“Quando si è condannati al carcere il corpo del condannato è presidiato da muri di cinta, portoni e sbarre”
Introduzione
La pena è anche una questione di spazio. Tra le molte conseguenze di una condanna penale c’è la limitazione della libertà di andare e venire, la costrizione in uno spazio limitato. Il perimetro in cui si è costretti cambia a seconda della pena. Nelle pene alternative al carcere – l’assegnazione ai servizi sociali, il divieto di lasciare un territorio e altre – non si è liberi di andare dove si vuole, tanto che ci si muove all’interno di perimetri definiti, si è interdetti dallo spazio pubblico in determinati orari e ci si rapporta con interlocutori (co)decisi da giudici e assistenti sociali: ma non si è separati dal resto della società. Quando invece si è condannati al carcere – cosa molto frequente, in un sistema carcero-centrico come il nostro – il corpo del condannato è presidiato da muri di cinta, portoni e sbarre.
Al carcere, nonostante questa separazione, la Costituzione assegna il compito di riabilitare e reinserire il reo in società. Perché ciò avvenga però i suoi spazi devono riempirsi di attività formative, lavorative e d’altro tipo. Quando ciò non avviene, oltre all’art. 27 della Costituzione vengono violati i diritti individuali di cui ogni persona privata della libertà è detentrice. Così come li si violano quando le dimensioni e le condizioni di quegli spazi non rispettano i criteri basici di dignità.
L’esercizio dei diritti fondamentali è in generale strettamente legato alla dimensione spaziale, com’è evidente quando si parla di diritto alla città. Ciò è ancor più evidente quando si parla di carcere, nella misura in cui ogni restrizione della libertà personale limita il perimetro dell’esercizio dei propri diritti a una condizione spaziale determinata.
In questo breve articolo discuteremo dell’uso che degli spazi detentivi si fa nel sistema penitenziario italiano, alla luce delle 86 visite effettuate dagli osservatori di Antigone nell’anno 2017.
“Si impose l’ossessione dei 3 metri quadri (interpretati come standard accettabile)”
L’ampiezza delle celle
La qualità dello spazio detentivo riguarda in primo luogo le celle e le loro dimensioni. Nel 2013, in piena emergenza sovraffollamento, la Corte EDU condannò l’Italia (con la famosa sentenza Torreggiani) per violazione dell’art. 3 della Convenzione europea sui diritti dell’uomo (CEDU), dichiarandola responsabile di avere inflitto pene o trattamenti inumani o degradanti. La violazione dell’articolo 3 derivava soprattutto dal fatto che numerosi detenuti avessero uno spazio vitale inferiore a 3 metri quadri pro capite. Alla sentenza seguirono vari provvedimenti che fecero diminuire notevolmente la popolazione detenuta (di circa 20.000 detenuti). Per non incorrere in nuove condanne (e nuovi risarcimenti monetari) l’Amministrazione si dotò poco dopo di un Applicativo Spazi Detentivi (ASD), uno strumento informatico che le consentì (e le consente) tra le alte cose di monitorare la metratura di cui dispone ogni detenuto. Una delle conseguenze imprevedibili di quella stagione fu la trasformazione, nella percezione degli operatori, di quello che doveva essere un limite al di sotto del quale mai si doveva scendere in uno standard accettabile, rispettato il quale si è a posto con i propri doveri di custodi della libertà altrui. Si impose l’ossessione dei 3 metri quadri (interpretati come standard accettabile). Il 9 settembre 2016 la Corte di Cassazione, con sentenza n. 52.819, complicò le cose: stabilì che contrariamente a quanto veniva fatto fin lì, nel calcolo dei 3 metri quadri non si dovesse tener conto degli spazi occupati da letto e altri mobili, trattandosi di spazio non calpestabile (oltre che del bagno). Ne vennero fuori numerosi ricorsi, di cui in buona parte si attendono i risultati.
