Diritti procedurali

Diritti procedurali

150 150 Un anno in carcere - XIV rapporto sulle condizioni di detenzione a cura di Associazione Antigone

Carolina Antonucci, Federica Brioschi, Claudio Paterniti Martello

Forma e sostanza della libertà. Il Diritto alla difesa oggi in Italia

Colloqui tardivi con l’avvocato, difese standard, tempi stretti, mancata formazione per interpreti e traduttori: le fragili garanzie di chi si trova in stato di fermo o arresto.

“Pericolosamente ingenuo è reputarsi immuni – in quanto <<cittadini onesti>> – dalle volizioni sanzionatorie dello Stato”, ha scritto Dario Ippolito nel prologo del suo libro “Lo spirito del garantismo” dedicato al pensiero di Montesquieu e al potere di punire. Tanto più oggi, negli ordinamenti giuridici complessi dei nostri tempi, continua a essere fondamentale “mantenere la guardia alta di fronte al potere punitivo”. Se infatti risulta assai arduo avere una padronanza completa di tutte quelle norme criminali la cui violazione comporti una pena, ancora più imprescindibile diviene conoscere i propri diritti in materia di diritto alla difesa.

Cosa succede quando si è sospettati o accusati di aver commesso un reato? E cosa succede, ancora, quando si viene posti in stato di fermo o di arresto? Quali sono i nostri diritti, quali i confini oltre i quali le autorità inquirenti e giudicanti non possono spingersi?

In questo contributo, dopo aver tratteggiato i contorni del diritto di difesa nell’ordinamento italiano, diritto sancito dall’articolo 24.2 della Costituzione, andremo ad approfondire quelli che alcune ricerche condotte dall’Associazione Antigone, hanno individuato come i punti critici dove le garanzie di questo vitale diritto sembrano scricchiolare.

Sospettati, imputati, arrestati e fermati: un accesso alla difesa che cambia con lo status

Il diritto alla difesa va analizzato tenendo presente la distinzione che intercorre tra l’essere sospettati, l’essere imputati e il venire arrestati in flagranza di reato o fermati fuori dai casi di flagranza.

Per sospettati e imputati cui non si applicano anzitempo misure privative della libertà la prima manifestazione del diritto alla difesa si sostanzia nel diritto a essere informati nel più breve tempo possibile che si è sottoposti a indagini. In tal modo, una volta formalizzata l’accusa, si rispetta quanto previsto dall’art. 111 della Costituzione, che riconosce all’accusato il diritto di disporre del tempo necessario per preparare la difesa. L’indagato diviene imputato se, alla conclusione delle indagini preliminari, risultano esservi motivi sufficienti a ritenerlo autore del fatto di reato. Il codice di procedura, entrato in vigore nel 1989, estende tutte le garanzie procedurali previste per l’imputato anche al semplice indagato. Nel caso in cui l’indagato non sia in stato di fermo o arresto il diritto di difesa sembra trovare facilmente tutela non solo nel codice di procedura penale, ma anche nella sua applicazione pratica. La libertà di cui gode la persona sospettata o imputata infatti gli permette agevolmente di soddisfare i suoi bisogni relativi alla difesa. All’avvocato difensore sono riconosciute alcune garanzie che, di riflesso, vanno a tutelare anche il diritto di difesa della persona indagata o imputata. Queste tutele riguardano prevalentemente il principio di riservatezza, che va a salvaguardare conversazioni e corrispondenza (segreto professionale art. 200 c.p.p.), rendendo al contempo inviolabili gli uffici dell’avvocato, così da poter permettere la predisposizione di strategie difensive (sono di regola vietate intercettazioni, ispezioni, perquisizioni, sequestri). Vi sono una serie di atti, che vengono detti “garantiti”, per i quali l’autorità di polizia giudiziaria deve fornire avviso all’indagato almeno 24 ore prima, affinché questi possa avvertire il suo difensore, che ha diritto di assistervi; questi atti sono l’interrogatorio, l’ispezione e il confronto.

Diritto alla difesa e (prima) privazione della libertà

La situazione cambia drasticamente nel caso in cui la persona imputata sia anche privata della libertà personale. Questo può avvenire nei casi di fermo per gli indiziati di delitto (art. 384) e di arresto in flagranza di reato (artt. 380 – 383).

