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UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI
PISA
Tesi di Laurea
Francesca
Pucci
1 Introduzione
1.1 L’origine del manicomio giudiziario
1.2 Il codice Zanardelli
1.3 Il codice Rocco
CAPITOLO
SECONDO:
I PRESUPPOSTI DI APPLICAZIONE DELLE MISURE DI SICUREZZA
2 La commissione del reato e l’imputabilità
2.1 Le condizioni che escludono l’imputabilità e la
perizia psichiatrica
2.2 La perizia psichiatrica dopo la sentenza del giudice
2.3 I reclusi in ospedale psichiatrico giudiziario
CAPITOLO
TERZO:
3 La situazione prima della legge n.180
3.1 L’entrata in vigore della legge
3.2 Le strutture necessarie per il funzionamento della
legge
3.3 Critiche e importanza della 180
3.4 La proposta di legge di Grossi e Corleoni
3.5 La proposta di Legge di Riz
3.6 Il progetto di legge dell’Emilia Romagna
CAPITOLO
QUARTO:
I DIRITTI DELL’INTERNATO
NELL’ESECUZIONE DELLE MISURE DI SICUREZZA DETENTIVE
4 La crisi del “ doppio binario
4.1 Il trattamento rieducativo per gli internati, previsto
dall’ordinamento penitenziario e la differenza con i condannati a pena
detentiva
4.2 I rapporti con la famiglia e con l’ambiente esterno
4.3 La cura della malattia mentale, e il diritto alla
salute
4.4 L’effetto della 180 sulla funzione terapeutica
dell’O.P.G.
CAPITOLO
QUARTO:
PARTE II
4 L’importanza della diagnosi della malattia, per
individuare un proficuo trattamento terapeutico e di risocializzazione
4.1 Compiti e ruolo dell’educatore
4.2 Il ruolo dello psichiatra penitenziario. Rieducare o
curare?
4.3 Le licenze e la loro funzione terapeutica
4.4 Che cosa sono gli O.P.G. in sostanza, carceri od
ospedali? Che cosa fa la società per migliorarli?
4.5 Il problema dell’emarginazione
4.6 I trattamenti sperimentati nell’O.P.G. di Aversa
CAPITOLO QUINTO
IL
SUPERAMENTO DELL’OSPEDALE PSICHIATRICO GIUDIZIARIO
5 L’ospedale psichiatrico giudiziario ed i relativi profili d’illegittimità costituzionale
Le alternative all’O.P.G e la loro sinora scarsa
utilizzazione in Italia
5.2 Le prospettive di riforma
Una possibile risposta: l’affidamento terapeutico di tipo psicosociale
CAPITOLO
SESTO:
IN VISITA ALL’OSPEDALE PSICHIATRICO
GIUDIZIARIO DI CASTIGLION DELLE STIVIERE
6 Castiglione, il modello sanitario Italiano
6.1 I trattamenti previsti all’interno dell’O.P.G. di
Castiglion delle Siviere
6.2 La dimissione del paziente
Fino alla metà degli anni
Settanta, l'uomo della strada veniva informato dell’esistenza dell’istituzione
ospedale psichiatrico solo da qualche articolo di cronaca nera in cui si
riferiva di reati commessi in modo apparentemente immotivato, da soggetti il
cui equilibrio mentale era compromesso. Nonostante che negli anni Sessanta si
aprisse in Italia un dibattito fra teorici e pratici del diritto sul
significato politico e sociale delle due principali "istituzioni
totali", manicomio e carcere, il manicomio giudiziario continuava a
rimanere dietro le quinte.
Questo perché sia il
manicomio civile che il carcere interessavano migliaia d’individui di ogni
parte della Penisola; le sommosse carcerarie e le iniziative antimanicomiali
costringevano l'opinione pubblica a occuparsi del problema. Invece nel
manicomio giudiziario, presente in sole sette sedi in Italia e comprendente una
popolazione di poche migliaia di persone fra reclusi e operatori; non si
verificavano mai delle sommosse e gli episodi anomali, quali i numerosi
suicidi, venivano filtrati opportunamente sia dall'interno dell'istituzione,
che dalle amministrazioni pubbliche; inoltre, l'opinione pubblica non si
interessava alle storie di quei pazzi criminali che apparivano come soggetti
incomprensibili e pericolosi.
