati o
comunicati dagli avvocati o dagli ausiliari del giudice, con l’iscrizione a
ruolo telematica quale incentivo scaturente dalla riduzione dei costi e con
l’ulteriore innovazione della non obbligatorietà del rilascio di una procura
a margine dell’atto introduttivo del giudizio bastando il mandato in forma
scritta conservato dal professionista per i rapporti interni.
E’ altresì in progetto l’avvio dell’intero processo telematico nei settori
ad alta percentuale di procedure routinarie e una prevalenza di prova
documentale (procedimenti di ingiunzione, previdenziali ed esecutivi).
Quanto al settore penale, si mira alla realizzazione di un sistema
“integrato” attraverso l’individuazione di un unico flusso informativo che
dalla ricezione della notizia di reato giunga, attraverso la fase di
cognizione, sino all’esecuzione della condanna, con eventuale innesto di
fasi incidentali come le misure cautelari che pure necessitano di una
gestione digitale. Infine, il trattamento cartaceo del casellario appare
oggi assolutamente anacronistico sotto il profilo della tempestività di
aggiornamento e della completezza del dato nonché della necessaria
affidabilità per il momento decisionale.
La digitalizzazione consente al Casellario di svolgere il ruolo di archivio
nazionale di riferimento per la conoscenza in tempo reale di tutte le
vicende di rilievo penale; con questo sistema il Casellario, nel censire
tutte le posizioni definite con sentenza definitiva di condanna e tutti i
carichi pendenti, potrà essere alimentato automaticamente dai sistemi
“fonte”, rappresentando, in sostanza, il data base nel quale confluiranno
gli elementi di quell’unico flusso della giurisdizione che deve
rappresentare il filo conduttore del meccanismo informativo penale. In
questa strategia di piano intendo avvalermi anche dell’attività
dell’Ispettorato generale, utilizzato non più in funzione esclusivamente
repressiva ma soprattutto in funzione preventiva, foriera tra l’altro di un
circuito di informazione fra le esperienze dei vari uffici come fattore di
conoscenza e di stimolo per una riorganizzazione globale della intera
macchina giudiziaria.
L’importanza dell’avvocatura e la legge quadro sulle professioni
All’Avvocatura va dedicata un’attenzione particolare perché essa è
coprotagonista a pieno titolo della giurisdizione e portatrice di valori
essenziali per l’adempimento del servizio giudiziario. Purtroppo negli
ultimi tempi si sono acuiti contrasti e incomprensioni con l’ordine
giudiziario, oltre il fisiologico rapporto dialettico delle rispettive
funzioni; viceversa sono indispensabili intese e confronti leali, nella
piena disponibilità da parte del mio Dicastero a recepire tutti i
suggerimenti, gli stimoli, le prospettazioni costruttive e – perché no – le
critiche che provengano dall’avvocatura attraverso i suoi organi
istituzionali e le associazioni di categoria: così nel settore civile per
quanto attiene ai problemi suscitati dalle più recenti riforme sui temi
della procedura contenziosa ordinaria, dei danni da circolazione stradale e
dei procedimenti specialistici in materia societaria e fallimentare; così,
nel settore penale, per quanto attiene all’eccessiva previsione di nullità
non incidenti sui diritti di difesa, al trattamento dei recidivi e alla
tutela delle vittime del reato. Sono problematiche per le quali l’avvocatura
già sta dando preziosi suggerimenti di cui terrò conto in quell’ambito di
possibilità correttive che riuscirò a trovare nella volontà parlamentare.
Ma c’è una riforma che tocca con maggiore intensità l’avvocatura e, più in
generale, le categorie professionali, cioè la legge-quadro sul riordino
delle professioni intellettuali. Le continue interruzioni del processo di
riforma del sistema professionale italiano – che affondano le proprie radici
nelle commissioni ministeriali degli anni ’70 – stanno inibendo al nostro
terziario intellettuale la possibilità di cambiare in profondità, e di
dotarsi di un maggiore orientamento all’innovazione. Ed in più hanno creato
competizioni di competenza fra Ministri che hanno ulteriormente accentuato
le difficoltà. Al tempo stesso, i confini del sistema non cessano di
crescere: gli iscritti agli Albi nel 2005 erano 1 milione e 828 mila
persone, mentre gli esercenti le professioni non regolamentate erano circa 4
milioni. Accanto alle professioni tradizionali sono cresciute, infatti, un
notevole numero di attività intellettuali nuove, a fronte del quale si è
sviluppato un tessuto associativo ancora in formazione, ma molto attivo. Gli
ordini sono al momento 27, mentre le Associazioni professionali non
regolamentate sono 160.
La riforma delle professioni deve quindi essere rimessa nell’agenda politica
al più presto, per non fare perdurare l’attuale stato di confusione e di
conseguente deterioramento del tessuto professionale e di quello associativo
a questo collegato. Nella scorsa Legislatura una commissione costituita
presso il Dicastero della giustizia elaborò una bozza di riforma che aveva
ricevuto molti consensi e da cui si può ripartire con opportuni
aggiustamenti. Ci sono, da un canto, i ben noti indirizzi dell’Unione
europea e c’è, dall’altro, una nostra peculiare esperienza; nel mezzo c’è
l’esigenza di adeguare il sistema degli ordini professionali alla realtà di
oggi, soprattutto per meglio soddisfare i bisogni dell’utenza. Alcune cose
vanno riviste ed aggiornate, senza tuttavia cedere all’idea di una completa
ed assoluta liberalizzazione che, andando oltre i benefici di una
fisiologica concorrenza, potrebbe determinare lo scadimento della
prestazione professionale estremizzando la logica del “costo sempre più
basso”. L’istituzione degli ordini, la disciplina della loro autonomia e il
relativo controllo non costituiscono un anacronistico interventismo bensì
una garanzia per l’utenza perché lo Stato non può disinteressarsi di
prestazioni che spesso toccano bisogni e diritti fondamentali dei cittadini.
Sempre in tema di avvocatura, occorre rivolgere uno sguardo più attento a
quella parte di essa che svolge attività sostitutiva e di supporto alla
magistratura ordinaria; mi riferisco alle varie categorie di giudici onorari
che chiedono risposte univoche per la loro posizione futura e assetti più
precisi per talune esigenze essenziali.
La
leale collaborazione tra Ministero e CSM
Presupposto indispensabile per avviare la strategia descritta è un clima di
collaborazione fra Ministero e Consiglio superiore, invece di quell’atmosfera
di perenne scontro che ne ha caratterizzato i rapporti negli ultimi anni.
In questa prospettiva assicuro sin d’ora il mio massimo impegno, intendendo
ispirare a tale spirito collaborativo i miei rapporti con tutte le
istituzioni dello Stato, a cominciare dal Presidente della Repubblica, come
di recente testimoniato anche dalla riattivazione della procedura relativa
alla concessione della grazia ad Ovidio Bompressi. Ma i rapporti più intensi
sono con il C.S.M., organo di governo autonomo della magistratura.
Il C.S.M. ha numerosi compiti di organizzazione che riguardano l’assetto
funzionale degli uffici attraverso le tabelle, ove si enunciano per il
biennio i criteri di funzionamento della giurisdizione, le regole di
distribuzione degli affari, l’adattamento a variabili emergenziali;
riguardano anche la politica dei tramutamenti e la provvista per i vuoti di
organico, la dotazione per settori specialistici, gli incarichi direttivi e
semidirettivi, il controllo di efficienza a carattere diffuso o per singoli
uffici. Negli ultimi anni il Consiglio, con la circolare per le tabelle, ha
opportunamente invitato i capi degli uffici ad elaborare programmi di
produttività o di recupero dell’arretrato, ma senza prevedere riscontri a
consuntivo; purtroppo agiscono talvolta in controtendenza il mutamento dei
criteri operativi da una consiliatura all’altra e l’abbandono di
orientamenti prestabiliti per esigenze correntizie o prassi ritardatarie da
mancata composizione di dialettiche tra gruppi consiliari. Molto si potrà
fare – ne sono convinto - attraverso un’ attiva interlocuzione con il
Consiglio Superiore della Magistratura e con tutto il circuito
dell’autogoverno della magistratura per un migliore assetto funzionale degli
uffici sul piano dell’organizzazione tabellare, per la politica dei
tramutamenti, degli incarichi direttivi e semidirettivi, per la formazione
della magistratura, ma anche per gli standard di produttività per l’
ottimizzazione delle risorse strutturali e di personale. L’azione di governo
e di amministrazione della giustizia non può essere efficace se l’organo di
autogoverno della magistratura non provvede tempestivamente e razionalmente
a gestire la mobilità e gli incarichi direttivi od a programmare gli atti di
indirizzo organizzativo: un’ampia e complessa attività che richiede un
Consiglio superiore meglio strutturato nella composizione e nelle
articolazioni. Voglio dire che tale organo di rilevanza costituzionale non
può ritenersi sufficientemente garantito dall’attuale consistenza numerica,
poiché spesso le numerose competenze appaiono soverchiare oltremodo
l’attività che ciascuno dei membri deve affrontare. Occorre quindi riportare
a 30 il numero complessivo dei componenti, di cui venti togati e dieci
laici, facendosi anche carico di rafforzare la struttura tecnica della
segreteria e dell’ufficio studi, assicurando al Consiglio la possibilità di
continuare ad avvalersi dell’opera di magistrati per la segreteria e per
l’ufficio studi. Nell’organizzazione della macchina giudiziaria i capi degli
uffici hanno un ruolo essenziale; perciò è indispensabile che essi
posseggano metodo di gestione del personale, tecniche di utilizzazione delle
risorse, capacità di programmare il lavoro; com’è altrettanto necessario che
per queste qualità abbiano la necessaria autorevolezza e sappiano assumersi
la responsabilità delle iniziative. Il programma organizzativo di un ufficio
è, in buona sostanza, la razionalizzazione delle risorse disponibili nella
prospettiva di risultati di cui dar conto a periodi determinati; anzi
l’ordinamento dovrebbe stabilire l’obbligo, per i capi, di un progetto
iniziale e l’analogo obbligo di periodici rendiconti, prevendendosi una
responsabilità “per cattiva gestione” o, secondo i casi, una ipotesi di
destinazione ad altra attività per incolpevole inettitudine alla dirigenza.
