“Porre in essere gesti autolesivi-dimostrativi rappresenta l’esternazione di un disagio utilizzato come strumento di comunicazione e di catalizzazione di attenzioni”
Carcere e violenza auto-inferta, qual è il nesso?1)Perla Allegri ha scritto il primo e secondo paragrafo, mentre Giovanni Torrente ha scritto il terzo e quarto paragrafo.
Il carcere rappresenta il luogo della non-comunicazione, caratterizzato da ambienti disumanizzati in cui la parola, che contraddistingue le relazioni umane, viene espunta o screditata (Gonin, 1994) ed è, tra l’altro, per questo che alcuni soggetti detenuti si infliggono auto-aggressioni al fine di invocare un’interazione con il personale sanitario, o penitenziario.
Porre in essere gesti autolesivi-dimostrativi rappresenta l’esternazione di un disagio utilizzato come strumento di comunicazione e di catalizzazione di attenzioni di quei soggetti fragili che – non essendo in grado di rivendicare i diritti secondo canali istituzionali – utilizzano il corpo come mezzo e messaggio (Manconi, 2002, p. 319).
Va sottolineato, però, che l’utilizzo del corpo a scopo dimostrativo non sempre si palesa in violenze auto-inferte: l’autolesionismo può infatti essere messo in atto anche attraverso il rifiuto delle terapie.
Il rifiuto dell’insulina o quello delle terapie antiretrovirali opera, alle volte, come strumento di resistenza alle dinamiche della prigione: il detenuto, aggravando in questo modo il proprio status clinico-patologico o aumentando la propria carica virale, trasforma il proprio corpo in un veicolo di contagio per la diffusione delle malattie infettive, mettendo alle volte a repentaglio anche la salute dei compagni di cella.
La strumentalizzazione di un corpo, per di più sorvegliato e custodito, simboleggia invero il potere contrattuale ultimo che anche chi non ha più voce può utilizzare (Foucault, 2009) nella disperata implorazione di essere riconosciuto come soggetto di diritto e portatore di diritti.
Secondo alcune ricerche sul tema2)Le più rilevanti sul tema sono state condotte da Pietro Buffa (2012, 2015), da Valentina Calderone e Luigi Manconi (2011) e da Giovanni Torrente e Michele Miravalle (2016). è nella prima fase della carcerazione, che spesso coincide con la custodia cautelare di soggetti imputati, dove è più alto il numero di gesti autolesivi. Ma non è solo in questa delicata fase della carcerazione che le condotte auto-aggressive e suicidarie vedono la luce: il fine pena rappresenta, altresì, un momento delicato.
Il rientro nella società dei liberi è carico sì di aspettative, ma è in grado di generare grandi angosce esistenziali soprattutto quando le prospettive all’esterno non sono rassicuranti: il rapporto con ciò che resta fuori dalle mura è sempre un rapporto contraddittorio, di aspettativa e distanza, di ricerca e allontanamento (Manconi, Torrente, 2015).
Per non scadere in una facile “psichiatrizzazione” di questi comportamenti, appare fondamentale indagare altri fattori come il grado di vivibilità detentiva al fine di valutare ed approfondire aspetti che necessariamente incidono sui soggetti ristretti, a partire dal numero di ore che trascorrono fuori dalla cella, alle attività formative o lavorative che svolgono (se lo fanno) e, più in generale, quegli elementi che sono in grado di colmare le sacche di disagio e di diversità che pervadono gli istituti penitenziari.
“La chiusura totale delle celle ad esclusione delle ore d’aria e la mancanza pressoché totale di attività formative e lavorative, diventa il punto di partenza di un’escalation senza fine di disagi ed auto-violenze”
Carceri in-vivibile favoriscono l’autolesionismo
Dai dati raccolti durante le visite degli osservatori emerge come non si possa delineare una netta correlazione tra i tassi di sovraffollamento ed il numero di eventi critici.