“Nello spirito riformatore dell’epoca, la cella doveva diventare sempre meno luogo in cui passare la giornata e sempre più spazio per il pernottamento”
L'apertura delle celle nel periodo della Torreggiani
Anche grazie a quella condanna iniziò una stagione di riforme. Il DAP, con un percorso che prese il via nel 2011 con una circolare, dischiuse parzialmente lo spazio della cella, in cui i detenuti passavano spesso anche 22 ore al giorno, con l’obiettivo di dare loro maggiore autonomia e rendere la vita detentiva più simile a quella esterna, come previsto dalle regole penitenziarie europee. Nello spirito riformatore dell’epoca, la cella doveva diventare sempre meno luogo in cui passare la giornata e sempre più spazio per il pernottamento. Così il DAP dispose l’apertura di tutte le celle per i detenuti in regime di media sicurezza per un periodo minimo di 8 ore al giorno, che potevano arrivare a 14 per i sottoposti al nuovo regime a custodia aperta. All’apertura (molto parziale) delle celle non corrisposero però formazione, lavoro, attività nei cortili ed esercizio del diritto alla libertà di culto negli altri spazi detentivi. Si aprirono semplicemente le celle, permettendo ai detenuti di passare qualche ora in più nei corridoi e nelle celle degli altri, per una partita a carte o anche solo per farsi compagnia. Questa novità, sebbene di portata inferiore rispetto alle aspettative, cambiò il rapporto tra detenuto e spazio detentivo, che fu improntato a una maggiore libertà e personalizzazione, elementi propri del diritto all’abitare.
La possibilità di passare almeno 8 ore fuori dalla cella riguardò alcuni individui, non tutti. Per molti le 20 ore al giorno in cella restarono la regola, e regola sono ancora oggi: nel 2017, in 35 degli 86 istituti da noi visitati, erano presenti sezioni le cui celle non erano aperte almeno 8 ore al giorno: circa il 40% delle carceri visitate.
Celle aperte almeno 8 ore al giorno
Fonte: Osservatorio Antigone
Le sezioni in questione possono essere quelle destinate ai detenuti in regime di alta sicurezza (che alle celle aperte non hanno diritto), ma anche quelle che ospitano i detenuti in media sicurezza (i detenuti comuni), oltre ai reparti di infermeria e d’altro tipo.
“Nei reparti a sorveglianza dinamica la sicurezza è infatti garantita da pattuglie mobili e videocamere, e i detenuti si muovono liberamente in sezione per molte ore al giorno”
La sorveglianza dinamica
Tra i regimi a custodia aperta, quello che avrebbe dovuto imporsi e che invece riguarda ancora una piccola parte dei detenuti è la cosiddetta “sorveglianza dinamica” (circa 9.500 detenuti1) Fonte: Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria). La sua introduzione ha comunque rimodellato l’esperienza detentiva di molti ristretti, nella misura in cui ha parzialmente escluso dallo spazio della sezione detentiva gli agenti che in genere controllano, autorizzano e indirizzano gli spostamenti dei detenuti. Nei reparti a sorveglianza dinamica la sicurezza è infatti garantita da pattuglie mobili e videocamere, e i detenuti si muovono liberamente in sezione per molte ore al giorno. Si sottostà a questo regime detentivo quando l’amministrazione giudica basso il livello di pericolosità della persona, consentendole una maggiore autonomia nella gestione di tempi e spazi. In alcuni casi, come al Pagliarelli di Palermo, il padiglione Laghi, dedicato alla sorveglianza dinamica, è diventato il terminale di percorsi detentivi che iniziano con la custodia chiusa, passano da un regime a celle parzialmente aperte (ma con gli agenti in sezione) e infine arrivano alla sorveglianza dinamica. In questo percorso a tappe, il padiglione Laghi (creato nel 2014), data anche la facilità con cui pare che i magistrati di sorveglianza rilascino permessi ai detenuti che da lì ne fanno richiesta, diventa una sorta di anticamera della libertà. Il monitoraggio di questo e degli altri anni ci consente inoltre di dire che questo tipo di sorveglianza ha provocato una diminuzione delle tensioni con gli agenti – a cui i detenuti non devono più presentare la classica “domandina” per qualsiasi richiesta. È un giudizio riportato non solo dai detenuti, ma anche da diverse amministrazioni e agenti del personale di polizia.