Anche ai singoli magistrati competono doveri organizzativi per risultati,
come – e riferisco le prassi adottate in alcuni uffici - programmare la
gestione dei ruoli attraverso criteri di priorità prestabiliti d’intesa con
i responsabili dell’ufficio, modulare udienze e orari per massimizzare il
rendimento e ridurre costi umani e sociali, evitare quelle regressioni di
fase che maggiormente incidono su parti e soggetti processuali, concordare
regole procedimentali per rendere più spedito l’iter; impedire nel settore
civile, con decisioni immediate, l’uso distorto del contenzioso al solo
scopo di guadagnare tempo in favore degli inadempienti, rispettare l’ordine
logico delle acquisizioni probatorie evitando dilatazioni istruttorie non
coerenti alla natura della causa, utilizzare in modo più deciso la
disciplina delle spese processuali secondo l’art. 96 del codice di rito. Nel
campo penale è necessario potenziare la funzione gup affinché il filtro
dell’udienza preliminare possa rendere produttivo l’afflusso al dibattimento
anche per contenere quell’abnorme scarto tra rinvii a giudizio e statistica
assolutoria; fare ricorso, per processi di particolare complessità, alle
c.d. udienze di programma in modo che il successivo iter, una volta
concordata fra le parti la relativa gestione, possa avere un andamento
governabile nelle cadenze e nei tempi; utilizzare strumenti tecnologici per
comunicazioni e avvisi; evitare le incompatibilità endoprocessuali così
frequenti nei casi di patteggiamento; valutare anche le pretese risarcitorie
della parte civile così da evitare agli interessati ulteriori e defatiganti
istanze di giustizia.
Sono esempi tratti dall’esperienza di numerosi tribunali (le c.d. “prassi
virtuose”), che recentemente una rivista giuridica ha elencato definendoli
utili percorsi nella prospettiva dell’art. 111 della Costituzione. E’ stata
anche avanzata la tesi di collegare una parte del trattamento stipendiale
alla realizzazione del programma elaborato dal magistrato come la riduzione
dei tempi e l’eliminazione dell’arretrato: è – questa - una tesi forte, che
richiederebbe comunque un intervento legislativo; ma che alcuni prospettano
come efficace già con il cosiddetto “effetto di annunzio”.
Insomma, mediante circolari, atti di indirizzo, disposizioni regolamentari,
su iniziativa del Ministro, dei Capi dei Dipartimenti e del Consiglio
superiore, nonché mediante interventi orientativi dell’Ispettorato è
possibile incidere sia sugli aspetti organizzativi della giurisdizione sia
sulla dinamica della resa di giustizia, responsabilizzandone i protagonisti
in termini di efficienza.
La
revisione della geografia giudiziaria
Questa
strategia di riorganizzazione comporta l’impegno di evitare che l’attuale
assetto di alcuni uffici giudiziari ne renda impossibile o molto
difficoltoso il funzionamento. Mi spiego. L’istituzione del giudice unico di
primo grado, entrata a pieno regime dal 2000, ha tentato di realizzare una
maggiore funzionalità utilizzando il singolo magistrato per più funzioni, e
ciò porta a ritenere come più vicina alla piena efficienza una previsione
per i tribunale di un organico minimo di 14 magistrati. Tale dimensione
rende effettivamente possibile ed economico strutturare l’ufficio con una
sezione penale, una civile ed un ufficio gip-gup, composti rispettivamente
di un presidente e 5 giudici, per un totale di 12 magistrati e di due
componenti dell’ufficio gip-gup. Tale formula realizza più efficacemente la
legge n. 51 del 1998, la quale impone che ogni sezione sia composte di
almeno 5 magistrati, più il presidente, che ogni presidente di sezione abbia
una sezione a cui essere assegnato, che in presenza di un tribunale diviso
in sezioni, debba essere costituita la sezione gip-gup. Lo scopo di questa
impostazione è proprio quello di garantire da un lato una struttura
efficiente, realizzata attraverso la formazione di sezioni che si occupano a
tempo pieno di un unico settore, civile o penale, con conseguente
specializzazione dei magistrati, dall’altro di eliminare il più possibile il
problema delle incompatibilità processuali, soprattutto tra il settore
giudicante e la funzione gip-gup. Al di sotto di questa composizione il
tribunale è costretto a costituirsi in sezione unica promiscua, realtà che
determina una serie di problemi in tema di incompatibilità di funzioni o di
sovrautilizzo dei giudici onorari. In tutti i tribunali in cui l’organico
risulta inferiore alla suddetta soglia spesso si determinano situazioni
insostenibili di pluralità di incombenze in capo agli stessi giudici. La
soppressione o l’accorpamento da realizzare può comprendere due
circoscrizioni limitrofe, che quindi non subiscono modifiche territoriali o
smembramenti e potrebbe essere denominato con doppio nome, così come viene
fatto per alcune province ( ad es. Forlì-Cesena). Il notevole recupero di
efficienza può quindi realizzarsi attraverso l’utilizzazione di un maggior
numero di magistrati per gli uffici minori secondo criteri di funzionalità e
specializzazione ed un migliore utilizzo del personale amministrativo.
L’operazione riguarderebbe, in realtà, 38 uffici rispetto ad numero
complessivo di 165, quindi un quarto del totale.
Passo ora ad enunciare le iniziative che riguardano specificamente il piano
normativo.
Le innovazioni legislative: L’ordinamento giudiziario
Comincio
dalla vexata quaestio dell’ordinamento giudiziario. Il tema è troppo
importante per ridurne la rivisitazione normativa all’aprioristico segnale
di diversità o ad un intento demolitorio di quanto sia stato fatto nella
precedente Legislatura. L’esigenza di riaprire il confronto nasce da una
diversa concezione del ruolo e dell’assetto dell’ordine giudiziario nel
contesto dell’equilibrio istituzionale. La mia cultura di base e
l’esperienza di circa trent’anni nella vita politica mi spingono a
considerare la giurisdizione come categoria che ricerca ed esprime in via
autonoma le tecniche di ricostruzione delle realtà ed in via autonoma opera
la mediazione tra l’astratto senso giuridico di norme con i principi
costituzionali e i fatti sottoposti al suo giudizio; questa cultura mi porta
a considerare la magistratura come un ordine professionale distinto dal
funzionariato pubblico, un ordine che ha con l’apparato amministrativo
legami di servizio ma non connessioni strutturali nè articolazioni
gerarchiche. E nemmeno identità di status o cultura di carriera.
Non a caso l’art. 107 della Carta Costituzionale afferma che i magistrati si
distinguono fra loro soltanto per diversità di funzioni, non per gerarchie
di gradi, giacché ogni magistrato, quale sia l’attività in concreto
esercitata, è garante della legalità. D’altronde queste idee sono
chiaramente espresse nel Programma dell’Unione, al quale io, come
rappresentante di una parte politica, ho ampiamente e responsabilmente
aderito. So bene quanto travaglio sia costato il passaggio dal
giudice-funzionario degli ordinamenti Oviglio e Grandi del ‘913 e del ’41
alla concezione di una magistratura costituita come ordine dotato di
autonomia e indipendenza; e quanto si sia discusso nella letteratura
specialistica sulla maggiore o minore affinità col sistema del funzionariato
francese o con quello della concezione anglosassone. Ma oggi, anche nelle
direttive comunitarie, c’è una configurazione ben distinta dall’antico
funzionariato giudiziario.
Ebbene, la legge n. 150 del 2005 e i decreti attuativi recano in buona parte
l’impronta burocratica ancien regime; ed è questa impronta che io
intendo rimettere in discussione, traendone le conseguenze sul piano
normativo. Tanto più che la VII disposizione transitoria prevedeva, sì, un
nuovo ordinamento giudiziario, ma un ordinamento pensato e redatto – essa
dice – “in conformità con la Costituzione”. Su tale base concettuale
analizzo brevemente i decreti legislativi per un oggettivo confronto in
questa alta sede parlamentare.
I
concorsi interni e le possibili alternative
L’accesso alla magistratura è configurato dal decreto n. 160 del 2006 come
un concorso di secondo grado, forse al duplice scopo di una preselezione che
tagli il numero dei candidati e la prospettiva di una maggior idoneità
iniziale. Ma questi obiettivi si possono raggiungere in altro modo, senza
penalizzare nell’attesa fasce di giovani e famiglie non in condizione di
sostenere la relativa gravosità economica: si può rafforzare il sistema di
accesso attraverso le scuole pubbliche di specializzazione e attraverso
l’ammissione diretta di quanti abbiano riportato un altissimo voto di laurea
e una buona media globale con un piano di studi funzionale all’attività per
cui si concorre; si possono rivedere le regole di composizione della
commissione esaminatrice in modo da contenere i tempi di espletamento della
procedura concorsuale; si possono modificare le prove scritte strutturandole
in modo che il candidato sia chiamato a dimostrare una buona preparazione
teorica e, contestualmente, la capacità di finalizzarla per la soluzione di
problemi tecnico-giuridici. Superato il concorso, è necessario un buon
periodo di uditorato, al termine del quale occorre un severo controllo di
professionalità prima del conferimento delle funzioni, ed occorre forse,
come si è proposto da più parti, un consistente periodo di esercizio
dell’attività in un collegio per quanti iniziano nel settore penale. Ma due
cose vanno eliminate: in primo luogo, l’opzione anticipata fra attività
giudicante e attività requirente non solo perché spezza decisamente l’unità
culturale della giurisdizione ma anche perché delle rispettive
professionalità l’interessato non può avere una cognizione piena e finirà
per orientare la sua scelta in rapporto alle sedi disponibili, non certo in
coerenza con una effettiva vocazione; in secondo luogo, il colloquio
psico-attitudinale nell’ambito delle prove orali, sulla cui rilevanza,
metodologia applicativa ed efficacia nessuno degli esperti interpellati ha
saputo dire gran che.