I due eventi non sempre dipendono uno dall’altro. A riprova di ciò basti vedere come in istituti come la Casa circondariale di Larino – ad oggi l’istituto più sovraffollato con tassi che superano il 202% – non vengono segnalate particolari criticità circa gli atti di autolesionismo, che nel corso dell’anno trascorso sono stati appena 5.
È chiaro, però, che se il sovraffollamento si unisce e combina con altri fattori, come il mancato rispetto della regola dei 3 metri quadrati per ogni soggetto, la chiusura totale delle celle ad esclusione delle ore d’aria e la mancanza pressoché totale di attività formative e lavorative, allora giocoforza esso diventa il punto di partenza di un’escalation senza fine di disagi ed auto-violenze, come è accaduto nel carcere comasco dove gli osservatori hanno rilevato una situazione di esasperante invivibilità e dove è stato riportato un grande numero di atti anticonservativi e situazioni di forte tensione.
È evidente pertanto che la condizione che rileva non è quella esclusivamente legata al sovraffollamento, quanto più quella correlata alla vivibilità detentiva, agli spazi e alle attività a cui hanno accesso i soggetti ristretti.
E se, da un lato, le condizioni di malessere possono riguardare un singolo individuo, come nel caso del carcere di Terni in cui nel corso dell’anno trascorso sono avvenuti circa 500 atti autolesivi, 200 dei quali commessi da una stessa persona, dall’altro gli scioperi della fame rappresentano forme collettive di disagio che coinvolgono anche istituti interi, come nel caso della casa circondariale di Pisa dove ben 213 detenuti (l’80% dei presenti) hanno preso parte ad uno sciopero della fame per protestare contro le difficili condizioni in cui sono costretti a vivere.
Ad apparire difficoltosa, e poco verosimile, è inoltre la raccolta dei dati che riguardano gli eventi critici. Secondo i dati DAP del 2016, invero, gli atti di autolesionismo relativi alla totalità degli istituti penitenziari italiani ammontavano a 8.586, ma il dato che è emerso dalle visite effettuate dagli osservatori di Antigone durante l’anno trascorso appare differente: gli episodi di autolesionismo segnalati – ad esclusione di rivolte e degli scioperi della fame – sono stati infatti ben 5.070, un numero che sembrerebbe in potenza molto più alto di quello del 2016, tenuto conto del fatto che il campione di carceri visitate dagli osservatori non costituisce nemmeno la metà del totale degli istituti presenti sul territorio. Se a questo si aggiunge che ci sono poi alcuni penitenziari in cui non viene segnalato alcun evento critico, allora sorge spontaneo il dubbio che, stante la buona fede dell’Amministrazione penitenziaria nel riferire relativamente agli eventi critici, la raccolta di tali dati appaia viziata e poco realistica.
“Il tasso di suicidi nelle carceri italiane nell’ultimo anno sia aumentato di oltre un punto percentuale”
Dove eravamo rimasti?
Il contributo scritto un anno fa in occasione del Rapporto sulle condizioni di detenzione si apriva con una nota di ottimismo. Al netto di una doverosa prudenza interpretativa, potevamo affermare che l’andamento dei suicidi nelle carceri italiane era in tendenziale diminuzione. Si ravvisava quindi una prospettiva di riduzione del fenomeno che appariva come uno dei portati positivi del percorso di riforma che aveva seguito la sentenza Torreggiani. Ecco invece che, ad un anno di distanza, tale tendenza appare svanita. Così come la popolazione detenuta è immediatamente aumentata a seguito della chiusura del “fascicolo Italia” da parte degli organismi comunitari, anche il drammatico fenomeno dei suicidi nelle carceri ha conosciuto una nuova recrudescenza. In quest’ultimo anno (2017), infatti, i casi di suicidio registrati all’interno delle prigioni italiane sono stati 52, a fronte dei 45 dell’anno precedente.
