Radicalizzazione e libertà di culto

Radicalizzazione e libertà di culto

150 150 Un anno in carcere - XIV rapporto sulle condizioni di detenzione a cura di Associazione Antigone

Claudio Paterniti Martello

Radicalizzazione e libertà di culto

Quali sono le religioni presenti nelle carceri italiane? Quanto è garantito il loro esercizio? Cosa fa l’amministrazione per contrastare la radicalizzazione dietro le sbarre?

Sono tante e del più alto rango le fonti normative che sanciscono il diritto alla libertà di culto: si va dalla Costituzione alla Convenzione europea sui diritti dell’uomo. Si tratta di un diritto universale e valido in ogni luogo. Il carcere non fa eccezione, almeno sulla carta. L’art. 1 dell’ordinamento penitenziario vieta ogni discriminazione basata su “nazionalità, razza e condizioni economiche e sociali, opinioni politiche e credenze religiose”, e l’impedimento del libero culto è una discriminazione. Le regole penitenziarie europee si occupano del tema alla regola 29, allorché prevedono il diritto a partecipare ai riti pubblici previsti dalla propria religione e di avere colloqui privati con i ministri di culto. Perché i primi abbiano luogo è necessario che gli istituti siano dotati di luoghi appositi e consoni, come logicamente previsto dall’ordinamento penitenziario del 2000, all’art. 58.

Nonostante la normativa, tra i privati della libertà il diritto a professare pienamente la propria fede fatica a imporsi, quando non si è cattolici – sebbene buona parte dell’amministrazione penitenziaria veda di buon occhio la pratica religiosa, data la sua funzione pacificatrice dei conflitti e la sua capacità di ristrutturare un sé destrutturato da una perdita di autonomia tipica della situazione detentiva1)de GALEMBERT C. et al. (2016), “Islam et prison: liaisons dangereuses ?” in Pouvoirs 2016/3 (N° 158), pp. 67-81.

E c’è chi alla mancata garanzia dei diritti di alcune minoranze lega in parte il tema della radicalizzazione. In questo breve articolo vedremo in primis qual è lo stato del diritto alla libertà di culto in carcere: quanto è garantita, dove lo è più, dove meno. Passeremo poi alla questione scottante della radicalizzazione: come la affronta l’amministrazione penitenziaria? Come individua i detenuti in fase di radicalizzazione? Che trattamento riserva loro?

Quali sono le religioni in carcere

Partiamo dalla libertà di culto. Il regolamento penitenziario prevede che a un neo-detenuto si chieda qual è la sua religione (art. 26). Le fedi di appartenenza in carcere sono dunque note, nonostante non tutti i dati siano aggiornatissimi. Il 31 dicembre 2017 il 55,75 % dei detenuti era composto da cattolici (32.119). Che fossero maggioranza non stupisce. Ma è una maggioranza diminuita rispetto a qualche decennio fa, quando in carcere c’erano pochi immigrati. A ottobre 2017 il 34,4% della popolazione detenuta era straniera (19.859, su un totale di 57.737). Il più consistente gruppo di questa è registrato come musulmano: il 36,1% degli stranieri e il 12,4% del totale (7.194). Nel 2016 erano 7.646, circa 500 in più del 2017. Dalla lettura dei dati si scopre però che molti preferiscono non dichiarare la propria fede. A inizio 2016 erano addirittura il 26,3% del totale (14.235). L’amministrazione pare non fidarsi delle dichiarazioni, così ha calcolato quanti detenuti provengono da paesi musulmani: 12.567 nel 2017 (erano 11.029 nel 2016). Ciò vuol dire che 5.373 tra questi non hanno dichiarato la fede di appartenenza: il 42,9%, percentuale troppo alta per l’ateismo (l’anno prima erano circa 500 in meno). I dati, assieme a una certa pratica delle carceri, mostrano una tendenza a non dichiarare la religione di appartenenza, presumibilmente per paura di essere discriminati. Il DAP li presenta nella sua  relazione annuale, al paragrafo sulla prevenzione della radicalizzazione: cosa di per sé esplicativa. Si capisce come il diritto a vivere liberamente la propria religione ne esca un po’ malmenato.

