I nostri processi

I nostri processi

1024 541 Un anno in carcere - XIV rapporto sulle condizioni di detenzione a cura di Associazione Antigone

Simona Filippi

Antigone nei processi

Uno sguardo ai procedimenti penali in cui Antigone è presente accanto alle persone detenute

Il 27.10.2011 Antigone si costituisce per la prima volta parte civile in un processo penale che vedeva imputati cinque agenti di polizia penitenziaria per violenze commessi a danno di due detenuti, Renne e Cirino.

Era il processo per le violenze commesse nel carcere di Asti nel dicembre del 2004 che si concluderà, il 30 gennaio 2012, con sentenza di non doversi procedere per avvenuta prescrizione.

Da questa esperienza, Antigone ha iniziato a seguire e ad essere presente nei processi penali accanto alle persone detenute.

Il processo sui fatti denunciati da Giuseppe Rotundo (Tribunale di Foggia)

Il 13 gennaio 2011, Giuseppe Rotundo riesce a far uscire una lettera dal carcere per il suo avvocato in cui denuncia di essere stato vittima di un pestaggio da parte di tre agenti di polizia penitenziaria: “Carissimo avvocato, ciò che legge è sicuramente una sporca faccenda. La prego vivamente di provvedere ad inviare qui il più presto possibile un suo collaboratore (meglio se con la macchina fotografica) affinché possa documentare le mie condizioni di salute, sono stato ridotto in uno stato pietoso, il mio volto al momento in cui le scrivo è irriconoscibile, gambe e braccia sono contuse e gonfie, ho tutto il corpo dolorante e pieno di ematomi. Sono stato ridotto in questo stato da un gruppetto di agenti di custodia (…) Il medico interno si è limitato al minimo indispensabile, è comprensibile poiché sono coscienti che hanno commesso una vera e propria spedizione punitiva di inaudita violenza  (…) n.b. Metto il mittente di altro detenuto poiché ho seri motivi per ritenere che col mio nome e cognome questa lettera non giungesse a destinazione cioè a lei.”

Il processo si trova attualmente in fase dibattimentale davanti al Tribunale di Foggia e nasce da una riunione di due procedimenti in quanto anche i tre agenti di polizia hanno a loro volta denunciato di essere stati assaliti dal detenuto.

Nel corso del dibattimento sono stati sentiti diversi testimoni. La psicologa del carcere ha ricordato il colloquio avuto con Rotundo il giorno seguente i fatti: “Era la prima volta che vedevo una persona ridotta così” e ha ricordato le parole dette da Rotundo: “E’ stato accompagnato in una cella, che si presume di isolamento, e gli è stato detto di spogliarsi nudo e poi è iniziata questa colluttazione (…)” (udienza del 29 novembre 2016).

La prossima udienza è fissata per il 25 ottobre 2018 e la prescrizione è oramai sempre più vicina.

Il processo sulla morte di Alfredo Liotta (Tribunale di Siracusa)

Era il 9 marzo 2013, quando Antigone riceveva una email dalla sorella di un detenuto che ne denunciava la morte: “ (…) chiedo un vostro intervento nella difesa del caso di Alfredo Liotta il quale è stato lasciato morire senza alcun soccorso. L’ultima volta che io l’ho visto è stato ad aprile 2012, era già molto deperito, pesava non più di 55 kg e poi da aprile a luglio c’è stato il decadimento psicofisico che lo ha portato alla morte”.

Dopo un lavoro di diversi mesi, il 26 giugno 2013, Antigone depositava un esposto innanzi alla Procura della Repubblica di Siracusa per chiedere che venissero trovati i responsabili della morte di Alfredo, deceduto il 26 luglio 2012 in una cella del carcere Cavadonna di Siracusa.

Prima di procedere nella ricostruzione degli accadimenti, è necessario fare un breve passo indietro nella ricostruzione della storia di Alfredo: il 5 luglio 2012, il suo difensore presentava istanza di incompatibilità innanzi alla Corte di Assise di Appello di Catania ove si stava celebrando il processo a suo carico.

Il perito nominato lo andava a trovare in carcere e, pur trovandosi davanti ad un uomo oramai prossimo al decesso, catalogava il suo comportamento come quello artefatto di un attore.

