PRESIDENZA DEL
PRESIDENTE
DELLA XII COMMISSIONE
GIUSEPPE PALUMBO
La seduta comincia
alle 14,15.
(Le Commissioni
approvano il processo verbale della seduta precedente).
Sulla pubblicità dei
lavori.
PRESIDENTE. Avverto
che, se non vi sono obiezioni, la pubblicità dei lavori
sarà assicurata anche
mediante l'attivazione dell'impianto audiovisivo a
circuito chiuso.
(Così rimane
stabilito).
Audizione dei
direttori delle case circondariali «Le Vallette» di Torino,
«Rebibbia Nuovo
complesso» di Roma e «Poggioreale» di Napoli.
PRESIDENTE. L'ordine
del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva
sulla sanità
penitenziaria, l'audizione dei direttori delle case circondariali
«Le Vallette» di
Torino, «Rebibbia Nuovo complesso» di Roma e «Poggioreale»
di Napoli.
L'indagine conoscitiva
in oggetto nasce dall'esigenza di approfondire l'attuale
situazione della
sanità penitenziaria, anche in vista dell'esame di diverse
proposte di legge in
materia. Soprattutto vi è la necessità di analizzare
i problemi sorti dopo
la fase di sperimentazione del trasferimento al Servizio
sanitario nazionale
delle funzioni di sanità penitenziaria, prima svolte
dall'amministrazione
penitenziaria, come
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disposto dal decreto
legislativo n. 230 del 1999. Da più parti sono state
rilevate numerose
difficoltà organizzative ed economiche seguite alla fase
di sperimentazione;
oggi ci occuperemo di tali aspetti, anche in funzione
di una migliore
gestione della sanità penitenziaria. Ricordo, infine, che
la sperimentazione
prevista dal decreto-legislativo n. 230 del 1999 è stata
avviata inizialmente
in Toscana, Lazio e Puglia e successivamente in Emilia-Romagna,
Campania e Molise.
Saluto i nostri ospiti
e do la parola per il suo intervento introduttivo
al dottor Buffa,
direttore della casa circondariale «Le Vallette» di Torino,
cui seguiranno gli
interventi del dottor Cantone, direttore della casa circondariale
«Rebibbia Nuovo
complesso» di Roma, e del dottor Acerra, direttore della
casa circondariale
«Poggioreale» di Napoli, ai quali ricordo che sarà gradito
anche l'ulteriore
materiale documentale che vorranno farci pervenire in
seguito.
PIETRO BUFFA,
Direttore della casa circondariale «Le Vallette» di Torino.
La regione in cui ha
sede l'istituto da me diretto, il Piemonte, non è stata
interessata dalla
sperimentazione prevista dal decreto legislativo n. 230
del 1999. L'unico
intervento che, in base alla nuova normativa, ci ha visti
coinvolti è stato il
trasferimento al Servizio sanitario nazionale delle
funzioni di assistenza
ai detenuti tossicodipendenti. Si è reso necessario
quindi un diverso
approccio a questa tematica.
A mio avviso il vero
problema è che siamo di fronte di un intervento sanitario
pubblico con una forte
connotazione aziendale, con una grande attenzione
all'organizzazione,
alle strutture ed al budget. Quindi siamo in presenza
di un'attività di tipo
ambulatoriale quando invece, per quella che è la
mia esperienza, la
sanità penitenziaria avrebbe bisogno di un approccio
orientato maggiormente
alla medicina di tipo residenziale, ossia con presidi
prolungati nel tempo,
che necessitano
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di un'attenzione
specifica al contesto penitenziario.
Pur tuttavia, sulla
base delle disposizioni della normativa suddetta, ci
siamo attrezzati per
far fronte alle nuove esigenze, anche se con notevoli
ritardi: in realtà
solamente a gennaio di quest'anno si è registrato al
riguardo un intervento
diretto, concreto. Ma se questo deve essere considerato
come il preambolo al
trasferimento completo della sanità penitenziaria al
Servizio sanitario
nazionale, allora sorgono alcuni dubbi. Questo proprio
perché il contesto
penitenziario necessita di un controllo costante, molto
forte. La salute in
carcere assume diverse dimensioni: non sono necessarie
semplicemente la cura,
la terapia e la diagnosi, vi è anche l'esigenza di
seguire la persona in
carcere per aspetti non ininfluenti nei confronti
della libertà
personale e dei rapporti con la magistratura.
CARMELO CANTONE,
Direttore della casa circondariale «Rebibbia Nuovo complesso»
di Roma. Proseguendo
sulla stessa linea delle considerazioni del dottor
Buffa, vorrei
precisare che nel settore della sanità penitenziaria si vive
una situazione
particolare. In tutti i settori dell'amministrazione dello
Stato (anche quella
penitenziaria) è necessario ragionare in termini di
riduzione delle
risorse, anche umane, e di una minor possibilità di lavoro
straordinario; in
pratica, si deve risparmiare su tutto.
Nel settore della
sanità penitenziaria (anche in quello della sanità in
generale) i problemi
sono diversi: è notorio come sia sempre più forte e
attenta la domanda di
buona sanità all'interno delle carceri. Altrettanto
nota è la risonanza di
casi di reale o supposta malasanità verificatisi
all'interno degli
istituti penitenziari (decessi negli istituti di pena
o a seguito di
ricoveri in uscita dagli stessi istituti); si rileva anche
dalla stampa la
notevole e comprensibile attenzione che tali casi sollevano
a livello nazionale.
Più in generale vi è una richiesta
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di incremento degli
standard di qualità della sanità e della cura quotidiana
dei detenuti nelle
carceri, a cui per forza di cose si deve rispondere impiegando
buone risorse.
È pur vero che da anni
si segue una politica di riduzione dell'uso di farmaci
all'interno degli
istituti; è però sufficiente pensare alla spesa sostenuta
per i farmaci
antiretrovirali destinati ai detenuti sieropositivi portatori
di HIV o per farmaci
utili alla cura di altre patologie particolari, per
comprendere quale sia
il livello di spesa necessario ora all'interno di
un istituto
penitenziario rispetto a vent'anni fa.
Cito l'esperienza di
Roma e dell'istituto «Rebibbia Nuovo complesso» che,
per
l'approvvigionamento di farmaci antiretrovirali, oggi non deve più spendere
quanto invece ha speso
sino al 2002, all'incirca oltre un miliardo di vecchie
lire; tale spesa ora,
in base al decreto legislativo n. 230 del 1999, è
a carico della regione
Lazio. Ma ciò non sposta di molto il problema: su
chiunque ricada, tale
spesa va comunque sostenuta.
