“Il rischio concretissimo è che il lavoro di questi ultimi tre anni rimanga vuoto esercizio di stile, senza alcun impatto sulla realtà penitenziaria e sulla sicurezza del Paese”
La riforma che non c’è
Il 2017 avrebbe dovuto essere l’anno della “svolta” per il sistema penitenziario italiano. Avrebbe dovuto chiudersi un ciclo, idealmente iniziato nel 2013 con la condanna della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Era atteso un nuovo ordinamento penitenziario, che, dopo quarant’anni avrebbe dovuto modificare e “ammodernare” l’impianto originario del 1975, sulla base del cospicuo lavoro degli Stati generali dell’Esecuzione penale.
Avremmo dovuto compiere passi in avanti nel segno della dignità dell’uomo, nel rispetto dei suoi diritti fondamentali, ma anche nel segno della sicurezza collettiva. Ogni persona intellettualmente onesta, ammette infatti che il carcere così com’è oggi rende l’Italia insicura, agevolando la recidiva e deludendo l’obiettivo costituzionale della “rieducazione”.
No, questa non è retorica, né mera battaglia di contrapposizione al pensiero dominante dell’ “ordine e decoro” e del “più carcere”, messaggio ormai trasversale promosso dai principali schieramenti politici.
E invece, il 2017 resterà l’anno della (dis)illusione. La riforma ha avuto tempi (troppo) lunghi, la versione definitiva del testo legislativo è finita in pasto agli appetiti (e agli infondati attacchi) elettorali, troppo a ridosso della fine della legislatura.
Il rischio concretissimo è che il lavoro di questi ultimi tre anni rimanga vuoto esercizio di stile, senza alcun impatto sulla realtà penitenziaria e sulla sicurezza del Paese.
L’Osservatorio sulle condizioni detentive di Antigone, in questi 20 anni di vita, ha sempre voluto basarsi su fatti ed evidenze, affinando gli strumenti di monitoraggio e preservando l’autorevolezza, faticosamente conquistata in centinaia di visite in ogni istituto penitenziario del Paese.
Capiamo dunque quali sono i contorni della (dis)illusione e del mancato cambiamento. Facciamo dunque parlare i numeri e le osservazioni svolte nelle 86 visite del 2017.
Titoliamo i paragrafi con alcuni luoghi comuni, a cui quotidianamente dobbiamo rispondere. Frasi fatte che, a forza di essere ripetute e condivise, acquisiscono il rango di verità. Poco importa che di vero abbiano ben poco, l’importante è illudersi che basti una frase fatta per trovare una soluzione semplice ad un problema complesso. E invece no, non basta. Cerchiamo di capire perché.
“Fuori si dice che in carcere non ci finisce nessuno. Noi in quest’anno di visite abbiamo dovuto registrare che il sovraffollamento è tornato, ed anzi in alcuni istituti non è mai andato via”
“In carcere non ci finisce mai nessuno”
Come detto sopra nel corso del 2017 abbiamo visitato 86 delle 190 carceri in giro per l’italia. 36 nel nord, dalla Valle d’Aosta alla Romagna, 20 in centro Italia e 30 tra il sud e le isole.
Il carcere più grande dove siamo stati è, come si immagina, Poggioreale, una cittadina nel centro della città di Napoli che ospita ormai oltre 2.200 detenuti (erano poco più di 2.000 un anno fa) ed in cui lavorano più di 1.000 persone. Per la verità ci siamo stati più di una volta e abbiamo anche girato un video. Il più piccolo probabilmente Arezzo, una Casa Circondariale con una capienza ufficiale di 101 posti ma in cui da tempo, a causa di interminabili lavori di ristrutturazione, le presenze non superano le 30 unità.
Fuori si dice che in carcere non ci finisce nessuno. Noi in quest’anno di visite abbiamo dovuto registrare che il sovraffollamento è tornato, ed anzi in alcuni istituti non è mai andato via. Gli istituti più sovraffollati che abbiamo visto sono stati probabilmente Como, nel profondo nord, che oggi ha un tasso di affollamento del 200%, e Taranto al sud, con un affollamento del 190,5%. In entrambi la situazione è preoccupante. Como in taluni casi non è adempiente alle recenti disposizioni in materia di spazi, con l’utilizzo di celle da 9mq scarsi per 3 detenuti. Anche le verifiche delle condizioni igienico-sanitarie hanno rivelato gravi carenze, come la consegna del vitto senza carrelli riscaldati, l’utilizzo di locali barberia con presenza a terra di capelli tagliati e il contemporaneo smistamento di generi alimentari di sopravvitto; le cucine con intonaci scrostati e piastrelle rotte; l’impianto lavastoviglie guasto da anni. Numerose docce sono prive di diffusori ed alcune sono inutilizzabili a causa degli scarichi intasati.
