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PRESIDENZA DEL PRESIDENTE

DELLA XII COMMISSIONE

GIUSEPPE PALUMBO

La seduta comincia alle 14,15.

 

(Le Commissioni approvano il processo verbale della seduta precedente).

 

 

 

Sulla pubblicità dei lavori.

PRESIDENTE. Avverto che, se non vi sono obiezioni, la pubblicità dei lavori

sarà assicurata anche mediante l'attivazione dell'impianto audiovisivo a

circuito chiuso.

(Così rimane stabilito).

 

 

Audizione dei direttori delle case circondariali «Le Vallette» di Torino,

«Rebibbia Nuovo complesso» di Roma e «Poggioreale» di Napoli.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva

sulla sanità penitenziaria, l'audizione dei direttori delle case circondariali

«Le Vallette» di Torino, «Rebibbia Nuovo complesso» di Roma e «Poggioreale»

di Napoli.

L'indagine conoscitiva in oggetto nasce dall'esigenza di approfondire l'attuale

situazione della sanità penitenziaria, anche in vista dell'esame di diverse

proposte di legge in materia. Soprattutto vi è la necessità di analizzare

i problemi sorti dopo la fase di sperimentazione del trasferimento al Servizio

sanitario nazionale delle funzioni di sanità penitenziaria, prima svolte

dall'amministrazione penitenziaria, come

 

 

 

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disposto dal decreto legislativo n. 230 del 1999. Da più parti sono state

rilevate numerose difficoltà organizzative ed economiche seguite alla fase

di sperimentazione; oggi ci occuperemo di tali aspetti, anche in funzione

di una migliore gestione della sanità penitenziaria. Ricordo, infine, che

la sperimentazione prevista dal decreto-legislativo n. 230 del 1999 è stata

avviata inizialmente in Toscana, Lazio e Puglia e successivamente in Emilia-Romagna,

Campania e Molise.

Saluto i nostri ospiti e do la parola per il suo intervento introduttivo

al dottor Buffa, direttore della casa circondariale «Le Vallette» di Torino,

cui seguiranno gli interventi del dottor Cantone, direttore della casa circondariale

«Rebibbia Nuovo complesso» di Roma, e del dottor Acerra, direttore della

casa circondariale «Poggioreale» di Napoli, ai quali ricordo che sarà gradito

anche l'ulteriore materiale documentale che vorranno farci pervenire in

seguito.

 

PIETRO BUFFA, Direttore della casa circondariale «Le Vallette» di Torino.

La regione in cui ha sede l'istituto da me diretto, il Piemonte, non è stata

interessata dalla sperimentazione prevista dal decreto legislativo n. 230

del 1999. L'unico intervento che, in base alla nuova normativa, ci ha visti

coinvolti è stato il trasferimento al Servizio sanitario nazionale delle

funzioni di assistenza ai detenuti tossicodipendenti. Si è reso necessario

quindi un diverso approccio a questa tematica.

A mio avviso il vero problema è che siamo di fronte di un intervento sanitario

pubblico con una forte connotazione aziendale, con una grande attenzione

all'organizzazione, alle strutture ed al budget. Quindi siamo in presenza

di un'attività di tipo ambulatoriale quando invece, per quella che è la

mia esperienza, la sanità penitenziaria avrebbe bisogno di un approccio

orientato maggiormente alla medicina di tipo residenziale, ossia con presidi

prolungati nel tempo, che necessitano

 

 

 

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di un'attenzione specifica al contesto penitenziario.

Pur tuttavia, sulla base delle disposizioni della normativa suddetta, ci

siamo attrezzati per far fronte alle nuove esigenze, anche se con notevoli

ritardi: in realtà solamente a gennaio di quest'anno si è registrato al

riguardo un intervento diretto, concreto. Ma se questo deve essere considerato

come il preambolo al trasferimento completo della sanità penitenziaria al

Servizio sanitario nazionale, allora sorgono alcuni dubbi. Questo proprio

perché il contesto penitenziario necessita di un controllo costante, molto

forte. La salute in carcere assume diverse dimensioni: non sono necessarie

semplicemente la cura, la terapia e la diagnosi, vi è anche l'esigenza di

seguire la persona in carcere per aspetti non ininfluenti nei confronti

della libertà personale e dei rapporti con la magistratura.

 

CARMELO CANTONE, Direttore della casa circondariale «Rebibbia Nuovo complesso»

di Roma. Proseguendo sulla stessa linea delle considerazioni del dottor

Buffa, vorrei precisare che nel settore della sanità penitenziaria si vive

una situazione particolare. In tutti i settori dell'amministrazione dello

Stato (anche quella penitenziaria) è necessario ragionare in termini di

riduzione delle risorse, anche umane, e di una minor possibilità di lavoro

straordinario; in pratica, si deve risparmiare su tutto.

Nel settore della sanità penitenziaria (anche in quello della sanità in

generale) i problemi sono diversi: è notorio come sia sempre più forte e

attenta la domanda di buona sanità all'interno delle carceri. Altrettanto

nota è la risonanza di casi di reale o supposta malasanità verificatisi

all'interno degli istituti penitenziari (decessi negli istituti di pena

o a seguito di ricoveri in uscita dagli stessi istituti); si rileva anche

dalla stampa la notevole e comprensibile attenzione che tali casi sollevano

a livello nazionale. Più in generale vi è una richiesta

 

 

 

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di incremento degli standard di qualità della sanità e della cura quotidiana

dei detenuti nelle carceri, a cui per forza di cose si deve rispondere impiegando

buone risorse.

È pur vero che da anni si segue una politica di riduzione dell'uso di farmaci

all'interno degli istituti; è però sufficiente pensare alla spesa sostenuta

per i farmaci antiretrovirali destinati ai detenuti sieropositivi portatori

di HIV o per farmaci utili alla cura di altre patologie particolari, per

comprendere quale sia il livello di spesa necessario ora all'interno di

un istituto penitenziario rispetto a vent'anni fa.

Cito l'esperienza di Roma e dell'istituto «Rebibbia Nuovo complesso» che,

per l'approvvigionamento di farmaci antiretrovirali, oggi non deve più spendere

quanto invece ha speso sino al 2002, all'incirca oltre un miliardo di vecchie

lire; tale spesa ora, in base al decreto legislativo n. 230 del 1999, è

a carico della regione Lazio. Ma ciò non sposta di molto il problema: su

chiunque ricada, tale spesa va comunque sostenuta.