Appare invece
necessario integrare quanto più possibile il servizio sanitario
penitenziario con il
Servizio sanitario nazionale. La regione Lazio non
è stata
significativamente coinvolta dalla sperimentazione di cui al decreto
legislativo n. 230 del
1999, se non per quanto attiene all'assistenza dei
soggetti
tossicodipendenti. Nel settore dell'assistenza e prevenzione delle
tossicodipendenze sono
stati compiuti passi importanti. Nel nostro territorio
le ASL competenti in
questo ambito sono protagoniste insieme a noi in uno
sforzo comune.
Se ai rappresentanti
delle ASL, in particolare dei Ser.T (ma anche del servizio
penitenziario in
generale) chiediamo quali ulteriori risorse essi possano
mettere in campo,
questi rispondono con fortissime perplessità. Un esempio
concreto sul settore
tossicodipendenze riguarda le ASL che, in questi ultimi
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anni, non hanno avuto
la possibilità di immettere valori aggiunti in termini
di risorse umane. Alle
risorse del 2000 hanno potuto sommare solo le risorse
umane che lo scorso
anno abbiamo trasferito loro in occasione del passaggio
di competenza dei
presidi per tossicodipendenze. Quindi, in funzione di
un rafforzamento
dell'attività sanitaria nel settore delle tossicodipendenze,
le ASL e i Ser.T
competenti incontrano grosse difficoltà per ottenere l'immissione
di altre risorse sia
per quanto riguarda il versante prettamente medico
(in particolare per le
crisi di astinenza) sia per quanto riguarda la gestione
psicoterapeutica,
trattamentale successiva.
Il modello che
riteniamo andrebbe auspicato per il futuro prevede una fortissima
integrazione. Si
discute ampiamente se debba essere conservata una sanità
penitenziaria
specifica, alle dirette dipendenze dell'amministrazione penitenziaria
(il classico servizio
sanitario penitenziario interno) o se, invece, tutte
le funzioni debbano
essere trasferite in toto al Servizio sanitario nazionale.
Il problema di fondo -
a mio avviso - è l'esigenza di non prescindere da
una grande interazione
tra i due servizi, sia per quanto riguarda la gestione
dei pazienti ordinari
sia per quanto riguarda i servizi specialistici.
Nell'ambito di
un'analisi svolta su tali basi è necessario differenziare
anche le varie realtà
territoriali. Ad esempio, la domanda di assistenza
sanitaria del carcere
di Gorizia (che ha 40 detenuti) è ragionevole e le
prestazioni
ambulatoriali possono essere erogate dignitosamente. Diversa
è la situazione
dell'istituto «Rebibbia Nuovo complesso» di Roma, che ospita
1.600 detenuti
appartenenti alle fasce di età più varie e dove sono presenti
un reparto per
detenuti portatori di malattie infettive ed un ambulatorio
polispecialistico.
Esempio analogo è quello dell'istituto «Regina Coeli»,
sempre di Roma. In
tali
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casi, la domanda di
prestazioni sanitarie è talmente articolata che si può
andare avanti soltanto
grazie ad una notevole interazione con i poli sanitari
esterni.
SALVATORE ACERRA,
Direttore della casa circondariale «Poggioreale» di Napoli.
Anzitutto desidero
ringraziare per questo invito che ci dà la possibilità
di esprimere il nostro
parere dinanzi alle Commissioni riunite.
I colleghi che mi
hanno preceduto hanno ampiamente illustrato il quadro
attuale relativo
all'assistenza e cura dei detenuti tossicodipendenti, ormai
acquisito in tutta
Italia. In questo ambito, il trasferimento alle ASL delle
funzioni di assistenza
e cura è avvenuto utilizzando gli stessi fondi destinati
in un primo momento al
Ministero della giustizia ed ora trasferiti al Servizio
sanitario nazionale.
Grosso modo le convenzioni sono rimaste le stesse,
medici e infermieri
sono gli stessi e il servizio è sostanzialmente identico.
Credo pertanto che su
ciò non sia necessario aggiungere altro.
Resta aperto invece il
problema dell'assistenza e cura degli altri soggetti,
oltre ai detenuti
tossicodipendenti. Va infatti precisato che i detenuti
tossicodipendenti sono
assistiti dai Ser.T solo per lo stato di tossicodipendenza
ma non per altre
patologie, per le quali interviene la sanità penitenziaria.
Anzitutto va ricordato
che in questo settore le esigenze nel corso degli
anni sono aumentate.
Sono d'accordo con l'affermazione dei colleghi: indubbiamente
le esigenze sono
aumentate per molti motivi. La prima causa è legata all'innalzamento
dello standard
sanitario esterno che, indubbiamente, si riflette anche sull'assistenza
prestata all'interno
di un istituto penitenziario. Anzi, molte volte questa
assistenza deve essere
anche più elevata; infatti, per diversi motivi, molte
patologie (vere o
presunte) pongono i medici dell'istituto in condizione
di dover
necessariamente richiedere nuovi accertamenti. Il numero di
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accertamenti maggiore
è richiesto ai detenuti che entrano per la prima volta
in un istituto
penitenziario.
Cito ora la mia
esperienza presso l'istituto «Poggioreale»; attualmente
questa casa
circondariale ha due reparti chiusi, ospita 1.900 detenuti (in
condizioni normali si
arriva anche a 2.300 o 2.500 soggetti detenuti) e
comprende un centro
clinico funzionante. È utile ora analizzare l'andamento
delle assegnazioni di
fondi erogati negli ultimi 10 anni. Nel 1994 abbiamo
ricevuto il
corrispondente in lire di circa 3 milioni 141 mila euro, nel
2004 abbiamo ottenuto
2 milioni 395 mila euro. Sostanzialmente i fondi a
disposizione
dell'amministrazione penitenziaria diminuiscono, a fronte di
esigenze che
aumentano. Fino ad ora si è intervenuti con tagli che non hanno
compromesso lo
standard assistenziale dei detenuti. Andare oltre però non
è possibile; e tra
l'altro non sarebbe neanche conveniente per un motivo
molto semplice: in
effetti la riduzione degli stanziamenti comporta, per
un istituto con un
centro clinico come «Poggioreale», la diminuzione, o
quasi l'azzeramento
della possibilità di adeguare le proprie attrezzature.
