“Il carcere si conferma contenitore di sofferenze fisiche e psichiche e fabbrica di malattia, su cui l’intento riformatore può intervenire efficacemente solo se agevolato da un più ampio mutamento della gestione della penalità”
Fotografia per un bilancio della riforma 1) Daniela Ronco ha scritto il primo paragrafo, Michele Miravalle il secondo, il terzo e il quarto.
Nel momento in cui si scrive il presente contributo, sono trascorsi dieci anni esatti dall’entrata in vigore della riforma della sanità penitenziaria nel nostro paese. Dal 1 aprile 2008 la salute delle persone detenute è divenuta formalmente una competenza del Servizio sanitario nazionale e si è venuta così a sanare una delle tante anomalie normative che riguardano la gestione della vita penitenziaria. Calandoci sul piano del diritto vivente, tuttavia, ci accorgiamo di come questa anomalia sia stata adeguatamente superata esclusivamente sul piano formale. Nella materialità della detenzione permangono sostanziali criticità che ostacolano una piena affermazione dell’equivalenza delle cure, principio cardine della riforma stessa.
Nel quinto rapporto di Antigone sulle condizioni di detenzione, pubblicato nel 2008 con il titolo “In galera”, Sandro Libianchi concludeva il suo contributo sulla medicina penitenziaria e sull’inquadramento della riforma appena entrata in vigore ponendo una serie di questioni “confusamente miscelate ad altre problematiche quotidiane”, ossia quelle connesse alla “privacy, al segreto professionale, al trattamento dei dati sensibili, al rapporto fiduciario tra curante e paziente” (Libianchi, 2008, p. 139). La ricerca empirica ha dimostrato come tali questioni siano tuttora aperte e irrisolte (Cherchi, 2017; Ronco, 2018) e come permanga il carattere ampiamente patogeno della carcerazione da tempo e da più prospettive messo in luce (Gonin, 1991; Gallo, Ruggiero,1989; Esposito, 2007).
L’attività dell’Osservatorio ci ha consentito non solo di raccogliere testimonianze e opinioni, se non degli utenti finali del servizio sanitario, quanto meno delle figure professionali coinvolte in prima linea nel passaggio di competenze (il personale sanitario e lo staff penitenziario), ma soprattutto di osservare direttamente l’impatto delle condizioni strutturali della detenzione sulla salute fisica e psichica degli individui ristretti.
Fonte: Osservatorio Antigone
I dati raccolti delineano una situazione problematica sotto vari punti di vista. Nel 69.4% degli istituti visitati non vengono garantiti i 6 mq di spazio vitale che il Comitato Europeo per la Prevenzione della Tortura ha definito standard minimo per i detenuti. Nell’8.1% delle strutture il riscaldamento in cella non è funzionante e nel 43% delle celle manca l’acqua calda. Nel 58.1% degli istituti visitati le celle non dispongono di docce e in 4 istituti (il 4.7%) abbiamo ancora trovato un wc non separato dal resto della cella. La vivibilità degli spazi è compromessa anche dai limiti nell’accesso alle attività in comune (lavorative, istruttive, formative, sportive, ecc.). Nel 41.9% dei casi non viene garantito accesso settimanale alla palestra e, più in generale, nel 40.7% degli istituti visitati non tutte le celle sono aperte per almeno 8 ore al giorno.
La fotografia scattata da questi dati descrive una realtà in cui molte persone detenute continuano a passare gran parte del loro tempo all’interno di spazi al di sotto degli standard minimi. Questa situazione, oltre a determinare la violazione di vari diritti in capo alle persone detenute, si traduce agevolmente nella manifestazione di problematiche di salute, sia intese come strettamente fisiche che psichiche. L’accesso ai dati sulle patologie continua a non essere agevole, per via della mancanza di un adeguato sistema di raccolta e sistematizzazione da parte dei vari dipartimenti coinvolti. Su questo pesa evidentemente anche l’assenza di una cartella clinica informatizzata nel 68,6% degli istituti visitati. Le ricerche condotte, generalmente su base locale/regionale, evidenziano come la popolazione detenuta risulti in media per il 60-70% portatrice di patologie croniche (cfr. il recente Dossier pubblicato dall’Emilia Romagna). Una criticità specifica del contesto penitenziario riguarda la possibilità di distinguere nettamente due aspetti: in che misura il carcere come struttura in sé produca patologie e in che misura tale istituzione non sia in grado di curare adeguatamente. Questo evidentemente è ancor più vero quando prendiamo in considerazione i disturbi psichici dove nello specifico è anche arduo differenziare nettamente i casi in cui il carcere è ricettacolo di varie forme di disagio psichico dai casi in cui è lo stesso carcere a creare e acuire tali disturbi.
