XIV LEGISLATURA
CAMERA DEI DEPUTATI
N. 4237
PROPOSTA DI LEGGE
d'iniziativa dei
deputati
- BOATO, FILIPPO
MANCUSO, BUEMI, VERDINI, FINOCCHIARO,
- MONGIELLO,
PISICCHIO, PISAPIA, BRUGGER, COLA, REALACCI, RIZZO,
- CRAXI, BRESSA,
RUGGERI, ACQUARONE, SINISCALCHI, DILIBERTO,
- SODA, SAPONARA,
CENTO, SCHMIDT, ROCCHI, GENTILONI SILVERI,
- FANFANI,
GIACHETTI, CHIAROMONTE
Norme di attuazione
dell'articolo 87 della Costituzione,
in materia di
concessione della grazia
Presentata il 30
luglio 2003
XIV LEGISLATURA
PROGETTO DI LEGGE
- N. 4237
Onorevoli Colleghi! - Questa è una proposta di
legge ad personam, anzi ad officium. Destinatario delle norme del progetto che
qui si illustra è "esclusivamente" il Presidente della Repubblica al quale si
intendono restituire un potere e una responsabilità costituzionali che a lui
solo competono: la "concessione della grazia e la commutazione delle pene", ai
sensi dell'undicesimo comma, dell'articolo 87 della Costituzione.
Tutti gli interpreti sono concordi nel ritenere
che gli atti del Capo dello Stato indicati in tale disposizione si possano
distinguere in due categorie: gli atti di natura e origine "sostanzialmente e
formalmente" presidenziali e gli atti di derivazione (prevalentemente)
governativa e parlamentare espressione di responsabilità ed indirizzo politico o
amministrativo che richiedono il concorso (solo) formale del Capo dello Stato,
nel momento dell'emanazione, in quanto rappresentante e garante dell'unità
dell'ordinamento. Vi sono poi, "al di fuori dell'articolo 87" della Costituzione
altre attività e atti del Capo dello Stato che si possono definire
"concorrenti", in quanto la loro "formazione e perfezione" comporta la
partecipazione-adesione di altri soggetti costituzionali. E' il caso dello
scioglimento anticipato delle Camere, della nomina del Presidente del Consiglio
dei ministri (e, secondo un'opinione controversa, dei Ministri); decisioni che
richiedono il concorso bilanciato delle volontà di entrambi i soggetti
costituzionali.
Non è stato difficile per la dottrina, e nella
prassi, individuare gli atti "sostanzialmente" presidenziali. Si tratta di
manifestazioni del ruolo di sapiente equilibrio e di moderazione che il Capo
dello Stato è chiamato ad assolvere nella organizzazione costituzionale,
soprattutto per assicurare che la vita democratica non perda gli essenziali
connotati pluralistici. Si possono in proposito ricordare i poteri di nomina di
una quota esigua di senatori a vita, oltre i circuiti della stretta appartenenza
partitica, e di un terzo dei giudici della Corte costituzionale. Rilevante è
inoltre il potere di "attenzione e di richiamo" che il Presidente della
Repubblica esercita in piena e responsabile "autonomia" attraverso i messaggi
alle Camere. Infine: il potere di concedere la grazia e di commutare le pene.
Anche la sintassi costituzionale, l'utilizzazione del termine "può", per queste
ultime due ipotesi segnala la piena autodeterminazione che è riservata al Capo
dello Stato.
Siffatta distinzione tra gli atti presidenziali
impone una coerente, adeguata e sistematica interpretazione dell'articolo 89,
primo comma, della Carta laddove afferma che "Nessun atto del Presidente della
Repubblica è valido se non è controfirmato dai ministri proponenti, che ne
assumono la responsabilità".
