La ricerca
Una ricerca svolta da Antigone nel corso del 2018 ha provato a valutare il recepimento nell’ordinamento interno di due direttive comunitarie in materia di tutela dei diritti delle vittime. Una direttiva più risalente, del 2004, la n. 80 dell’allora Comunità Europea, ha una natura civilistica occupandosi del tema del diritto all’indennizzo per la vittima di un reato violento subito in un Paese della Comunità.
L’altra direttiva, più recente, la n. 29 del 2012, ha viceversa natura penalistica è va a definire gli standard minimi di tutela, di supporto e protezione che gli Stati membri devono mettere in campo per le vittime di reati violenti.
Il focus della ricerca non ha riguardato il generale recepimento di queste due direttive, bensì se e come il nuovo quadro normativo che si è andato a delineare in materia abbia riconosciuto un’attenzione particolare ad alcune categorie specifiche di vittime di reato violento: ovvero le persone che restano vittime di reato mentre si trovano ristrette in carcere, tanto in custodia pre-cautelare, cautelare quanto in esecuzione penale, o che si trovano private della propria libertà personale perché ristrette nei vari e diversi centri per migranti.
In linea generale la direttiva sull’indennizzo per le vittime di reati ha ricevuto una scarsa attenzione e l’Italia è stata più volte condannata a causa della mancata prima, e carente poi, trasposizione delle norme in questa contenute nel nostro ordinamento. Per quanto riguarda l’aspetto specifico della possibilità di accedere a questo indennizzo alle vittime di reato violento in stato di detenzione non vi è normativa di dettaglio e per questa ragione – laddove ne ricorrano le condizioni all’accesso – si fa riferimento alle regole generali disposte dalla Legge n.122 del 2016 che va a normare il diritto all’accesso all’indennizzo in favore delle vittime di reati intenzionali violenti, proprio in attuazione della direttiva 2004/80/CE. Questa legge è arrivata dopo la seconda condanna subita dall’Italia per l’inadempienza nel recepimento della direttiva. Moltissimi rimangono i limiti all’accesso a questo diritto:
- Intanto l’indennizzo è elargito esclusivamente per la rifusione delle spese mediche e assistenziali che la vittima ha dovuto sostenere a seguito del reato subito (salvo che per i reati di violenza sessuale e omicidio).
- Alcune condizioni per l’accesso vanno ulteriormente a restringere la platea degli eventuali aventi diritto:
- Reddito annuo non superiore a quello previsto per l’ammissione al patrocinio a spese dello stato, quindi si parla di poco più di 11 mila euro annui
- Deve essere già stata esperita, senza successo, l’azione esecutiva risarcitoria nei confronti dell’autore di reato
- Inoltre la vittima non deve essere stata condannata, o essere al momento della domanda in esecuzione penale, per reati quali l’evasione in materia di imposte sui redditi
- Non deve aver percepito, da ultimo, per lo stesso fatto, qualsivoglia somma erogata da qualsivoglia altro soggetto sia pubblico che privato.
L’altra direttiva, la già citata 2012/29/UE, ha inteso garantire alle vittime di reato un ruolo attivo nel procedimento penale a carico del presunto autore di reato, nonché una tutela e un supporto rispondenti a standard minimi in tutta l’Unione. Questa direttiva è stata recepita in Italia grazie al Decreto Legislativo n. 212 del 2015 che è intervenuto modificando 8 articoli del codice di procedura penale e introducendone 4 di nuovi.
Anche in questo caso la nostra ricerca si è concentrata sulla condizione specifica della vittima di reato che si trovi ristretta, in carcere o in un centro per migranti. L’obiettivo è stato quello di valutare il grado di tutela, il tipo di supporto cui un detenuto o un ristretto ha diritto qualora resti vittima di violenza in carcere o in un centro per migranti.
Il nuovo quadro normativo
Occorre brevemente delineare il nuovo quadro in materia a seguito del recepimento della direttiva:
- L’art. 90-bis c.p.p. ha introdotto il diritto delle persona offesa di ricevere in una lingua a lei comprensibile fin dal primo contatto con l’autorità, alcune informazioni, tra cui le principali:
- Tutte le informazioni in merito alle modalità di presentazione della denuncia o della querela
- Il ruolo che può assumere nel corso delle indagini e del processo
- Le date delle udienze
- Il capo di imputazione nei confronti del presunto responsabile
- Notifica della sentenza (solo se la vittima si è costituita parte civile)
- Di poter accedere al patrocinio a spese dello Stato
- Le modalità di esercizio del diritto all’interpretazione e alla traduzione degli atti del procedimento
- Le eventuali misure di protezione di cui ha diritto a beneficiare
- Le strutture sanitarie, case famiglia o di accoglienza cui può rivolgersi sul territorio.