Il dato significativo di tale inversione di tendenza si ravvisa tuttavia nel calcolo del tasso di suicidi ogni 10.000 detenuti mediamente presenti. È attraverso tale indice statistico che è possibile calcolare l’andamento diacronico del fenomeno, rapportato sulla media dei presenti. Attraverso tale prospettiva è possibile osservare come il tasso di suicidi nelle carceri italiane nell’ultimo anno sia aumentato di oltre un punto percentuale. Parallelamente, aumentano anche i decessi per cause naturali, di quasi due punti percentuali.
Suicidi e morti naturali 1992-2017 (Fonte Rielaborazione dati Ristretti Orizzonti- dossier Morire di carcere e Dap)
Tasso di suicidi in carcere su 10.000 persone recluse 1992-2017 (Fonte Rielaborazione dati Ristretti Orizzonti- dossier Morire di carcere e Dap)
Si ravvisa ancora una volta un fenomeno noto a chi si occupa del tema: quando nel carcere cambia il clima l’impatto si produce in primis sugli aspetti più delicati, vitali, della quotidianità detentiva. E chiaramente il clima in quest’ultimo anno è cambiato rispetto all’ondata riformatrice degli anni precedenti. Passata l’emergenza sovraffollamento, archiviate le procedure di infrazione, ecco che il carcere perde immediatamente la priorità nell’agenda riformista, tornando a svolgere senza intoppi la tradizionale funzione di contenitore della subalternità sociale.
Il portato più evidente di tale mutamento si ha nei numeri della popolazione detenuta che, come si è detto più volte in questo Rapporto, sono tornati ad aumentare come non accadeva da anni. Ma un carcere che avverte il mutamento del clima politico è anche un luogo che torna, più o meno lentamente, a chiudersi in sé stesso, a mettere da parte le aperture, che si riafferma in quanto prigione. Detto in altri termini, il mutamento di clima favorisce una regressione di tutti quegli strumenti (lavoro, utilizzo degli spazi, dialogo con l’esterno, movimentazione all’interno della struttura ecc.) che la migliore letteratura sul tema (Liebling, 1992) ha individuato come efficaci strategie di riduzione della tensione che favorisce fenomeni di autolesionismo e suicidi. Ecco quindi come non deve stupire il fatto che l’inversione di tendenza di quest’ultimo anno si sia accompagnata ad una nuova recrudescenza delle morti in carcere, violente e non.
Persone decedute nelle carceri italiane (Fonte: Ristretti Orizzonti – dossier “Morire di carcere”)
“In apparente contraddizione con l’aumento dei suicidi si registra un certo attivismo nella stipula di protocolli di prevenzione del rischio di suicidio all’interno dei singoli istituti”.
Alcuni (apparenti) paradossi
In apparente contraddizione con l’aumento dei suicidi si registra un certo attivismo nella stipula di protocolli di prevenzione del rischio di suicidio all’interno dei singoli istituti. Come noto, tali protocolli sono espressamente indicati dall’Organizzazione Mondiale della Sanità come strumento di prevenzione del fenomeno all’interno degli istituti penitenziari, in nome della necessità di omogeneizzare le pratiche di prevenzione e diffondere le migliori esperienze sull’intero territorio nazionale. Tale esigenza, inoltre, è stata esplicitamente riaffermata dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, il quale ha sollecitato la stipula di protocolli operativi fra tale amministrazione, il servizio sanitario e altri soggetti coinvolti nella prevenzione del disagio penitenziario all’interno di ogni singolo istituto. Ebbene, dai dati raccolti durante le visite emerge un sostanziale adempimento di quanto richiesto dal DAP, se si pensa che in 58 casi fra i 69 per i quali è stato possibile raccogliere il dato si è avuta la stipula del protocollo fra i diversi soggetti coinvolti.