Appare invece necessario integrare quanto più possibile il servizio sanitario

penitenziario con il Servizio sanitario nazionale. La regione Lazio non

è stata significativamente coinvolta dalla sperimentazione di cui al decreto

legislativo n. 230 del 1999, se non per quanto attiene all'assistenza dei

soggetti tossicodipendenti. Nel settore dell'assistenza e prevenzione delle

tossicodipendenze sono stati compiuti passi importanti. Nel nostro territorio

le ASL competenti in questo ambito sono protagoniste insieme a noi in uno

sforzo comune.

Se ai rappresentanti delle ASL, in particolare dei Ser.T (ma anche del servizio

penitenziario in generale) chiediamo quali ulteriori risorse essi possano

mettere in campo, questi rispondono con fortissime perplessità. Un esempio

concreto sul settore tossicodipendenze riguarda le ASL che, in questi ultimi

 

 

 

 

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anni, non hanno avuto la possibilità di immettere valori aggiunti in termini

di risorse umane. Alle risorse del 2000 hanno potuto sommare solo le risorse

umane che lo scorso anno abbiamo trasferito loro in occasione del passaggio

di competenza dei presidi per tossicodipendenze. Quindi, in funzione di

un rafforzamento dell'attività sanitaria nel settore delle tossicodipendenze,

le ASL e i Ser.T competenti incontrano grosse difficoltà per ottenere l'immissione

di altre risorse sia per quanto riguarda il versante prettamente medico

(in particolare per le crisi di astinenza) sia per quanto riguarda la gestione

psicoterapeutica, trattamentale successiva.

Il modello che riteniamo andrebbe auspicato per il futuro prevede una fortissima

integrazione. Si discute ampiamente se debba essere conservata una sanità

penitenziaria specifica, alle dirette dipendenze dell'amministrazione penitenziaria

(il classico servizio sanitario penitenziario interno) o se, invece, tutte

le funzioni debbano essere trasferite in toto al Servizio sanitario nazionale.

Il problema di fondo - a mio avviso - è l'esigenza di non prescindere da

una grande interazione tra i due servizi, sia per quanto riguarda la gestione

dei pazienti ordinari sia per quanto riguarda i servizi specialistici.

Nell'ambito di un'analisi svolta su tali basi è necessario differenziare

anche le varie realtà territoriali. Ad esempio, la domanda di assistenza

sanitaria del carcere di Gorizia (che ha 40 detenuti) è ragionevole e le

prestazioni ambulatoriali possono essere erogate dignitosamente. Diversa

è la situazione dell'istituto «Rebibbia Nuovo complesso» di Roma, che ospita

1.600 detenuti appartenenti alle fasce di età più varie e dove sono presenti

un reparto per detenuti portatori di malattie infettive ed un ambulatorio

polispecialistico. Esempio analogo è quello dell'istituto «Regina Coeli»,

sempre di Roma. In tali

 

 

 

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casi, la domanda di prestazioni sanitarie è talmente articolata che si può

andare avanti soltanto grazie ad una notevole interazione con i poli sanitari

esterni.

 

SALVATORE ACERRA, Direttore della casa circondariale «Poggioreale» di Napoli.

Anzitutto desidero ringraziare per questo invito che ci dà la possibilità

di esprimere il nostro parere dinanzi alle Commissioni riunite.

I colleghi che mi hanno preceduto hanno ampiamente illustrato il quadro

attuale relativo all'assistenza e cura dei detenuti tossicodipendenti, ormai

acquisito in tutta Italia. In questo ambito, il trasferimento alle ASL delle

funzioni di assistenza e cura è avvenuto utilizzando gli stessi fondi destinati

in un primo momento al Ministero della giustizia ed ora trasferiti al Servizio

sanitario nazionale. Grosso modo le convenzioni sono rimaste le stesse,

medici e infermieri sono gli stessi e il servizio è sostanzialmente identico.

Credo pertanto che su ciò non sia necessario aggiungere altro.

Resta aperto invece il problema dell'assistenza e cura degli altri soggetti,

oltre ai detenuti tossicodipendenti. Va infatti precisato che i detenuti

tossicodipendenti sono assistiti dai Ser.T solo per lo stato di tossicodipendenza

ma non per altre patologie, per le quali interviene la sanità penitenziaria.

 

Anzitutto va ricordato che in questo settore le esigenze nel corso degli

anni sono aumentate. Sono d'accordo con l'affermazione dei colleghi: indubbiamente

le esigenze sono aumentate per molti motivi. La prima causa è legata all'innalzamento

dello standard sanitario esterno che, indubbiamente, si riflette anche sull'assistenza

prestata all'interno di un istituto penitenziario. Anzi, molte volte questa

assistenza deve essere anche più elevata; infatti, per diversi motivi, molte

patologie (vere o presunte) pongono i medici dell'istituto in condizione

di dover necessariamente richiedere nuovi accertamenti. Il numero di

 

 

 

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accertamenti maggiore è richiesto ai detenuti che entrano per la prima volta

in un istituto penitenziario.

Cito ora la mia esperienza presso l'istituto «Poggioreale»; attualmente

questa casa circondariale ha due reparti chiusi, ospita 1.900 detenuti (in

condizioni normali si arriva anche a 2.300 o 2.500 soggetti detenuti) e

comprende un centro clinico funzionante. È utile ora analizzare l'andamento

delle assegnazioni di fondi erogati negli ultimi 10 anni. Nel 1994 abbiamo

ricevuto il corrispondente in lire di circa 3 milioni 141 mila euro, nel

2004 abbiamo ottenuto 2 milioni 395 mila euro. Sostanzialmente i fondi a

disposizione dell'amministrazione penitenziaria diminuiscono, a fronte di

esigenze che aumentano. Fino ad ora si è intervenuti con tagli che non hanno

compromesso lo standard assistenziale dei detenuti. Andare oltre però non

è possibile; e tra l'altro non sarebbe neanche conveniente per un motivo

molto semplice: in effetti la riduzione degli stanziamenti comporta, per

un istituto con un centro clinico come «Poggioreale», la diminuzione, o

quasi l'azzeramento della possibilità di adeguare le proprie attrezzature.