Tornando alla conta delle religioni in carcere: in terza posizione, dopo cattolici e musulmani, ci sono i cristiani ortodossi: nel 2017 erano 2.481, il 4,3% del totale. Gli altri si situano al di sotto dell’uno per cento: evangelisti, avventisti del settimo giorno, testimoni di Geova, hindu e via dicendo.

I luoghi di culto

Il diritto di professare la propria religione coinvolge tanto la sfera privata quanto quella pubblica. Si deve in particolare poter partecipare ai riti collettivi con i vari ministri di culto, per di più in luoghi consoni. L’obbligo di predisporre luoghi riservati e adatti al culto è in capo allo Stato, che nel caso della religione cattolica fa senz’altro il suo dovere. Tutti gli istituti di pena hanno almeno una cappella; molti più d’una. Le altre confessioni ne escono meno bene: su 86 istituti da noi visitati, solo in 20 erano presenti spazi per culti i non cattolici: il 23%. Ciò vuol dire che nel 77% degli istituti non c’era altro che la propria cella, per pregare.

Ci sono spazi dedicati ai culti non cattolici?

Fonte: Osservatorio Antigone

Di quel 23% fanno parte salette per la socialità adibite occasionalmente a moschee, sale polivalenti che si fanno di volta in volta moschea o sala per l’assemblea ortodossa e luoghi esclusivamente riservati a una religione.

I ministri di culto

Le garanzie poste dallo Stato a protezione del diritto alla libertà di culto dei non cattolici appaiono fragili anche se si guarda ai ministri di culto. Il problema non riguarda la religione cattolica: l’ordinamento penitenziario prevede la presenza di almeno un cappellano per istituto, ma in realtà sono molti di più: 314, su 189 carceri (stipendiati dall’amministrazione penitenziaria). I rappresentanti di altre religioni hanno invece vita più difficile.

Ministri operanti nelle carceri italiane per culto

Fonte: DAP 2017

ReligioneDetenutiMinistri di culto
Cattolici32219314
Anglicani202
Buddisti8442
Cristiani evangelici293162
Ebraica729
Hindu680
Islamici719417
Ortodossi248134
Testimoni di Geova56310

Perché entrino in carcere è necessario che i detenuti ne facciano domanda; poi il Ministero dell’Interno deve autorizzarli. Sono pochi, soprattutto per la religione musulmana. Gli imam autorizzati sono 25. A questi si sommano 41 assistenti volontari (che però, proprio in quanto volontari, sono soggetti a restrizioni non previste per i ministri di culto autorizzati). Il DAP recensisce poi anche i detenuti che fanno da imam, che in tutto sono 97. Vale la pena ricordare che l’imam non è l’equivalente di un prete, ma colui che guida la preghiera. Nel 2015 il DAP ha siglato un protocollo d’intesa con l’Unione delle Comunità islamiche italiane (UCOII), col quale prevedeva l’ingresso di imam autorizzati in 8 istituti. L’intenzione iniziale era quella di garantire maggiormente il diritto alla libertà di culto, contrastando al contempo la radicalizzazione in carcere (in base all’idea secondo cui gli imam “certificati” possono contrastare l’influenza di alcuni detenuti-leader che propagandano ideologie jihadiste). Il protocollo doveva essere esteso a tutto il territorio nazionale, ma a più di due anni dall’avvio nulla si sa sul seguito. Il grafico qui di seguito mostra come nel 23% degli istituti da noi visitati non ci fosse alcun ministro di culto diverso dal cappellano cattolico.

Sono presenti ministri di culto diversi dal cappellano cattolico?

Lo stile di vita

La libertà di culto si protegge anche garantendo la possibilità di mantenere uno stile di vita concorde col proprio credo, e ciò non sempre accade. In 6 degli istituti da noi visitati non è previsto un menu specifico per i musulmani, che sono dunque obbligati a mangiare alimenti vietati dal loro credo. In moltissimi istituti poi non è possibile comprare alimenti halal al di fuori di quelli serviti dall’amministrazione (tra i beni del cosiddetto sopravvitto).