Quanto alla cosiddetta carriera dei magistrati, nel decreto n. 160 sono
previsti vari concorsi interni per accedere a gradi superiori e a funzioni
più alte, dei quali il decreto fa una minuziosa e farraginosa
classificazione; il tutto sulla falsariga di un regime impiegatizio che
riproduce, nella filosofia di fondo, l’ordinamento del 1941, scomponendo
l’assetto realizzato nel frattempo dalle leggi n. 570 del 1966 e 831 del
1973 con i c.d. “ruoli aperti”.
I vari concorsi recati dall’innovazione hanno suscitato critiche notevoli
sotto vari aspetti. A parte l’inaccettabilità di un sistema calato appieno
nella logica impiegatizia, a me sembrano decisive alcune considerazioni
pratiche: quante volte e per quanto tempo ogni magistrato si sottrarrà
all’ordinario esercizio della sua attività per dedicarsi alla preparazione
dei quattro o cinque concorsi interni? Come potrà, legittimamente, non
distrarre il suo impegno dalla giurisdizione? Quale stimolo ad un
carrierismo indifferente alle sorti della giustizia questo sistema inocula
nell’ordine giudiziario?
Nel decreto, pur formalmente facoltativa, la possibilità di partecipare ai
concorsi, con la prospettiva dei relativi vantaggi di carriera anticipati e
risvolti economici positivi, potrebbe indurre numerosi magistrati a
scegliere questa strada, abbandonando quegli uffici di primo grado dove si
adottano le decisioni spesso più delicate e con il maggior impatto sociale.
Tutto ciò in contrasto con l’interesse del cittadino ad avere un magistrato
esperto fin dal primo grado del processo. Allora, nell’interesse del
servizio e dell’utenza, mi sembra necessario optare per un sistema diverso
che non produca quei disastrosi effetti.
Debbo dichiarare con tutta franchezza che le leggi sui ruoli aperti, le
quali intendevano realizzare il principio costituzionale della pari dignità
delle funzioni giurisdizionali (art 107), ebbero forse un’ispirazione troppo
illuministica in quanto facevano leva sull’idea che il magistrato, ormai
libero dall’assillo della carriera, avrebbe conservato e potenziato la sua
professionalità in rapporto al servizio giudiziario cui di volta in volta
era chiamato. Purtroppo la realtà ha offerto esperienze non sempre positive,
suscitando la sensazione di una riforma incompiuta, bisognevole cioè
di controlli periodici e di meccanismi di riscontro per assicurarsi della
costante tenuta della professionalità nelle varie funzioni. In realtà
si è diffusa la convinzione che le leggi n. 570 e 831 presentano un duplice
inconveniente: per un verso collocano il riscontro-giudizio in
periodi troppo distanziati, cioè soltanto in occasione della nomina alle
qualifiche superiori; per altro verso, offrono parametri troppo elastici che
non consentono una reale ed oggettiva valutazione, trattandosi di
riconoscere soltanto una qualifica e un aumento di stipendio. Ebbene, per
garantire una professionalità permanente, costantemente aggiornata,
sensibile alle esigenze della collettività e alla dimensione europea del
rendere giustizia; per assicurare all’utenza un impegno del corpo
giudiziario di alto livello sempre aderente al valore dell’imparzialità; per
collocare alla direzione degli uffici presidenti e procuratori i quali siano
autorevoli più che autoritari, rispettosi delle garanzie di indipendenza di
ciascun magistrato ma anche solleciti nel prevenire negligenze o inutili
protagonismi; per garantire in ogni caso quella “professionalità forte” che
sta alla base di una magistratura come ordine autonomo, è necessario e
sufficiente prevedere valutazioni periodiche a tempi fissi, ad esempio ogni
quadriennio, valutazioni che costituiscano non solo presupposti per il
conferimento di altre funzioni, ma anche importanti momenti di verifica,
suscettibili di concludersi, in caso di esito negativo, con il blocco per un
quadriennio della progressione economica o con la destinazione ad altra
funzione dei magistrati che si rivelino inidonei all’esercizio di specifiche
funzioni in atto loro assegnate od, infine, con la rimozione dei magistrati
che non superino successive verifiche. Tali verifiche potranno fondarsi,
sulla falsariga di una proposta presentata durante la XIII Legislatura, sui
rapporti dei capi degli uffici, sul riscontro di produttività secondo gli
standard generali e settoriali, su segnalazioni eventualmente pervenute dal
Consiglio dell’ordine degli avvocati per fatti incidenti sulla
professionalità o su situazioni concrete e specifiche di esercizio non
indipendente della funzione ovvero su comportamenti sintomatici di mancanza
di equilibrio; ulteriore elemento valutativo potrà essere costituito dall’autorelazione
in cui, fra l’altro, il magistrato dà conto degli obiettivi programmati e
realizzati, ovvero delle ragioni di una mancata realizzazione, e di quant’altro
ritenga di enunciare per esprimere la sua professionalità e i relativi modi
di esercizio. La preoccupazione di una difficile gestione di tale meccanismo
da parte degli organi incaricati della valutazione, e cioè Consigli
giudiziari e Consiglio superiore, è superato dal fatto che si tratta di
acquisizioni a futura memoria, sostanzialmente informatizzate, da utilizzare
quando si maturano i tempi e le occasioni per il conferimento di altre
funzioni. Insomma, una banca dei dati valutativi da utilizzare per i
tramutamenti specialistici, ovvero, secondo determinate fasce di anzianità,
per le funzioni di secondo grado, per incarichi semidirettivi e per
incarichi direttivi; nulla impedisce comunque di attivare questa banca in
riferimento a situazioni che riguardino comunque la capacità, la
laboriosità, le professionalità specifiche, l’equilibrio, le attitudini del
singolo magistrato. Quanto al conferimento delle funzioni di legittimità, va
in primo luogo garantito che la valutazione permanga, secondo il sistema
costituzionale (art. 105 Cost.), nell’ambito delle attribuzioni del
Consiglio superiore. L’assegnazione dei magistrati alla Corte di Cassazione,
in ragione della specificità delle funzioni svolte, andrebbe organizzata
secondo moduli valutativi diversi dalle assegnazioni agli uffici di merito,
per garantire un’adeguata valutazione della professionalità specifica. Ma è
del tutto inidonea la previsione di un concorso per esami. Si può prevedere
che l’organo di autogoverno si avvalga a tal fine della collaborazione di
magistrati e professori universitari per una prima valutazione dei
provvedimenti degli aspiranti alla funzione di legittimità, finalizzato al
riscontro delle specifiche attitudini. Insomma, per l’accesso alle funzioni
di legittimità la prospettiva è diversa. Un magistrato, per quanto bravo e
costantemente capace nell’attività di merito, può non essere in grado di
svolgere una funzione di legittimità presso la suprema corte o la procura
generale: allora deve dimostrare di essere esperto nell’analisi delle norme
e in quella diversa professionalità che è l’esercizio della nomofilachia ove
l’indagine sulla identità normativa è cosa ben diversa dalla ricostruzione
del fatto, sia pure sub specie juris.
Tutto questo va integrato con la partecipazione ad appositi stages presso le
scuole della magistratura che vanno frequentati sia da quanti aspirino a
funzioni diverse sia da quanti intendano restare nella originaria funzione
di primo grado. Ovviamente la partecipazione allo stage deve avere un
significato, una cifra finale che non si limiti a registrare la mera
partecipazione.
La distinzione delle funzioni
Ritengo,
invece, che vada valutata meglio quella parte del decreto n. 160 comunemente
chiamata “distinzione delle funzioni”. Pur convinto della unicità
sistematica dell’ordine giudiziario, sono, infatti, sensibile all’esigenza,
di natura sociale più che istituzionale, secondo cui chi ha esercitato
funzioni requirenti o giudicanti in una sede non possa esercitare, per
almeno un quadriennio, le diverse funzioni nel medesimo distretto; sono
altresì convinto dell’esigenza che ogni passaggio richieda l’obbligatoria
frequenza di un corso di riqualificazione professionale e, ovviamente, un
successivo giudizio di idoneità espresso dal C.S.M. previo parere del
competente Consiglio giudiziario. Queste esigenze, peraltro, non sembrano
imporre necessariamente una scelta definitiva tra le due funzioni, nei
termini attualmente previsti nel decreto legislativo n. 160, potendo
pienamente essere realizzate anche con la conservazione di un impianto
normativo più aderente al dettato costituzionale, che consenta, alle
condizioni indicate, la possibilità di passaggio dall’una all’altra
funzione.
La
scuola per la magistratura
L’istituzione della scuola è un’antica aspirazione dell’ordine giudiziario
che opportunamente la legge n. 150 e il decreto legislativo n. 26 hanno
soddisfatto. Ma anche questo decreto risente della concezione burocratica di
cui è intrisa l’intera riforma dell’on. Castelli. Per riportare la
disciplina nell’alveo di una concezione meglio ancorata ai principi
costituzionali è necessario che il comitato direttivo sia composto in
maggioranza da magistrati nominati dal Consiglio superiore e rivedere talune
capacità per chi entri a far parte dell’organizzazione della scuola; è
necessario altresì ripensare alla relativa allocazione lasciando alla
struttura centrale la gestione del tirocinio degli uditori, i corsi di
aggiornamento, quelli per passaggi di funzioni e per aspiranti direttivi o
semi direttivi, potenziando per il resto l’attuale formazione decentrata
presso le corti di appello.