 

Far divenire obsolete delle attrezzature di un istituto penitenziario comporta

un aumento delle spese sia per il mantenimento della loro efficienza sia

per i conseguenti aggravi di spesa dovuti all'impossibilità, molte volte,

di svolgere gli accertamenti all'interno internamente e per i quali è necessario

ricorrere a strutture esterne. Ma tali spese non rientrano tanto nel capitolo

sanità, quanto piuttosto in quello relativo a missioni ed impiego di personale

di polizia penitenziaria. In effetti si verifica solo uno spostamento della

spesa, con indubbie difficoltà di sicurezza, anche per i cittadini che si

trovano nelle strutture sanitarie.

 

 

 

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Infine, un ultimo accenno alla sperimentazione, che in Campania è stata

avviata un mese prima del termine per cui era prevista la sua conclusione!

Si è proceduto alla fornitura di farmaci e di agenti reattivi, consegnati

fino al mese di marzo di quest'anno, dopodiché la consegna è stata sospesa.

Pertanto attualmente dobbiamo provvedere anche all'acquisto di questi prodotti!

Si creano così nelle varie regioni e città situazioni differenti. Vi sono

realtà nelle quali le regioni contribuiscono al budget sanitario degli istituti

penitenziari e regioni dove le ASL non contribuiscono affatto, creando ulteriori

disparità di trattamento.

 

PRESIDENTE. Ho particolarmente apprezzato gli interventi introduttivi dei

nostri ospiti. Il problema sollevato dal dottor Buffa, inerente la caratteristica

residenziale della sanità penitenziaria, meriterebbe un approfondimento.

La maggioranza delle prestazioni riguarda ricoveri ospedalieri o piuttosto

di natura ambulatoriale?

 

PIETRO BUFFA, Direttore della casa circondariale «Le Vallette» di Torino.

Riconosco che in effetti si tratta di un problema di terminologia che si

riscontra anche quando ne discutiamo con il direttore generale o il direttore

sanitario di un'azienda sanitaria. Il paziente ordinario normalmente si

reca in un presidio sanitario per usufruire di una prestazione. Nel nostro

caso non è così: di norma un detenuto richiede prestazioni di qualunque

genere e lo fa costantemente (questa condizione particolare di angoscia

viene descritta anche in alcuni testi).

Attualmente il nostro sistema è strutturato in maniera tale da consentirci

di fronteggiare queste necessità. Il mio timore, però, è che il servizio

venga articolato diversamente e non vi saranno più punti di contatto con

l'istituto penitenziario

 

 

 

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(questi elementi si rilevano maggiormente negli istituti di grandi dimensioni).

 

Vi sono casi che necessitano di un ricovero di tipo ospedaliero, che può

avvenire sia internamente all'istituto sia in reparti detentivi esterni.

L'altra parte, la stragrande maggioranza degli interventi sanitari, ha caratteristiche

di altro genere e va posta in relazione alla presenza all'interno di strutture

chiuse di persone che già presentano un certo livello di mobilità. Non possiamo

dimenticare che la popolazione media dei detenuti è sicuramente più predisposta

alle patologie; questo sia per la storia personale degli stessi detenuti

sia per diversi altri motivi, non ultima la coabitazione non sempre facile

all'interno degli istituti. Oltre a tali aspetti, prettamente clinici, organici,

vi è poi un elemento di natura psicogena, ormai accertato.

Proseguendo su questa linea, uno dei maggiori problemi che incontriamo è

quello del reclutamento del personale sanitario (medici e infermieri). Attualmente

le tariffe non sono appetibili, né per un infermiere né per un medico; il

che comporta difficoltà di vario genere, tra le quali la mancanza di copertura

del servizio. Il mio timore è che, invece, un'azienda abituata a seguire

criteri manageriali e ad impostare un servizio soprattutto in ragione del

budget possa incontrare dei problemi ad affrontare un quadro di questo genere.

Ad esempio, quanto meno nell'area di Torino - ma credo anche in altre situazioni

- in estate gli ospedali accorpano dei reparti proprio per la mancanza di

risorse. Ma il nostro non è un settore ospedaliero normale, i soggetti interessati

non si trovano in condizioni di normale libertà, sono persone che si trovano

in istituto penitenziario.

Vi è poi il problema dell'integrazione tra i servizi, su cui esistono due

visioni differenti. In ogni caso, qualunque formula

 

 

 

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venga adottata in base alle disposizioni di legge, l'integrazione non può

essere stabilita attraverso regolamenti ma dipenderà sempre dalle persone

e dalla loro visione comune. Se questa integrazione viene a mancare, il

servizio ne patirà fortemente le conseguenze. All'interno del mio istituto,

ad esempio, vi è un servizio per le tossicodipendenze, sin da subito fermo

nel delineare la propria autonomia...

 

PRESIDENTE. Mi scusi se la interrompo, ma quello della tossicodipendenza

è un problema specifico degli istituti penitenziari, più che nella realtà

esterna. Nel corso dei nostri lavori abbiamo spesso ascoltato testimonianze

dell'esistenza di un problema particolare riguardante la tossicodipendenza

negli istituti penitenziari.

 

PIETRO BUFFA, Direttore della casa circondariale «Le Vallette» di Torino.

A ciò si aggiunga il problema della psichiatria; sono contesti abbastanza

simili. Su due temi rilevanti disponiamo di due servizi e due atteggiamenti

completamente diversi. Il servizio per le tossicodipendenze, correttamente

e legittimamente, ha sin da subito affermato - in maniera forte e chiara

- la sua specializzazione e autonomia, il suo carattere specialistico, anche

se ha mantenuto un certo livello di integrazione. Dall'altra parte vi è

un servizio psichiatrico, egualmente autonomo, ma gestito direttamente dall'azienda

sanitaria. Ad esempio, nel nostro istituto abbiamo due reparti psichiatrici,

gestiti con queste modalità ma con fondi non pubblici; abbiamo usufruito

di sovvenzioni da parte delle fondazioni bancarie, con tariffe molto diverse...

 

 

TIZIANA VALPIANA. Diverse in che misura?

 

PIETRO BUFFA, Direttore della casa circondariale «Le Vallette» di Torino.

Certamente più alte.

 

 

 

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Nonostante le tariffe più alte, l'atteggiamento è stato molto diverso: registriamo

un'integrazione, non so se definirla formalmente migliore, ma comunque sostanzialmente

diversa, così come è diverso anche il livello di efficacia. Si tratta di

un problema notevole; il carcere è un sistema che tende ad includere o escludere,

dipende dall'approccio. I detenuti che risiedono nelle carceri comprendono

immediatamente questi aspetti.

 

PRESIDENTE. Do la parola ai colleghi che desiderano intervenire.