Con il suo elaborato del 13 luglio 2012 – tredici giorni prima della morte – il perito impediva l’uscita dal carcere di Alfredo.

Tornando alla ricostruzione delle indagini preliminari: in data 29.11.2013, la Procura della Repubblica di Siracusa, nel compimento di accertamenti tecnici non ripetibili, informava dell’avvenuta iscrizione nel registro degli indagati di nove medici che avevano visitato Alfredo, incluso il perito della Corte di Assise di Appello e l’allora Direttore del carcere.

Veniva così dato incarico per lo svolgimento di una consulenza tecnica collegiale depositata poi in data 23 giugno 2014 ove veniva censurato senza mezzi termini il comportamento del personale medico dal 21 luglio al 25 luglio 2012: Alfredo muore nel letto della sua cella per collasso cardiocircolatorio “dovuto a rettorragia da verosimile lesione emorroidaria che con alto grado di probabilità non avrebbe determinato l’exitus se non si fosse innestata nel contesto dello stato anoressico/cachettico legato ad una condizione psicopatologica depressiva grave”.

Trascorsi quasi tre anni dal decesso di Alfredo, il 29 aprile 2015, Antigone depositava istanza per sollecitare la Procura alla chiusura delle indagini.

In data 14 dicembre 2016, il Pubblico ministero – Dott. Tommaso Pagano – chiedeva l’emissione del decreto che dispone il giudizio per omicidio colposo per nove dei dieci indagati. Veniva stralciata la posizione del Direttore.

Tra le persone offese, il Pubblico ministero indicava anche l’Associazione Antigone.

All’udienza preliminare, celebratasi il 6 aprile 2017, il Giudice ammetteva la richiesta di costituzione di parte civile di Antigone riconoscendo che l’omicidio colposo di un detenuto può ledere gli interessi della stessa.

La prossima udienza per la definizione della fase preliminare del processo è fissata per il 17 maggio 2018.

I circuiti

I procedimenti su episodi di violenza presso la Casa circondariale di Ivrea (Procura della Repubblica presso il Tribunale di Ivrea)

A marzo del 2016, Antigone ha presentato un esposto per denunciare un episodio di violenza che sarebbe avvenuto nei confronti di un detenuto africano.

L’episodio veniva raccontato da un compagno di detenzione della vittima: “Il giorno sabato 7 novembre scorso ho assistito al maltrattamento di un giovane detenuto, probabilmente nordafricano di cui non conosco il nome. Verso le ore 20.15 sono stato attratto da urla di dolore e di richieste di aiuto e sono uscito dalla mia cella nel corridoio che consente di vedere la rotonda del piano terra. Sono infatti alloggiato nel piccolo braccio che ospita le celle delle persone in semilibertà e in art.21. Ho allora visto tre agenti, che saprei riconoscere anche se non conosco i nomi, picchiare con schiaffi e pugni il giovane che continuava a gridare chiedendo aiuto e cercava di proteggersi senza reagire. Alla scena assistevano altri agenti e un operatore sanitario che restavano passivi ad osservare. Il giovane veniva trascinato verso i locali dell’infermeria mentre continuava a gridare”.

A seguito di questa denuncia, e anche grazie all’intervento del Garante locale dei diritti delle persone private della libertà, sono stati aperti diversi procedimenti per indagare su questo e su altri episodi di violenza che sarebbero stati commessi all’interno di questo carcere.

Attualmente, davanti alla Procura della Repubblica di Ivrea sono pendenti quattro procedimento penali, due contro noti e due contro ignoti.

Antigone depositerà formale sollecito per sollecitare la chiusura delle indagini.

Il processo sulla morte di Stefano Borriello (Tribunale di Pordenone)

L’8 aprile del 2016, Antigone presenta un esposto davanti alla Procura della Repubblica di Pordenone per denunciare diverse incongruenze sulla morte del giovane Stefano Borriello, avvenuta, a soli ventinove anni, il 7 agosto 2015 nel carcere di Pordenone.