Sul piano della garanzia degli equilibri nella composizione, l’assetto
normativo e funzionale della scuola della magistratura dovrà tenere nel
debito conto che l’effettività dell’autonomia di indirizzo non può che
essere garantita evitando ogni possibile equivoco sulla rappresentanza della
giurisdizione di legittimità, dovendosi ribadire che, anche sul piano della
formazione professionale, il ruolo della Suprema corte deve essere
contemplato come apporto di una giurisdizione diversa, deputata anche alla
nomofilachia, ma non come manifestazione di un disegno verticistico, che
finirebbe per tradire il principio di cui all’art. 107 della Costituzione.
La scuola ha bisogno di stanziamenti adeguati, superiori a quelli già
previsti, ed ha bisogno di regolamenti esecutivi; nel frattempo è mia
intenzione assicurare una continuità tra il lavoro formativo che il
Consiglio ha già svolto e programmato e il periodo successivo sino alla
operatività reale della scuola, in modo da non lasciare vuoti nella preziosa
attività di formazione e di aggiornamento professionale. Ciò è possibile
attraverso una snella struttura di cerniera diretta da chi, nell’ambito del
C.S.M., si sia costantemente e con alta dignità interessato dei profili
formativi dei magistrati.
La
disciplina delle procure della Repubblica
Nell’ordinamento elaborato dal Ministero Castelli lo stigma burocratico è
ancora più marcato quanto all’ufficio di Procura: quasi un moloc tutto
accentrato nel capo, titolare “esclusivo” dell’azione penale e dei relativi
poteri, dispensatore degli incarichi di indagine revocabili ad nutum.
A tale stigma, caratterizzato dalla titolarità esclusiva, si associa un’idea
della funzione di accusa che spezza l’unità anche culturale dell’ordine
giudiziario – intendo la cultura della giurisdizione – e che, pur senza
giungere alla netta separazione delle carriere e dei ruoli, tende a
trasformare il protagonista dell’accusa in un pubblico persecutore. Invece è
quanto mai opportuno anche nell’interesse dell’indagato, che il pubblico
ministero sia partecipe della cultura della giurisdizione, conservi la
capacità e l’impegno di accertare e valorizzare tutti gli elementi
probatori, pure quelli oggettivamente emersi in favore dell’indiziato o
dell’imputato. Né ciò contrasta con il sistema accusatorio perché la
relativa dialettica non può prescindere dai dati ontologici che emergano sia
a carico sia a discolpa.
Certo, il principio del potere diffuso che per la magistratura giudicante è
radicato nel capoverso dell’art. 101 della Costituzione trova
un’applicazione attenuata per i magistrati della requirente – ricordo in
proposito un intervento dell’on. Boato che, nei lavori della Bicamerale,
estendeva quel principio a tutti gli appartenenti all’ordine giudiziario –
ma ben altra cosa è la completa gerarchizzazione dell’ufficio di Procura.
Non c’è dubbio che occorra evitare iniziative unilaterali, estemporanee,
talvolta meramente protagonistiche di ciascun sostituto, e ciò secondo
un’esigenza comunemente avvertita di cui non è possibile disinteressarsi in
sede ordinamentale. Ma il quadro è più ampio. Al Procuratore della
Repubblica compete, certo, la determinazione dei modelli di organizzazione
dell’ufficio, dei criteri di assegnazione del lavoro, del programma di
attività e delle direttive generali alle quali i sostituti devono attenersi
per il coordinamento delle investigazioni, per l’impiego della polizia
giudiziaria e delle complessive risorse dell’ufficio. Tutto questo secondo
un progetto organizzativo e funzionale approvato dal Consiglio superiore nei
termini previsti da quell’art. 7 ter, co. 3, dell’ordinamento anteriore, che
va reintrodotto per motivi di trasparenza ed efficienza dell’ufficio; ed
anche per scaricare un po’ di quella enorme responsabilità che il decreto
legislativo n. 106 impone ai Procuratori della Repubblica, forse
nell’intento di una futura protezione-vigilanza da parte di un qualche
Ministero.
Nella prospettiva che ho delineato si incasellano le varie attribuzioni del
Procuratore-capo e le garanzie per l’attività dei sostituti: è lui che
assegna i procedimenti e, a certe ben precise condizioni, può avocarli a sé
o assegnarli ad altri con provvedimento motivato sottoposto al controllo del
C.S.M.; è lui che dà notizie, se necessario, ad altri organi istituzionali o
alla stampa, senza un’assoluta esclusione del sostituto-titolare purché
questi preventivamente concordi con il capo quanto comunicherà; è lui che dà
l’assenso per l’iniziativa di misure cautelari, personali e reali, salvo
eccezioni in sede di convalida dell’arresto o del fermo e del sequestro di
polizia giudiziaria oppure, per le misure reali, in ragione del valore del
bene o della ridotta rilevanza del fatto; infine, è a lui che va comunicata
l’emersione, nel corso dell’indagine, di una nuova notizia di reato affinché
provveda alla relativa designazione.
Si raggiunge così un equilibrio coerente fra la tendenziale uniformità
organizzativa e funzionale dell’attività di accusa e il rispetto della
dignità professionale degli altri magistrati dell’ufficio, senza
incontrollate iniziative e con un fermo contrappeso nella vigilanza del
Consiglio superiore della magistratura.
Il
disciplinare
Altrettanto delicato è il tema del disciplinare, per gli aspetti della
tipologia di alcune figure di illecito e dell’obbligatorietà del
promovimento dell’azione da parte del Procuratore Generale. Alcune figure
sono indicate in termini così generici da contraddire lo stesso intento
della tipicizzazione. Una maggiore puntualizzazione potrebbe semmai
realizzarsi utilizzando la giurisprudenza di legittimità formatasi in tale
materia, attraverso l’enunciazione dei concetti “di perseguimento di fini
diversi da quelli di giustizia”, “dichiarazioni ed interviste rese in
violazione dei criteri di equilibrio e di misura”, “emissione di
provvedimenti la cui motivazione consista nella sola affermazione della
sussistenza dei presupposti di legge”. Occorre, infatti, evitare che le
fattispecie previste conferiscano impropri margini di valutazione
discrezionale.
Se qui l’anomalia è di carattere tecnico, altre figure sottintendono scelte
che non possono condividersi, soprattutto quelle relative ad ipotesi esterne
all’esercizio delle funzioni che in certi casi finiscono per vietare libertà
di partecipazioni ad iniziative di cultura politica nel più ampio senso
della polis greca, come se il magistrato fosse un cittadino di
seconda serie o un estraneo all’assetto socio-economico dello Stato. Non
basta. L’obbligatorietà dell’azione disciplinare, oltre ad avere un impatto
preoccupante per ogni magistrato cui si riferisca il facile e infondato
esposto di un qualunque scontento per la sorte della propria causa,
determina una vera e propria invasione cartacea della Procura generale,
anche per effetto del dovere gravante sui Capi degli uffici di comunicare
qualunque notizia avente risvolti disciplinari: questo dovere e il
prevedibile rischio di una incontrollata moltiplicazione degli esposti
determinerebbero, in breve tempo, l’intasamento della Procura generale, un
faticosissimo e spesso inutile lavoro e il definitivo blocco, con la
conseguente paralisi della sezione disciplinare perché, mancando il
necessario contrappeso di una archiviazione presso quell’ufficio, dovrebbe
essere il giudice consiliare a gestire l’ enorme flusso di richieste sia di
procedure attive sia delle tante archiviazioni. Insomma, laddove si voleva
essere più rigorosi e severi con la magistratura, in realtà si è messo in
piedi un sistema che rende impraticabile, nei ridotti termini decisionali
recati dalla riforma, anche quelle sacrosante reazioni disciplinari che
qualche magistrato merita.
Il decreto n. 109 va dunque rivisto in molte sue parti, potendosi anche
considerare l’ipotesi di rendere certo il termine di decadenza dell’azione
disciplinare, ancorandolo alla data del fatto.
Le
iniziative sul processo civile
Nella
materia del diritto processuale civile va dedicata particolare attenzione a
tutte le misure idonee ad incidere sulla durata dei procedimenti. Misure che
non devono risolversi soltanto in interventi normativi di riforma, giacchè
il tumultuoso incedere degli interventi del legislatore può essere, a sua
volta, causa di crisi del sistema. Priorità è – come si è detto - quella di
riorganizzare per rendere razionale il “processo”, creando filtri
precontenziosi preliminari o di fase, eliminando quelle inutili
complicazioni non funzionali alla realizzazione di un “giusto processo” che
impediscono la valorizzazione del principio di lealtà processuale, vera
chiave di volta di tutti gli impianti processuali delle democrazie
occidentali.
Proprio sul piano dell’organizzazione, nella prospettiva che nel mondo
anglosassone viene definita case management, gli interventi potranno
essere di sicuro rilievo. Ormai la situazione è tale da imporre un energico
meccanismo secondo cui il grande numero di processi sopravvenienti negli
uffici giudiziari non può essere assegnato alle sezioni od ai singoli
magistrati senza una fase di preventiva selezione allorché il fascicolo
perviene all’ufficio: possono istituirsi presso gli uffici giudiziari,
soprattutto presso quelli di maggiori dimensioni, strutture filtro
con il compito di individuare cause seriali oppure motivi di manifesta
inammissibilità o questioni di diritto analoghe.