 

GIACOMO BAIAMONTE. Desidero unirmi ai ringraziamenti rivolti ai nostri ospiti

per il loro intervento. Nella passata legislatura mi sono interessato dei

problemi della sanità penitenziaria ed ebbi anche occasione di presentare

alcune interrogazioni parlamentari in materia. Ricordo che raccolsi le proteste

di alcuni infermieri e di alcune guardie in servizio penitenziario, i quali

chiesero un incontro presso il mio gruppo parlamentare proprio per manifestarmi

il loro disagio e la loro protesta. Una delle loro lamentele riguardava

proprio la loro promiscuità con le patologie presenti nelle carceri.

Nella mia veste di medico mi sono interessato in maniera particolare di

questa vicenda. Se il nostro obiettivo è la prevenzione e quindi evitare

la diffusione delle malattie, allora, a mio avviso, abbiamo di fronte un

problema serio perché chi mi rappresentò quella situazione testimoniò di

venire a contatto sistematicamente, per ordine di servizio, con detenuti

tossicodipendenti, affetti da HIV, quindi con soggetti immunodepressi. Inoltre

a seguito di una mia indagine è emerso un incremento dei casi di infezione

e di tubercolosi. Si presenta pertanto un problema sanitario molto serio,

anche perché gli

 

 

 

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individui che entrano in contatto con tali pazienti possono veicolare le

infezioni all'esterno, in particolare alle loro famiglie.

Sono convinto che i problemi di questo settore siano di due ordini. Il primo

riguarda una categoria di detenuti malati cronici, tra i quali i tossicodipendenti,

i malati di AIDS e, in generale, i soggetti affetti da patologie infettive.

Vi è poi un'altra categoria di individui affetti da patologie di tipo occasionale,

ad esempio di origine alimentare, ai quali vanno aggiunti i simulatori.

Per questi ultimi è comunque necessario un esame diagnostico che accerti

la veridicità o meno della patologia.

A mio avviso è un errore affidare al Servizio sanitario nazionale la gestione

della sanità penitenziaria, anche in considerazione delle peculiarità di

questo settore. Ritengo che l'obiettivo principale dovrebbe essere quello

di creare un corpo sanitario alle dipendenze del Ministero della giustizia

(alla stregua del corpo carcerario) che disponga sia di una specializzazione

nei problemi carcerari sia di specialisti che collaborino in alcuni settori.

Certo, sono convinto che non possano essere previsti servizi sanitari penitenziari

per tutte le specialità mediche.

Ad esempio, svolgo nella mia città, Palermo, l'attività di professore universitario,

ordinario di chirurgia, e molto spesso mi è capitato di essere chiamato

presso il carcere dell'Ucciardone per trattare casi di detenuti affetti

da patologie polmonari serie, che necessitavano di un intervento chirurgico,

oppure soggetti affetti da pancreatiti croniche (causate, ad esempio, da

una calcolosi delle vie biliari).

Il problema è stato in parte risolto creando nell'ospedale principale una

sezione destinata ai detenuti, con una divisione di medicina ed una di chirurgia

destinate esclusivamente ai

 

 

 

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soggetti in condizioni cliniche particolari. Quindi non tutti possono usufruire

di tali servizi ma solo coloro che, versando in condizioni particolari,

necessitano di un ricovero ospedaliero. Ritengo, perciò, che i problemi

da voi lamentati vadano affrontati, come credo abbia fatto il Ministero

della giustizia prima di queste nuove disposizioni.

Molto spesso in questo ambito i problemi di giustizia si intersecano con

quelli dei magistrati e dei direttori delle case circondariali. Non va dimenticata,

infatti, la necessità di trattare questi soggetti principalmente sotto un

aspetto clinico, ma anche sintomatologico e psicologico (si tratta di casi

particolari, possono esservi anche dei simulatori). Proprio per tali motivi

sono necessari addetti ai lavori dotati di specializzazione, di predisposizione

e di comprensione particolari nei confronti dei detenuti. La mia convinzione

è che sia necessario un servizio alle dipendenze esclusive del Ministero

della giustizia e non un servizio promiscuo con il Servizio sanitario nazionale.

 

 

LUIGI GIACCO. Anch'io ringrazio i nostri ospiti per averci fornito una serie

di utili elementi di valutazione in un settore molto complesso come quello

penitenziario. Nel corso delle nostre periodiche visite nelle carceri ci

siamo resi conto dei problemi che si vivono all'interno degli istituti penitenziari.

Parlare in una Commissione parlamentare di queste tematiche è, tutto sommato,

semplice; molto più difficile è, invece, vivere quotidianamente sulla propria

pelle i problemi di tutti i giorni del settore penitenziario. La mia premessa

vuole essere anche un riconoscimento per coloro i quali, come i nostri ospiti,

vivono la loro professione a servizio dei detenuti.

Mi sembra chiaramente che i nostri ospiti abbiano opportunamente enfatizzato

e chiarito le condizioni dei detenuti che vivono in tali strutture. La loro

è una condizione che comporta

 

 

 

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una serie di conseguenze patologiche maggiori rispetto all'esterno anche,

e soprattutto, di natura psicologica. Talvolta, inoltre, vi sono casi di

soggetti che versano in condizioni patologiche particolari, di natura psicogena;

tali detenuti hanno necessità di trovare alternative alla routine quotidiana

e, quindi, anche le richieste di visite e di controlli sanitari diventano

un modo per instaurare un tipo di relazione differente e per cogliere un

elemento di diversità rispetto al quotidiano.

Vorrei conoscere l'opinione dei nostri ospiti su alcuni temi, in parte già

affrontati dal collega Baiamonte, non so, però, se in maniera condivisibile.

Certamente è necessaria la presenza di un servizio sanitario all'interno

delle carceri. Il concetto di sanità va però allargato fino a ricomprendere

la nozione generale di salute. Ossia, al di là di un intervento squisitamente

medico, negli istituti penitenziari è necessaria una organizzazione specifica;

mi riferisco, ad esempio, agli psicologi, a figure magari border line rispetto

al settore propriamente sanitario, come gli educatori. Anche questo è un

aspetto da valutare. Diversamente, resteremo fermi ad un approccio di tipo

strettamente sanitario, ad un concetto di sanità legato più alla patologia

che non al benessere ed alla salute complessivi. Non vorrei aprire un'ampia

discussione al riguardo, ma comunque ritengo che tali elementi andrebbero

affrontati.