Secondo la comunicazione di decesso sottoscritta dal Direttore, alle 20.15, Stefano veniva notato da un agente di polizia penitenziaria all’interno della sua cella (la n.2) mentre perdeva i sensi e cadeva a terra; veniva trasportato d’urgenza al Pronto soccorso dell’Ospedale di Pordenone ove veniva constatato il decesso.

Secondo la Dott.ssa Zecca – il medico che per Antigone ha redatto apposita consulenza sulle cause del decesso – il giovane è morto per una banale polmonite in quanto i medici non hanno posto in essere neanche i minimi accertamenti per capire da cosa erano determinati la febbre alta e i dolori che lo stesso lamentava.

Le indagini preliminari si sono sviluppate in due fasi con esito analogo ossia la richiesta di archiviazione del Pubblico ministero.

Nella prima fase, il consulente della Procura, pur dando atto che Stefano è deceduto per broncopolmonite da “acquisizione di batteri comuni ambientali generici” e che la stessa “è stata contratta circa una settimana prima del decesso” e pur dando atto che il giorno precedente il decesso – il 6 agosto – era opportuno un “approfondimento clinico/diagnostico/strumentale” e che i dati della “semeiotica toracica” rilevabili mediante percussione e auscultazione “avrebbero potuto rilevare dati anomali” per cui sarebbe stato necessario eseguire esame radiologico, tuttavia, concludeva il consulente, un trattamento antibiotico non avrebbe potuto evitare il decesso del giovane.

Come si poteva sostenere che una “banale” broncopolmonite, anche se diagnosticata in ritardo, non potesse essere curata?

Questo dubbio è stato condiviso anche dal Giudice delle indagini preliminari il quale, a seguito dell’opposizione alla richiesta di archiviazione, avanzata dalla madre del giovane, ha ritenuto necessario disporre una integrazione delle indagini preliminari. Era il 28 settembre 2016.

In questa seconda fase delle indagini, il Pubblico ministero, dopo aver disposto una integrazione della consulenza medica, il 17 luglio 2017, avanzava una seconda richiesta di archiviazione con motivazioni ancora più farraginose delle precedenti in quanto il Consulente della Procura motiva ampiamente e senza mezzi termini sulle molteplici e gravi omissioni poste in essere dal medico di reparto: “Nel diario clinico redatto in data 6 agosto 2015 nessun riferimento viene fatto al rilevamento di parametri vitali e/o all’esecuzione di un esame obiettivo toracico. Tali manovre, semplici e di facile esecuzione, erano indispensabili alla luce della sintomatologia, componendo in capisaldi elementari di ogni prestazione medica: anamnesi accurata ed esame obiettivo.”

Antigone presenta formale atto di opposizione alla richiesta di archiviazione che verrà discussa all’udienza del 18 dicembre 2017: secondo il consulente specialista in malattie infettive nominato dall’associazione, una visita del paziente anche il giorno prima del decesso avrebbe permesso di iniziare una terapia che avrebbe aumentato notevolmente le possibilità di sopravvivenza del giovane.

All’esito dell’udienza, il Giudice disponeva provvedimento di imputazione coatta che portava il Pubblico ministero alla formulazione del capo di imputazione per omicidio colposo nei confronti del medico del carcere.

L’udienza preliminare, in cui Antigone chiederà di essere ammessa quale parte civile, verrà celebrata l’8 maggio 2018 davanti al Tribunale di Pordenone.

Il procedimento sulla morte di Valerio Guerrieri (Procura della Repubblica presso il Tribunale di Roma)

Valerio Guerrieri è morto suicida nel bagno di una cella di Regina Coeli il 24 febbraio 2017: aveva compiuto da poco 22 anni ed aveva importanti disturbi psichici.

Secondo l’ultimo perito che lo aveva visitato, Valerio era affetto da “disturbo della personalità” con una “sorta di cronicità del discontrollo ed atteggiamenti manipolatori” e il rischio suicidario del giovane “piuttosto significativo” e “non trascurabile”.

Anche Valerio parlava in quell’udienza: “Io sto male, sto male, ma non sono pericoloso per gli altri, perché se ero pericoloso per gli altri avrei fatto qualcosa di male a qualcheduno.  (…) Poi a Regina Coeli ogni 15 minuti non è vero perché io sto al terzo piano, e non ce sta neanche una guardia per ogni piano, ce sta soltanto quando viene il Comandante e la direttrice, che se mettono uno, uno, uno. Ma io ogni 15 minuti io non la vedo l’assistente che me viene a vedé, non è vero. Questi psichiatri che dicono che mi visitano, non mi visitano.”

