IL DIRITTO ALLA SALUTE: DIAGNOSI DI UN SISTEMA MALATO
L’ambiente penitenziario è di per se patogeno. Problemi diffusi come la carenza di riscaldamento o di acqua calda, l’igiene non sempre adeguata, la mancanza di spazi che consentano uno stile di vita sano diventano causa di patologie.
L’effetto “patogeno” della reclusione come “fabbrica di handicap” (Ruggiero, 2011), è noto fin dai primi anni Novanta, quando il medico francese Daniel Gonin studiò gli effetti della detenzione nella prigione di Lione.
Il 2018 è trascorso nella speranza che il legislatore potesse finalmente compiere un deciso passo in direzione della tutela della salute delle persone private della libertà, adeguando le norme dell’Ordinamento penitenziario alla riforma della sanità penitenziaria del 2008. Con quella riforma del 2008 si aveva avuto il coraggio di “parificare”, sul piano normativo, la salute della persona libera e ristretta, affermando, ad esempio, che le Aziende sanitarie locali dovessero occuparsi anche delle carceri e che le persone detenute dovessero avere a disposizione gli stessi servizi di cura delle persone libere.
Come avevamo spiegato nel XIV Rapporto, in realtà, quel processo riformatore aveva incontrato molti ostacoli e la sua concreta attuazione è stata molto disomogenea sul territorio nazionale.
Invece nel riformare l’Ordinamento penitenziario il legislatore si è lasciato sfuggire l’occasione, soprattutto in tema di salute mentale.
Certo, nessuno si illude che la mera modifica della lettera della norma possa avere un impatto diretto e tempestivo sulle condizioni di vita delle persone detenute. L’effetto “patogeno” della reclusione come “fabbrica di handicap” (Ruggiero, 2011), è noto fin dai primi anni Novanta, quando il medico francese Daniel Gonin studiò gli effetti della detenzione nella prigione di Lione.
La deformazione del tempo, da un lato e il blocco delle comunicazioni dall’altro sono i due fattori che più influenzano la “salute imprigionata”, producendo patologie di varia natura, più o meno visibili.
Partendo da questi presupposti, nelle sue 85 visite nel corso del 2018, l’Osservatorio di Antigone ha monitorato alcuni di questi fattori potenzialmente patogeni, che aggiungono una connotazione afflittiva all’ambiente penitenziario.
Il quadro d’insieme rimane problematico (e, per certi versi, sconfortante).
Insomma è l’“ambiente” carcerario a causare un surplus di sofferenza, costringendo la medicina penitenziaria ad evitare qualsiasi intervento preventivo, concentrandosi esclusivamente su interventi reattivi, di limitazione delle conseguenze, una volta che la patologia è insorta.
Proprio la materialità delle condizioni detentive e l’effettiva adeguatezza delle condizioni detentive allo stato di salute della persona reclusa, è il primo parametro che la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo valuta per decidere se vi è, da parte dello Stato, una violazione del divieto di trattamento inumano e degradante ex art. 3 Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. Gli altri due parametri, sono l’accesso alle cure e ai trattamenti farmacologici e la possibilità di accedere a misure alternative al carcere per motivi di salute (cfr. , tra le altre, sentenze Corte EDU, Farbtuhs c. Lettonia, n. 4672/02, e Sakkopoulos c. Grecia, n. 61828/00).
Partendo da questi presupposti, nelle sue 85 visite nel corso del 2018, l’Osservatorio di Antigone ha monitorato alcuni di questi fattori potenzialmente patogeni, che aggiungono una connotazione afflittiva all’ambiente penitenziario.
Il quadro d’insieme rimane problematico (e, per certi versi, sconfortante).
Al di là del tema degli spazi a disposizione di ogni detenuti, tema su cui si è discusso molto, a cominciare dalla sentenza Torreggiani della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, che fissa a 3 metri quadri la superficie calpestabile minima a disposizione di ogni detenuto (limite che in 16, cioè il 19%, degli istituti visitati da Antigone continua a non essere garantito per tutti), ci sono altri fattori che incidono direttamente sulla qualità della vita in carcere e, di conseguenza, sulla salute.
Il riscaldamento degli istituti nei mesi invernali, che in 6 istituti (il 7%) non è funzionante oppure l’accesso all’acqua calda sanitaria, che nel 35% degli istituti non è garantito: in più di un terzo degli istituti visitati, per malfunzionamenti delle caldaie, non vi è acqua calda. E tra i 30 istituti ove l’accesso all’acqua calda non è garantito per tutti, rientrano alcune tra le più grandi carceri del paese (da Firenze a Bologna, passando per San Vittore a Milano o a Poggioreale a Napoli).
Alla fruizione dell’acqua, è collegato il tema dell’igiene personale, elemento scatenante della circolazione di infezioni e virus: la maggioranza degli istituti penitenziari continuano a non avere una doccia all’interno della cella, costringendo la popolazione detenuta usufruire delle docce in sezione “a turni” (nelle peggiori delle ipotesi, solo una volta a settimana): sono soltanto 35 le carceri dove ci sono le docce in cella, a fronte delle 46 senza doccia in cella. A questo, si aggiunge che i locali doccia in comune sono spesso ammuffiti e insalubri, come rilevato in molte visite, nel carcere di Torino o a Napoli Secondigliano per citare due degli istituti più grandi.
Fonte: Osservatorio Antigone 2018
Sono garantiti i 3mq in tutte le celle | WC in ambiente separato in tutte le celle | Riscaldamento funzionante in tutte le celle | Acqua calda in tutte le celle | Doccia in tutte le celle | E’ garantito a tutti un accesso settimanale alla palestra | Le celle sono aperte almeno 8 ore nelle sezioni di media sicurezza | |
SI | 59 | 80 | 61 | 45 | 35 | 52 | 63 |
NO | 16 | 4 | 6 | 30 | 46 | 24 | 21 |
ND | 10 | 1 | 18 | 10 | 4 | 9 | 1 |
la questione salute si intreccia con l’edilizia penitenziaria, poiché limiti strutturali, spesso non permettono agli operatori, anche ai più volenterosi, di provare a riempire di significato il principio rieducativo della pena
Lo sguardo degli osservatori di Antigone si è spostato anche fuori dalla cella detentiva, in quegli “spazi comuni” che permettono alle persone detenute di socializzare e di svolgere attività formative, lavorative e culturali, fondamentali per contrastare l’ozio penitenziario. Qui la questione salute si intreccia con l’edilizia penitenziaria, poiché limiti strutturali, spesso non permettono agli operatori, anche ai più volenterosi, di provare a riempire di significato il principio rieducativo della pena. Nel 34% degli istituti visitati (29 su 85) non tutti i detenuti accedono ad un campo sportivo e spesso, non per particolari motivi di sicurezza, ma per “prassi”, per “carenze di organico” della polizia penitenziaria o, semplicemente, perché l’attività fisica all’aria aperta non viene ritenuta una prerogativa del trattamento penitenziario.
Anche l’attività fisica al chiuso non è sempre garantita, nel 28% degli istituti (24 su 85) non c’è o comunque non è garantito l’accesso ad una palestra, almeno settimanale.
Insomma l’idea che la detenzione debba consistere nell’afflizione di una sofferenza (fisica e psicologica) rimane radicata nella cultura dominante, sottovalutando le conseguenze che questa visione sulla salute -privata e pubblica- quale diritto fondamentale.