Tale solerzia può quindi essere interpretata come una particolare attenzione nei confronti del fenomeno del suicidio e dell’autolesionismo in carcere, in contrasto con il dato che mostra un tendenziale incremento dei casi. In realtà, una maggiore attenzione alle pratiche concrete interne agli istituti mostra una realtà assai più problematica rispetto a quanto la stipula dei singoli protocolli parrebbe suggerire. In molti casi emerge un fenomeno abbastanza frequente negli studi che si sono occupati dell’analisi dei mutamenti organizzativi nell’ambito della pubblica amministrazione (Lippi, Morisi, 2005): l’adempimento formale di quanto richiesto dai vertici amministrativi, senza che questo determini un reale impatto sulle pratiche interne. La lettura dei singoli protocolli, e l’analisi delle dinamiche osservate presso alcuni specifici istituti suggerisce infatti che, in diversi casi, abbia preso forma questo approccio patologico nell’ambito di settori della pubblica amministrazione poco ricettivi ai cambiamenti. Di fronte alla richiesta esplicita del vertice organizzativo, si è avuta la pronta stipula di convenzioni fra direzioni degli istituti penitenziari e le singole Asl di competenza; tali protocolli, tuttavia, appaiono spesso come standardizzati, attraverso la ripetizione delle medesime formule e espressioni che richiamerebbero presunte buone pratiche. Un fenomeno, quindi, di riproduzione delle varie convenzioni tra un’amministrazione e l’altra a cui non segue la reale volontà di incidere sulle pratiche concrete attraverso l’adozione di radicali modifiche organizzative che – queste sì – potrebbero incidere sulla brutalità della prigione, e quindi sulle vite di coloro che la popolano.
Un approccio burocratizzato, come purtroppo spesso capita, in grado di vanificare lo spirito su cui si fondano le varie raccomandazioni internazionali. Su tale approccio occorrerà quindi vigilare nei prossimi mesi, nella speranza che quanto scritto sui protocolli possa uscire dai cassetti degli uffici per divenire pratiche reali di mutamento organizzativo.
Bibliografia
Boraschi Andrea, Manconi Luigi (2006), “Quando hanno aperto la cella era già tardi perché…”. Suicidio e autolesionismo in carcere 2000-2004, Rassegna italiana di Sociologia, 1, pp. 117-150.
Buffa Pietro (2012), Il suicidio in carcere: la categorizzazione del rischio come trappola concettuale ed operativa, in Rassegna penitenziaria e criminologica, XV, 1, pp. 7-118.
Calderone Valentina, Manconi Luigi (2011), Quando hanno aperto la cella, Il Saggiatore, Milano.
Foucault Michel (2009), La volontà di sapere, Feltrinelli Editore, Milano.
Liebling Alison (1992), Suicides in Prison, Routledge, London.
Lippi Andrea, Morisi Massimo (2005), Scienza dell’amministrazione, Il Mulino, Bologna.
Manconi Luigi (2002), Così si muore in galera. Suicidi e atti di autolesionismo nei luoghi di pena, in Politica del Diritto, XXIII (2), pp. 315-330.
Manconi Luigi, Torrente Giovanni (2015), La pena e i diritti. Il carcere nella crisi italiana, Carocci, Roma.
Miravalle Michele, Torrente Giovanni (2016), La normalizzazione del suicidio nelle pratiche penitenziarie. Una ricerca sui fascicoli ispettivi dei Provveditorati dell’Amministrazione penitenziaria, in Politica del Diritto, n. 1-2, pp. 217-258.
@ Maggio 2018 | foto Ilaria Scarpa
References
1. | ↑ | Perla Allegri ha scritto il primo e secondo paragrafo, mentre Giovanni Torrente ha scritto il terzo e quarto paragrafo. |
2. | ↑ | Le più rilevanti sul tema sono state condotte da Pietro Buffa (2012, 2015), da Valentina Calderone e Luigi Manconi (2011) e da Giovanni Torrente e Michele Miravalle (2016). |