Far divenire obsolete
delle attrezzature di un istituto penitenziario comporta
un aumento delle spese
sia per il mantenimento della loro efficienza sia
per i conseguenti
aggravi di spesa dovuti all'impossibilità, molte volte,
di svolgere gli
accertamenti all'interno internamente e per i quali è necessario
ricorrere a strutture
esterne. Ma tali spese non rientrano tanto nel capitolo
sanità, quanto
piuttosto in quello relativo a missioni ed impiego di personale
di polizia
penitenziaria. In effetti si verifica solo uno spostamento della
spesa, con indubbie
difficoltà di sicurezza, anche per i cittadini che si
trovano nelle
strutture sanitarie.
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Infine, un ultimo
accenno alla sperimentazione, che in Campania è stata
avviata un mese prima
del termine per cui era prevista la sua conclusione!
Si è proceduto alla
fornitura di farmaci e di agenti reattivi, consegnati
fino al mese di marzo
di quest'anno, dopodiché la consegna è stata sospesa.
Pertanto attualmente
dobbiamo provvedere anche all'acquisto di questi prodotti!
Si creano così nelle
varie regioni e città situazioni differenti. Vi sono
realtà nelle quali le
regioni contribuiscono al budget sanitario degli istituti
penitenziari e regioni
dove le ASL non contribuiscono affatto, creando ulteriori
disparità di
trattamento.
PRESIDENTE. Ho
particolarmente apprezzato gli interventi introduttivi dei
nostri ospiti. Il
problema sollevato dal dottor Buffa, inerente la caratteristica
residenziale della
sanità penitenziaria, meriterebbe un approfondimento.
La maggioranza delle
prestazioni riguarda ricoveri ospedalieri o piuttosto
di natura
ambulatoriale?
PIETRO BUFFA,
Direttore della casa circondariale «Le Vallette» di Torino.
Riconosco che in
effetti si tratta di un problema di terminologia che si
riscontra anche quando
ne discutiamo con il direttore generale o il direttore
sanitario di
un'azienda sanitaria. Il paziente ordinario normalmente si
reca in un presidio
sanitario per usufruire di una prestazione. Nel nostro
caso non è così: di
norma un detenuto richiede prestazioni di qualunque
genere e lo fa
costantemente (questa condizione particolare di angoscia
viene descritta anche
in alcuni testi).
Attualmente il nostro
sistema è strutturato in maniera tale da consentirci
di fronteggiare queste
necessità. Il mio timore, però, è che il servizio
venga articolato
diversamente e non vi saranno più punti di contatto con
l'istituto
penitenziario
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(questi elementi si
rilevano maggiormente negli istituti di grandi dimensioni).
Vi sono casi che
necessitano di un ricovero di tipo ospedaliero, che può
avvenire sia
internamente all'istituto sia in reparti detentivi esterni.
L'altra parte, la
stragrande maggioranza degli interventi sanitari, ha caratteristiche
di altro genere e va
posta in relazione alla presenza all'interno di strutture
chiuse di persone che
già presentano un certo livello di mobilità. Non possiamo
dimenticare che la
popolazione media dei detenuti è sicuramente più predisposta
alle patologie; questo
sia per la storia personale degli stessi detenuti
sia per diversi altri
motivi, non ultima la coabitazione non sempre facile
all'interno degli
istituti. Oltre a tali aspetti, prettamente clinici, organici,
vi è poi un elemento
di natura psicogena, ormai accertato.
Proseguendo su questa
linea, uno dei maggiori problemi che incontriamo è
quello del
reclutamento del personale sanitario (medici e infermieri). Attualmente
le tariffe non sono
appetibili, né per un infermiere né per un medico; il
che comporta
difficoltà di vario genere, tra le quali la mancanza di copertura
del servizio. Il mio
timore è che, invece, un'azienda abituata a seguire
criteri manageriali e
ad impostare un servizio soprattutto in ragione del
budget possa
incontrare dei problemi ad affrontare un quadro di questo genere.
Ad esempio, quanto
meno nell'area di Torino - ma credo anche in altre situazioni
- in estate gli
ospedali accorpano dei reparti proprio per la mancanza di
risorse. Ma il nostro
non è un settore ospedaliero normale, i soggetti interessati
non si trovano in
condizioni di normale libertà, sono persone che si trovano
in istituto
penitenziario.
Vi è poi il problema
dell'integrazione tra i servizi, su cui esistono due
visioni differenti. In
ogni caso, qualunque formula
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venga adottata in base
alle disposizioni di legge, l'integrazione non può
essere stabilita
attraverso regolamenti ma dipenderà sempre dalle persone
e dalla loro visione
comune. Se questa integrazione viene a mancare, il
servizio ne patirà
fortemente le conseguenze. All'interno del mio istituto,
ad esempio, vi è un
servizio per le tossicodipendenze, sin da subito fermo
nel delineare la
propria autonomia...
PRESIDENTE. Mi scusi
se la interrompo, ma quello della tossicodipendenza
è un problema
specifico degli istituti penitenziari, più che nella realtà
esterna. Nel corso dei
nostri lavori abbiamo spesso ascoltato testimonianze
dell'esistenza di un
problema particolare riguardante la tossicodipendenza
negli istituti
penitenziari.
PIETRO BUFFA,
Direttore della casa circondariale «Le Vallette» di Torino.
A ciò si aggiunga il
problema della psichiatria; sono contesti abbastanza
simili. Su due temi
rilevanti disponiamo di due servizi e due atteggiamenti
completamente diversi.
Il servizio per le tossicodipendenze, correttamente
e legittimamente, ha
sin da subito affermato - in maniera forte e chiara
- la sua
specializzazione e autonomia, il suo carattere specialistico, anche
se ha mantenuto un
certo livello di integrazione. Dall'altra parte vi è
un servizio
psichiatrico, egualmente autonomo, ma gestito direttamente dall'azienda
sanitaria. Ad esempio,
nel nostro istituto abbiamo due reparti psichiatrici,
gestiti con queste
modalità ma con fondi non pubblici; abbiamo usufruito
di sovvenzioni da
parte delle fondazioni bancarie, con tariffe molto diverse...
TIZIANA VALPIANA.
Diverse in che misura?
PIETRO BUFFA,
Direttore della casa circondariale «Le Vallette» di Torino.
Certamente più alte.
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Nonostante le tariffe
più alte, l'atteggiamento è stato molto diverso: registriamo
un'integrazione, non
so se definirla formalmente migliore, ma comunque sostanzialmente
diversa, così come è
diverso anche il livello di efficacia. Si tratta di
un problema notevole;
il carcere è un sistema che tende ad includere o escludere,
dipende
dall'approccio. I detenuti che risiedono nelle carceri comprendono
immediatamente questi
aspetti.
PRESIDENTE. Do la
parola ai colleghi che desiderano intervenire.