Al termine di questa udienza – 10 giorni prima della morte – il Giudice dichiara il giovane parzialmente incapace di intendere e di volere e lo condanna alla pena di quattro mesi di reclusione, revoca la custodia cautelare in carcere e dispone l’applicazione della misura di sicurezza in REMS.

Importante evidenziare che la misura di sicurezza non viene disposta in via provvisoria quindi doveva essere eseguita soltanto a condanna definitiva e dopo l’intera espiazione della pena della reclusione.

Dunque, Valerio non doveva tornare a Regina Coeli e invece lì è stato portato.

Subito dopo la sua morte, la Procura della Repubblica ha aperto un procedimento contro ignoti per omicidio colposo per individuare i responsabili che non hanno fatto quanto poteva essere fatto per evitare che Valerio si suicidasse.

Antigone non entra in questo procedimento ma decide di presentare un esposto per fare luce sulle ragioni che hanno permesso che una persona possa essere ristretta in carcere senza titolo.

Le indagini su questo procedimento si chiudono il 20 febbraio 2018 con una richiesta di archiviazione.

Nell’atto si conferma che sì è proprio così: Valerio Guerrieri era detenuto senza titolo e non è rimasto in carcere per un errore inconsapevole delle autorità ma nella loro piena consapevolezza.

Antigone, assieme alla madre del giovane, ha presentato opposizione alla richiesta di archiviazione.

Il procedimento sulla morte di Marco Prato (Procura della Repubblica presso il Tribunale di Velletri)

Il 25 gennaio 2018, Antigone ha presentato un esposto per far luce sulla morte di Marco Prato, suicidatosi il 20 giugno 2017 nel bagno di una cella del carcere di Velletri.

Il 13 febbraio 2017, Marco viene trasferito dalla Casa circondariale di Regina Coeli al carcere di Velletri contro la sua volontà.

Le ragioni sottese al trasferimento appaiono irragionevoli e soprattutto contrarie al Principio di umanità della pena: secondo la Direzione del carcere romano, i tentativi del giovane di integrazione tramite richieste di lavoro e di supporto agli altri detenuti erano inappropriati.

Marco si trovava nel carcere romano dal mese di marzo 2016 e qui era sempre stato attenzionato inizialmente – per i primi tre mesi – con la sorveglianza a vista, in seguito – per i successivi otto mesi – con la grande sorveglianza ogni quindici minuti

Dunque, al momento dell’allontanamento dal carcere romano, Marco era sottoposto alla grande sorveglianza e assumeva una importante terapia farmacologica.

Giunto nel carcere di Velletri, il personale sanitario, nonostante quanto riportato nel diario clinico, non ha disposto nei confronti di Marco alcun tipo di osservazione.

Nei tre mesi successivi, il giovane effettuerà sporadici colloqui con lo psichiatra e nonostante gli evidenti segnali di distacco e di isolamento – esce poco dalla cella e interrompe i contatti epistolari con gli amici – nessuna azione viene posta in essere in suo aiuto.

Attualmente il procedimento è aperto contro ignoti per l’ipotesi di istigazione al suicidio.

 

Concludo questa lunga ricostruzione dei processi e dei procedimenti in cui Antigone è oggi presente da dove sono ripartita ossia dal “processo del carcere di Asti”. Tredici anni dopo, il 26 ottobre 2017, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato l’Italia perché ha ritenuto i fatti commessi a danno dei due detenuti in violazione dell’art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.

Il tortuoso percorso durato così tanti anni ha almeno contribuito all’approdo della Legge 110/2017 con cui finalmente è stato introdotto il reato di tortura nel nostro ordinamento dando così risposta al duro monito che il Giudice aveva sollevato nella sentenza del 2012: “I fatti in esame potrebbero essere agevolmente qualificati come “tortura”. (Sentenza 78/2012 Tribunale di Asti Giudice Dott. Riccardo Crucioli).