A Taranto si registra un clima disteso e la struttura, nelle parti ristrutturate, versa in condizioni discrete. Il Blocco C è stato totalmente ristrutturato, gli altri invece necessitano interventi importanti. Nella sezione dedicata alla “alta sicurezza” ci sono muffe e macchie di umidità sulle pareti e in particolare nei bagni e nella zona docce. Nonostante gli sforzi però anche qui i numeri elevatissimi si fanno sentire. Se nelle carceri da noi visitate in media c’erano 76 detenuti per ogni educatore, a Taranto erano ben 181! Le conseguenze di questo sui percorsi trattamentali dei detenuti si possono facilmente immaginare.
Insomma, la crescita di quasi 2.000 detenuti nel corso dell’ultimo anno, che sono passati dai 56.289 del marzo 2017 ai 58.223 del marzo 2018, non ha avuto le stesse conseguenze ovunque ed in alcuni istituti la situazione, sempre non facile, sta diventando invivibile.
Andamento della popolazione detenuta negli ultimi 12 mesi
Fonte: nostra elaborazione su dati DAP
Ma chi sono le persone detenute in questi spazi? Anzitutto, non tutte sono persone che stanno scontando una pena. Il 34% dei detenuti è in custodia cautelare e dunque in attesa di una sentenza definitiva, un dato in leggero calo rispetto all’anno scorso, ma tra gli stranieri la percentuale è più alta, addirittura del 39%.
I reati per cui le persone sono detenute sono prevalentemente reati contro il patrimonio (24,9%), seguiti dai reati contro la persona (17,7%) e da quelli previsti dal testo unico sugli stupefacenti (15,2%). Tra gli stranieri i reati contro la persona sono meno frequenti rispetto agli italiani, mentre lo sono di più quelli per violazione della legge sulle droghe.
Il 4,9% dei detenuti è in carcere per condanne fino ad un anno, e la percentuale sale al 7,1% se si considerano i soli stranieri. Si tratta di un dato piuttosto elevato se si pensa alle molte alternative alla detenzione possibili per chi ha subito una condanna così lieve. Al contrario gli stranieri sono meno rappresentati tra quanti hanno subito condanne più lunghe. Gli ergastolani sono il 4,6% di tutti i detenuti e solo lo 0,8% dei detenuti stranieri.
La differenza tra italiani e stranieri per i reati commessi e per le pene subite si rispecchia prevedibilmente sull’età, mediamente più elevata tra gli italiani. Ha più di 45 anni il 36,6% di tutti i detenuti, ma il 16,9% dei detenuti stranieri.
“Il problema del tempo in carcere non è che passa ma lento, ma che passa tutto uguale”
“In carcere non si fa niente, è come un albergo”
“Riempire di significato il tempo della pena” è uno degli obiettivi del sistema penitenziario, perchè, come usano ripetere molte persone detenute incontrate durante le visite, il problema del tempo in carcere “non è che passa lento, ma che passa tutto uguale”.
Il coinvolgimento delle persone detenute in attività formativa, educative o lavorative non solo permette di contrastare l’ozio penitenziario, ma consente una più approfondita osservazione della persona (proprio come previsto dalla “sorveglianza dinamica”). Siamo però ancora molto distanti dall’obiettivo.
Critica è infatti la situazione delle attività scolastiche (dall’alfabetizzazione all’università). Solo il 23% delle persone detenute partecipa ad un corso scolastico di qualsiasi grado. Le prime 5 Regioni a livello percentuale con più iscritti ai corsi scolastici sono nell’ordine la Lombardia (36,7% dei detenuti iscritti sul totale dei presenti), la Calabria (35%), il Lazio (25,7%), l’Umbria (24,1%) e il Piemonte (23,1%). Mentre le peggiori 5 sono in ordine decrescente l’Abruzzo (13,0%), la Sicilia (11,9%), la Valle d’Aosta (9,4%), la Campania (5,5%) e da ultimo il Molise (4,3%). Questi dati ci permettono di rilevare come secondo l’osservazione di Antigone la situazione dell’istruzione sembra peggiorare scendendo lungo la penisola (Marche, Sardegna, Basilicata e Puglia non raggiungono il 20% degli iscritti).