- L’art. 90-quater c.p.p. introduce invece la categoria di vittima vulnerabile. Viene fornito un criterio generale per riconoscere, in capo alla vittima, la sua condizione di particolare vulnerabilità.
Il nostro ordinamento in realtà distingue due tipologie di vittima vulnerabile:- La vittima vulnerabile tipica, ossia il minorenne, il maggiorenne infermo di mente, e tutte le vittime quando si procede per i delitti di maltrattamenti contro familiari, prostituzione minorile, pornografia minorile, violenza sessuale, stalking.
- L’ordinamento prevede misure speciali di tutela nei confronti di queste specifiche categorie di vittime: dall’ausilio di un esperto psicologo o psichiatra infantile quando si assumono le sommarie informazioni, al ricorso alla forma dell’incidente probatorio per acquisire la testimonianza della vittima (anche su sua richiesta), all’esame della vittima protetta da un vetro.
- La vittima vulnerabile atipica: previo accertamento la vittima può essere ritenuta vulnerabile. Al di là dell’età e dello stato di infermità o deficienza psichica, la vulnerabilità può essere desunta da:
- La vittima vulnerabile tipica, ossia il minorenne, il maggiorenne infermo di mente, e tutte le vittime quando si procede per i delitti di maltrattamenti contro familiari, prostituzione minorile, pornografia minorile, violenza sessuale, stalking.
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- Tipo reato
- Modalità e circostanze del fatto per cui si procede, tra cui
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- Se il fatto risulta commesso con violenza alle persone o con odio razziale
- Se è riconducibile alla criminalità organizzata o terrorismo
- Se è riconducibile alla tratta degli esseri umani
- Se ha finalità discriminatorie
- Se la persona offesa è affettivamente, psicologicamente o economicamente dipendente dall’autore del reato.
La vittima detenuta non vede un riconoscimento specifico e una normativa dedicata alle sue esigenze di tutela che in modo evidente sembrano essere invero assai diverse da quelle della vittima di reato libera. Evidentemente una persona ristretta si trova in una situazione del tutto peculiare. Presumibilmente condivide con l’autore della violenza subita il luogo in cui si racchiude tutto il suo quotidiano. Ma vi è di più. Se è ragionevole immaginare che sia più semplice per un recluso rivolgersi all’autorità – ovvero alla Polizia Penitenziaria – per lamentare o decidere di denunciare un comportamento violento subito da un altro detenuto, assai più complesso diviene per lui poter denunciare una eventuale violenza subita da uno o più appartenenti a quella stessa autorità. Per questa ragione, potendo trovarsi il detenuto in una oggettiva condizione di dipendenza – o meglio soggezione – non solo psicologica, ma anche meramente fisica, nei confronti dell’autore di reato, dovrebbe potergli essere riconosciuta da un lato l’appartenenza alla categoria di vittima vulnerabile, dall’altro dovrebbero essere istituiti meccanismi di denuncia e di protezione che evitino il passaggio attraverso l’autorità di polizia presente nell’istituto di pena.
Rileva anche il riferimento al “tipo di reato” quale elemento in grado di valutare e di far desumere l’eventuale vulnerabilità. Infatti tenendo in debito conto la particolare situazione in cui si trova il detenuto che rimanga vittima di una violenza il cui autore è un pubblico ufficiale, il reato – secondo la Convenzione ONU del 1984 – dovrebbe configurarsi come reato di tortura. Come sappiamo l’Italia si è dotata della norma che introduce nell’ordinamento il reato di tortura solo nel 2017 e lo ha fatto “a metà”, come è stato commentato anche da Antigone all’indomani dell’introduzione nel Codice penale dei due articoli, il 613-bis sul reato di tortura e il 613-ter sull’istigazione alla tortura. La legge n. 110 del 2017 che ha introdotto questi due articoli presenta dei disallineamenti rispetto al testo della Convenzione intanto perché non descrive questo crimine come proprio esclusivamente del pubblico ufficiale, e in secondo luogo perché si fa riferimento a più atti di violenza che la vittima deve aver subito perché possa configurarsi questo reato. Inoltre il testo prevede che vi sia un trauma psichico verificabile.