GIACOMO BAIAMONTE.
Desidero unirmi ai ringraziamenti rivolti ai nostri ospiti
per il loro
intervento. Nella passata legislatura mi sono interessato dei
problemi della sanità
penitenziaria ed ebbi anche occasione di presentare
alcune interrogazioni
parlamentari in materia. Ricordo che raccolsi le proteste
di alcuni infermieri e
di alcune guardie in servizio penitenziario, i quali
chiesero un incontro
presso il mio gruppo parlamentare proprio per manifestarmi
il loro disagio e la
loro protesta. Una delle loro lamentele riguardava
proprio la loro
promiscuità con le patologie presenti nelle carceri.
Nella mia veste di
medico mi sono interessato in maniera particolare di
questa vicenda. Se il
nostro obiettivo è la prevenzione e quindi evitare
la diffusione delle
malattie, allora, a mio avviso, abbiamo di fronte un
problema serio perché
chi mi rappresentò quella situazione testimoniò di
venire a contatto
sistematicamente, per ordine di servizio, con detenuti
tossicodipendenti,
affetti da HIV, quindi con soggetti immunodepressi. Inoltre
a seguito di una mia
indagine è emerso un incremento dei casi di infezione
e di tubercolosi. Si
presenta pertanto un problema sanitario molto serio,
anche perché gli
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individui che entrano
in contatto con tali pazienti possono veicolare le
infezioni all'esterno,
in particolare alle loro famiglie.
Sono convinto che i
problemi di questo settore siano di due ordini. Il primo
riguarda una categoria
di detenuti malati cronici, tra i quali i tossicodipendenti,
i malati di AIDS e, in
generale, i soggetti affetti da patologie infettive.
Vi è poi un'altra
categoria di individui affetti da patologie di tipo occasionale,
ad esempio di origine
alimentare, ai quali vanno aggiunti i simulatori.
Per questi ultimi è
comunque necessario un esame diagnostico che accerti
la veridicità o meno
della patologia.
A mio avviso è un
errore affidare al Servizio sanitario nazionale la gestione
della sanità
penitenziaria, anche in considerazione delle peculiarità di
questo settore.
Ritengo che l'obiettivo principale dovrebbe essere quello
di creare un corpo
sanitario alle dipendenze del Ministero della giustizia
(alla stregua del
corpo carcerario) che disponga sia di una specializzazione
nei problemi carcerari
sia di specialisti che collaborino in alcuni settori.
Certo, sono convinto
che non possano essere previsti servizi sanitari penitenziari
per tutte le
specialità mediche.
Ad esempio, svolgo
nella mia città, Palermo, l'attività di professore universitario,
ordinario di
chirurgia, e molto spesso mi è capitato di essere chiamato
presso il carcere
dell'Ucciardone per trattare casi di detenuti affetti
da patologie polmonari
serie, che necessitavano di un intervento chirurgico,
oppure soggetti
affetti da pancreatiti croniche (causate, ad esempio, da
una calcolosi delle
vie biliari).
Il problema è stato in
parte risolto creando nell'ospedale principale una
sezione destinata ai
detenuti, con una divisione di medicina ed una di chirurgia
destinate
esclusivamente ai
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soggetti in condizioni
cliniche particolari. Quindi non tutti possono usufruire
di tali servizi ma
solo coloro che, versando in condizioni particolari,
necessitano di un
ricovero ospedaliero. Ritengo, perciò, che i problemi
da voi lamentati
vadano affrontati, come credo abbia fatto il Ministero
della giustizia prima
di queste nuove disposizioni.
Molto spesso in questo
ambito i problemi di giustizia si intersecano con
quelli dei magistrati
e dei direttori delle case circondariali. Non va dimenticata,
infatti, la necessità
di trattare questi soggetti principalmente sotto un
aspetto clinico, ma
anche sintomatologico e psicologico (si tratta di casi
particolari, possono
esservi anche dei simulatori). Proprio per tali motivi
sono necessari addetti
ai lavori dotati di specializzazione, di predisposizione
e di comprensione
particolari nei confronti dei detenuti. La mia convinzione
è che sia necessario
un servizio alle dipendenze esclusive del Ministero
della giustizia e non
un servizio promiscuo con il Servizio sanitario nazionale.
LUIGI GIACCO. Anch'io
ringrazio i nostri ospiti per averci fornito una serie
di utili elementi di
valutazione in un settore molto complesso come quello
penitenziario. Nel
corso delle nostre periodiche visite nelle carceri ci
siamo resi conto dei
problemi che si vivono all'interno degli istituti penitenziari.
Parlare in una
Commissione parlamentare di queste tematiche è, tutto sommato,
semplice; molto più
difficile è, invece, vivere quotidianamente sulla propria
pelle i problemi di
tutti i giorni del settore penitenziario. La mia premessa
vuole essere anche un
riconoscimento per coloro i quali, come i nostri ospiti,
vivono la loro
professione a servizio dei detenuti.
Mi sembra chiaramente
che i nostri ospiti abbiano opportunamente enfatizzato
e chiarito le
condizioni dei detenuti che vivono in tali strutture. La loro
è una condizione che
comporta
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una serie di
conseguenze patologiche maggiori rispetto all'esterno anche,
e soprattutto, di
natura psicologica. Talvolta, inoltre, vi sono casi di
soggetti che versano
in condizioni patologiche particolari, di natura psicogena;
tali detenuti hanno
necessità di trovare alternative alla routine quotidiana
e, quindi, anche le
richieste di visite e di controlli sanitari diventano
un modo per instaurare
un tipo di relazione differente e per cogliere un
elemento di diversità
rispetto al quotidiano.
Vorrei conoscere
l'opinione dei nostri ospiti su alcuni temi, in parte già
affrontati dal collega
Baiamonte, non so, però, se in maniera condivisibile.
Certamente è
necessaria la presenza di un servizio sanitario all'interno
delle carceri. Il
concetto di sanità va però allargato fino a ricomprendere
la nozione generale di
salute. Ossia, al di là di un intervento squisitamente
medico, negli istituti
penitenziari è necessaria una organizzazione specifica;
mi riferisco, ad
esempio, agli psicologi, a figure magari border line rispetto
al settore
propriamente sanitario, come gli educatori. Anche questo è un
aspetto da valutare.
Diversamente, resteremo fermi ad un approccio di tipo
strettamente
sanitario, ad un concetto di sanità legato più alla patologia
che non al benessere
ed alla salute complessivi. Non vorrei aprire un'ampia
discussione al
riguardo, ma comunque ritengo che tali elementi andrebbero
affrontati.