La radicalizzazione e il carcere

Passiamo alla radicalizzazione. Negli ambienti della sociologia francese si è sottolineato come il non rispetto dei diritti dei detenuti musulmani possa contribuire a creare una visione di sé vittimizzante che in un’estrema minoranza di casi può favorire i processi di radicalizzazione violenta2)È quanto sostiene Farhad Khosrokhavar in Prisons de France, Editions Robert Laffont, Paris. L’istituzione penitenziaria viene vista come vessatrice, vero volto di una società ingiusta. L’ideologia jihadista consentirebbe allora un’opposizione strutturata, teoricamente salda. L’adesione al jihad permetterebbe inoltre il capovolgimento “magico” dei ruoli: da giudicati si diventa giudici, da condannati giustizieri, oltre che eroi e martiri. Le dinamiche in gioco sono molteplici e complesse. Qui ci basti sottolineare come la promozione dei diritti possa essere un modo per contrastare il fenomeno della radicalizzazione, e come ciò non venga fatto a sufficienza.

Il problema della radicalizzazione dietro le sbarre non è chiaramente estraneo ai pensieri dell’amministrazione penitenziaria, come mostra il modo in cui raccoglie e presenta i dati: i numeri sulle fedi di appartenenza dichiarate si affiancano e intrecciano a quelli sui detenuti provenienti da paesi di tradizione musulmana, sotto il paragrafo dedicato alla radicalizzazione; l’amministrazione recensisce poi i detenuti-imam (97) e i detenuti convertiti all’islam (44), riportando i risultati nello stesso paragrafo.

I livelli di radicalismo

Il monitoraggio del fenomeno avviene con diversi strumenti concettuali. Il DAP ha definito tre categorie di detenuti a rischio e altrettanti livelli di allerta. La prima categoria comprende chi è in carcere per reati connessi al terrorismo di matrice islamica, senza distinzioni tra condannati, sospettati e imputati; la seconda i detenuti per reati comuni che “condividono un’ideologia estremista e risultano carismatici”; la terza i detenuti comuni giudicati “facilmente influenzabili”, i “followers”. Queste tre categorie rientrano in ordine sparso in tre livelli di allerta. Il terzo e meno alto è riservato ai “followers”, il secondo a coloro i quali durante la detenzione hanno mostrato “atteggiamenti che fanno presupporre la loro vicinanza all’ideologia jihadista” e il primo, detto “alto”, a due tipi di detenuti: i condannati, sospettati e imputati per reati connessi al terrorismo islamico e i detenuti comuni che hanno “posto in essere atteggiamenti che rilevano forme di proselitismo, radicalizzazione e/o reclutamento”, dunque meritevoli di un’attenzione particolare.

Un regime detentivo apposito, l’AS2

A seconda della categoria di appartenenza si ha un trattamento penitenziario diverso. I detenuti per terrorismo islamico sono soggetti a un regime detentivo speciale e restrittivo, l’alta sicurezza (AS). Si tratta di un regime basato su circolari dell’amministrazione penitenziaria e non su leggi, e pertanto soggetto a forte discrezionalità. In uno dei sotto-circuiti che lo compongono, l’AS2, si trovano i 62 detenuti per reati commessi con finalità di terrorismo di matrice islamica. Si tratta di un numero in forte crescita rispetto all’anno precedente, quando erano il 41% in meno. I luoghi di detenzione sono sparsi: Sassari (26), Rossano (19), Nuoro (11) (dove è stata istituita una sezione femminile), Torino (2), Ferrara (2), Brescia (1) e Lecce (1). Salta agli occhi il numero di detenuti senza una condanna definitiva. Solo in 4 ce l’hanno, il 6%. Per il resto, ben 30 sono giudicabili, cioè in custodia cautelare, 16 sono appellanti (con una condanna di primo grado), 9 ricorrenti e 3 con posizione giuridica mista.

Gli altri numeri della radicalizzazione

Ai 62 di cui sopra bisogna aggiungere altri 444 detenuti monitorati con livelli di allerta diversi. In tutto fa 506 detenuti, il 72% in più dello scorso anno (quando erano 365). Ma andiamo per ordine. Al 30 ottobre 2017 i detenuti a cui era riservato il primo livello di attenzione, il più alto, erano in tutto 242: 62 detenuti per terrorismo e 180 detenuti per reati comuni ma ritenuti radicalizzati (e pertanto separati dagli altri). Numeri in forte crescita rispetto al 2016, quando il livello alto riguardava 165 detenuti (il 32% in meno di oggi). I detenuti del secondo livello di attenzione invece, quello medio, sono 150: circa il doppio del 2016, quando erano 76. Il terzo livello infine, quello più blando, riguarda 114 detenuti (l’anno scorso erano 126). Questi numeri ci dicono che la radicalizzazione diventa una questione più consistente, con numeri più importanti e pertanto più meritevole d’attenzione.