Si tratta di un’opera particolarmente complessa e delicata che dovrà essere
preceduta da un’intesa fra tutte le realtà professionali coinvolte, senza
escludere che il nuovo assetto possa sperimentarsi presso uffici giudiziari
di eccellenza, utilizzando, fra l’altro, il lavoro che la Rete
Europea del Consigli della giustizia ha istituito per l’analisi del tema
nelle giurisdizioni degli stati membri dell’Unione. Un simile intervento
deve, poi, essere accompagnato dalla creazione, da lungo tempo auspicata,
dell’ufficio del giudice, concepito come una struttura di supporto
all’attività giudiziaria, e composto, oltre che dal personale
amministrativo, da professionalità esterne derivanti dal mondo universitario
e post universitario nel contesto della formazione pratica finalizzata alle
professioni legali. Sempre in questo quadro di interventi deve considerarsi
l’istituzione di una struttura definibile “ufficio per il processo” che può
meglio realizzare l’ufficio del giudice. Si tratta di un progetto di lavoro
concordato e condiviso dai protagonisti dell’azione giudiziaria che sulla
base delle tabelle organizzative degli uffici si avvalga di un polo
statistico decentrato per l’analisi dei flussi e dei tempi di esaurimento
del contenzioso, coadiuvato da una conferenza dei presidenti di sezione e
della dirigenza organizzativa.
Tale modello di programma, già contenuto in nuce nell’ultima
normativa secondaria emanata dal Consiglio superiore della magistratura, va
rafforzato con il supporto delle strutture del Ministero deputate
all’organizzazione.
Sul piano più strettamente legislativo, occorre rivedere, con notevole
parsimonia, quegli aspetti della disciplina che costituiscono inutili
complicazioni le quali incidono sulla celerità del procedimento e creano
dissidi interpretativi; taluni di questi sono stati introdotti negli ultimi
tempi senza calibrare l’aggravio processuale e senza soddisfare effettive
esigenze di tutela delle parti. Si tratta di contemperare gli interessi di
soggetti processuali e della difesa tecnica con l’interesse primario della
risoluzione dei conflitti in tempi ragionevoli come il cittadino si attende.
Il giudice, terzo e garante per tutte le parti, deve essere maggiormente
dotato di poteri discrezionali che possano indirizzare il processo verso
binari i quali assicurino il suo ordinamento e leale svolgimento.
Alcune delle scelte di politica legislativa adottate nella precedente
Legislatura possono condividersi ed anzi sono apprezzabili, come l’opzione
verso il concordato piuttosto che verso il fallimento tout court,
come la tutela dell’impresa familiare e via dicendo, ma non sono state
idoneamente realizzate, con il pericolo di effetti perversi tanto da
suscitare critiche nel mondo forense e in quello accademico. Perciò ho
incaricato l’Ufficio Legislativo del Ministero di operare, con cautela e
parsimonia, un appropriato censimento delle norme da rivedere per meglio
realizzare le scelte condivisibili, effettuate nella precedente Legislatura.
Gli
interventi sul processo penale
Anche il
processo penale necessita di interventi volti a garantire il rispetto del
canone costituzionale della durata ragionevole; gli interventi possono
riguardare la sospensione della prescrizione in caso di sentenza di condanna
per evitare impugnazioni proposte a solo scopo dilatorio, l’abolizione del
deposito degli atti previsto dall’art. 415 bis del codice di rito per i
processi in cui è prevista l’udienza preliminare essendosi tale udienza
strutturata in modo diverso secondo la riforma, la modifica del processo
contumaciale, salvo il diritto al silenzio dell’imputato. Queste proposte
che, unitamente ad una ragionevole razionalizzazione del regime delle
nullità da tutti riconosciuto eccessivo, e del recupero degli atti per fasi
di processo, possono conseguire un forte risparmio di tempi e risorse, senza
comprimere le garanzie per l’indagato e per l’imputato, ed anzi rafforzando
i diritti dei soggetti coinvolti. A tali interventi è mia intenzione
abbinare una limitata riforma delle impugnazioni nel processo penale, in
modo da rendere il sistema meglio ispirato, in ogni stato e grado, al
principio del contraddittorio e dell’effettiva parità delle parti.
Le
intercettazioni
Ritengo
improcrastinabile affrontare un intervento normativo in materia di
intercettazioni telefoniche, tale da rafforzare gli aspetti di garanzia
individuale dei soggetti coinvolti in uno strumento probatorio molto
invasivo.
E’ vero che nell'ambito delle indagini preliminari le ipotesi di reato in
fase di accertamento implicano spesso l’acquisizione di circostanze ed
episodi per i quali, su un piano generale, viene coinvolto l'esercizio
legittimo del diritto di cronaca; va considerata tuttavia, con grande
attenzione, la necessità di assicurare un'adeguata tutela dei diritti di
persone coinvolte dalla possibile pubblicazione pressoché integrale di
innumerevoli brani di conversazioni telefoniche, semmai intercorse con terzi
estranei ai fatti o che non risultino indagati.
L’obbiettivo è quello di contemperare l’efficienza di un efficace mezzo di
ricerca della prova correlata allo sviluppo tecnologico e delle
comunicazioni con la tutela della riservatezza, non soltanto sotto il
profilo della repressione del comportamento illecito dei soggetti preposti
all’utilizzazione del mezzo.
L’impatto delle misure normative ed amministrative allo studio è di grande
rilievo se si considera che verrà ad incidere su un fenomeno che ha
riguardato, nel solo 2005, 131.200 richieste, 178.154 decreti emessi e, per
la sola telefonia voce, 57.565 utenze e 89.154 punti di intercettazione. Il
fenomeno va dunque affrontato avendo la consapevolezza che le risorse
economiche impegnate sono rilevantissime: nell’anno 2005 i costi per fatture
emesse per intercettazioni ammontano ad euro 53.088.525,84, per
l’acquisizione di tabulati ad euro 20.551.599,10, per il solo noleggio di
apparati ad euro 223.706.551,78. La spesa che grava sul bilancio dello Stato
ammonta, quindi, ad euro 307.346.676,72. L’intervento può esplicarsi su un
duplice versante: su quello legislativo, attraverso modifiche che
introducano adeguate sanzioni pecuniarie a carico di testate giornalistiche
che illegittimamente pubblichino documenti coperti dal segreto di indagine o
comunque dal segreto d’ufficio; sul versante amministrativo, dando
attuazione alle norme del D.lgs n. 196 del 2003, contenente il codice per la
privacy, in sintonia con le iniziative già assunte, per la gestione della
telefonia fissa e mobile, dal Garante per la protezione dei dati personali.
La questione è particolarmente rilevante, se si considera che mentre le
società di gestione di telefonia devono approntare misure tecnologiche
adeguate per garantire la privacy della persone coinvolte da
intercettazione, secondo le prescrizioni del codice e del garante, gli
uffici giudiziari sono al momento carenti di controlli di sicurezza. Basti
pensare alla conservazione materiale dei fascicoli, ai mezzi di trasmissione
dei documenti, alla sicurezza dei sistemi informatici adottati dagli uffici,
sicchè i dati contenuti nei fascicoli possono risultare, a loro volta,
“intercettabili”, in alcuni casi agevolmente.
Nessuno mette in discussione le intercettazioni quale mezzo indispensabile
per le attività di indagine finalizzate alla prova dei reati.
Nessuno ipotizza museruole legislative per mitigare o infrenare il diritto
di cronaca, ma bisogna convenire che, allo stato, risultano spesso lesi la
dignità della persona ed il doveroso rispetto della persona, valori questi
che non solo appartengono al patrimonio etico della nostra società, ma sono
anche costituzionalmente garantiti. Pertanto non si può penetrare nella
sfera di valori costituzionali promossi e protetti attraverso incursioni
mediatiche.
Tutto ciò comporta responsabilità di Governo e Parlamento e ritengo che solo
dall’azione concorde del legislatore e dell’esecutivo può nascere una nuova
disciplina. I modi per arrivarci li scelga il Parlamento. Come legislatori,
però, non possiamo accontentarci della fenomenologia delle deviazioni
giuridiche, non possiamo limitarci a constatare i fatti.
Dobbiamo disciplinarli attraverso la critica ed attraverso interventi
diretti a colmare le lacune. Abbiamo fede nel progresso giuridico, anche se
comprendiamo che la legge non basta di per sé a migliorare l’uomo, non crea
un costume ma lo presuppone. Ormai la questione di quanto esula dai
contenuti delle intercettazioni, essenziali ai fini processuali, è diventata
quasi questione democratica, perché quando le deviazioni diventano prassi
esse possono diventare una clava per la lotta politica.
Che i partiti, poi, debbano fare ogni sforzo per essere come i cittadini ed
i loro elettori vorrebbero è cosa diversa dal linciaggio mediatico che tocca
quanti marginalmente, ma non penalmente, entrano nel circuito delle
intercettazioni.
Lotta al terrorismo
Altro
punto che considero nevralgico per l’assetto democratico è quello del
terrorismo, fenomeno che deve essere fronteggiato anche con l’impegno del
mio Ministero, al fine di assecondare una strategia di lotta con pari
determinazione e impegno insieme agli altri Dicasteri interessati,pur nel
rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali.
Nonostante i progressi realizzati a livello dell’Unione Europea nella lotta
contro il terrorismo, molto resta ancora da fare. E’ necessario procedere ad
un monitoraggio del fenomeno del terrorismo internazionale nell’ambito del
nostro territorio, idoneo a sviluppare metodologie e tecniche di indagini
dirette alla prevenzione del fenomeno, coordinandone i dati anche attraverso
l’uso di una banca centralizzata o coordinata a livello nazionale.
Va nel contempo rafforzata la cooperazione e lo scambio reciproco di
informazioni con le Autorità Europee, anche ai fini dell’applicazione della
decisione 2005/671/GAI del Consiglio di Europa del settembre 2005, così come
è necessario un immediato intervento diretto a regolamentare
l’informatizzazione del materiale di indagine per favorire lo scambio
diretto di notizie ex art. 371 bis del codice tra i diversi uffici.