Ritenete opportuna
un'integrazione tra Servizio sanitario nazionale e sistema
sanitario
penitenziario, oppure si dovrebbe giungere ad una soluzione in
cui vi sia un unico
punto di riferimento (sia questo il Servizio sanitario
nazionale o un
servizio dipendente dal Ministero della giustizia)? Non credete
anche voi che
l'integrazione potrebbe rappresentare una facilitazione ma
forse potrebbe anche
costituire un ulteriore elemento da gestire?
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In questi giorni sono
stato contattato da diversi infermieri, i quali hanno
lamentato l'estrema
carenza di personale all'interno delle carceri, turni
di lavoro eccessivi e
situazioni - come da voi sottolineato - non gratificanti
sotto il profilo
economico. È difficile organizzare un servizio di fronte
a difficoltà come la
carenza di personale. Dovremmo affrontare il problema
e reperire risorse
adeguate per tali obiettivi. In alcune carceri, come
avviene ad esempio
nella mia zona, ad Ancona, delle prestazioni di 36 ore
diventano di 24,
quindi con una riduzione dell'orario di lavoro degli infermieri,
con conseguenze
negative nei vari reparti.
I nostri ospiti sono
tutti direttori di istituti penitenziari di notevoli
dimensioni e quindi
credo che siano i migliori testimoni dei problemi che
si incontrano in
questo settore. Vorrei conoscere la vostra opinione rispetto
sia alla
differenziazione sul territorio di questi problemi sia, in particolare,
alla possibilità di
creare un servizio specifico che risolva il problema
dell'integrazione del
personale.
Inoltre vorrei sapere
se condividiate la necessità di un intervento ancor
più incisivo nel
settore del personale, teso a fornire una risposta qualitativamente
migliore ai problemi
dei detenuti, in un'ottica, però, che non tenga solo
ed esclusivamente
conto della patologia ma anche delle condizioni complessive
di salute.
TIZIANA VALPIANA.
Desidero anzitutto scusarmi con i nostri ospiti per il
ritardo; in realtà con
i nostri ospiti dobbiamo scusarci spesso a causa
della quasi totale
incertezza degli orari delle sedute. È anche per questo
motivo che oggi, ad
ascoltare le loro preziose indicazioni, sono presenti
pochi parlamentari.
Fortunatamente abbiamo il supporto del resoconto stenografico,
che consentirà ai
colleghi oggi non presenti di conoscere le testimonianze
del vostro lavoro,
sicuramente
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utili per le
conclusioni della nostra indagine conoscitiva.
Ritengo che la figura
del direttore di un carcere sia un elemento centrale.
A dire il vero, i
nostri ospiti hanno avuto il pudore di non parlarci delle
loro condizioni
personali di disagio. Credo, però, che chiunque di noi frequenti
le carceri si renda
conto di come un direttore di un istituto penitenziario
abbia responsabilità
enormi e gestisca un numero di lavoratori e di reclusi
elevato, a fronte di
una scarsissima remunerazione economica e con ulteriori
oneri derivanti dal
ruolo e dalla responsabilità che credo andrebbero approfonditi
unitamente al tema
della capacità di decisione di questi soggetti.
In materia di
prevenzione vorrei citare il caso del carcere di Verona (zona
da cui provengo) dove
in questi giorni si stanno verificando due situazioni
estreme. Essendo stati
individuati tre casi di tubercolosi, si è dovuto
procedere a circa 750
accertamenti diagnostici, con un aggravio enorme di
organizzazione
necessaria a trasportare i detenuti e parte del personale
a sostenere le visite,
a fronte evidentemente di un organico di personale
sottodimensionato,
assolutamente ridotto nei ranghi. Tali visite, però,
secondo me servono a
poco o nulla, fintantoché le celle destinate ad una
persona saranno
abitate da tre e forse in un futuro prossimo da ben quattro
individui.
GIACOMO BAIAMONTE. È
necessario distinguere i malati cronici dagli altri.
TIZIANA VALPIANA. È
vero. Ma vivere in una cella in quattro invece che da
soli è differente,
anche per chi non è malato cronico. E dirò di più: da
ieri in quell'istituto
viene interrotta l'erogazione di acqua, per alcune
ore al giorno, a causa
dell'insufficienza del sistema idrico. Tutto ciò
si verifica perché il
numero dei detenuti è quattro volte maggiore della
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prevista capienza per
cui è stato costruito il carcere. Pertanto, anche
servizi importanti
come l'erogazione dell'acqua ed il riscaldamento invernale
non corrispondono alle
necessità su cui erano stati tarati. Già nel periodo
di Natale dello scorso
anno sono intervenuta sulla vicenda delle difficoltà
di riscaldamento e
intendo seriamente fare altrettanto per la questione
dell'erogazione
idrica.
Un direttore di un
istituto penitenziario carcerario deve far fronte ai
problemi di medicina
penitenziaria senza però disporre degli strumenti adeguati
per garantire quel
corollario di adempimenti che sono una componente primaria
di qualsiasi attività
di prevenzione. Mi chiedo allora se si terrà conto
che in questo paese vi
è stato un taglio notevole dei fondi destinati alla
giustizia e di
conseguenza al settore penitenziario. Vorrei sapere se i
nostri ospiti vivano
una situazione di incertezza sulla ripartizione di
competenze in materia
di sanità penitenziaria, non essendo, a mio avviso,
ben individuabili le
funzioni trasferite al Servizio sanitario nazionale
da quelle invece
rimaste al servizio sanitario penitenziario. Mi chiedo
quali possibilità di
manovra abbiano realmente i direttori degli istituti
penitenziari e quali
siano le loro capacità di intervenire concretamente
in tema di prevenzione
e cura.
Sui temi della sanità
penitenziaria la mia opinione è diametralmente opposta
a quella del collega
Baiamonte. Credo che il cittadino il quale abbia contratto
un debito con la
giustizia e per questo motivo si trovi in carcere non possa
veder leso il proprio
diritto alla salute né debba ricevere un trattamento
sanitario diverso da
quello di qualsiasi altro cittadino. Se come libera
cittadina posso
disporre di un medico di base ed essere iscritta al Servizio
sanitario nazionale,
perché non posso fare altrettanto come detenuta? Ritengo
necessario che chi si
trovi in carcere mantenga comunque un medico di
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base (non dico lo
stesso) e usufruisca degli stessi servizi a disposizione
degli altri cittadini.
Credo, pertanto, che dovrà essere il Servizio sanitario
nazionale a farsi
carico delle esigenze dei cittadini reclusi, certo disponendo
delle necessarie
risorse.