Per questi casi il codice di procedura penale (agli artt. 96 e 97) prevede che un ufficiale di polizia giudiziaria comunichi subito alla persona privata della libertà che ha diritto a nominare un avvocato di fiducia (art. 386) che lo difenda. Laddove non ce l’abbia, il PM, il giudice o la polizia stessa nominano automaticamente un difensore d’ufficio.

Il diritto alla difesa sorge dunque dal primo momento in cui si è privati della libertà. Ci sono delle eccezioni: Luigi Ferrajoli ha sottolineato come nel nostro codice esistano degli “istituti antigarantisti” ereditati dal vecchio sistema (cit. Ferrajoli, p. 52 di “Dei diritti e delle garanzie” o altrove in Principia Iuris) che consentono al giudice, in circostanze eccezionali e su richiesta del PM, di posporre il colloquio col difensore per un tempo massimo di cinque giorni (art. 104 del codice di procedura penale).

Il primo contatto con l’avvocato

In genere il primo contatto tra la persona in stato di fermo o arresto e il proprio difensore è di tipo telefonico, mediato da un ufficiale di polizia giudiziaria che comunica all’avvocato la sua nomina, i capi d’accusa a carico dell’assistito e data e ora in cui si terrà l’udienza di convalida, ovvero l’udienza in cui un giudice decide se le procedure seguite sin lì sono valide e se è il caso di disporre una misura di custodia cautelare in attesa del processo. Da quel momento in poi l’avvocato ha il diritto di andare a parlare col proprio assistito al fine di preparare una difesa il più efficace possibile. Per capire cosa accade in questa prima e delicata fase è necessario tracciare l’iter classico dell’arresto.

Dove va chi è in stato di fermo o arresto? In carcere, in commissariato, a casa

Solitamente la persona posta in stato di arresto o di fermo viene condotta negli uffici di polizia giudiziaria. In attesa dell’udienza di convalida può essere condotto in carcere, custodito in una camera di sicurezza (della polizia o dei carabinieri) o essere ancora accompagnato al proprio domicilio. Dalle ricerche portate avanti in Tribunale da Antigone è emerso che si fa maggiormente ricorso al carcere. Le prassi non sembrano essere però omogenee: a Bologna si fa un maggiore ricorso ai domiciliari, a Roma al carcere, ma non è infrequente che si passi almeno una notte in camera di sicurezza; e ancora a Palermo la circondariale della città, il Pagliarelli, sembra accogliere suo malgrado tutti gli arrestati, anche per sole poche ore. A fronte di privazioni della libertà spesso brevi – poiché il giudice non dispone misure cautelari, e quindi si può affrontare il processo dalla libertà – da un lato si sottopone l’individuo a un inutile shock carcerario, dall’altro si alimenta il sovraffollamento in carcere, con tutti i problemi che ne conseguono. Per porre rimedio a questa situazione, in anni recenti il legislatore ha dato indicazione alle autorità di evitare laddove possibile la custodia pre-cautelare in carcere (circolare Severino), preferendo quando possibile i domiciliari o le camere di sicurezza. Sono stati limiti strutturali e resistenze culturali a frenarne l’attuazione. I primi riguardano la carenza e l’inadeguatezza delle camere di sicurezza che sono 2143, di cui 658 inagibili. Gli arresti e i fermi nell’ultimo anno sono stati intorno ai 900.000: numeri incomparabili. C’è poi una resistenza culturale da parte di tutte le autorità coinvolte nel processo, che faticano a vedere la reclusione in casa come una misura di privazione della libertà, preferendole il carcere. In questa fase, che è momento di grande fragilità psicologica, spesso si consumano pesanti violazioni dei diritti umani, con abusi di potere da parte delle forze dell’ordine. Il contatto con l’avvocato, che sarebbe molto importante, risulta essere problematico.

Il primo incontro con l’avvocato: un colloquio tardivo in condizioni precarie (e senza riservatezza)