Anche in questo caso esiste sufficiente
uniformità di opinioni tra gli studiosi che sono pervenuti alla conclusione che
gli atti ai quali fa esplicito riferimento la disposizione sono quelli di natura
e origine non presidenziale, che si formano nelle sedi proprie della
responsabilità politica-amministrativa. E lo scopo dell'enunciato è quello di
limitare le responsabilità del Presidente della Repubblica agli aspetti formali
del rispetto delle attribuzioni e dei procedimenti costituzionali. Insomma, la
sua firma assumerebbe il significato di un mero (secondo alcuni solo sintomatico
o preliminare) accertamento di "non esorbitanza" delle decisioni governative dal
quadro costituzionale.
Tale regola non può evidentemente valere per
gli "atti propri" del Presidente della Repubblica. In assenza di una previsione
esplicita per questa pur circoscritta categoria, due sono le possibili
soluzioni: ritenere che gli atti strettamente presidenziali non necessitano
affatto di controfirma per la loro validità; oppure attribuire alla "necessaria"
controfirma ministeriale un significato e un valore differenti.
Prevale (ed è certamente preferibile) la
seconda conclusione per una serie di ragioni di sistema, relative alla forma di
governo parlamentare italiana, e di ordine "pratico". Per questo secondo profilo
basti osservare che il Capo dello Stato non dispone di un'organizzazione
autosufficiente in grado di dare esecuzione alle "proprie" manifestazioni di
volontà. Cosicché la controfirma del Ministro (non proponente, ma) "competente"
avrebbe il valore di un impegno a dare esecuzione alla volontà del Capo dello
Stato espressione dei suoi esclusivi poteri. A corollario - tenuto conto
dell'architettura del complessivo sistema costituzionale ad "equilibri diffusi"
- non parrebbe ultronea la tesi di chi assegna alla controfirma del Ministro
competente anche il significato (implicito) di attestato dell'esercizio da parte
del Presidente della Repubblica di poteri che gli spettano, in conformità alla
Costituzione.
Il potere di grazia (e di commutazione delle
pene) è stato variamente e "pigramente" interpretato e inquadrato dalla dottrina
e dall'opinione pubblica. In sostanza ci si è, perlopiù, adagiati a un'esegesi
di tipo "tradizionale e residuale". La stessa Assemblea costituente approvò o
forse si potrebbe dire "accolse" l'istituto in questione senza discussioni (sia
in Sottocommissione, sia in Assemblea) come un lascito non troppo ingombrante
del periodo statutario, quasi per non deprimere troppo la dignità formale del
Presidente della Repubblica a confronto con il precedente sovrano. In sostanza:
la riconferma di un "potere di clemenza" per dare lustro alla massima Autorità
sintesi della sovranità statale (nel ricordo, forse, dell'antico jus vitae ac
necis). Peraltro, una simile attribuzione suscitò anche diffidenza in quanti la
riconducevano al potere del sovrano, nel regime assoluto, di dispensare sudditi
"favoriti" dall'osservanza delle leggi, potere abbattuto dai princìpi egualitari
e liberali della rivoluzione francese. Proprio in questa prospettiva di
affrancamento dagli antichi e inammissibili privilegi, Vittorio Emanuele Orlando
all'Assemblea costituente (22 ottobre 1947) negava che nello Stato monarchico
liberale la grazia potesse essere intesa come un'attribuzione personale del Re,
ma - al pari degli altri poteri dal medesimo esercitati in quanto rappresentante
dello Stato - essa doveva essere ritenuta condizionata o "limitata" dalla
controfirma ministeriale (del Guardasigilli).
Da questa ricostruzione "essenzialmente"
storica (e "non" da altre fonti o ragionamenti) si è affermata, già nei primi
commenti alla Costituzione repubblicana, la tesi che il potere di grazia non
potesse essere esercitato "al di fuori della <sostanziale> responsabilità
ministeriale" (in tal senso cfr. Falzone, Palermo, Cosentino, La Costituzione
della Repubblica italiana, commento all'articolo 87, Roma 1948). Non solo: si
sosteneva anche che la materia dovesse continuare ad essere regolata addirittura
dalla consuetudine, la quale "aveva ancora più ristretto la configurazione del
diritto di grazia, poiché le proposte di grazia debitamente istruite del
Ministero della giustizia, sono presentate al Capo dello Stato solo se il parere
espresso dai competenti uffici sia favorevole, mentre quelle con parere negativo
sono direttamente archiviate" (ivi).