A mio avviso,
l'attuale situazione di tipo misto crea incertezza e rappresenta
la peggior soluzione
possibile: non si dispone né delle risorse del Servizio
sanitario nazionale -
peraltro decurtate anche per tutti gli altri cittadini
- né di quelle del
Ministero della giustizia. Alcuni direttori di carceri
(credo in Sicilia)
sembra abbiano risolto il problema della carenza di fondi
nell'unica maniera
possibile: riducendo le ore di presenza degli infermieri.
Ma così si incide
sulla salute!
Quali altri strumenti,
allora, avete a disposizione per consentire un'adeguata
attività di
prevenzione e cura dei detenuti e del personale da voi gestito
(tralasciando il
problema della riabilitazione, che quasi non è possibile
affrontare neanche
fuori dalle carceri)? Avete forse le mani legate, in
attesa di comprendere
cosa accadrà in futuro?
PRESIDENTE. Non
essendovi altre richieste di intervento, do la parola ai
nostri ospiti per le
repliche.
SALVATORE ACERRA,
Direttore della casa circondariale «Poggioreale» di Napoli.
Personalmente ritengo
che la corretta impostazione nei confronti della necessità
o meno di una sanità
penitenziaria specifica risieda in una via di mezzo,
cioè in una situazione
di integrazione con il Servizio sanitario nazionale.
Sono convinto che una
tale integrazione debba necessariamente esservi; non
si può pretendere -
sia detto chiaramente - che l'istituto penitenziario
diventi a tutti gli
effetti un ospedale. A mio avviso l'integrazione è indubbiamente
nei fatti; altrimenti
sarebbero necessarie risorse notevoli.
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Basti pensare che tra
i vari istituti penitenziari ve ne è uno solo che
dispone di un centro
clinico, quello di Pisa, dove è possibile effettuare
una TAC. È
indubbiamente preferibile che i detenuti possano effettuare una
TAC sul posto ed
evitare così un esborso notevole di risorse.
Sono convinto che una
sanità penitenziaria debba continuare ad esistere,
per un motivo molto
semplice: anzitutto perché altrimenti perderemmo tutte
le professionalità
acquisite, inoltre perché in realtà il detenuto deve
essere trattato come
un normale cittadino. Credo che nessun direttore di
istituto penitenziario
abbia mai pensato il contrario e si sforzi - naturalmente
- affinché queste
condizioni si verifichino, sia pure con le attuali disponibilità.
Indubbiamente, una
volta stabilito ciò, bisognerebbe comprendere quali prestazioni
sia in grado di
assicurare il Servizio sanitario nazionale. I medici che
lavorano nel nostro
campo necessitano di una certa esperienza; l'approccio
tra medico e paziente
(chiunque esso sia) non è lo stesso se il paziente
si trova in carcere o
meno. Personalmente ritengo che le due situazioni
siano completamente
diverse. Certo, come ricordava l'onorevole Baiamonte,
da questa analisi
vanno esclusi i simulatori (chi vuole approfittare di
tali situazioni); ma
gli altri, coloro che non simulano, presentano delle
necessità diverse da
chi si trova in stato di libertà. Il medico che si
occupa di sanità
penitenziaria deve avere una professionalità specifica,
che naturalmente col
tempo può essere acquisita anche dal personale sanitario
delle ASL. È però
importante che queste prestazioni siano assicurate dagli
stessi medici.
Purtroppo, molte volte le ASL utilizzano personale in turn
over, come avviene nei
Ser.T, creando condizioni di difficoltà.
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Ma con ciò non voglio
sostenere che il Servizio sanitario nazionale non
sia in grado di
svolgere le funzioni di sanità penitenziaria.
Affronto ora il tema
delle realtà territoriali; provengo da Napoli, dove
non mi pare il
Servizio sanitario nazionale abbia un grande interesse ad
occuparsi delle
problematiche dei detenuti. Si sappia che la regione Campania,
nell'ambito del piano
sanitario regionale, aveva individuato nell'ospedale
Cardarelli di Napoli
la sede di un reparto detentivo. Ebbene, questo reparto
è ormai chiuso da
anni! E i ricoveri avvengono nelle normali corsie dei
vari ospedali! È
necessario verificare l'esistenza di una effettiva volontà
e attenzione verso
questo settore; dopo la trasformazione in aziende delle
unità sanitarie non
credo che ciò avvenga. Forse sarebbe necessario creare
una rete di rapporti
con le direzioni dei vari istituti penitenziari; inoltre,
il passaggio dei
compiti di sanità penitenziaria alle aziende sanitarie
ed una migliore
interazione fra i vari soggetti interessati possono rappresentare
il modo per
alleggerire i direttori degli stessi istituti di una parte delle
loro responsabilità.
CARMELO CANTONE,
Direttore della casa circondariale «Rebibbia Nuovo complesso»
di Roma. Siamo tutti
d'accordo sulla necessità di conseguire in tema di
sanità penitenziaria
una cultura comune tra chi gestisce le strutture penitenziarie
- la direzione e
l'amministrazione penitenziaria - e chi si occupa di medicina
all'interno degli
istituti di pena. Le difficoltà nel conseguire questa
visione comune non
sono molto lontane dalle difficoltà di dialogo che si
incontrano normalmente
nelle carceri. Ad esempio, ciò avviene quando un
detenuto deve
affrontare un ricovero o una visita urgente e i nostri medici
debbono discuterne con
il personale di sicurezza, la polizia penitenziaria
e i direttori degli
istituti.
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Chi conosce il mondo
delle carceri sa che, ogni qual volta vi è una richiesta
di visita urgente -
soprattutto nel periodo estivo - che possa comportare
un ricovero (ma anche
una permanenza all'esterno di poche ore), questo intervento
fuori dall'istituto
mette in crisi le strutture penitenziarie (anche quelle
di una certa
consistenza). Non deve stupire che anche in una struttura come
la casa circondariale
«Rebibbia Nuovo complesso», che dispone di mille agenti,
quando è necessario
trasferire all'esterno un detenuto in orari particolari
ci si trova di fronte
a variabili inquietanti. In tali casi subentrano a
volte delle
contrattazioni, con richieste di rinviare il ricovero al giorno
seguente.
