Aspettando la riforma
I contenuti di quella che potrebbe essere l’unica riforma prodotta dal percorso assai più ambizioso avviato con gli Stati Generali dell’esecuzione penale
La legge n. 103 del 23 giugno 2017, entrata in vigore il successivo 3 agosto, delega il Governo a riformare l’ordinamento penitenziario secondo alcuni criteri direttivi ed entro un anno di tempo. Ci si sarebbe aspettati che, al momento del voto della legge, il solo lavoro rimasto da fare fosse quello di tradurre in articolato normativo la lunga e ricca elaborazione degli Stati Generali dell’esecuzione penale, che tra il 2015 e il 2016 hanno visto in attività diciotto tavoli tematici su altrettanti aspetti della pena. La scelta ministeriale è stata tuttavia differente, dando vita a varie commissioni che, come è noto, si sono occupate della stesura dei decreti delegati. La loro attività ha però portato via parecchi mesi e i primi risultati si sono visti solamente a ridosso delle elezioni politiche. Troppo tardi perché si avesse il coraggio e la forza di portare avanti con nettezza quanto perseguito in lunghi mesi di lavoro e riflessione, tesi ad adeguare una legge risalente a quasi mezzo secolo or sono alle esigenze di un mondo oramai differente e ad affermare con maggior decisione la reintegrazione sociale quale finalità della pena.
Alcuni criteri di delega – si pensi a quello che mirava a garantire una vita sessuale alle persone detenute – non sono stati affrontati nella produzione normativa che ha a oggi visto la luce. Altri sono stati trattati in tre decreti attuativi (sull’ordinamento penitenziario minorile, il potenziamento delle opportunità lavorative, la giustizia riparativa) che hanno fatto un fugace primo passaggio in Consiglio dei Ministri senza tuttavia vedere alcun movimento istituzionale ulteriore che possa far immaginare la loro futura approvazione. C’è un solo decreto delegato che potremmo sperare di veder convertito in legge prima della scadenza dei tempi prestabiliti. È di questo che analizzeremo i contenuti in quel che segue.
Il decreto legislativo di riforma dell’ordinamento penitenziario secondo la legge delega del giugno 2017 che lo scorso 16 marzo ha avuto un secondo passaggio approvativo in Consiglio dei Ministri introduce alcune modifiche alla legge del 1975 che guardano, da un lato, a una maggior tutela dei diritti della persona detenuta e al rispetto della sua dignità e, dall’altro, a un ampliamento delle possibilità di accesso alle misure alternative al carcere, le quali negli ultimi tre decenni hanno dimostrato di essere un ben più valido strumento di abbattimento della recidiva, di tutela della sicurezza e di risparmio economico rispetto alla pena detentiva.
I contenuti della riforma
Per quanto riguarda il primo punto, il nuovo testo inserisce fin dall’articolo 1 il richiamo alla dignità della persona – che, come ribadito da tutti gli organismi sovranazionali sui diritti umani, non deve assolutamente ridursi, né tantomeno perdersi, con lo stato di detenzione – nonché a quelle regole penitenziarie che costituiscono il testo fondamentale emanato dal Consiglio d’Europa in materia di carcere, affermando che la sorveglianza delle persone detenute deve avvenire nel loro rispetto.
Tra i diritti che il nuovo testo mette al centro del proprio intervento vi è quello alla salute. L’assistenza medica interna al carcere viene modulata sugli stessi parametri individuati dal piano sanitario nazionale, uniformandosi “ai princìpi di globalità dell’intervento sulle cause di pregiudizio della salute, di unitarietà dei servizi e delle prestazioni, d’integrazione dell’assistenza sociale e sanitaria e di garanzia della continuità terapeutica”. Vengono garantiti tempi rapidi di intervento medico e informazioni complete sul proprio stato di salute. Al momento dell’ingresso in carcere, il medico è tenuto ad annotare nella cartella clinica “ogni informazione relativa a segni o indicazioni che facciano apparire che la persona possa aver subìto violenze o maltrattamenti”. Il decreto prevede che il medico non faccia più parte, come accade oggi, del consiglio di disciplina, permettendo così l’instaurarsi di un reale rapporto di fiducia tra medico e paziente. Ma la novità più rilevante in ambito sanitario riguarda l’equiparazione della malattia psichica a quella fisica, permettendo anche per la prima la sospensione temporanea della pena o misure extracarcerarie finalizzate ad accedere a possibilità di cura ed eliminando nel contempo la possibilità di ricoverare nelle Rems i detenuti cui sopravviene un’infermità psichica.