Maggiori criticità
- Così come previsto dall’art. 32 dell’Ordinamento Penitenziario al momento dell’ingresso in carcere la persona ristretta deve essere informata circa i suoi diritti e i suoi doveri. Il regolamento di attuazione prevede addirittura che venga consegnato un estratto delle norme previste dall’ordinamento penitenziario. Nel corso delle interviste che abbiamo svolto nell’ambito della ricerca è stato evidenziato come tuttavia il linguaggio utilizzato non sia semplice e anzi risulti poco agevole per i non addetti ai lavori. In molti casi comunque è stato rilevato come questo estratto non sia mai stato consegnato.
- Per quanto riguarda la modalità della presentazione di una denuncia di violenza, i detenuti hanno il diritto – esattamente come una persona in libertà – di presentare formale denuncia o querela laddove restino vittime di reato. Nella pratica il più grande limite che incontrano è l’assenza di un’autorità indipendente – e con poteri investigativi e inquirenti – deputata alla ricezione di queste denunce. La denuncia dovrebbe infatti essere consegnata alla Polizia Penitenziaria, che è chiaramente non indipendente dallo staff penitenziario. Questo è stato il problema principale sottolineato nel corso delle interviste, il che andrebbe a spiegare anche il bassissimo numero di denunce formali presentate e giunte poi in procura.
- Vi sono poi delle conseguenze pratiche che vanno al di là della difficoltà che può comportare la scelta di presentare alla Polizia penitenziaria la propria denuncia. Una di queste conseguenze collaterali è il ritardo con cui – è stato riferito nel corso della ricerca – spesso la macchina investigativa si muoverebbe a seguito di denuncia di violenze subite ad opera di membri dello staff penitenziario. Questo ritardo impedisce ad esempio la documentazione delle lesioni o delle percosse, salvo casi particolari ed estremi come quelli in cui – come purtroppo è accaduto – i pestaggi non culminino nella morte della vittima.
In alcuni casi è stato possibile denunciare le presunte violenze subite perché è stato possibile far pervenire materiale probatorio fuori dal carcere, come nel caso di un pestaggio a Parma dove la vittima è riuscita a registrare le sue conversazioni con i poliziotti penitenziari.
- E’ importante a questo proposito il ruolo del personale sanitario il quale può entrare in contatto con il detenuto fin dai primi momenti successivi alle violenze e farsi carico di denunciare i maltrattamenti. Un’altra testimonianza da noi raccolta è quella di una vittima detenuta che ha potuto denunciare i pestaggi proprio perché aveva già precedentemente fissato un incontro con lo psicologo.
- Qui interviene però un altro problema che è quello dell’isolamento cui verrebbe sottoposto il detenuto a seguito delle violenze.
- Isolamento disciplinare: perché spesso quando un detenuto sostiene vi sia stato un pestaggio, lo stesso viene accusato di aggressione/resistenza a pubblico ufficiale e per questa ragione può essere destinato all’isolamento disciplinare. Il consiglio di disciplina dell’istituto penitenziario non prevede la partecipazione dell’avvocato difensore del detenuto.
- Isolamento di fatto: nel corso delle interviste ci è stato riferito a più riprese che alcuni detenuti che denunciavano violenze hanno visto impedita la possibilità di avere contatto con altri, dai detenuti ai volontari. Le loro “domandine” sono state inoltrate con ritardo e gli è stato così, di fatto, impedito di comunicare la violenza subita.
Conseguenza principale: il tardivo intervento che pregiudica anche la possibilità di raccogliere prove della presunta violenza (come i segni delle lesioni).
- Dalle interviste effettuate soprattutto ad avvocati e esponenti di ONG è emerso come risulti assolutamente indispensabile l’appoggio della famiglia all’esterno per far valere i propri diritti qualora si resti vittima di violenza in stato di detenzione. Tuttavia è stata rilevato anche un’abbondante vittimizzazione secondaria cui proprio i familiari delle vittime sono stati a più riprese sottoposti.
Diritto alla protezione
La legge non prevede per il detenuto ristretto in carcere alcun particolare diritto alla protezione, non c’è un programma di supporto per i detenuti che denunciano abusi in carcere.
Il trasferimento di sezione o di istituto è l’unica forma immediata di tutela posta in essere nei confronti del detenuto che denuncia violenze in carcere. Il paradosso è che questo tentativo di protezione si risolve in una vittimizzazione secondaria in quanto il trasferimento comporta spesso l’interruzione del percorso trattamentale, la cesura dei rapporti con l’U.E.P.E. (ovvero l’ufficio per l’esecuzione penale esterna) e non da ultimo il potenziale allontanamento dalla famiglia.
Il progetto prevede la prossima pubblicazione, nel corso del 2019, di una relazione finale e comparativa nei diversi Stati UE in materia di protezione e tutela dei diritti delle vittime di reato private della libertà.