Se malauguratamente il
detenuto, trasferito all'esterno per un ricovero
urgente, viene
rinviato alla struttura penitenziaria in quanto non è stato
ritenuto necessario il
ricovero, allora si verifica una situazione di malessere
spiacevole. Il medico
che ha disposto quel ricovero passerà per un soggetto
che non tiene conto
delle esigenze di custodia e non sa valutare la reale
gravità di una
situazione. Questi pericoli, queste situazioni di disagio
in cui ci si può
trovare (e che per il nostro ruolo di direttori siamo chiamati
a gestire) si
potrebbero riproporre anche in futuro qualora passasse il
concetto di trasferire
la sanità penitenziaria al Servizio sanitario nazionale
(sia pur in un'ottica
di specializzazione).
Non so se l'idea
dell'onorevole Baiamonte possa avere delle prospettive;
è mia personale
opinione, però, che se vogliamo valorizzare le specificità
della sanità
penitenziaria all'interno di un corpo separato o nell'ambito
dello stesso Servizio
sanitario nazionale, allora dobbiamo far sì che l'attività
del medico
penitenziario sia preponderante. Attualmente la legge n. 296
del 1993 stabilisce
che l'attività svolta dai medici
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penitenziari
all'interno degli istituti penali è compatibile con qualsiasi
altra prestazione
svolta nell'ambito del Servizio sanitario nazionale.
Un medico incaricato,
responsabile della gestione del servizio sanitario
di un istituto (a
«Rebibbia Nuovo complesso» ve ne sono 7, ciascuno responsabile
di un settore) è
chiamato a prestare servizio nell'istituto per 18 ore settimanali
(la media è di 3 ore
al giorno, ma può accadere che i medici prestino servizio
per mezzora un giorno
e poi recuperino nei giorni successivi). E questo
è ritenuto compatibile
con l'attività di medico di base, di primario ospedaliero
e con le altre
attività svolte all'esterno...
TIZIANA VALPIANA. Mi
sembra riemerga il problema dell'esclusività ...
CARMELO CANTONE,
Direttore della casa circondariale «Rebibbia Nuovo complesso»
di Roma. Forse. Mi
chiedo allora cosa accadrebbe se questo comportamento
fosse ammissibile
anche per un direttore di istituto o per qualsiasi altra
professionalità, anche
meno impegnativa di quella di medico penitenziario.
Come si fa a lavorare
nell'istituto penitenziario e ad avere la mente impegnata
altrove, o viceversa?
E non mi pare neanche che ciò valorizzi l'esclusività
o la «primarietà» del
medico penitenziario. Ovviamente vanno riconosciuti
un'adeguata
retribuzione ed un adeguato ruolo professionale al personale
che presta servizio
sanitario in carcere.
Chi lavora come medico
nelle carceri, come ruolo principale deve svolgere
solo quello di medico
penitenziario; solo così miglioreranno anche le condizioni
di vivibilità e il
rapporto con i pazienti. Spesso i detenuti - al di là
delle singole realtà -
lamentano situazioni problematiche relative al rapporto
tra medico e paziente;
certo, a volte sbagliano o
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esagerano: molti
medici realizzano moltissimo per valorizzare questo rapporto.
Si tratta però di un
problema reale. Un medico che svolga la propria attività
principalmente
nell'istituto, ad esempio sin dalla mattina, e che vi presti
la sua opera per molte
ore al giorno (come gli educatori, gli ispettori
o i direttori di
reparto dei grandi istituti) garantirebbe quel tipo di
professionalità
necessaria per ottenere un'adeguata vivibilità ed un migliore
rapporto tra
detenuto-paziente e settore sanitario.
PRESIDENTE. Per ora i
medici penitenziari sono gli unici che svolgono una
doppia attività.
CARMELO CANTONE,
Direttore della casa circondariale «Rebibbia Nuovo complesso»
di Roma. Sì, è vero.
GIACOMO BAIAMONTE. Ma
esiste anche un problema di orario di lavoro!
LUIGI GIACCO. La non
esclusività l'avete voluta voi!
TIZIANA VALPIANA. È
vero!
PIETRO BUFFA,
Direttore della casa circondariale «Le Vallette» di Torino.
Credo che il nostro
compito qui oggi sia non tanto quello di esprimerci
in favore o meno di
una medicina penitenziaria specifica, quanto piuttosto
di fornire gli
elementi utili ad assumere delle decisioni in materia. Certo,
quello sollevato è un
problema strisciante nel dibattito quotidiano.
Vorrei comunque
replicare all'affermazione sulle differenze tra concetto
di salute e sanità
negli istituti penitenziari. Se effettivamente desideriamo
migliorare le
condizioni sanitarie e, più in generale, lo stato di salute
all'interno delle
carceri,
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dobbiamo considerare
che il carcere è un sistema dove qualunque elemento
nuovo che intervenga
comporta delle conseguenze. Una delle posizioni fortemente
richiamate in
occasione delle modifiche apportate dal decreto legislativo
n. 230 del 1999 è
stata quella secondo cui - giustamente - all'interno degli
istituti penitenziari
i cittadini italiani o stranieri detenuti non dovevano
usufruire di una
sanità diversa (dove per «diversa» si intendeva peggiore)
rispetto a quella
garantita dal Servizio sanitario nazionale. Si tratta
di una posizione forte
e corretta, ma vi è un particolare da sottolineare:
se non teniamo conto
del sistema penitenziario in tutte le sue accezioni
non riusciremo mai a
conseguire tale obiettivo.
In base alla mia
esperienza, ritengo che se in questo settore si incontrano
dei problemi ciò non
sia dovuto alla carenza professionale di medici e infermieri
o delle organizzazioni
che gestiscono l'assistenza sanitaria all'interno
degli istituti
penitenziari. Anzi, frequentemente avviene il contrario:
spesso vi è
un'inflazione terapeutica, quasi un accanimento. Ma allora qual
è il problema reale?
Se in un solo giorno si richiedono 10, 20 o 40 visite
specialistiche, sarà
impossibile poterle effettuare! E ciò determina diverse
conseguenze negative,
alcune già evidenziate dal collega Cantone. È evidente
quanto sia complicato
scortare all'esterno un detenuto, in particolare se
non consideriamo anche
gli altri limiti del sistema penitenziario (ad esempio
di organico). Ed
ancora, quando ad un soggetto detenuto sono prescritte
analisi
specialistiche, anche particolarmente avanzate e complesse, e questi
assiste ad un ritardo
e ad un inadempimento dell'amministrazione nello svolgere
tali accertamenti, ciò
non fa che determinare ulteriore malcontento nell'individuo
detenuto. E questo
inciderà ulteriormente sulla sua salute e sul suo atteggiamento
nei confronti del
sistema.