Ritenete opportuna un'integrazione tra Servizio sanitario nazionale e sistema

sanitario penitenziario, oppure si dovrebbe giungere ad una soluzione in

cui vi sia un unico punto di riferimento (sia questo il Servizio sanitario

nazionale o un servizio dipendente dal Ministero della giustizia)? Non credete

anche voi che l'integrazione potrebbe rappresentare una facilitazione ma

forse potrebbe anche costituire un ulteriore elemento da gestire?

 

 

 

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In questi giorni sono stato contattato da diversi infermieri, i quali hanno

lamentato l'estrema carenza di personale all'interno delle carceri, turni

di lavoro eccessivi e situazioni - come da voi sottolineato - non gratificanti

sotto il profilo economico. È difficile organizzare un servizio di fronte

a difficoltà come la carenza di personale. Dovremmo affrontare il problema

e reperire risorse adeguate per tali obiettivi. In alcune carceri, come

avviene ad esempio nella mia zona, ad Ancona, delle prestazioni di 36 ore

diventano di 24, quindi con una riduzione dell'orario di lavoro degli infermieri,

con conseguenze negative nei vari reparti.

I nostri ospiti sono tutti direttori di istituti penitenziari di notevoli

dimensioni e quindi credo che siano i migliori testimoni dei problemi che

si incontrano in questo settore. Vorrei conoscere la vostra opinione rispetto

sia alla differenziazione sul territorio di questi problemi sia, in particolare,

alla possibilità di creare un servizio specifico che risolva il problema

dell'integrazione del personale.

Inoltre vorrei sapere se condividiate la necessità di un intervento ancor

più incisivo nel settore del personale, teso a fornire una risposta qualitativamente

migliore ai problemi dei detenuti, in un'ottica, però, che non tenga solo

ed esclusivamente conto della patologia ma anche delle condizioni complessive

di salute.

 

TIZIANA VALPIANA. Desidero anzitutto scusarmi con i nostri ospiti per il

ritardo; in realtà con i nostri ospiti dobbiamo scusarci spesso a causa

della quasi totale incertezza degli orari delle sedute. È anche per questo

motivo che oggi, ad ascoltare le loro preziose indicazioni, sono presenti

pochi parlamentari. Fortunatamente abbiamo il supporto del resoconto stenografico,

che consentirà ai colleghi oggi non presenti di conoscere le testimonianze

del vostro lavoro, sicuramente

 

 

 

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utili per le conclusioni della nostra indagine conoscitiva.

Ritengo che la figura del direttore di un carcere sia un elemento centrale.

A dire il vero, i nostri ospiti hanno avuto il pudore di non parlarci delle

loro condizioni personali di disagio. Credo, però, che chiunque di noi frequenti

le carceri si renda conto di come un direttore di un istituto penitenziario

abbia responsabilità enormi e gestisca un numero di lavoratori e di reclusi

elevato, a fronte di una scarsissima remunerazione economica e con ulteriori

oneri derivanti dal ruolo e dalla responsabilità che credo andrebbero approfonditi

unitamente al tema della capacità di decisione di questi soggetti.

In materia di prevenzione vorrei citare il caso del carcere di Verona (zona

da cui provengo) dove in questi giorni si stanno verificando due situazioni

estreme. Essendo stati individuati tre casi di tubercolosi, si è dovuto

procedere a circa 750 accertamenti diagnostici, con un aggravio enorme di

organizzazione necessaria a trasportare i detenuti e parte del personale

a sostenere le visite, a fronte evidentemente di un organico di personale

sottodimensionato, assolutamente ridotto nei ranghi. Tali visite, però,

secondo me servono a poco o nulla, fintantoché le celle destinate ad una

persona saranno abitate da tre e forse in un futuro prossimo da ben quattro

individui.

 

GIACOMO BAIAMONTE. È necessario distinguere i malati cronici dagli altri.

 

 

TIZIANA VALPIANA. È vero. Ma vivere in una cella in quattro invece che da

soli è differente, anche per chi non è malato cronico. E dirò di più: da

ieri in quell'istituto viene interrotta l'erogazione di acqua, per alcune

ore al giorno, a causa dell'insufficienza del sistema idrico. Tutto ciò

si verifica perché il numero dei detenuti è quattro volte maggiore della

 

 

 

 

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prevista capienza per cui è stato costruito il carcere. Pertanto, anche

servizi importanti come l'erogazione dell'acqua ed il riscaldamento invernale

non corrispondono alle necessità su cui erano stati tarati. Già nel periodo

di Natale dello scorso anno sono intervenuta sulla vicenda delle difficoltà

di riscaldamento e intendo seriamente fare altrettanto per la questione

dell'erogazione idrica.

Un direttore di un istituto penitenziario carcerario deve far fronte ai

problemi di medicina penitenziaria senza però disporre degli strumenti adeguati

per garantire quel corollario di adempimenti che sono una componente primaria

di qualsiasi attività di prevenzione. Mi chiedo allora se si terrà conto

che in questo paese vi è stato un taglio notevole dei fondi destinati alla

giustizia e di conseguenza al settore penitenziario. Vorrei sapere se i

nostri ospiti vivano una situazione di incertezza sulla ripartizione di

competenze in materia di sanità penitenziaria, non essendo, a mio avviso,

ben individuabili le funzioni trasferite al Servizio sanitario nazionale

da quelle invece rimaste al servizio sanitario penitenziario. Mi chiedo

quali possibilità di manovra abbiano realmente i direttori degli istituti

penitenziari e quali siano le loro capacità di intervenire concretamente

in tema di prevenzione e cura.

Sui temi della sanità penitenziaria la mia opinione è diametralmente opposta

a quella del collega Baiamonte. Credo che il cittadino il quale abbia contratto

un debito con la giustizia e per questo motivo si trovi in carcere non possa

veder leso il proprio diritto alla salute né debba ricevere un trattamento

sanitario diverso da quello di qualsiasi altro cittadino. Se come libera

cittadina posso disporre di un medico di base ed essere iscritta al Servizio

sanitario nazionale, perché non posso fare altrettanto come detenuta? Ritengo

necessario che chi si trovi in carcere mantenga comunque un medico di

 

 

 

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base (non dico lo stesso) e usufruisca degli stessi servizi a disposizione

degli altri cittadini. Credo, pertanto, che dovrà essere il Servizio sanitario

nazionale a farsi carico delle esigenze dei cittadini reclusi, certo disponendo

delle necessarie risorse.