Questo approccio è certamente all'origine della
vigente normativa sull'istituto della grazia, sulla sua "proceduralizzazione"
contenuta nell'articolo 681 del codice di procedura penale.
Ma è un approccio appunto "retrospettivo", non
innovativo e non in armonia con una Costituzione che ha voluto affermare la
netta discontinuità con i precedenti ordinamenti e la loro impostazione
soprattutto negativa, tesa a "frenare" i poteri costituzionali piuttosto che a
valorizzare la loro funzione propulsiva (seppure, si è già detto, equilibrata)
per il raggiungimento di fini ed obiettivi di convivenza che la Costituzione
generosamente enuncia e che lo Statuto non considerava.
A differenza di questo, la Carta repubblicana
non nasce con l'intento importante, ma insufficiente, di circoscrivere e di
ridistribuire il potere (dominio) tra soggetti costituzionali, di imporre aree
(libertà) protette dagli arbitrii del potere pubblico; ma piuttosto con
l'ambizione di riconoscere e di perseguire valori di vita e di integrazione
nella comunità (nelle comunità).
La figura del Presidente della Repubblica non
può essere delineata in negativo semplicemente come "potere limitato", anzi "più
limitato" del Re statutario. La Costituzione definisce la figura del Capo di
Stato "in positivo", con concetti e parole importanti: "rappresenta l'unità
nazionale" anche, e forse soprattutto, quale sintesi delle virtù della
Repubblica. I poteri e i compiti che la Costituzione assegna al Capo dello Stato
sono enumerati, di diversa estensione ed intensità, ma tutti vanno "presi sul
serio" per quel che sono. L'idea del potere-orpello "residuale o marginale" è
estranea alla cultura democratica e alle esigenze stesse della predefinizione
dei ruoli e delle funzioni costituzionali ai fini della stabilità e
dell'equilibrio del sistema e della convivenza.
Anche il potere di concedere la grazia e di
commutare le pene deve pertanto essere compreso se non come nuovo, certamente
come innovativo. Già si è sottolineato che si tratta di un potere autonomo.
Esercitandolo - quando valuta che ci siano le condizioni per esercitarlo - il
Presidente della Repubblica non partecipa all'amministrazione della giustizia,
sia pure lato sensu, come si riteneva in regime liberal-statutario (così ancora
nel commento sopra citato); neppure interviene per rimediare - extrema ratio- a
disfunzioni di altri poteri costituzionali. Altrettanto inadeguato è includere
la grazia (e la commutazione delle pene) nella categoria della "clemenza
istituzionale".
La grazia si profila certamente come intervento
"eccezionale e singolare" diretto alla rimozione di "una" sofferenza irrogata
legalmente, secondo le regole dell'ordinamento, dal giudice penale, la quale è
percepita "ad un certo punto della vicenda umana del condannato" come non più
sostenibile e inutilmente afflittiva (anche in una logica retributiva della
pena), in presenza di sopravvenute condizioni oggettive e soggettive
"specifiche" che è difficile ridurre in una casistica generale ed astratta. Al
tempo stesso la grazia è provvedimento in favore della stessa società civile,
che può "positivamente" recuperare l'apporto di vite "sterilmente" (anche se
legalmente) segregate.
La valutazione della sussistenza del concorso
di queste circostanze soggettive ed oggettive non può che essere affidata ad un
soggetto istituzionale "unificante" super partes (il più "alto" soggetto
istituzionale) che impersona, secondo Costituzione, le virtù e i valori dello
Stato-comunità, soprattutto quelli di più ardua realizzazione "effettiva" della
convivenza: la "mitezza" (non arbitraria), l'"integrazione", la "dignità della
vita". Cioè: il Presidente della Repubblica.