La disponibilità di un patrimonio informativo in ambito nazionale non
costituisce soltanto l’idoneo veicolo di collegamento fra indagini ma
realizza un valore aggiunto per gli esiti che possono derivare dal
complessivo materiale investigativo. Occorre, in definitiva, un’attività di
direzione e coordinamento tra tutti gli uffici distrettuali, e tra essi e le
strutture inquirenti di altri Stati.
La riforma del codice penale
Per
quanto riguarda il diritto penale sostanziale una delle prioritA' é quella
di dare finalmente al Paese un nuovo codice che sostituisca quello vigente.
Malgrado i numerosi interventi della Consulta e talune modifiche
legislative, talvolta frammentarie e disorganiche, l’impianto codicistico
attuale ancora risente del periodo storico in cui fu approvato. E'
sufficiente, del resto, rileggere le audizioni in Commissione giustizia dei
ministri che si sono succeduti nelle ultime legislature, per averne la
conferma;in realtà la riforma del codice penale é stata ritenuta una
prioritA' da tutti i Guardasigilli che mi hanno preceduto, trovando sul
punto piena condivisione dei gruppi parlamentari. Ampio e approfondito é
stato il lavoro che si é concretizzato nei diversi progetti predisposti
dalle Commissioni ministeriali presiedute, di volta in volta, dal prof.
Pagliaro (1991), dal prof Grosso (XIII legislatura) , dal dr. Nordio (XIV
legislatura), alle quali si deve aggiungere quella parlamentare istituita
dal Senato nella XII legislatura, progetti recanti tutti una riforma
complessiva del sistema penale e pervenuti a soluzioni in gran parte
convergenti. Ebbene, le linee guida del nuovo codice potranno tenere conto
dei lavori delle precedenti Commissioni ministeriali con l'obiettivo di
inviare alle Camere una legge delega in tempi ragionevoli, nella certezza
che sul tema vi sarA' un confronto costruttivo che coinvolgerà le
Commissioni giustizia e l’intero Parlamento. Il nuovo codice dovrà dare
piena attuazione ai principi di legalitA', tassatività e colpevolezza; dovrà
essere riaffermato e reso effettivo il principio di personalità della
responsabilità penale; dovrá prevedere un' ampia depenalizzazione delle
figure contravvenzionali, nell'ottica di un diritto penale minimo ma
efficace. Uscendo dalla logica per cui le uniche sanzioni penali sono la
reclusione, l'arresto e/o le pene pecuniarie, occorre proporre soluzioni
innovative rispetto al sistema attuale per numerosi reati di minor allarme
sociale si dovrá prevedere un complesso di pene diverse dalla detenzione in
carcere, come la detenzione domiciliare e la permanenza domiciliare (oggi
prevista per alcuni reati di competenza del giudice di pace), il lavoro di
pubblica utilitá e le attivitá finalizzate al risarcimento del danno ovvero
a elidere o ad attenuare le conseguenze dannose, le misure interdittive o
sospensive (da pubblici uffici, da una professione o da un'attivitá di
impresa, da licenze, concessioni o autorizzazioni amministrative), le misure
prescrittive (il divieto o la limitazione d'accesso o di permanenza in
determinati luoghi, la diffida dall'avvicinare determinate persone,
l’affidamento al servizio sociale con specifiche prescrizioni) nonché le
pene ablative come la confisca. Dovranno inoltre essere incentivate le
condotte di riparazione dell'offesa e di risarcimento del danno, da
considerarsi non solo quali circostanze attenuanti ma, per alcuni specifici
reati, anche quale causa di non punibilitá, il tutto nell'ottica di rendere
effettiva la funzione rieducativa della pena. D’altronde è di comune
esperienza che l'attuale sistema sanzionatorio, oltre a rendere incerta
l'esecuzione delle pene, si sia dimostrato inefficace anche rispetto alla
funzione preventiva di deterrenza. La necessaria offensivitá del fatto é un
connotato presente in tutti i recenti progetti riformatori e in molti
disegni di legge presentati nelle scorse legislature, perciò la nuova
progettazione dovrà recepire questo valore assicurando la punibilità delle
solo condotte realmente offensive dell'interesse protetto o del bene
giuridico tutelato. Inoltre, si dovrà tener conto dei lavori delle
Commissioni giustizia di Camera e Senato che, nelle scorse Legislature,
hanno elaborato testi su istituti come la "messa in prova" che ha già dato
risultati positivi nel processo minorile e che, con le adeguate modifiche,
era stato previsto anche per i maggiorenni in un testo approvato nella
scorsa Legislatura della Commissione di una sola Camera. Ritengo che sia
anche necessaria una più accurata tipizzazione delle condotte nel concorso
di persone nel reato, finalizzata a dare al giudice la possibilità di
differenziarle rispetto all'evento illecito. L'obiettivo non é solo quello
di dare al Paese un codice penale moderno e aderente ai principi
costituzionali, ma anche di creare le premesse di un sistema penale che
porti a una significativa diminuzione dell’immunità da prescrizione.
La situazione penitenziaria
Quanto
al sistema penitenziario un particolare impegno deve essere finalizzato a
trovare mezzi e risorse, materiali e professionali, idonee non soltanto a
porre rimedio alla drammatica situazione di sovraffollamento delle carceri,
ma anche a rendere effettiva la differenziazione delle condizioni di
detenzione fra detenuti in attesa di giudizio e condannati in stato di
esecuzione della pena. Occorre potenziare le offerte trattamentali ai
detenuti e le stesse misure alternative alla detenzione, così da rendere più
facile il reinserimento sociale, la riduzione del fenomeno della recidiva e
la crescita dei livelli di sicurezza per i cittadini. Negli ultimi quindici
anni le misure alternative alla detenzione sono significativamente
aumentate, eppure, nella considerazione diffusa, sembra che non esistano,
oppure che non siano vere e proprie pene. Tutto ciò, ovviamente, necessita
di investimenti e risorse, non solo delle amministrazioni centrali dello
Stato, e richiede investimenti sulle professionalità interne
all’Amministrazione penitenziaria, da quelle amministrative e trattamentali
a quelle della sicurezza, che con grande spirito di abnegazione e senso di
responsabilità hanno fatto fronte (e stanno ancora oggi facendo fronte) a un
carico di lavoro mai affrontato prima, con mezzi insufficienti già per
l’ordinario. A questo proposito si impone come essenziale qualificare e
razionalizzare le funzioni e l’organico della polizia penitenziaria.
Ma ciò richiede il concorso di altre amministrazioni, cioé delle Regioni e
degli enti locali, affinché possa realizzarsi la programmazione di tutte le
risorse volte al perseguimento del precetto costituzionale del reinserimento
dei detenuti attraverso politiche congiunte dell’istruzione, della
formazione, dell’orientamento e dell’inserimento lavorativo e del sostegno
sociale.
In questo quadro, grande considerazione verrà data all’attività del
volontariato penitenziario e al possibile contributo che può venire sia
dalla cooperazione sociale che dal mondo imprenditoriale. Esemplare della
sinergia indispensabile con le Regioni e gli enti locali è l’annosa
questione dell’offerta sanitaria rivolta ai detenuti, che necessita
finalmente di una organica sistemazione; e, ancora, l’irrisolto problema
della detenzione delle madri di figli di età inferiore ai tre anni, e quindi
di quelle bambine e di quei bambini che, nei fatti, risultano reclusi. Nella
XIII legislatura, il Parlamento ebbe la sensibilità di approvare con ampio
consenso una legge finalizzata alla promozione di misure alternative alla
detenzione per le madri dei bambini più piccoli, ma l’esperienza e il tempo
trascorso ci dicono che diversi ostacoli, anche di ordine materiale,
impediscono la sua piena attuazione: mi riferisco all’assenza di strutture
di accoglienza sul territorio, che facilitino la concessione delle misure
alternative alla detenzione; il Parlamento valuterà, con la fattiva
collaborazione del Governo, se e in che misura sia possibile modificare le
norme che impediscono la concessione di tali misure per fatti di minore
allarme sociale. Ma sono, tuttavia, certo che è possibile, su questo
terreno, fare qualche passo ulteriore, fino a promuovere – di concerto con
gli enti locali interessati – una rete di strutture capaci di far fronte a
quelle necessità di accoglienza per le madri con bambini nonché per quegli
adulti che, in grave o gravissimo stato di salute, siano dichiarati
“incompatibili” col carcere, ma che nel carcere restano perché non esistono
strutture di accoglienza esterne. In questa prospettiva va, altresì,
favorita la cura delle tossicodipendenze al di fuori delle strutture
detentive. Infine, quanto alla effettività dei diritti delle persone
detenute, va assicurato l’impegno a dare piena attuazione al nuovo
regolamento di esecuzione dell’ordinamento penitenziario, investendo nella
ristrutturazione degli istituti penitenziari le risorse economiche
necessarie. Traendo spunto da esperienze già collaudate in alcune Regioni,
si può pensare all’istituzione della figura di un garante dei diritti delle
persone private della libertà personale, intendendosi per tali le persone
recluse o trattenute negli istituti penitenziari, negli ospedali
psichiatrici e giudiziari, negli istituti penali per minori, nei centri di
permanenza temporanea per stranieri, nelle caserme dei carabinieri, della
guardia di finanza e nei commissariati di pubblica sicurezza. Al garante
dovrà attribuirsi il delicato ruolo di mediazione finalizzata al
riconoscimenti dei diritti dei reclusi.
Su un piano più generale vanno, inoltre, considerati gli inconvenienti che
discendono da alcune normative che comportano transiti di breve periodo
nelle strutture penitenziarie e che coinvolgono più frequentemente soggetti
di spessore delinquenziale non allarmante, provenienti dall’area del disagio
sociale e della povertà. Intendo riferirmi:
-
alla recente legge sulla immigrazione c.d.