Il decreto porta inoltre da due a quattro il numero minimo di ore che i detenuti devono trascorrere all’aria aperta (che quasi sempre negli istituti italiani vengono trascorse in piccoli cortili di cemento), esplicita il principio per cui la pena deve essere eseguita in un carcere prossimo alla residenza dei propri cari, introduce – con alcune eccezioni per determinati reati – la possibilità di effettuare colloqui via internet per quei detenuti i cui famigliari non hanno modo di recarsi in visita, prevede sezioni specifiche per coloro che chiedono di essere tutelati a causa del loro orientamento sessuale, chiede che venga inserito un limite massimo per l’isolamento giudiziario che oggi è indeterminato.
Accesso alle misure alternative
Per quanto riguarda l’allargamento delle possibilità di accedere alle misure alternative, esso è interamente in linea con la recente Risoluzione del Parlamento Europeo sui sistemi carcerari e le condizioni di detenzione, approvata nell’ottobre 2017 con i voti favorevoli dell’intera rappresentanza italiana nelle commissioni competenti (le eurodeputate Caterina Chinnici del Pd e Laura Ferrara del Movimento 5 Stelle, in sede di Commissione competente per il merito, e le eurodeputate Pina Picerno del Pd e Daniela Aiuto del Movimento 5 Stelle, in sede di Commissione competente per parere). La Risoluzione, infatti, “ribadisce che dovrebbe essere attuata una gestione efficiente a lungo termine dei sistemi penitenziari, riducendo il numero di detenuti mediante un uso più frequente di misure punitive non privative della libertà” e “ricorda che, rispetto alle misure alternative, la detenzione genera maggiori recidive in caso di pene brevi”. Ancora, “incoraggia gli Stati membri ad attuare misure di ristrutturazione delle pene, in particolare per le pene più brevi, segnatamente attraverso il ricorso alla semilibertà, all’esecuzione della pena durante le ferie per evitare di perdere il posto di lavoro, ai lavori socialmente utili o attraverso un maggiore utilizzo degli arresti domiciliari e del braccialetto elettronico; ritiene, inoltre, che sia opportuno rafforzare l’individualizzazione della pena per consentirne una migliore esecuzione”. Infine, sollecita le amministrazioni penitenziarie a produrre “documenti esplicativi ed evidenze statistiche per convincere l’opinione pubblica che le misure non privative della libertà sono necessarie per ridurre la recidiva e garantire la sicurezza a lungo termine nella nostra società”.
La misura dell’affidamento in prova al servizio sociale – che, si badi, non si riduce neanche lontanamente a un’assenza di pena, comportando un controllo robusto e costante sulla vita dell’affidato, secondo prescrizioni molto rigide e precise che la persona deve seguire – viene allargata a coloro che devono scontare fino a quattro anni di pena, dagli attuali tre previsti dalla vecchia legge. La possibilità di accedere a tale misura viene garantita anche a coloro che non hanno una dimora privata a propria disposizione, tramite l’opportunità di accedere “a un luogo pubblico di cura, assistenza o accoglienza ovvero a un luogo di dimora sociale appositamente destinato all’esecuzione extracarceraria della pena detentiva, nella disponibilità di enti pubblici o convenzionati”. Per i condannati all’ergastolo, aumentano i criteri di accesso a misure extramurarie già comunque presenti nell’attuale ordinamento.