Merita osservare, ancora una volta, che il Capo
dello Stato, "Presidente della Repubblica", non può essere equiparato al Capo
dello Stato, "Re", del precedente ordinamento statutario. Il primo è espressione
massima della comunità e dei suoi valori: è da questa investito con procedure
elettorali seppure indirette. Il secondo era esterno alla comunità, ad essa si
sovrapponeva in quanto legittimato da inconfutabili fonti tradizionali e
trascendentali.
Il potere di grazia, pur riconosciuto con
identiche parole nello Statuto (articolo 8: "Il Re può far grazia, e commutare
le pene") e nella Costituzione, assume dunque nei due contesti storici e
costituzionali un significato differente e, conseguentemente, richiede
un'applicazione profondamente diversa. "Prima:" manifestazione di supremazia e
della forza della sovranità; "ora:" manifestazione-interpretazione delle virtù
civili della società, in una prospettiva non solo statualistica, ma
universalistica recepita formalmente e solennemente dall'articolo 2 e
diffusamente da altri precetti della Costituzione.
La grazia è comunemente ed erroneamente
associata ad altri provvedimenti di clemenza generali (l'indulto e l'amnistia),
affidati alla responsabilità "politica" del Parlamento, che può deliberarli
sulla base dei più vari parametri di opportunità (dal sovra-affollamento
carcerario ad esigenze di pacificazione politica...). Il Presidente della
Repubblica è libero da responsabilità politiche, non decide in via generale, ma
caso per caso; non è guidato da ragioni di opportunità, ma da ragioni di
umanità; non interferisce con la giustizia legale dei processi, ma interviene
per affermare una giustizia dei valori che non sempre può essere amministrata
dalle corti.
Se questo è il contesto, se queste sono le
ragioni in cui si colloca il potere "autonomo" di grazia che l'articolo 87,
undicesimo comma, affida al Presidente della Repubblica, è indispensabile
restituirgli la Sua "solitudine", pur "assistita". Ciò comporta innanzitutto la
radicale revisione o meglio la soppressione delle vigenti procedure fissate dal
legislatore (in conformità a prassi "precostituzionali") nell'articolo 681 del
codice di procedura penale (che riproduce in gran parte la disciplina contenuta
nell'articolo 595 del precedente codice Rocco). Il quale illegittimamente rende
"vincolato" o, se si preferisce, "condiviso" l'esercizio del potere medesimo ad
opera di due autorità, il Capo dello Stato e il Ministro della giustizia, dotate
di differente legittimazione, che si trovano a dover "rispondere" ad esigenze
non sempre coincidenti, in prospettive anche temporali diverse.
L'articolo 681 del codice di procedura penale
prevede vari tipi di procedure rivolte alla concessione della grazia con
riferimento ai soggetti legittimati a proporre la relativa domanda,
tassativamente indicati: il condannato medesimo o un suo prossimo congiunto (ai
sensi dell'articolo 307, quarto comma, del codice penale rientrano nella
categoria: gli ascendenti, i discendenti, il coniuge, i fratelli, le sorelle,
gli affini nello stesso grado - ma non in caso di morte del coniuge e in assenza
di prole -, gli zii e i nipoti). In una prospettiva "premiale" anche i consigli
di disciplina degli istituti penitenziari possono assumere l'iniziativa della
"proposta" di grazia.
Essa può essere concessa anche "in assenza di
domanda o proposta" (l'ipotesi non era contemplata nel codice di procedura
penale del 1931), ma in ogni caso è sottoposta ad una serie di gravosi "filtri"
giurisdizionali (magistrato di sorveglianza, procuratore generale presso la
corte d'appello competente, presidente del consiglio di disciplina). Ed è,
infine, il Ministro della giustizia che decide sull'opportunità di sottoporla al
Presidente della Repubblica.
Risulta evidente che in questo modo egli viene
fortemente deprivato di un potere che la Costituzione affida in via esclusiva
alla sua "coscienza istituzionale" e, di converso, con siffatta formalizzazione
la grazia viene a ricadere tra gli atti di opportunità politica soggetti a
responsabilità ministeriale (o di governo).