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Decidere in favore o
meno di una sanità penitenziaria specifica rappresenta
forse un falso
problema. Probabilmente sarebbe opportuno analizzare tutti
i fattori che
intervengono dal momento della diagnosi a quello della terapia
e della risoluzione
del problema e quali sono gli elementi che incidano
sulla effettiva
capacità di prestare cure sanitarie all'interno delle carceri.
L'onorevole Valpiana
ha chiesto se noi, come direttori di istituti penitenziari,
abbiamo le mani
legate. Sono molte le possibili risposte a questa domanda;
e tutte concrete.
Anzitutto vi è un problema di razionalizzazione del sistema.
È chiaro che un
soggetto detenuto è maggiormente disposto ad addebitare
particolari
responsabilità al proprio terapista o al proprio amministratore.
In effetti, negli
istituti penitenziari esiste una forte contrapposizione
tra questi soggetti e
ciò comporta che, in alcune circostanze, sulla base
del timore della
propria responsabilità si dia origine ad una vera e propria
inflazione terapeutica
e ad una eccessiva richiesta di accertamenti, con
immaginabili
conseguenze economiche. Il problema che maggiormente si evidenzia,
in realtà, è proprio
la difficoltà nel reperire le risorse necessarie; prima
individuiamo queste
risorse, e poi decideremo dove collocarle!
La questione delle
tariffe, degli stipendi, poi, non è certo ininfluente
in un'ottica
sistemica. In genere, soprattutto nelle professioni infermieristiche
e mediche
(specialistiche in particolare), è ovvio che i più bravi si fanno
pagare di più. E chi
accetta un incarico di questo genere, può anche farlo
in relazione ad una
sua impossibilità di ottenere introiti di altro tipo,
anche se non è sempre
così: personalmente conosco casi di alcuni colleghi,
medici e infermieri,
che non svolgono questa attività solo per denaro ma
anche perché lavorare
in carcere da un punto di vista personale e professionale
è quanto meno
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interessante. Si
lavora in un contesto diverso da qualunque altro; però
questo è un altro
argomento. Quindi, se ci si pone nell'ottica di ricercare
un migliore equilibrio
della sanità, a mio avviso dobbiamo ragionare sugli
elementi da me
evidenziati.
PRESIDENTE. Vi
ringrazio per le vostre esaurienti risposte, per quanto lo
possano essere in un
ambito come questo. Sicuramente la vostra esperienza
sarà di aiuto per
tutti noi. Come ha ricordato l'onorevole Valpiana, i direttori
degli istituti
penitenziari sono coloro che, più di altri, hanno contezza
della reale situazione
nelle carceri e sono in grado di esporre le esigenze
di tutti, non solo di
medici o detenuti. Per parte nostra abbiamo ascoltato
tutti, rappresentanti
di categoria dei medici e...
TIZIANA VALPIANA. Dei
detenuti non ancora!
PRESIDENTE. Lo faremo,
anche se è difficile farlo in questa sede... abbiamo
però già incontrato i
rappresentanti di associazioni interessate. L'odierna
audizione ci consente
di valutare la situazione del settore penitenziario
dal punto di vista
centrale dei direttori degli istituti di pena; è chiaro
che sia i medici sia i
detenuti difendono il proprio settore. Ricordo, comunque,
che sono state
presentate alcune proposte di legge in materia, di cui una
a firma dell'onorevole
Mario Pepe.
Ritengo che
l'obiettivo principale da perseguire in questo ambito sia un'integrazione
tra Servizio sanitario
nazionale e medicina penitenziaria. Non credo sia
possibile affidare
l'assistenza sanitaria negli istituti penitenziari esclusivamente
ad un solo settore,
sia esso il Servizio sanitario nazionale o un servizio
penitenziario
specialistico. Inoltre, anche dal punto di vista economico
è necessaria
un'integrazione quanto più efficace
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possibile.
L'assistenza sanitaria è un compito difficile già per il solo
Servizio sanitario
nazionale; come pensiamo che se ne possa occupare la
sanità penitenziaria
da sola? Determinate attrezzature, che oggi costano
moltissimo, non sono
acquistabili se non a fronte di una integrazione fra
i vari servizi. È
necessario trovare il giusto equilibrio tra i vari settori
per conseguire un
reale miglioramento di queste attività.
GIACOMO BAIAMONTE.
Signor presidente, vorrei brevemente contribuire ricordando
una mia esperienza
personale. Ho conosciuto il professor Giglio, che prestava
la sua opera presso il
carcere dell'Ucciardone di Palermo; costui era stimato
e apprezzato, sia dai
direttori sia dai detenuti. Ebbene, quando decise
di lasciare l'incarico
egli venne vivamente pregato di proseguire la sua
opera e accettò.
Evidentemente riteneva che fosse personalmente gratificante
prestare la propria
opera in un carcere, anche gratuitamente...
CARMELO CANTONE,
Direttore della casa circondariale «Rebibbia Nuovo complesso»
di Roma. Si occupava
di medicina specialistica?
GIACOMO BAIAMONTE. Sì.
MARIO PEPE. Signor
presidente, credo sia giunto il momento di incardinare
nel calendario dei
lavori della Commissione la discussione sui provvedimenti
in materia. Sono mesi
che stiamo svolgendo queste audizioni ed ormai conosciamo
benissimo i vari
problemi, anche per aver partecipato a diversi convegni.
Attualmente vi è un
vuoto nella sanità penitenziaria. In effetti, i medici
penitenziari vivono in
una sorta di limbo, di incertezza che si ripercuote
anche sulla serenità
del loro
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lavoro. Non c'è
certezza per il futuro e spetta, quindi, alla politica fornire
delle sicurezze in
questo settore, in qualsiasi modo!
È importante che la
Camera del deputati esamini questo problema. A mio avviso
possiamo ascoltare i
rappresentanti anche di altre associazioni; è, però,
necessario
calendarizzare l'esame delle varie proposte di legge in materia
ed avviarne la
discussione generale. Altrimenti questa riforma tornerà in
mano all'Ulivo, che ha
già combinato dei guasti (Commenti). Abbiamo visto
la sperimentazione
cosa ha comportato (Commenti).
PRESIDENTE. Colleghi,
per cortesia.
KATIA ZANOTTI. Signor
presidente, vorrei replicare...
PRESIDENTE. Colleghi,
vi prego, non è un problema che riguarda né i nostri
ospiti né l'ordine del
giorno della seduta odierna. Affronteremo tali tematiche
nelle sedi opportune,
come l'ufficio di presidenza.
Ringrazio gli auditi
per il loro utile contributo ai nostri lavori e dichiaro
conclusa l'audizione.
La seduta termina alle
15,30.
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