Il problema del manicomio
giudiziario nacque per l'opinione pubblica il 5 Gennaio del 1975, quando i
quotidiani pubblicarono la notizia che una donna, Antonietta Bernardini era
morta dopo che nel manicomio giudiziario di Pozzuoli era bruciato il materasso
su cui era legata.[1] Allora
l'opinione pubblica si scosse e si creò una vera e propria ondata
d’indignazione civile. I giornalisti iniziarono ad indagare sul passato della
donna, e si scoprì che il potere giudiziario era stato rapido nel rinchiuderla
in galera e poi nel trasferirla in manicomio giudiziario, ma era stato lento e
inefficiente quando si era trattato di garantirle i diritti che la legge penale
e la Costituzione riconoscono a tutti i cittadini. La Bernardini morì senza
processo, da innocente.
Da quel momento la stampa e
tutta l'opinione pubblica chiesero di chiudere i manicomi giudiziari, ma nel
governo dell'epoca non vi era nessun’intenzione in questo senso, tanto che da
allora ogni sforzo fu teso a far sì che non verificassero più scandali di
queste dimensioni, in modo che i manicomi giudiziari potessero funzionare
ancora, ma senza intralci. Ben presto si cercò di andare più a fondo nel
problema, indagando sui meccanismi giuridici che stanno alla base
dell'internamento in Ospedale psichiatrico giudiziario e sulle motivazioni di
carattere socio-politico che sorreggevano e sorreggono l'istituzione. Si passò
ad indagare le funzioni stesse del manicomio giudiziario e la figura giuridica
del soggetto prosciolto per infermità psichica, che rappresenta il tipo
d’internato cui l'istituzione è destinata. Si sono avuti una serie di
provvedimenti giurisdizionali della Corte Costituzionale, che ha rimaneggiato
molto l'assetto normativo che regola la materia. I numerosi interventi della
Corte hanno messo in risalto una certa latitanza del potere legislativo, perciò
si avverte l'esigenza del riordino di interi settori.
L’attuale fase del dibattito
si caratterizza per il tentativo di esaminare più a fondo le motivazioni
sostanziali della non imputabilità per infermità psichica.
1.1 L’origine del manicomio giudiziario
L'idea di una forma di
controllo istituzionalizzato per soggetti caratterizzati da una condizione
mentale patologica, oltre che da un comportamento "criminale" (anche
se non necessariamente autori di reato), si pose all'attenzione degli studiosi
nel secolo scorso, come conseguenza dell'individuazione di specifici compiti
del carcere e del manicomio e della circostanza di fatto che nei penitenziari
fu accertata l'esistenza di un gran numero di "pazzi". Si riteneva
che, né il carcere né il manicomio civile potesse in modo adeguato ospitare i
"pazzi criminali"o i "criminali impazziti"; il carcere,
perchè era destinato ad ospitare coloro che violavano le norme penali
colpevolmente, mentre il manicomio civile, avendo caratteristiche cliniche, non
poteva custodire soggetti di cui era stata accertata la pericolosità.
Vi era la necessità di
creare un terzo tipo di custodia[2],
discutendo circa la denominazione da darsi a tale luogo: all'inizio fu
accettata la terminologia di manicomio criminale, che derivò dall'uso inglese
di chiamare i manicomi in questione con il titolo criminal's asylums. Infatti,
l'istituto dei manicomi criminali ebbe la sua nascita in Inghilterra nel 1857,
anno in cui s’istituì il primo manicomio criminale di Stato. L'esempio inglese
fu seguito da altri paesi europei, fra cui il nostro.
In Italia, infatti, uno dei
temi più discussi dalla freniatria e dall'antropologia criminale fu la
responsabilità penale della persona giuridica folle e quindi l'organizzazione e
l'utilizzo dei manicomi criminali. La maggior parte del dibattito si svolse
sulla base della neo-psichiatria italiana che nella seconda metà del 1800,
aveva un’impostazione organicistica, per questo le alienazioni mentali erano
malattie del cervello e non dello spirito; ogni fenomeno psichiatrico aveva
base materiale e con il nuovo metodo sperimentale, fondato sull'analisi di dati
reali (antropometria, craniometria, esame somatico e statistiche); un soggetto
malato doveva essere curato e guarito.