“Si comprende facilmente come a molte persone venga negata la possibilità di condurre uno stile di vita normale fin dai bisogni primari”
Il diritto ad abitare uno spazio salubre: le docce, i bagni, i riscaldamenti nelle carceri italiane
Se la sorveglianza dinamica rappresenta un progresso nell’affermazione del diritto all’abitare da parte di chi è detenuto, d’altro canto è indubbio che a tale diritto è connesso quello a vivere in ambienti salubri e confortevoli. E allora la totale mancanza di impianti di riscaldamento funzionanti, che riguarda circa il 10% degli istituti di pena visitati (7 istituti), è leggibile come una sua evidente violazione, che costringe i detenuti a sommergersi di coperte e mina peraltro anche il diritto alla salute, che nel lungo periodo ne risulta intaccata. Altra grave e più ampia mancanza che si traduce in una violazione del diritto all’abitare è quella dell’acqua calda in cella. L’accesso all’acqua calda è notoriamente una delle caratteristiche di base di un vivere minimamente dignitoso; eppure non è garantito nel 43% dei casi (37 istituti). Ancora su questo tema, è da segnalare il dato allarmante sulla mancanza di docce in cella (50 istituti, quasi il 60% di quelli visitati), pur prevista dall’art. 6 del regolamento penitenziario del 2000. Dove le docce sono comuni abbiamo trovato peraltro ambienti vecchi e umidi, con muffa alle pareti, possibilità di fare solo docce brevi e lunghe attese per il proprio turno – con conseguente violazione non solo del diritto di abitare in luoghi salubri, ma anche del diritto alla riservatezza rispetto al proprio corpo. Nel 5% degli istituti visitati (4 istituti) manca infine addirittura il wc in ambiente separato.
Fonte: Osservatorio Antigone
Da questo breve panorama si comprende facilmente come a molte persone venga negata la possibilità di condurre uno stile di vita normale fin dai bisogni primari. Negli ultimi anni diversi sono gli interventi di ristrutturazione interna che hanno permesso di costruire bagni e docce nelle celle, ma va sottolineato che si tratta di interventi di adeguamento a uno standard minimo di vivibilità, e non dell’accesso a beni accessori o di lusso.
“Nel 43% degli istituti visitati non c’è alcun corso professionale”
Fuori dalla cella: il lavoro
Anche il diritto al lavoro, dalla cui affermazione dipende il reinserimento lavorativo dopo la pena, non gode di ottima salute. I locali per le lavorazioni (come officine o laboratori), dove si acquisiscono competenze tecniche spendibili una volta fuori dal carcere, seppur presenti nel 70% delle carceri visitate (58 istituti) e con grandi potenzialità (come l’officina di ferramenta di Augusta, che ha forgiato tutte le brande per le carceri d’Italia), sono spesso disertati dalle attività che dovrebbero avervi luogo. Nel 43% degli istituti visitati non c’è al loro interno alcun corso professionale; se a ciò si aggiunge che nel 30% dei casi questi locali non ci sono e che esiste una generale e cronica carenza di mercedi (cioè di fondi per pagare la manodopera detenuta), appare evidente come l’esercizio del diritto al lavoro dietro le sbarre sia tutt’altro che garantito.
“In genere si tratta di stanze più o meno spaziose (circa 30-50 mq), attrezzate con tavoli e sedie in plastica, un televisore, carte da gioco, e talvolta qualche strumento musicale”
Fuori dalla cella: gli spazi per la socialità
Oltre che dalla salubrità e dalle dimensioni degli spazi, l’affermazione del diritto all’abitare dipende anche dalla presenza di luoghi come le sale di socialità, le palestre, i passeggi, i campi sportivi e le aree verdi. Gli spazi per la socialità sono solitamente presenti in ogni sezione da noi visitata (92% degli istituti): le persone detenute vi passano alcune ore della giornata, essendo le 8 ore ordinarie fuori dalla cella ripartite in genere tra ore che si svolgono nei passeggi e ore di socialità. In genere si tratta di stanze più o meno spaziose (circa 30-50 mq), attrezzate con tavoli e sedie in plastica, un televisore, carte da gioco, e talvolta qualche strumento musicale.