Il carcere si conferma contenitore di sofferenze fisiche e psichiche e “fabbrica di malattia” (Mosconi, 2005), su cui l’intento riformatore può intervenire efficacemente solo se agevolato da un più ampio mutamento della gestione della penalità, che consenta di spostare sull’esterno la gestione di alcune criticità sanitarie, sia attraverso il potenziamento di misure di sospensione/trasformazione dell’esecuzione penale che attraverso la territorializzazione del disagio psichico.
L’Italia penitenziaria appare infatti quanto mai “ghepardizzata” con livelli e qualità dell’assistenza sanitaria che variano molto da regione a regione e rispecchiano fedelmente le condizioni della sanità esterna al carcere
Le carenze delle Aziende sanitarie locali
Il trasferimento dei personale, strumentazioni e responsabilità alle Aziende sanitarie locali è stato generalmente vissuto come un ulteriore “peso” scaricato sulle spalle già fragile della sanità regionale (e dei suoi bilanci).
Nel 2017, durante le 86 visite di monitoraggio dell’Osservatorio di Antigone si è avuto la nitida impressione che che, ancora oggi, nonostante siano trascorsi dieci anni, in molte regioni italiane la sanità penitenziaria sia un fardello, aggravato dalla difficoltà dei rapporti con l’“universo penitenziario”. La difficoltà principale è quella di riuscire a valutare la questione sanità penitenziaria da un punto di vista nazionale. L’Italia penitenziaria appare infatti quanto mai “ghepardizzata” con livelli e qualità dell’assistenza sanitaria che variano molto da regione a regione e rispecchiano fedelmente le condizioni della sanità esterna al carcere.
All’Italia a macchia di leopardo, si aggiungono almeno un paio di problematiche specifiche che l’Osservatorio ha registrato:
- la carenza di strumentazioni che garantiscano la “continuità terapeutica”. Anche laddove i servizi sanitari funzionano, il carcere continua ad essere una “mondo a parte” rispetto ai servizi sanitari all’esterno. Ancora oggi, per la gran parte delle persone detenute, entrare in carcere significa interrompere percorsi di cura, rapporti di fiducia con i propri medici, contatti con i servizi sanitari territoriali. La tanto proclamata “continuità assistenziale” sembra, insomma, una chimera. Gli strumenti che dovrebbero agevolarla non sono implementati. Nelle 86 carceri visitate da Antigone, 59 non prevedono la cartella clinica informatizzata (contro i 20 istituti che invece la prevedono, concentrati in Emilia Romagna e Toscana). Questo significa che nel 69% dei casi, le informazioni sanitarie dei pazienti-detenuti degli istituti italiani sono ancora registrate, trascritte e annotate sulla “carta”. La conseguenza più comune è che, in caso di trasferimento di istituti oppure di scarcerazione, difficilmente quelle informazioni usciranno dall’archivio del penitenziario e non “seguiranno” la persona reclusa. Sarebbe buona pratica consegnare copia della cartella clinica alla persona che esce dall’istituto, ma , anche questa, è un eccezione
Istituti dove esiste la cartella clinica informatizzata
Fonte: Osservatorio Antigone
- la seconda rilevante criticità riguarda le persone detenute con disabilità fisica. Dalle visite di monitoraggio si può evincere l’assoluta inadeguatezza delle carceri italiane ad ospitare persone disabili. L’edilizia penitenziaria certamente non agevola, le barriere architettoniche e la mancanza di celle attrezzate che consentano la mobilità sono la regola, spesso occorre affidarsi alla solidarietà tra detenuti e con il personale. Appena il 30% delle carceri visitate ha spazi adeguati e pensati per accogliere detenuti disabili, negli altri casi la disabilità diventa l’ennesimo ostacolo ad una vita detentiva degna.
Istituti dove esistono spazi accessibili a detenuti disabili
Fonte: Osservatorio Antigone
“Il tema della medicalizzazione della malattia mentale è strettamente connesso con la presenza più o meno costante di professionalità specifiche in grado di affrontare la questione, anche attraverso strumenti e tecniche, che vadano oltre la mera somministrazione della terapia”.