I reati ostativi
La modifica più rilevante – e anche quella che è stata accolta sulla stampa nella maniera più controversa – riguarda tuttavia l’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario, quello che esclude dalla possibilità di accesso ai benefici di legge alcune categorie di detenuti individuate sulla base del titolo di reato (e non quindi del comportamento tenuto in carcere). Introdotto agli inizi degli anni ’90 nel contesto della lotta alla criminalità organizzata, il 4 bis era pensato come strumento di contrasto al fenomeno specifico dei reati associativi. Con la rescissione di ogni tipo di legame tra il detenuto e la comunità esterna, si intendeva fronteggiare quel contropotere criminale che sono le associazioni per delinquere. Negli anni, tuttavia, i titoli di reato cui l’articolo è diventato applicabile si sono allargati a reati monosoggettivi, vale a dire realizzabili anche da un unico autore. Per tali reati, tuttavia, il codice penale presenta già strumenti di contrasto, mentre le esclusioni dettate dal 4 bis non sempre risultano idonee. La riforma mira dunque a sottrarre i vari reati monosoggettivi, con esclusione dunque di quelli intrinsecamente associativi di mafia e terrorismo, agli automatismi esclusivi del 4 bis, restituendo alla magistratura un ruolo più rilevante di valutazione e giudizio caso per caso. Sia chiaro, dunque: le nuove norme non intendono affatto concedere i benefici di legge agli autori dei reati in questione, bensì lasciare che sia il magistrato a valutare la loro eventuale possibilità di concessione, secondo quel trattamento individualizzato ampiamente riconosciuto come strumento fondamentale della reintegrazione sociale. Rimangono invece esclusi in maniera automatica dalla possibilità di fruire dei benefici penitenziari gli autori di reati di mafia e terrorismo, di altri reati gravi che per propria natura comportano un’organizzazione criminale (come ad esempio la tratta di persone) e di altri reati condotti da figure apicali in organizzazioni delittuose.
I magistrati hanno salutato con favore queste modifiche. Nel parere ufficiale sul decreto emesso lo scorso 14 febbraio dal Consiglio Superiore della Magistratura, si legge che la modifica normativa introdotta dal decreto “non appare suscettibile di abbassare la soglia di tutela della collettività” e che “l’attuale disciplina disegnata dal comma 1 dell’art. 4 bis include nel novero dei reati ostativi diverse fattispecie monosoggettive, progressivamente introdotte dalla novellazione del testo, che risultano eccentriche rispetto all’originario impianto della norma e alla ratio sottesa al più severo trattamento penitenziario da essa previsto”. Il Csm afferma ancora che “non trovano riscontro nel dato normativo le preoccupazioni che i media hanno rilanciato” e che “la soluzione adottata dal Legislatore appare razionale, perché sostituisce a valutazioni presuntive, collegate alla tipologia del reato e al tipo d’autore, un meccanismo che, lungi dal prevedere l’automatica concessione delle misure alternative, riassegna alla magistratura di sorveglianza l’indeclinabile compito di valutare la concreta valenza offensiva del fatto per cui v’è stata condanna e la personalità dell’autore; ciò soprattutto per quei reati associativi rispetto ai quali la quotidiana esperienza giudiziaria dimostra che l’apporto del mero partecipe può declinarsi secondo livelli di gravità assai diversi”.
Grida scomposte ed occasioni mancate
Complessivamente, dunque, il decreto legislativo proposto dal Governo ha il merito di elevare lo standard del rispetto dei diritti delle persone detenute, avvicinandosi alle indicazioni degli organismi sovranazionali senza con questo mettere in pericolo la sicurezza dei cittadini ma, piuttosto, garantendola maggiormente attraverso misure di comprovata efficacia nell’abbattimento della recidiva. Le scomposte grida allo svuota-carceri che abbiamo ascoltato nelle scorse settimane non trovano alcuna ragion d’essere in chiunque abbia letto effettivamente i provvedimenti. È di opposto tenore la critica che ci sentiamo di muovere al processo riformatore che negli ultimi anni ha visto al proprio servizio competenze, intelligenze, professionalità ed entusiasmi: si poteva fare qualcosa di più.
@ Maggio 2018 | foto Ilaria Scarpa