“Sono quasi sempre tra gli spazi più squallidi, perché totalmente spogli, interamente in calcestruzzo, grigi, accentuano più una dimensione di oppressione che di aria”
Fuori dalla cella: i passeggi
I passeggi sono invece i cortili all’aperto di dimensioni variabili, nei quali le persone detenute sono solite camminare a lungo durante la cosiddetta aria. Seppure la quasi totalità dei passeggi sia fornita di un’area coperta come riparo dalle intemperie, di uno spazio ad uso bagno e di panche per sedersi, questi sono quasi sempre tra gli spazi più squallidi delle carceri, perché totalmente spogli, interamente in calcestruzzo, grigi, e con alte mura di confine che spesso accentuano più una dimensione di oppressione che di aria, e mai forniti di aiuole, alberi, o vegetazione di qualche genere.
“In circa la metà delle carceri, l’unica possibilità di compiere attività sportive è rappresentata dalle lunghe camminate avanti e indietro nei passeggi appena descritti”
Fuori dalla cella: le palestre, i campi sportivi e il diritto alla salute
A differenza di socialità e passeggi, che rappresentano lo standard degli spazi comuni di tutte le carceri, la fruibilità di palestre e campi sportivi varia sensibilmente da istituto a istituto.
Fonte: Osservatorio Antigone
Solo nel 48% dei casi le persone detenute hanno possibilità di accesso settimanale alla palestra, e nel 61% a un campo sportivo (che è quasi sempre da calcio): ciò contribuisce a costruire un quadro nel quale, in circa la metà delle carceri italiane, l’unica possibilità di compiere attività sportive è rappresentata dalle lunghe camminate avanti e indietro nei passeggi appena descritti. Viene così messo in discussione un diritto alla salute in senso ampio, cioè come soddisfacimento dei bisogni sia fisici che relazionali dell’individuo.
“Solo in 20 istituti (24 % di quelli visitati) sono previsti spazi per la preghiera non cattolica”
Fuori dalla cella: il diritto alla libertà di culto
Un altro diritto il cui soddisfacimento dipende dalla presenza di spazi e dall’accessibilità degli stessi è il diritto alla libertà di culto. Com’è noto, in tutte le carceri italiane c’è uno spazio adibito a cappella e un cappellano cattolico che svolge il suo servizio. È previsto l’ingresso di altri ministri di culto su richiesta delle persone detenute, ma solo in 20 istituti (24 % di quelli visitati) sono previsti spazi per la preghiera non cattolica. Questo fattore limita evidentemente il diritto di culto che non è solo quello di poter pregare o avere colloqui con un ministro della propria religione, ma anche quello di potersi riunire con altri fedeli e partecipare a funzioni religiose.
“Persino in Romania, dove la situazione delle carceri è lontana dall’essere conforme a quelli che consideriamo standard accettabili, il diritto alla sessualità dei detenuti è garantito”
Il diritto all’affettività
In ultimo, tra i diritti che il carcere maggiormente limita – quando non lo sopprime del tutto – c’è quello all’affettività, intimamente legato agli spazi della pena. Da un lato c’è il diritto a ricevere delle visite e a passare con i propri familiari un tempo adeguato in uno spazio gradevole; dall’altro quello alla sessualità e all’intimità affettiva (sia di chi è in carcere che dei partner).