Salute mentale e “carceri psichiatrizzate”
Uno degli aspetti più controversi in tema salute riguarda la salute mentale. Vera e propria questione a sé stante, che richiede attenzioni e chiavi di lettura specifiche.
L’Osservatorio ha registrato una ricorrente sottolineatura da parte delle figure apicali degli istituti sulle difficoltà gestire persone detenute con patologie psichiatriche, più o meno gravi e più o meno note al momento dell’ingresso in carcere.
Tuttavia, la difficoltà è quella di distinguere la mera percezione degli operatori dalla realtà dei fatti, comprovata da monitoraggi puntuali.
Abbiamo dunque provato ad approcciare la questione dal punto di vista delle strategie di risposta e contrasto poste in essere dall’istituzione per governare la (vera o presunta) emergenza psichiatrica. La principale tecnica di governo è il ricorso al largo uso della medicalizzazione, attraverso la somministrazione di psicofarmaci e terapie farmacologiche.
La cartina mette in evidenza percentuali di consumi di psicofarmaci estremamente alte, con picchi che sfiorano il 90% delle persone in terapia (come nella CC di Vercelli) a fronte di ore settimanali di presenza degli psicologi in media gravemente insufficienti per gestire il fenomeno. Dalla cartina emergerebbe dunque un disagio psichico “diffuso”, sia negli istituti più grandi che in quelli più piccoli, sia nelle case circondariali che in quelle di reclusione e spalmato ampiamente su tutto il territorio nazionale.
Ma c’è un limite metodologico della raccolto dati, che diventa spunto di riflessione: il livello di controllo e di monitoraggio della somministrazione delle patologie psichiatriche.
Dalle visite dell’Osservatorio emerge infatti chiaramente come alla domanda “quante persone detenute sono sottoposte una terapia psichiatrica”, le direzioni sanitarie degli istituti fatichino a distinguere le terapie “di lunga durata”, somministrate sotto prescrizione medica e nel contesto di un programma terapeutico e le terapie al “bisogno”, somministrate saltuariamente.
Fonte: Osservatorio Antigone
Il tema della medicalizzazione della malattia mentale è strettamente connesso con la presenza più o meno costante di professionalità specifiche in grado di affrontare la questione, anche attraverso strumenti e tecniche, che vadano oltre la mera somministrazione della terapia. E qui si tocca un tasto dolente, legato alla scarsità di risorse dei servizi psichiatrici territoritoriale a cui è affidata la competenza degli istituti penitenziari.
Dai dati raccolti da Antigone, si calcola che il numero settimane medio di ore di presenza dello psichiatra nelle sezione comuni (escludendo dunque le articolazioni per la salute mentale) per 100 detenuti è di 8,6 ore per settimana su base nazionale (poco più di un’ora al giorno), con però parecchie differenza da istituto a istituto. A discostarsi in maniera significativa dalla media nazionali sono gli istituti più grandi, come Napoli Poggioreale dove la presenza media scende a 0,9 ore per settimana e Torino dove si attesta a 1,5 ore per settimana.
Ma la figura dello psichiatra non può e non deve essere la sola ad affrontare la questione della salute mentale. Fondamentali è il ruolo dello psicologo, che, insieme all’area educativa, ha un ruolo fondamentale soprattutto nei confronti di quei detenuti che stanno vivendo momenti di particolare stress legati, ad esempio, a vicissitudini processuali alle difficoltà di convivenza.
Il numero medio di ore di presenza degli psicologi (spesso inquadrati tra i c.d. esperti ex art. 80) per 100 detenuti è di 11,3 ore per settimana. Dunque superiore alla presenza degli psichiatri, ma anche qui non mancano le eccezioni negative (alla casa circondariale di Benevento si scende a 1,4 ore per settimana e a Salerno a 1).
Al di là di psichiatri e psicologi, sono praticamente assenti i tecnici della riabilitazione psichiatrica e gli infermieri specializzati, tutti concentrati all’interno delle articolazioni per la salute mentale.