Bossi-Fini. Nel solo anno 2005 le ipotesi di reato introdotte dalla
stessa hanno provocato 13.654 ingressi in carcere, per 11.519 è stata
contestata la violazione delle disposizioni sull’espulsione, quasi
sempre come unico reato;
-
alla recente legge sulla tossicodipendenza,
che ha modificato – tra le altre - la norma relativa al possesso
illecito di stupefacenti ( art. 73 dpr n. 309/1990), introducendo un
criterio quantitativo tabellare, il cui superamento inevitabilmente
comporta la possibilità dell’arresto da parte degli organi di polizia,
pur in presenza di situazioni che non necessitino del rimedio
custodialistico;
-
alla legge c.d. ex Cirielli sulla recidiva,
che pur non venendo ad incidere come le altre sulla detenzione
cautelare, finisce per provocare carcerazioni a carico di soggetti che
hanno già subito condanne penali, impedendo al giudice valutazioni
discrezionali intese ad adeguare la pena alla reale entità del fatto, ed
all’eventuale percorso di rieducazione dell’imputato.
L’amnistia
“Un
segno di clemenza verso i carcerati mediante una riduzione della pena
costituirebbe una chiara manifestazione di sensibilità, che non mancherebbe
di stimolarne l’impegno di personale recupero, in vista di un positivo
reinserimento nella società”; così Giovanni Paolo II. Le ragioni della
politica hanno spinto purtroppo altrove, mentre il rimbalzare di ipotesi,
proposte, chiusure provoca nella concretezza della quotidianità carceraria
effetti di particolare gravità, infliggendo una quota aggiuntiva di
malessere e di sofferenza. Capisco anche il timore delle forze politiche di
apparire poco efficaci nell’azione repressiva. Un giusto equilibrio tra
queste due esigenze è da ricercare, per consentire al Parlamento di assumere
una decisione. Sono ben consapevole che la concessione di misure di clemenza
deve abbinarsi a misure di sistema, ed è per questo che primario interesse
rivestono gli interventi, anche ordinamentali, volti a garantire il rispetto
del canone costituzionale della ragionevole durata dei processi, già
indicati come assoluta priorità. La prospettiva di clemenza che intendo
segnalare va intesa solo come stimolo alle forze politiche per maturare
elementi di serenità, poiché, ove questo sforzo si realizzasse in maniera
congiunta, il merito non sarebbe del solo Governo ma di tutto il Parlamento.
Ho sempre inteso così. So che questa è materia del parlamento non
surrogabile e la cui titolarità non ho mai messo in discussione, auspicando
solo una decisione da convenire, se si vorrà, in tempi brevi, essendo ormai
distante il tempo dell’ultima amnistia.
Non ho mai pensato, dunque, a gesti solitari, peraltro fuori da ogni logica
in cui si pone il legislatore, ma nessuno scambi causa per effetto riguardo
a miei presunti azzardi lessicali, che qualcuno ha ritenuto improvvidi:
l’invocazione a far qualcosa viene non solo dalla condizione drammatica
delle carceri, ma da tante sollecitazioni parlamentari, non ultime quelle
emerse in occasione della marcia del Natale ultimo scorso, cui presero parte
autorevoli esponenti di questo Parlamento. Non può non venire in rilevo, a
questo proposito, la situazione di sovraffollamento delle carceri, che rende
difficile assicurare dignitose condizioni di vita per i detenuti. Alla data
del 26 maggio 2006, a fronte di una recettività regolamentare di 45.490
posti, risultano presenti 61.353. Nell’ambito dei 16 provveditorati
regionali dell’amministrazione penitenziaria, quelli che presentano il
maggior sovraffollamento sono ubicati nelle regioni Lombardia, Veneto e
Campania, che registrano 8.906, 2.844 e 7.868 detenuti a fronte di una
capienza, rispettivamente, di 5.650, 1.782 e 5.247 unità. Nell’ultimo anno
hanno fatto ingresso nelle carceri italiane circa 90.000 detenuti, mentre
88.000 ne sono usciti. La differenza tra i flussi da conto dell’effettiva
crescita annua della popolazione carceraria, che negli ultimi anni si è
aggirata costantemente intorno alle 2000 unità. Oltre ai dati aggregati
totali, va considerato qualche elemento statistico più preciso, ai fini di
una maggiore comprensione del panorama sociale carcerario. Nel primo
semestre del 2005 risulta che la maggioranza dei detenuti stranieri è
costituita da semplici irregolari presenti nel nostro Paese. La popolazione
carceraria risulta per la grande maggioranza costituita da persone di sesso
maschile, 95,2 % del totale e rivela una concentrazione nelle fasce di età
intermedie (il 35,2 % del totale ha un età compresa tra i 25 e i 34 anni; il
30,9 ha un età che va dai 35 ai 44 anni). Una percentuale molto
significativa dei detenuti, inoltre, ha un livello di istruzione medio
basso: il 65,4 % possiede al massimo il diploma di scuola media inferiore:
tra questi l’1,5 % è analfabeta, il 28,2 % ha conseguito la licenza
elementare ed il 36,9 % ha finito la terza media. Il dato statistico diviene
ancora più drammatico se confrontato con la relativa situazione di
sofferenza dei capitoli di bilancio assegnati alle strutture penitenziarie.
E’ del tutto evidente che il livello di guardia raggiunto dal
sovraffollamento penitenziario non solo ha ridotto al lumicino le risorse
umane e finanziarie destinate ad una efficace politica per il reinserimento
dei condannati, ma costituisce un rischio per lo stesso principio che vieta
i “trattamenti contrari al senso di umanità”. Un provvedimento deflattivo
può consentire, da subito, di salvaguardare i diritti fondamentali dei
detenuti e di tutte le persone che in carcere operano, in primo luogo gli
agenti di polizia penitenziaria, e – non ultimo – l’interesse alla
credibilità del nostro Paese e dell’amministrazione penitenziaria talvolta
oggetto di critiche in sede europea ed internazionale. La cifra complessiva
degli scarcerati per effetto dei provvedimenti di clemenza del 1990/91 fu di
12.237 detenuti, dei quali 10.311 per indulto (concesso per due anni) e
1.926 per amnistia(concessa per reati puniti con pena fino a quattro anni).
Nella situazione attuale, l’applicazione dell’indulto comporterebbe,
nell’immediato, la scarcerazione di circa 10.481 unità (pari a circa 1/6
della popolazione carceraria), se concesso nella misura massima di due anni,
ovvero di 12.756 unità, se concesso nella misura massima di tre anni.
Comporterebbe, inoltre, ulteriori effetti negli anni a venire, poiché
avrebbe efficacia anche sulle pene in espiazione più lunghe, riducendone
comunque la durata, nonché sulle condanne future per i fatti commessi prima
del provvedimento. Quanto all’amnistia, è prevedibile, sulla scorta di
quanto accaduto in passato, un effetto additivo di scarcerazioni, rispetto
all’indulto, pari a circa il 20 %. A tale effetto si aggiungerebbe quello
non trascurabile di deflazione dei procedimenti e di conseguente riduzione
del carico di lavoro degli uffici giudiziari.
La giustizia minorile
Per
quanto riguarda la giustizia minorile, appare necessario promuovere quelle
azioni volte alla ricerca e al potenziamento del volontariato e di
collaborazioni interistituzionali a livello centrale e territoriale con le
pubbliche amministrazioni statali e locali. E’ indispensabile l’opera di
diffusione di una cultura della legalità e della connessa educazione alla
cittadinanza attiva per rivitalizzare nelle giovani generazioni il senso
delle istituzioni e dello Stato, per condividere le reciprocità di culture
diverse ed il riconoscimento dell’altro come valore, anche se proveniente da
Paese diverso. Tutte le situazioni di patologia socio-minorile vanno
affrontate con azioni volte al rafforzamento della tutela e dei diritti dei
medesimi, affinché non vengano più considerati destinatari di interventi, ma
titolari e portatori di diritti soggettivi, con particolare attenzione verso
programmi globali di inclusione sociale per i ragazzi che entrano nel
circuito penale. Il dicastero procederà ad intese con il Ministero
dell’Istruzione finalizzate a rafforzare le reti di collaborazioni centrali
e periferiche al fine di elaborare progettualità congiunte per garantire il
diritto-dovere allo studio anche ai minori sottoposti a provvedimenti
dell’autorità giudiziaria minorile, con tempi e modalità adeguati alle loro
caratteristiche e condizioni. Devono, inoltre, essere assecondati accordi
con il Ministero della salute per la definizione di adeguate modalità di
intervento e protocolli operativi nei confronti dei minorenni sottoposti a
provvedimento penale, con particolare riferimento alla tossicodipendenza e
al disagio psichico. Una collaborazione con il Ministero della solidarietà
sociale sul crescente fenomeno della prostituzione minorile, rivolta
all’analisi di proficui percorsi riparativi, dovrà essere accompagnata dalla
prosecuzione delle attività con la Direzione centrale anticrimine del
Ministero dell’interno, per una collaborazione sempre più attiva e
propositiva rivolta alla individuazione di ulteriori percorsi di tutela dei
minori sulle tematiche dell’abuso sessuale, dello sfruttamento da parte
della criminalità organizzata e della sottrazione internazionale.
Il versante europeo
Poche ma
decise parole sul versante europeo. Voglio sottolineare che la cooperazione
giudiziaria deve contribuire ad allargare e rendere effettivo lo spazio di
libertà, sicurezza e giustizia, che costituisce l’orizzonte di riferimento
della politica europea in materia di giustizia.