A mio avviso, l'attuale situazione di tipo misto crea incertezza e rappresenta

la peggior soluzione possibile: non si dispone né delle risorse del Servizio

sanitario nazionale - peraltro decurtate anche per tutti gli altri cittadini

- né di quelle del Ministero della giustizia. Alcuni direttori di carceri

(credo in Sicilia) sembra abbiano risolto il problema della carenza di fondi

nell'unica maniera possibile: riducendo le ore di presenza degli infermieri.

Ma così si incide sulla salute!

Quali altri strumenti, allora, avete a disposizione per consentire un'adeguata

attività di prevenzione e cura dei detenuti e del personale da voi gestito

(tralasciando il problema della riabilitazione, che quasi non è possibile

affrontare neanche fuori dalle carceri)? Avete forse le mani legate, in

attesa di comprendere cosa accadrà in futuro?

 

PRESIDENTE. Non essendovi altre richieste di intervento, do la parola ai

nostri ospiti per le repliche.

 

SALVATORE ACERRA, Direttore della casa circondariale «Poggioreale» di Napoli.

Personalmente ritengo che la corretta impostazione nei confronti della necessità

o meno di una sanità penitenziaria specifica risieda in una via di mezzo,

cioè in una situazione di integrazione con il Servizio sanitario nazionale.

Sono convinto che una tale integrazione debba necessariamente esservi; non

si può pretendere - sia detto chiaramente - che l'istituto penitenziario

diventi a tutti gli effetti un ospedale. A mio avviso l'integrazione è indubbiamente

nei fatti; altrimenti sarebbero necessarie risorse notevoli.

 

 

 

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Basti pensare che tra i vari istituti penitenziari ve ne è uno solo che

dispone di un centro clinico, quello di Pisa, dove è possibile effettuare

una TAC. È indubbiamente preferibile che i detenuti possano effettuare una

TAC sul posto ed evitare così un esborso notevole di risorse.

Sono convinto che una sanità penitenziaria debba continuare ad esistere,

per un motivo molto semplice: anzitutto perché altrimenti perderemmo tutte

le professionalità acquisite, inoltre perché in realtà il detenuto deve

essere trattato come un normale cittadino. Credo che nessun direttore di

istituto penitenziario abbia mai pensato il contrario e si sforzi - naturalmente

- affinché queste condizioni si verifichino, sia pure con le attuali disponibilità.

 

Indubbiamente, una volta stabilito ciò, bisognerebbe comprendere quali prestazioni

sia in grado di assicurare il Servizio sanitario nazionale. I medici che

lavorano nel nostro campo necessitano di una certa esperienza; l'approccio

tra medico e paziente (chiunque esso sia) non è lo stesso se il paziente

si trova in carcere o meno. Personalmente ritengo che le due situazioni

siano completamente diverse. Certo, come ricordava l'onorevole Baiamonte,

da questa analisi vanno esclusi i simulatori (chi vuole approfittare di

tali situazioni); ma gli altri, coloro che non simulano, presentano delle

necessità diverse da chi si trova in stato di libertà. Il medico che si

occupa di sanità penitenziaria deve avere una professionalità specifica,

che naturalmente col tempo può essere acquisita anche dal personale sanitario

delle ASL. È però importante che queste prestazioni siano assicurate dagli

stessi medici. Purtroppo, molte volte le ASL utilizzano personale in turn

over, come avviene nei Ser.T, creando condizioni di difficoltà.

 

 

 

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Ma con ciò non voglio sostenere che il Servizio sanitario nazionale non

sia in grado di svolgere le funzioni di sanità penitenziaria.

Affronto ora il tema delle realtà territoriali; provengo da Napoli, dove

non mi pare il Servizio sanitario nazionale abbia un grande interesse ad

occuparsi delle problematiche dei detenuti. Si sappia che la regione Campania,

nell'ambito del piano sanitario regionale, aveva individuato nell'ospedale

Cardarelli di Napoli la sede di un reparto detentivo. Ebbene, questo reparto

è ormai chiuso da anni! E i ricoveri avvengono nelle normali corsie dei

vari ospedali! È necessario verificare l'esistenza di una effettiva volontà

e attenzione verso questo settore; dopo la trasformazione in aziende delle

unità sanitarie non credo che ciò avvenga. Forse sarebbe necessario creare

una rete di rapporti con le direzioni dei vari istituti penitenziari; inoltre,

il passaggio dei compiti di sanità penitenziaria alle aziende sanitarie

ed una migliore interazione fra i vari soggetti interessati possono rappresentare

il modo per alleggerire i direttori degli stessi istituti di una parte delle

loro responsabilità.

 

CARMELO CANTONE, Direttore della casa circondariale «Rebibbia Nuovo complesso»

di Roma. Siamo tutti d'accordo sulla necessità di conseguire in tema di

sanità penitenziaria una cultura comune tra chi gestisce le strutture penitenziarie

- la direzione e l'amministrazione penitenziaria - e chi si occupa di medicina

all'interno degli istituti di pena. Le difficoltà nel conseguire questa

visione comune non sono molto lontane dalle difficoltà di dialogo che si

incontrano normalmente nelle carceri. Ad esempio, ciò avviene quando un

detenuto deve affrontare un ricovero o una visita urgente e i nostri medici

debbono discuterne con il personale di sicurezza, la polizia penitenziaria

e i direttori degli istituti.

 

 

 

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Chi conosce il mondo delle carceri sa che, ogni qual volta vi è una richiesta

di visita urgente - soprattutto nel periodo estivo - che possa comportare

un ricovero (ma anche una permanenza all'esterno di poche ore), questo intervento

fuori dall'istituto mette in crisi le strutture penitenziarie (anche quelle

di una certa consistenza). Non deve stupire che anche in una struttura come

la casa circondariale «Rebibbia Nuovo complesso», che dispone di mille agenti,

quando è necessario trasferire all'esterno un detenuto in orari particolari

ci si trova di fronte a variabili inquietanti. In tali casi subentrano a

volte delle contrattazioni, con richieste di rinviare il ricovero al giorno

seguente.