Il legislatore ha percepito il tema crescente del governo della salute mentale all’interno delle carceri e infatti vi aveva dedicato uno specifico capitolo della (mancata) riforma dell’ordinamento penitenziario. Aveva in particolare (e sinteticamente) promosso due principi:
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- trattare il detenuto con patologia mentale quanto più possibile fuori dal carcere. Va in questo senso, da una parte, la proposta di abrogazione dell’art. 148 c.p., equiparando le malattie psichiche alle gravi patologie fisiche (ex art. 147 c.p) e aprendo alla possibilità di chiedere la sospensione o rinvio dell’esecuzione della pena. Significa più facile accesso alla detenzione domiciliare, se non sussiste il “concreto pericolo di commissione di nuovi delitti” (sulla costituzionalità dell’art. 148 si pronuncerà a breve anche la Corte Costituzionale, dunque, se non arriverà la riforma, l’equiparazione tra malattia del corpo e delle mente potrebbe essere affermata per via giurisprudenziale).Dall’altra la previsione di una nuova misura alternativa alla detenzione, chiamata “affidamento in prova per condannati con infermità psichica” (art. 47 septies ord.pen.), pensata come misura alternativa “gemella” a quella già prevista per i tossicodipendenti, finalizzata all’espletamento di un programma terapeutico concordato con il DSM competente.
- ripensare i modelli di assistenza del detenuto con patologie psichiatriche in carcere, affidandolo a figure sanitarie-assistenziali. Nelle intenzioni della riforma avrebbero dovuto nascere le nuove “Sezioni per detenuti con infermità” (ex art. 65 ord. pen.) che sostituiscono le attuali “articolazioni per la salute mentale” e avrebbero dovuto essere ad esclusiva gestione sanitaria e strutturate in modo da favorire il trattamento terapeutico, pensate principalmente per i c.d. sopravvenuti ex art. 148 c.p. e per gli “osservandi” .
“Al 15 marzo 2018 i numeri restano perfettamente in linea con l’anno precedente. Nelle 30 REMS italiane sono ricoverate 599 persone, di cui 54 donne (il 9%, percentualmente quasi il doppio delle donne detenute in carcere)”
Cosa succede sul fronte REMS?
Affrontando il tema salute, non si può eludere un aggiornamento sul percorso di superamento degli Ospedali psichiatrici giudiziari (O.P.G.).
Quello dello scorso anno era stato il primo Rapporto a O.P.G. chiusi e con le Residenze per l’Esecuzione delle Misure di sicurezza in attività.
Oggi è definitivamente terminato il commissariamento deciso dal Governo nei confronti di alcune regioni ritardatarie e inadempienti e possiamo affermare che la riforma prevista dalla l- 81/2014 sia definitivamente andata a regime.
Questo non significa che non manchino nodi critici e che si sia risolto quell’“abbraccio mortale tra psichiatria e giustizia” di basagliana memoria.
Dal punto di vista della raccolta dati, il sistema SMOP (Sistema Informativo per il Monitoraggio del Superamento degli OPG e dei Servizi di Sanità penitenziaria), implementato dalla Regione Campania, permette di monitorare lo “stato di salute” delle Rems.
Al 15 marzo 2018 i numeri restano perfettamente in linea con l’anno precedente. Nelle 30 REMS italiane sono ricoverate 599 persone, di cui 54 donne (il 9%, percentualmente quasi il doppio delle donne detenute in carcere). Il numero di presenze corrisponde ai posti disponibili e questo permette di sottolineare l’ammirevole “resistenza” da parte dei servizi sanitari nel non eccedere il numero massimo di posti previsto, evitando il sovraffollamento.
La stessa solerzia non è stata usata dall’Amministrazione penitenziaria, che non ha mai “rifiutato” l’invio da parte dell’autorità giudiziaria di nuovi detenuti, a costo di raggiungere livelli di sovraffollamento censurati dalle Corti internazionali.
Eppure le “liste di attesa” per entrare in Rems esistono e sono piuttosto affollate. Manca un quadro nazionale definito (nel 2017 erano 289 persone), ma, a titolo di esempio, si analizzano tre Regioni significative: la Lombardia ha una lista di attesa di 8 persone, il Piemonte di 13 (di cui 4 “attendono” in carcere) e in Campania 44 (di cui 18 in carcere).
Fonte: Rielaborazioni dati SMOP- Regione Campania
Come si evince dalla mappa, le differenze tra regioni sono evidenti. La Lombardia continua ad affidarsi ad un unica REMS, o meglio ad “sistema polimodulare di REMS”, nell’ex OPG di Castiglione delle Stiviere, con 156 presenze, altre regioni hanno implementato strutture più piccole e territorialmente diffuse.