Particolarmente rilevante sarà tutta l’attività legata all’attuazione del
Programma Pluriennale, cioè il cosiddetto Programma dell’Aja o Tampere II,
ove sono stati individuati gli obiettivi da perseguire nel settore della
Libertà, Sicurezza e Giustizia fino al 2009. Quindi deve essere potenziata
la cooperazione in materia penale, rafforzando la fiducia reciproca e
sviluppando gradualmente una cultura giudiziaria comune che, pur consapevole
della diversità degli ordinamenti degli Stati membri, rafforzi l'unità della
legge europea; così come occorre, al fine della piena attuazione della piena
attuazione del principio di reciproco riconoscimento, individuare un sistema
di valutazione obiettiva e imparziale dell'attuazione delle politiche
europee nel settore della giustizia. L'Unione Europea si è fattivamente
impegnata per avviare e sostenere reti di istituzioni e di organismi
giudiziari, quali la rete dei Consigli della magistratura, la rete europea
delle Corti supreme, la rete europea di formazione giudiziaria: a tali
iniziative il mio dicastero darà tutti i contributi operativi e
professionali. Nel contempo andrà data piena adesione – molto più di quanto
sia stato fatto sinora - sia agli strumenti normativi fondati sul mutuo
riconoscimento delle decisioni giudiziarie, tra i quali il mandato d’arresto
europeo ed il mandato europeo di ricerca delle prove, sia a quelli che
mirano all’armonizzazione delle fattispecie penali e delle sanzioni. Sono,
tuttavia, consapevole del fatto che i processi di mutuo riconoscimento delle
decisioni giudiziarie e di ravvicinamento delle legislazioni penali sono
benèfici, ma necessitano di adeguati contrappesi sul piano delle garanzie
difensive; perciò la proposta della Commissione europea, diretta ad
armonizzare, sotto questo profilo, alcuni diritti processuali negli Stati
membri, deve compiere passi in avanti. L’adozione di uno strumento normativo
integrato ed uniforme, avrebbe un enorme valore, sostanziale e simbolico, in
quanto potrebbe realizzare una sorta di “magna charta” dei diritti
processuali dell’Unione europea. D’altro canto è indispensabile adeguare
rapidamente la legislazione nazionale agli impegni assunti in ambito
europeo. Penso, ad esempio, all’attuazione della decisione quadro
2002/584/GAI relativa al mandato di arresto europeo, ed alla legge n. 69 del
2005: recentissimi casi hanno condotto a scarcerazioni facendo leva su in
applicazione di disposizioni normative che non trovano alcuna corrispondenza
nella decisione quadro né giustificazione nella giurisprudenza della Corte
europea dei diritti dell’uomo. Occorre, quindi, procedere ad una
rivisitazione dell’impianto normativo affinché si elimini qualunque
possibilità di rifiutare la consegna o disporre la scarcerazione di persone
ricercate, per gravi reati, sulla base di esclusioni consentite dalla nostra
legge ma non previste dalla normativa europea. Di primaria importanza
appare, altresì, la ratifica della Convenzione europea di assistenza
giudiziaria in materia penale firmata a Bruxelles il 29 maggio 2000,
relativamente alla quale l’Italia risulta l’unico paese dei 15 ancora
inadempiente. Parimenti, assumono rilevanza tutte le iniziative volte
all’attuazione nell’ordinamento interno degli obblighi derivanti dalle altre
decisioni quadro del Consiglio dell’Unione Europea. Basti pensare alla
decisione del 13 giugno 2003 relativa ai provvedimenti di blocco dei beni o
di sequestro probatorio ed a quella sul reciproco riconoscimento delle
sanzioni pecuniarie.
Va poi dato impulso all’attuazione di tutte le decisioni dirette al
ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia penale, fra
le quali devono segnalarsi la decisione quadro 2003/568/GAI sulla corruzione
privata e quella 2005/222/GAI relativa agli attacchi contro i sistemi di
informazione.
Di particolare importanza è anche la ratifica della Convenzione per la
Repressione degli atti di terrorismo nucleare, firmata a New York il 14
settembre 2005, che può costituire l’occasione per una organica revisione di
una materia eccezionalmente delicata, quella del contrasto al terrorismo
interno e internazionale, frammentata nella legislazione speciale ed
emergenziale di oltre un ventennio e solo parzialmente riportata in ambito
codicistico dalla riforma del 2005 (D.L. 144/2005, conv. L. 155/2005).
Infine, un sistema che voglia garantire “tutti” i cittadini, non può
prescindere dall’attuazione di norme che garantiscano la tutela delle
vittime di reato; in tal senso, appare necessario predisporre tutte le
misure necessarie a dare attuazione a quanto previsto in sede europea dalla
Decisione Quadro 15.03.2001 e dalla Direttiva comunitaria 29-4-2004 n.
2004/80/CE relativa all'indennizzo delle vittime di reato.
Deve, infine, essere data piena adesione alle politiche comunitarie idonee a
rafforzare la competitività e la trasparenza societaria, rivedendo quelle
semmai quelle parti del recente regime societario che non siano conformi a
tali regole di base.
Le
esigenze di spesa
Molte
altre cose andrebbero analizzate perché, come ho detto all’inizio, la
problematica del mondo-giustizia è ampia, articolata e piuttosto spinosa.
Voglio concludere questa esposizione – e ringrazio per la pazienza i signori
parlamentari -sottolineando un’esigenza assoluta che condiziona ogni
discorso sui mali della giustizia: quasi tutti gli interventi che ho
descritto hanno bisogno di un’adeguata provvista finanziaria, sia in taluni
settori organizzativi sia in alcune delle innovazioni legislative. Non è
possibile portare avanti l’informatica, presupposto di efficaci modelli di
organizzazione, senza i fondi necessari; non è possibile ristrutturare gli
uffici, senza neppure la carta per le fotocopie; non è possibile adeguare
nel minimo le aule e i servizi alla legge 626 per la sicurezza, senza lavori
strutturali, e potrei continuare a lungo. Purtroppo le leggi finanziarie
dell’ultimo quinquennio hanno apportato notevoli riduzioni alle spese di
funzionamento, cioè ai cosiddetti “consumi intermedi”, con tagli mediamente
superiori al 50% rispetto agli stanziamenti iniziali dell’anno 2002 e di
oltre il 40% rispetto agli analoghi stanziamenti del 2005. Si è così
determinata una grave situazione finanziaria che risulta pesantemente
ipotecata dalla mole delle spese insolute accumulatesi nel corso dei
precedenti esercizi per effetto di obbligazioni assunte e non onorate (239,9
milioni di euro, di cui 121,6 milioni per l’amministrazione giudiziaria
ordinaria, 18,3 milioni per la giustizia minorile, 100,00 milioni per
l’amministrazione penitenziaria) e non consente il regolare andamento della
gestione per l’esercizio corrente. Quanto all’amministrazione penitenziaria,
debbo sottolineare che la carenza di risorse finanziarie ha determinato una
particolare situazione di degrado delle strutture, soprattutto negli aspetti
igienico-sanitari. Nonostante gli accorgimenti adottati per ottenere
sensibili risparmi di spesa e l’avvio di un ampio processo di contenimento e
razionalizzazione delle risorse, le riduzioni apportate negli ultimi anni
sia dalle leggi finanziarie e di bilancio, sia dai cosiddetti “decreti
tagliaspese” hanno messo a dura prova la funzionalità del settore giustizia
e degli uffici, difficoltà aggravate dal venir meno di alcuni strumenti di
flessibilità del bilancio introdotti dalla legislazione primaria di spesa.
Ho già dato rigorose disposizioni a tutte le strutture del Dicastero
affinché, in proprio e con opportune direttive agli uffici giudiziari,
eliminino ogni spesa o costo non essenziale, pur sapendo quali saranno le
comprensibili reazioni degli uffici. E’ per questo che, pur non ignorando le
tante esigenze del Dicastero, mi guarderò bene – ed altrettanto faranno i
Sottosegretari – dal ricorrere alle consulenze esterne, se non assolutamente
necessarie, interrompendo così l’onerosa emorragia di denaro pubblico
registratasi in precedenza, con il conferimento di ben 51 consulenze per
l’ammontare complessivo di 899.326,80 euro. Nonostante ogni buon proposito,
mi vedo costretto in questa sede a ribadire che, per la sola gestione
corrente dell’esercizio 2006, occorreranno 154,4 milioni per
l’amministrazione giudiziaria in senso stretto, 103,5 milioni per
l’amministrazione penitenziaria, 22 milioni per la giustizia minorile, in
totale non meno di euro 279,9 milioni. Dall’insieme di questi dati emerge
con evidenza che gli uffici giudiziari sono ormai prossimi alla paralisi.
Mi spiace dover concludere con la penosa ma necessaria aridità di queste
cifre e non con più ariose considerazioni di politica istituzionale.
Ancora vi ringrazio.

Le iniziative di Antigone
a cura della Redazione
Giovedì 27 luglio 2006
ore
10-14 presso la
Camera dei Deputati - Sala del Cenacolo di Palazzo Valdina, Vicolo Valdina
3/A, si terrà il convegno, organizzato dall'Associazione Antigone e dalla
Cgil Funzione Pubblica dal titolo "Se non ora quando.
Proposte e riflessioni per una rinnovata
amministrazione penitenziaria"
Coordina:
Patrizio Gonnella
Relazioni di:
Fabrizio Rossetti e Mauro Palma
Partecipano:
Massimo Brutti, Franco Corleone,
Luigi Manconi, Graziella Mascia, Claudio Messina
Interviene
il Ministro della Giustizia On. le
Clemente Mastella
Giovedì 27 luglio
dalle
ore 19.00 nei locali della sua nuova sede nazionale dell’Associazione
Antigone, in via Principe Eugenio 31, Roma si terrà l’iniziativa "Antigone
per il MANIFESTO". Nell’ambito della serata sarà inaugurato il nuovo
Centro di documentazione sul sistema penale.
Sarà presente Gabriele Polo, Direttore del
Manifesto

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