Si passa dal critico al molto critico se si analizza il tema del lavoro.
Il tasso di occupazione tra la popolazione libera in età lavorativa (15-64 anni), calcolata dall’ISTAT nel 2017 è stato del 58,2% (60,6 % tra gli stranieri, 57,7% tra gli italiani). Se è naturale immaginare che, tra la popolazione reclusa quei tassi siano più bassi, tuttavia è difficile immaginare che il divario sia tanto ampio.
Il tasso di occupazione in carcere scende infatti al 30%. La metà di quello della popolazione libera. In carcere nel 2017 hanno lavorato 18.404 persone (31,95% del totale), con percentuali omogenee nelle diverse aree geografiche (32,5% al Nord, 33,1% al Centro e 31% Sud e Isole).
Ma si tratta di lavoro “vero” e dunque retribuito e contrattualizzato come richiesto dalla legge? Purtroppo no, ma difficile pensare che possa accadere diversamente quando anche sul piano lessicale, nel gergo penitenziario, chi lavora non è un “lavoratore”, ma un “lavorante”.
Antigone calcola che appena il 2,2% dei detenuti lavora per datori di lavoro diversi dall’amministrazione penitenziaria. Alcuni di questi sono in semilibertà (766), e altri in in art.21 (765) e dunque escono nelle ore lavorative per recarsi al lavoro. Coloro che invece lavorano per datori di lavoro esterni, ma restando all’interno del carcere sono 949, di cui 246 detenuti alle dipendenze di imprese (195 al Nord) e 703 di cooperative (di cui 195 al Nord). Meno di mille persone (l’1,7% del totale della popolazione penitenziaria). Una schiacciante minoranza.
Le altre 17 mila persone censite dall’amministrazione penitenziaria come “lavoranti”, sono alle dipendenze dell’amministrazione stessa e per la maggior parte (l’82%) impegnate nei servizi di istituto (la pulizia delle sezioni, la distribuzione del vitto, alcune mansioni di segreteria, la scrittura di reclami e documenti per altri detenuti). Lavori svolti a turnazione e senza alcuna spendibilità nel mondo del lavoro esterno. Più che lavori dunque, occupazioni del tempo.
“Nel 2018 si celebrano i 10 anni della riforma della sanità penitenziaria (DPCM 1 Aprile 2008). Il bilancio presenta più ombre che luci”
“In carcere, in fondo, si sta bene”
Nel 2018 si celebrano i 10 anni della riforma della sanità penitenziaria (DPCM 1 Aprile 2008) che ha trasferito competenze e responsabilità dall’amministrazione penitenziaria a quella sanitaria e dunque alle singole regioni, attraverso le Aziende sanitarie locali. Il bilancio (che tracciamo qui) presenta più ombre che luci.
Se consideriamo il più drammatico degli indicatori del benessere detentivo, quello del numero di suicidi, dobbiamo constatare che in questi dieci anni poco o nulla è successo, anzi il tasso di suicidi (morti ogni 10.000 persone) è salito dall’8,3 del 2008 al 9,1 del 2017, in numeri assoluti significa passare dai 46 morti nell’anno di entrata in vigore della riforma ai 52 del 2017. E dietro ad ogni numero, ci sono persone.
Tasso di suicidi in carcere su 10.000 persone recluse 1992-2017
Fonte Rielaborazione dati Ristretti Orizzonti- dossier Morire di carcere e Dap
“La Costituzione non parla di pena, ma di pene (Art. 27). È dunque certo che ci siano, e che ci debbano essere, pene diverse dalla detenzione. Ma quali sono? E soprattutto, sono davvero alternative alla detenzione? O sono piuttosto alternative alla libertà?”
“E dopo pochi giorni, stanno tutti fuori”
Uno dei temi che ha appassionato i confronti della campagna elettorale appena conclusa, come di molte in passato, è quello della presunta mancanza di certezza della pena. L’equivoco deriva dalla convinzione che tutto debba essere punito con il carcere e che ogni vicenda penale che non si traduca in detenzione sia appunto un attentato alla certezza della pena. Ma, tanto per dirne una, la Costituzione repubblicana non parla di pena, ma di pene (Art. 27). È dunque certo che ci siano, e che ci debbano essere, pene diverse dalla detenzione. Ma quali sono? E soprattutto, sono davvero alternative alla detenzione? O sono piuttosto alternative alla libertà?