La presente proposta di legge "di attuazione"
dell'undicesimo comma dell'articolo 87 della Costituzione, intende - come si è
già affermato - ripristinare il ruolo attivo e la responsabilità (non politica)
del Capo dello Stato e, al tempo stesso, rimarcare il valore eccezionale e
singolare del provvedimento di grazia. Ciò peraltro non significa che la
"solitudine" del Presidente della Repubblica debba comportare la rinuncia ad
essenziali servizi di sostegno tecnico-giuridico che gli consentano di conoscere
"adeguatamente" le situazioni di fatto e di diritto e di maturare con la
necessaria "prudenza" le sue decisioni.
Il ministro della giustizia, in osservanza al
principio di "leale cooperazione", rimane utile interlocutore del Presidente
della Repubblica, mettendogli a disposizione le competenze e i servizi
(organizzati nella Direzione generale della giustizia penale, ai sensi
dell'articolo 4 del regolamento di cui al decreto del Presidente della
Repubblica 6 marzo 2001, n. 55) funzionali alla maturazione e all'adozione delle
sue decisioni.
In questo senso si è usata l'espressione
"solitudine assistita".
Nella stessa linea di valorizzazione
dell'autonoma iniziativa del Presidente della Repubblica non è parso rilevante
disciplinare le modalità per la presentazione di "richieste formali" di grazia
al medesimo. In effetti egli, nella società democratica aperta, può essere
sensibilizzato all'esame di singoli casi da fonti molteplici e di diverso
impatto: da campagne di opinione pubblica, da segnalazioni di semplici cittadini
e degli stessi interessati. Chiunque può rivolgersi al Capo dello Stato, ma a
lui solo spettano "l'insindacabile sensibilità e responsabilità" di fronte alle
diverse situazioni e vicende.
Il decreto di grazia è controfirmato dal
Presidente del Consiglio dei ministri. Come si è già detto, la sua
sottoscrizione non assume il significato di corresponsabilità dell'atto, ma
semplicemente attesta l'avvenuto esercizio di un potere proprio del Presidente
della Repubblica. L'eventuale diniego della controfirma, che renderebbe
inefficace l'atto presidenziale, segnalerebbe che il Presidente del Consiglio
dei ministri valuta esorbitante o non rispondente ai principi e ai valori
costituzionali l'atto medesimo. In tale caso saremmo certamente in presenza di
un conflitto di attribuzione che spetterebbe alla Corte costituzionale
risolvere.
L'approvazione della presente, così sobria,
proposta di legge "di attuazione costituzionale" - per la cui elaborazione
ringraziamo il professor Ernesto Bettinelli, ordinario di diritto costituzionale
all'Università di Pavia - renderebbe più chiari e più sostenibili i rapporti tra
le massime istituzioni costituzionali, restituendo a ciascuna le responsabilità
che la Carta le attribuisce, eviterebbe di sacrificare le ragioni universali
dell'umanità e della mitezza a quelle contingenti e non sempre serene del
confronto politico.
Art. 1.
1. Il Presidente della Repubblica, in
conformità agli articoli 2, 27, terzo comma, e 87, primo e undicesimo comma,
della Costituzione, concede la grazia e commuta le pene, anche in assenza di
domanda o proposta, con proprio decreto, controfirmato dal Presidente del
Consiglio dei ministri.
2. Il Ministro della giustizia trasmette in
forma riservata al Presidente della Repubblica le informazioni che questi
richiede ai fini dell'esercizio del potere di cui al comma 1.
3. Il pubblico ministero presso il giudice
indicato dall'articolo 655 del codice di procedura penale cura l'esecuzione del
decreto di grazia, ordinando, quando è il caso, la liberazione del condannato e
adottando i provvedimenti conseguenti.
Art. 2.
1. L'articolo 681 del codice di procedura
penale è abrogato. |