Se malauguratamente il detenuto, trasferito all'esterno per un ricovero

urgente, viene rinviato alla struttura penitenziaria in quanto non è stato

ritenuto necessario il ricovero, allora si verifica una situazione di malessere

spiacevole. Il medico che ha disposto quel ricovero passerà per un soggetto

che non tiene conto delle esigenze di custodia e non sa valutare la reale

gravità di una situazione. Questi pericoli, queste situazioni di disagio

in cui ci si può trovare (e che per il nostro ruolo di direttori siamo chiamati

a gestire) si potrebbero riproporre anche in futuro qualora passasse il

concetto di trasferire la sanità penitenziaria al Servizio sanitario nazionale

(sia pur in un'ottica di specializzazione).

Non so se l'idea dell'onorevole Baiamonte possa avere delle prospettive;

è mia personale opinione, però, che se vogliamo valorizzare le specificità

della sanità penitenziaria all'interno di un corpo separato o nell'ambito

dello stesso Servizio sanitario nazionale, allora dobbiamo far sì che l'attività

del medico penitenziario sia preponderante. Attualmente la legge n. 296

del 1993 stabilisce che l'attività svolta dai medici

 

 

 

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penitenziari all'interno degli istituti penali è compatibile con qualsiasi

altra prestazione svolta nell'ambito del Servizio sanitario nazionale.

Un medico incaricato, responsabile della gestione del servizio sanitario

di un istituto (a «Rebibbia Nuovo complesso» ve ne sono 7, ciascuno responsabile

di un settore) è chiamato a prestare servizio nell'istituto per 18 ore settimanali

(la media è di 3 ore al giorno, ma può accadere che i medici prestino servizio

per mezzora un giorno e poi recuperino nei giorni successivi). E questo

è ritenuto compatibile con l'attività di medico di base, di primario ospedaliero

e con le altre attività svolte all'esterno...

 

TIZIANA VALPIANA. Mi sembra riemerga il problema dell'esclusività ...

 

CARMELO CANTONE, Direttore della casa circondariale «Rebibbia Nuovo complesso»

di Roma. Forse. Mi chiedo allora cosa accadrebbe se questo comportamento

fosse ammissibile anche per un direttore di istituto o per qualsiasi altra

professionalità, anche meno impegnativa di quella di medico penitenziario.

Come si fa a lavorare nell'istituto penitenziario e ad avere la mente impegnata

altrove, o viceversa? E non mi pare neanche che ciò valorizzi l'esclusività

o la «primarietà» del medico penitenziario. Ovviamente vanno riconosciuti

un'adeguata retribuzione ed un adeguato ruolo professionale al personale

che presta servizio sanitario in carcere.

Chi lavora come medico nelle carceri, come ruolo principale deve svolgere

solo quello di medico penitenziario; solo così miglioreranno anche le condizioni

di vivibilità e il rapporto con i pazienti. Spesso i detenuti - al di là

delle singole realtà - lamentano situazioni problematiche relative al rapporto

tra medico e paziente; certo, a volte sbagliano o

 

 

 

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esagerano: molti medici realizzano moltissimo per valorizzare questo rapporto.

Si tratta però di un problema reale. Un medico che svolga la propria attività

principalmente nell'istituto, ad esempio sin dalla mattina, e che vi presti

la sua opera per molte ore al giorno (come gli educatori, gli ispettori

o i direttori di reparto dei grandi istituti) garantirebbe quel tipo di

professionalità necessaria per ottenere un'adeguata vivibilità ed un migliore

rapporto tra detenuto-paziente e settore sanitario.

 

PRESIDENTE. Per ora i medici penitenziari sono gli unici che svolgono una

doppia attività.

 

CARMELO CANTONE, Direttore della casa circondariale «Rebibbia Nuovo complesso»

di Roma. Sì, è vero.

 

GIACOMO BAIAMONTE. Ma esiste anche un problema di orario di lavoro!

 

LUIGI GIACCO. La non esclusività l'avete voluta voi!

 

TIZIANA VALPIANA. È vero!

 

PIETRO BUFFA, Direttore della casa circondariale «Le Vallette» di Torino.

Credo che il nostro compito qui oggi sia non tanto quello di esprimerci

in favore o meno di una medicina penitenziaria specifica, quanto piuttosto

di fornire gli elementi utili ad assumere delle decisioni in materia. Certo,

quello sollevato è un problema strisciante nel dibattito quotidiano.

Vorrei comunque replicare all'affermazione sulle differenze tra concetto

di salute e sanità negli istituti penitenziari. Se effettivamente desideriamo

migliorare le condizioni sanitarie e, più in generale, lo stato di salute

all'interno delle carceri,

 

 

 

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dobbiamo considerare che il carcere è un sistema dove qualunque elemento

nuovo che intervenga comporta delle conseguenze. Una delle posizioni fortemente

richiamate in occasione delle modifiche apportate dal decreto legislativo

n. 230 del 1999 è stata quella secondo cui - giustamente - all'interno degli

istituti penitenziari i cittadini italiani o stranieri detenuti non dovevano

usufruire di una sanità diversa (dove per «diversa» si intendeva peggiore)

rispetto a quella garantita dal Servizio sanitario nazionale. Si tratta

di una posizione forte e corretta, ma vi è un particolare da sottolineare:

se non teniamo conto del sistema penitenziario in tutte le sue accezioni

non riusciremo mai a conseguire tale obiettivo.

In base alla mia esperienza, ritengo che se in questo settore si incontrano

dei problemi ciò non sia dovuto alla carenza professionale di medici e infermieri

o delle organizzazioni che gestiscono l'assistenza sanitaria all'interno

degli istituti penitenziari. Anzi, frequentemente avviene il contrario:

spesso vi è un'inflazione terapeutica, quasi un accanimento. Ma allora qual

è il problema reale? Se in un solo giorno si richiedono 10, 20 o 40 visite

specialistiche, sarà impossibile poterle effettuare! E ciò determina diverse

conseguenze negative, alcune già evidenziate dal collega Cantone. È evidente

quanto sia complicato scortare all'esterno un detenuto, in particolare se

non consideriamo anche gli altri limiti del sistema penitenziario (ad esempio

di organico). Ed ancora, quando ad un soggetto detenuto sono prescritte

analisi specialistiche, anche particolarmente avanzate e complesse, e questi

assiste ad un ritardo e ad un inadempimento dell'amministrazione nello svolgere

tali accertamenti, ciò non fa che determinare ulteriore malcontento nell'individuo

detenuto. E questo inciderà ulteriormente sulla sua salute e sul suo atteggiamento

nei confronti del sistema.