Rispetto al primo, negli ultimi anni il sistema penitenziario ha conosciuto dei miglioramenti: sono stati finalmente abbattuti i banconi divisori delle sale per i colloqui (vietati in realtà sin dal 2000, ma presenti in molti istituti fino a tempi recenti), sono state realizzate diverse aree verdi per i colloqui estivi (presenti nel 71% degli istituti da noi visitati, 61) e varie ludoteche per le visite dei bambini. Si tratta però di interventi insufficienti a fronte di un diritto che in carcere resta in larga parte violato e che d’altra parte non riguarda solo i ristretti ma anche i familiari dei detenuti (come i circa 75.000 figli i cui genitori si trovano in carcere). Riguarda anche i numerosissimi partner di chi è privato della libertà, amputati assieme ai detenuti del diritto alla sessualità e all’intimità affettiva. Persino in Romania, dove la situazione delle carceri è lontana dall’essere conforme a quelli che consideriamo standard accettabili, il diritto alla sessualità dei detenuti è garantito. In Italia invece no, nonostante le numerose raccomandazioni europee che ribadiscono il diritto al mantenimento delle relazioni familiari e prescrivono la presenza di luoghi specifici in cui questo possa avvenire2) In particolare le Regole penitenziarie europee del 1997 (Racc. 1340/1997, art. 6) che invita gli Stati a mettere a disposizione dei detenuti” luoghi in cui possano incontrare le famiglie da sole”; oppure le Regole penitenziarie europee del 2006 (Racc. 2/2006, art. 24), secondo cui “le modalità delle visite devono permettere ai detenuti di mantenere e sviluppare relazioni familiari il più possibile normali” e che indica che “ove possibile, devono essere autorizzate visite familiari prolungate”, poiché “visite coniugali più brevi autorizzate a questo fine possono avere un effetto umiliante per entrambi i partner”.. Il tema è rimasto un tabù che nemmeno il recente progetto di riforma penitenziaria ha voluto infrangere, tanto che è rimasta lettera morta una delle proposte emerse dai lavori degli Stati Generali dell’Esecuzione Penale del 2016, che prevedeva di contemplare visite familiari e incontri per la coppia in carcere, miranti a garantire al nucleo familiare un tempo e uno spazio condiviso adeguato e alla coppia un luogo di intimità privo di sorveglianza per incontri (anche) sessuali.
“Se la politica fosse fedele al dettato costituzionale metterebbe al centro della pena il reinserimento sociale dei condannati, implementando di conseguenze le misure alternative a discapito del carcere”
Conclusione
La presenza o meno di spazi detentivi adeguati, unita all’uso che se ne fa, contribuisce a definire il senso della pena. Spesso nelle carceri si lamenta la mancanza di spazi e risorse per poter svolgere attività formative e lavorative. Con la stessa argomentazione ci si giustifica rispetto alla mancata di garanzia di alcuni diritti fondamentali come quello alla libertà di culto.
Se la politica fosse fedele al dettato costituzionale metterebbe al centro della pena il reinserimento sociale dei condannati, implementando di conseguenze le misure alternative a discapito del carcere. Si eviterebbe in tal modo la separazione traumatica di molti condannati dal resto della società e l’ingresso di massa nel circolo vizioso che porta da un crimine all’altro, in una spirale recidivista. Se non si ricorresse al carcere con riflesso quasi pavloviano si libererebbero spazio e unità di personale a sufficienza per garantire i diritti dei detenuti e la sicurezza della società. Questo è quanto dovrebbe fare la politica. L’Amministrazione dal canto suo dovrebbe proseguire con più coraggio nel cammino tracciato dalla sorveglianza dinamica, i cui effetti positivi sono riconosciuti da tutti, al netto delle posizioni ideologiche conservatrici espresse in più occasioni da alcuni sindacati di polizia penitenziaria. Per chi è privato della libertà in carcere, quel regime dovrebbe diventare la regola e non un’eccezione virtuosa: ne guadagnerebbero i detenuti, gli agenti, il personale e la società intera.
@ Maggio 2018 | foto Ilaria Scarpa
References
1. | ↑ | Fonte: Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria |
2. | ↑ | In particolare le Regole penitenziarie europee del 1997 (Racc. 1340/1997, art. 6) che invita gli Stati a mettere a disposizione dei detenuti” luoghi in cui possano incontrare le famiglie da sole”; oppure le Regole penitenziarie europee del 2006 (Racc. 2/2006, art. 24), secondo cui “le modalità delle visite devono permettere ai detenuti di mantenere e sviluppare relazioni familiari il più possibile normali” e che indica che “ove possibile, devono essere autorizzate visite familiari prolungate”, poiché “visite coniugali più brevi autorizzate a questo fine possono avere un effetto umiliante per entrambi i partner”. |