A stupire però è l’analisi delle posizioni giuridiche dei pazienti ospitati.
Rispetto all’anno precedente i pazienti con una misura di sicurezza provvisoria sono saliti a 274, aumentando del 22% e arrivando ad essere il 45,7 % del totale.
La misura di sicurezza provvisoria ex art. 206 c.p. corrisponde alla custodia cautelare in attesa di sentenza definitiva e dovrebbe dunque costituire un’eccezione, l’extrema ratio a disposizione del giudice. In carcere i detenuti non definitivi sono il 34% del totale, dieci punti percentuali in meno dei ricoverati provvisori.
I prosciolti per vizio totale di mente, ma socialmente pericolosi (ex art. 222 c.p.) che dovrebbero costituire la categoria giuridica paradigmatica del ricoverato in REMS sono 215 pari al 37% del totale, una netta minoranza.
Posizioni giuridiche dei ricoverati in REMS
Fonte: Rielaborazioni dati SMOP- Regione Campania
Altro indice dello stato di salute del sistema REMS è l’analisi dei flussi di entrata e di uscita dal gennaio al dicembre 2017.
Si tratta, nel caso degli ingressi, di un indice dell’orientamento dell’Autorità giudiziaria e della capacità delle istituzioni coinvolte di rendere davvero effettiva la previsione di legge per cui la REMS dovrebbe costituire l’extrema ratio, in un’ottica progressiva e momentanea (e non trasformarsi in un “ergastolo bianco” come avveniva in epoca passata, prima dell’approvazione della l. 81/2014).
Nel caso delle dimissioni si tratta di un indice sintomatico della capacità dell’istituzione di trovare e costruire percorsi che coinvolgano altre “strutture” del territorio (su tutte, le comunità psichiatriche specializzate) e che puntino alla libertà e dunque alla completa riabilitazione della persona.
Fonte: Rielaborazioni dati SMOP- Regione Campania
Il saldo tra ingressi e dimissioni è sbilanciato verso i primi. Nel 2017 sono entrate nel circuito REMS 46 persone in più di quelle che sono uscite.
Tra gli ingressi è interessante notare come 97 (il 26%) provenissero dal carcere, a conferma di una connessione tra la questione penitenziaria e la questione REMS.
È evidente infatti che, con la chiusura degli OPG, sia venuta meno la “valvola di sfogo” su cui il carcere “scaricava” i casi più problematici.
Sul fronte delle dimissioni, si nota che più della metà (180, pari al 54%) siano in realtà trasformazioni dalla misura di sicurezza detentiva (qual è la il ricovero in REMS) a misura di sicurezza non detentiva (nelle forme della libertà vigilata). Questo significa che buona parte di chi esce dalla REMS continua ad essere sottoposto ad un controllo istituzionale (e penale), ma in altre strutture (comunità, gruppi appartamento, cliniche, case di cura). Si tratta del noto fenomeno della “transitituzionalizzazione”, per cui determinati soggetti tendono ad entrare in meccanismi tali per cui, una qualche forma di “controllo”, si protrae per sempre…
Riferimenti bibliografici
Cherchi Carlotta (2017), L’Ippocrate incarcerato. Riflessioni su carcere e salute, in “Studi sulla questione criminale”, 3, pp. 79-100
Esposito Maurizio (2007), a cura di, Malati in carcere. Analisi dello stato di salute delle persone detenute, Franco Angeli, Milano
Gallo Ermanno, Ruggiero Vincenzo, (1989), Il carcere immateriale. La detenzione come fabbrica di handicap, Edizioni Sonda, Torino
Gonin Daniel (1994), Il corpo incarcerato, Edizioni Gruppo Abele, Torino
Libianchi Sandro (2008), La medicina penitenziaria e la riforma della tutela della salute in carcere: il D.P.C.M. 1 aprile 2008, in “Antigone”, 1, 2008, pp. 115-140
Mosconi Giuseppe, (2005), Il carcere come salubre fabbrica della malattia, in G. Concato, G., S. Rigione, a cura di, Per non morire di carcere, FrancoAngeli, Milano
Ronco Daniela (2018), Cura sotto controllo. Il diritto alla salute in carcere, Carocci, Roma.
@ Maggio 2018
References
1. | ↑ | Daniela Ronco ha scritto il primo paragrafo, Michele Miravalle il secondo, il terzo e il quarto. |