 

 

 

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Decidere in favore o meno di una sanità penitenziaria specifica rappresenta

forse un falso problema. Probabilmente sarebbe opportuno analizzare tutti

i fattori che intervengono dal momento della diagnosi a quello della terapia

e della risoluzione del problema e quali sono gli elementi che incidano

sulla effettiva capacità di prestare cure sanitarie all'interno delle carceri.

 

L'onorevole Valpiana ha chiesto se noi, come direttori di istituti penitenziari,

abbiamo le mani legate. Sono molte le possibili risposte a questa domanda;

e tutte concrete. Anzitutto vi è un problema di razionalizzazione del sistema.

È chiaro che un soggetto detenuto è maggiormente disposto ad addebitare

particolari responsabilità al proprio terapista o al proprio amministratore.

In effetti, negli istituti penitenziari esiste una forte contrapposizione

tra questi soggetti e ciò comporta che, in alcune circostanze, sulla base

del timore della propria responsabilità si dia origine ad una vera e propria

inflazione terapeutica e ad una eccessiva richiesta di accertamenti, con

immaginabili conseguenze economiche. Il problema che maggiormente si evidenzia,

in realtà, è proprio la difficoltà nel reperire le risorse necessarie; prima

individuiamo queste risorse, e poi decideremo dove collocarle!

La questione delle tariffe, degli stipendi, poi, non è certo ininfluente

in un'ottica sistemica. In genere, soprattutto nelle professioni infermieristiche

e mediche (specialistiche in particolare), è ovvio che i più bravi si fanno

pagare di più. E chi accetta un incarico di questo genere, può anche farlo

in relazione ad una sua impossibilità di ottenere introiti di altro tipo,

anche se non è sempre così: personalmente conosco casi di alcuni colleghi,

medici e infermieri, che non svolgono questa attività solo per denaro ma

anche perché lavorare in carcere da un punto di vista personale e professionale

è quanto meno

 

 

 

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interessante. Si lavora in un contesto diverso da qualunque altro; però

questo è un altro argomento. Quindi, se ci si pone nell'ottica di ricercare

un migliore equilibrio della sanità, a mio avviso dobbiamo ragionare sugli

elementi da me evidenziati.

 

PRESIDENTE. Vi ringrazio per le vostre esaurienti risposte, per quanto lo

possano essere in un ambito come questo. Sicuramente la vostra esperienza

sarà di aiuto per tutti noi. Come ha ricordato l'onorevole Valpiana, i direttori

degli istituti penitenziari sono coloro che, più di altri, hanno contezza

della reale situazione nelle carceri e sono in grado di esporre le esigenze

di tutti, non solo di medici o detenuti. Per parte nostra abbiamo ascoltato

tutti, rappresentanti di categoria dei medici e...

 

TIZIANA VALPIANA. Dei detenuti non ancora!

 

PRESIDENTE. Lo faremo, anche se è difficile farlo in questa sede... abbiamo

però già incontrato i rappresentanti di associazioni interessate. L'odierna

audizione ci consente di valutare la situazione del settore penitenziario

dal punto di vista centrale dei direttori degli istituti di pena; è chiaro

che sia i medici sia i detenuti difendono il proprio settore. Ricordo, comunque,

che sono state presentate alcune proposte di legge in materia, di cui una

a firma dell'onorevole Mario Pepe.

Ritengo che l'obiettivo principale da perseguire in questo ambito sia un'integrazione

tra Servizio sanitario nazionale e medicina penitenziaria. Non credo sia

possibile affidare l'assistenza sanitaria negli istituti penitenziari esclusivamente

ad un solo settore, sia esso il Servizio sanitario nazionale o un servizio

penitenziario specialistico. Inoltre, anche dal punto di vista economico

è necessaria un'integrazione quanto più efficace

 

 

 

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possibile. L'assistenza sanitaria è un compito difficile già per il solo

Servizio sanitario nazionale; come pensiamo che se ne possa occupare la

sanità penitenziaria da sola? Determinate attrezzature, che oggi costano

moltissimo, non sono acquistabili se non a fronte di una integrazione fra

i vari servizi. È necessario trovare il giusto equilibrio tra i vari settori

per conseguire un reale miglioramento di queste attività.

 

GIACOMO BAIAMONTE. Signor presidente, vorrei brevemente contribuire ricordando

una mia esperienza personale. Ho conosciuto il professor Giglio, che prestava

la sua opera presso il carcere dell'Ucciardone di Palermo; costui era stimato

e apprezzato, sia dai direttori sia dai detenuti. Ebbene, quando decise

di lasciare l'incarico egli venne vivamente pregato di proseguire la sua

opera e accettò. Evidentemente riteneva che fosse personalmente gratificante

prestare la propria opera in un carcere, anche gratuitamente...

 

CARMELO CANTONE, Direttore della casa circondariale «Rebibbia Nuovo complesso»

di Roma. Si occupava di medicina specialistica?

 

GIACOMO BAIAMONTE. Sì.

 

MARIO PEPE. Signor presidente, credo sia giunto il momento di incardinare

nel calendario dei lavori della Commissione la discussione sui provvedimenti

in materia. Sono mesi che stiamo svolgendo queste audizioni ed ormai conosciamo

benissimo i vari problemi, anche per aver partecipato a diversi convegni.

Attualmente vi è un vuoto nella sanità penitenziaria. In effetti, i medici

penitenziari vivono in una sorta di limbo, di incertezza che si ripercuote

anche sulla serenità del loro

 

 

 

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lavoro. Non c'è certezza per il futuro e spetta, quindi, alla politica fornire

delle sicurezze in questo settore, in qualsiasi modo!

È importante che la Camera del deputati esamini questo problema. A mio avviso

possiamo ascoltare i rappresentanti anche di altre associazioni; è, però,

necessario calendarizzare l'esame delle varie proposte di legge in materia

ed avviarne la discussione generale. Altrimenti questa riforma tornerà in

mano all'Ulivo, che ha già combinato dei guasti (Commenti). Abbiamo visto

la sperimentazione cosa ha comportato (Commenti).

 

PRESIDENTE. Colleghi, per cortesia.

 

KATIA ZANOTTI. Signor presidente, vorrei replicare...

 

PRESIDENTE. Colleghi, vi prego, non è un problema che riguarda né i nostri

ospiti né l'ordine del giorno della seduta odierna. Affronteremo tali tematiche

nelle sedi opportune, come l'ufficio di presidenza.

Ringrazio gli auditi per il loro utile contributo ai nostri lavori e dichiaro

conclusa l'audizione.

 

La seduta termina alle 15,30.

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