Generalmente si arriva in Tribunale dopo aver trascorso almeno una notte in camera di sicurezza o in carcere. È solo in Tribunale che si incontra per la prima volta il proprio difensore con il quale si riesce a parlare pochi minuti prima dell’udienza. Per consuetudine o perché intercorrono poche ore tra l’arresto e l’udienza, è difficile che gli avvocati raggiungano prima l’assistito, salvo che l’udienza non si svolga in carcere.
In caso di reati molto gravi (come gli omicidi), cioè quando appare indispensabile avere più tempo per preparare la difesa, gli avvocati si recano in carcere o negli uffici di polizia giudiziaria. Un altro problema è rappresentato dalle condizioni in cui si parla col proprio avvocato: in molti Tribunali il colloquio avviene in un angolino della stessa aula in cui si terrà l’udienza di convalida, con la pressione dell’ambiente circostante, in cui il tempo è tiranno e le udienze si susseguono l’un l’altra. In pochissimi minuti e in condizioni di scarsa riservatezza, l’avvocato deve consultare il fascicolo messo a disposizione dal Pm appena prima dell’udienza e parlare col proprio assistito. Questo non di rado avviene in presenza degli agenti, a meno che l’avvocato non pretenda il loro allontanamento. Gli avvocati di ufficio sono restii a richiederlo anche a causa della mancanza di rapporto fiduciario tra un difensore e un assistito che si vedono per la prima volta in condizioni che poco si prestano alla sua instaurazione. Appare chiaro come la comunicazione sia inibita. La situazione appare migliore allorché l’udienza di convalida ha luogo in carcere, dove spesso i colloqui avvengono in sale apposite e in tempi idonei. Alla luce di quanto detto, non stupisce che in questa prima fase del procedimento il difensore si limiti per lo più a valutare l’opportunità di consigliare o meno all’assistito di avvalersi della facoltà di non rispondere. E non stupisce nemmeno che le difese siano spesso standardizzate.

La maggiore vulnerabilità degli stranieri: interpreti senza un albo, poco formati e malpagati

In questa situazione di generale fragilità delle garanzie procedurali, appare ancor più critica la posizione degli stranieri che mancano degli strumenti linguistici adatti a comprendere quanto accade loro. Per cui il legislatore, al fine di rispettare il principio di una partecipazione piena e consapevole al processo, ha previsto che ci si possa avvalere di traduttori e interpreti in ogni fase del procedimento. Tuttavia dalle interviste che abbiamo effettuato emerge che la loro presenza nella stragrande maggioranza dei casi è limitata alle aule di tribunale. Questo può limitare fortemente la comunicazione fra avvocato e assistito e di conseguenza anche la comprensione generale del procedimento sarà soltanto parziale.

Un problema molto importante riguardante queste figure professionali è la mancanza di un albo nazionale. Infatti, mentre per esercitare altre professioni l’iscrizione all’albo è un requisito fondamentale che comporta solitamente la presentazione della prova di un percorso formativo adeguato, ciò non avviene nel caso di traduttori e interpreti. L’ovvia conseguenza è la mancanza di omogeneità delle procedure di reclutamento e della qualità del servizio. Nella maggior parte dei casi l’iscrizione all’albo dei periti del Tribunale — passaggio necessario, fatto salvo il diritto del giudice, in situazioni di necessità, di nominare chiunque egli voglia — avviene dopo un esame alla Camera di Commercio; altrimenti è il Tribunale stesso a esaminare curricula e competenze. Fra i problemi riscontrati in merito a questi particolari servizi troviamo la mancanza di un’adeguata formazione per esercitare in ambito penale, la sovrarappresentazione dei traduttori di lingue europee e la mancanza di traduttori e interpreti di lingue rare. A questi aspetti organizzativi e qualitativi si aggiunge l’inadeguatezza della remunerazione che influisce sulla qualità del lavoro e fa sì che praticamente nessun interprete professionista lavori in tribunale. Traduttori e interpreti sono in effetti pagati a vacazioni (ogni vacazione corrisponde a due ore di lavoro): la prima è pagata 14,68€ (poco più di 7€ l’ora), mentre dalla seconda in poi il compenso scende a 8,15€ (circa 4€ l’ora). A discrezione dell’autorità giudiziaria e nel caso di lavori particolarmente urgenti o complessi, l’onorario può essere raddoppiato, ma ciò avviene molto di rado. L’onorario dovrebbe essere adeguato ogni tre anni all’indice dei prezzi al consumo; e tuttavia l’ultimo adeguamento è avvenuto nel 2002. Tali compensi sono da paragonare a un prezzo di mercato che si aggira intorno ai 90€ lordi l’ora. Ciò vuol dire che queste figure sono pagate in tribunale meno di un decimo rispetto alle tariffe di mercato. A questo si aggiunga il ritardo nei pagamenti da parte dello Stato, che spesso oltrepassa l’anno, ed il quadro finale risulta davvero allarmante.