Radicalizzazione

Chi monitora

Il monitoraggio con il quale si definisce chi è a rischio radicalizzazione è effettuato dal Nucleo Investigativo Centrale (N.I.C.) in collaborazione con il Comitato di analisi strategica antiterrorismo (C.A.S.A.). I dati sulla vita all’interno delle carceri e sui contatti con l’esterno vengono analizzati con cadenza mensile per i detenuti del primo livello e bimestrale per il secondo (per il terzo lo sono solo quando ritenuto necessario).

La formazione del personale

Ci si chiede come vengano individuati i detenuti radicalizzati o in via di radicalizzazione. Il DAP fa menzione di diversi “indicatori sulla radicalizzazione” risultanti da linee guida definite in sede europea. Si va dall’intensificazione della pratica religiosa alla crescita della barba, fino alla più ovvia esultanza in seguito ad attentati di matrice jihadista. La questione della capacità di individuare le dinamiche della radicalizzazione ed evitare soprusi e inutili restrizioni rimanda al tema formazione, tanto degli agenti quanto del resto del personale. Nello scorso rapporto sottolineavamo come la vulgata di un’amministrazione del tutto impreparata di fronte all’arrivo di detenuti islamisti fosse falsa. Tra i dirigenti del DAP la questione non è affatto nuova – sebbene sia stata affrontata con approccio securitario. Gli agenti e il personale paiono invece molto impreparati. Per far fronte al problema il DAP ha inserito programmi di formazione come il “corso di aggiornamento per la prevenzione della radicalizzazione violenta e del proselitismo negli istituti penitenziari”, che ha coinvolto 758 persone (non poche, nonostante nulla si dica sulle ore di formazione). Il deficit che più salta all’occhio riguarda la (non) conoscenza della lingua araba. Da quel versante le azioni del DAP sono più che insufficienti: nel 2017 il corso di lingua araba ha infatti coinvolto solo 10 persone. A ciò si aggiunga la mancanza di mediatori culturali, 34 in tutto a fronte di una popolazione penitenziaria in larga parte formata da stranieri.

I limiti separazione

All’impreparazione del personale corrisponde una politica di tipo securitario – non c’è da stupirsene. La strategia principale sembra essere quella della separazione dei radicalizzati – o presunti tali – dal resto della popolazione detenuta. In molti casi a questa si aggiunge un provvedimento di espulsione a fine pena (50 nel 2017). Ci si chiede però con quali criteri siano state effettuate queste espulsioni, e con che quale grado di certezza si sia verificata l’adesione all’ideologia jihadista di cui parla il DAP.

Conclusione

Per chi rientra nella categoria dei radicalizzati i diritti e le garanzie rischiano di diventare un lusso di cui a volte è necessario fare a meno, complice la disattenzione dell’opinione pubblica. Ma i diritti o sono universali o non sono. Al diritto alla sicurezza tanto declamato bisognerebbe contrapporre la sicurezza dei diritti: tutti, compresi quelli sociali. Se è vero che l’adesione al jihadismo spesso deriva dall’esclusione sociale, una strategia di contrasto basata sulla promozione dei diritti sarebbe quella più lungimirante – oltre a costituire il percorso doveroso di un’istituzione che mai dovrebbe venir meno all’obiettivo del reinserimento dei detenuti.

Va da sé che per contrastare ciò che accade è prima necessario capirlo, cosa difficile senza una formazione adeguata. A tal proposito una prima risposta sarebbe l’implementazione della presenza dei mediatori culturali in carcere, per colmare almeno in parte le lacune di un ordinamento penitenziario pensato in un periodo in cui la popolazione detenuta era sostanzialmente omogenea.

References   [ + ]

1. de GALEMBERT C. et al. (2016), “Islam et prison: liaisons dangereuses ?” in Pouvoirs 2016/3 (N° 158), pp. 67-81
2. È quanto sostiene Farhad Khosrokhavar in Prisons de France, Editions Robert Laffont, Paris