Come detto altre volte, la risposta alla domanda non è semplice. Da quando esistono, e non solo in Italia, le alternative alla detenzione crescono non al posto di, ma assieme a, la popolazione detenuta, e non si verifica quasi mai che un andamento crescente delle alternative alla detenzione si accompagni ad un calo della detenzione stessa. Questi due numeri crescono assieme, segno di una complessiva crescita del numero delle persone sottoposte a controllo penale, e semmai si può dire che in assenza delle alternative il carcere crescerebbe ancora di più. Succede così in tutto il mondo. Detto questo, la situazione non è la medesima per tutte le misure alternative. Guardiamole ad una ad una.
Andamento della popolazione detenuta negli ultimi 12 mesi
Fonte: nostra elaborazione su dati DAP
La semilibertà, la prima alternativa alla detenzione a cui tradizionalmente ha accesso chi sconta una pena lunga, applicata generalmente a chi ha già trascorso molti anni in carcere, era certamente una misura alternativa alla detenzione, realmente deflattiva, pur se di applicazione limitata, ma si tratta di una misura praticamente dimezzata rispetto ai numeri di venti anni fa.
Più complesso il caso della detenzione domiciliare e dell’affidamento in prova ai servizi sociali, misure a cui si accede prevalentemente dalla libertà, e per reati di fatto meno gravi, ma anche dal carcere e, soprattutto per la detenzione domiciliare, negli ultimi anni sempre più dal carcere. Misure dunque che contribuiscono a limitare i numeri della detenzione, senza le quali le carceri sarebbero ancora più sovraffollate, ma che in molti casi si applicano a fatti meno gravi per i quali andrebbe forse pensata, più che un’alternativa alla detenzione, un’alternativa al penale tout court, dato che la detenzione forse non si sarebbe avuta in ogni caso.
Come in una certa misura avviene per l’ultima di queste misure, ovvero la messa alla prova. Come si vede dal grafico sopra la misura, introdotta nel 2014, e che prevede in breve la sospensione del processo ed un periodo di probation all’esito positivo del quale il procedimento si estingue, ha presto raggiunto numeri significativi ed oggi riguarda più persone della detenzione domiciliare e poche meno dell’affidamento. La sua rapida ed imponente crescita non pare però avere influito sull’andamento delle altre misure, che hanno proseguito negli anni più recenti con l’andamento registrato nel periodo immediatamente precedente, né con l’andamento della popolazione detenuta, che semmai ha ricominciato a crescere proprio in coincidenza con la crescita delle messe alla prova.
La materia meriterebbe una analisi più approfondita e forse un periodo di osservazione più lungo, ma si fa strada il sospetto che la messa alla prova abbia effettivamente rappresentato un’alternativa alla libertà più che un’alternativa alla detenzione o ad altre sanzioni alternative. Difficilmente infatti i procedimenti per cui è ammessa, per reati per i quali la pena edittale non supera nel massimo i quattro anni di reclusione, avrebbero avuto come esito la detenzione dell’imputato, ed i dati statistici sembrano dirci che la rapida crescita della misura non abbia avuto effetti nemmeno sulle altre alternative alla detenzione.
Non resta che ipotizzare che la nuova misura stia influendo massicciamente su quei percorsi processuali che avevano come esito ad esempio la prescrizione, fenomeno come è noto assai più diffuso per i reati meno gravi, ma i dati più recenti disponibili, resi noti dal ministro Orlando nel 2016, non consentono ancora di verificare o meno queste ipotesi.
Il fatto però resta. Gli ultimi anni hanno visto l’esplosione di questa nuova misura che tutti abbiamo salutato con favore, sperando che potesse rappresentare un’alternativa al processo e alla pena per i molti casi per i quali questi appaiono inadeguati e dannosi. C’è da capire se effettivamente sia stato così, o se non si sia invece trattato di una alternativa ad altre forme di estinzione del reato.
La lettura di questo XIV Rapporto svela la relazione indissolubile tra la questione carceraria e la sicurezza del Paese. Per discuterne occorre conoscere. “Conoscere per deliberare” ammoniva Luigi Einaudi, nelle sue “Prediche inutili”.
Il rischio è che entrambe queste azioni vengano sacrificate: si evita di “conoscere” per sfamare l’appetito populista e si evita di “deliberare” pensando di fare un favore al Paese, senza accorgersi di ottenere l’effetto contrario.
@ Maggio 2018 | foto NextNM