Con la pubblicazione della
prima edizione de "L'uomo delinquente" di Lombroso (1876) è nata
l’antropologia criminale[3].
Il pensiero lombrosiano a
capo del positivismo, affermò il primato del modello medico-psichiatrico su
quello giuridico-normativo; introdusse una concezione del criminale patologica
e deterministica; sostenne l'equivalenza dell'uomo delinquente e di quello nato
pazzo, riconoscibile per determinate stigmate somatiche correlate a deformità
mentali. Nacque lo stereotipo del "delinquente nato", così come lo
definì il Ferri, inteso come soggetto più simile ad una bestia primitiva che ad
un essere umano e caratterizzato da una condotta violenta, sproporzionata ed
incontrollabile. Il determinismo di Lombroso portò inevitabilmente alla
negazione del libero arbitrio e della volontà individuale, cosicché, nel campo
giuridico, si sostituì al principio della responsabilità morale quello della
responsabilità sociale[4];
al principio della punizione (pena = reclusione), quello del controllo e della
difesa sociale[5](misura di
sicurezza del manicomio criminale per i socialmente pericolosi al posto della
pena).
Fino all'epoca dell'unificazione
italiana, i vari Stati applicavano norme penali differenti, ma nessuna
prevedeva istituti particolari per gli autori di reato non punibili a causa di
una malattia mentale: il loro destino era sempre quello del manicomio comune.
Diversa era la questione per le persone che a causa di una
condanna erano già in carcere, e che in quel luogo manifestavano segni di
malattia mentale: erano previste dalle norme dell'esecuzione penitenziaria
punizioni corporali, quali la privazione del cibo, la permanenza in locali bui,
umidi e freddi, l'isolamento perpetuo dagli altri detenuti. Naturalmente,
queste vessazioni aggiuntive erano applicate abitualmente ai soggetti giudicati
pericolosi, cioè coloro che persistevano nel tenere condotte oppositive nei confronti
dell'istituto carcerario e che creavano disordine.
Avvenuta l'unificazione, fu
esteso a quasi tutto il territorio nazionale, il Codice penale sardo del 1859,
che finalmente regolava allo stesso modo la materia dei prosciolti per vizio di
mente,
ma questo non risolse i problemi. Cesare Lombroso, sulla base dei suoi studi di
antropologia criminale, e collegandosi alle esigenze di "difesa
sociale" della scuola positivista, propugnava la creazione di uno o più
"manicomi criminali" che permettessero: la detenzione d’imputati
sospettati di aver commesso il reato in stato di alienazione mentale,
l'esecuzione della pena di condannati che fossero impazziti in carcere ed
infine il mantenimento di imputati, il procedimento dei quali fosse sospeso per
sopravvenuta alienazione[6].
Il progetto del
Lombroso, sicuramente all'avanguardia in quei tempi, non era condiviso dai più
che, preoccupati principalmente della situazione all'interno delle carceri,
giudicavano più urgente la creazione di manicomi giudiziari per i soli
condannati impazziti in carcere.
Mentre fervevano le discussioni politiche nel
1876, ad Aversa l'amministrazione penitenziaria inaugurò il primo manicomio
giudiziario italiano con la denominazione di "Sezione per maniaci"
della locale "Casa penale per invalidi" con il solo compito di
ospitare i detenuti «impazziti in carcere». In effetti, tale istituto fu
promosso tramite un mero atto amministrativo, e soltanto nel 1891 la sua
creazione fu formalizzata tramite una norma di legge contenuta all'interno del
«regolamento generale degli stabilimenti carcerari» (r.d. 1 febbraio 1891, n.
260), lo stesso che andava a modificare il nuovo codice penale (codice
Zanardelli) nato solo due anni prima, ma che non faceva nessun esplicito
riferimento ai manicomi giudiziari.
Tale regolamento
modificò sensibilmente la situazione, infatti, oltre a riconoscere formalmente
l'istituto del manicomio giudiziario, previde che anche gli imputati prosciolti
a causa della loro infermità mentale vi potessero essere rinchiusi, dopo un
periodo d’osservazione presso lo stesso manicomio giudiziario o presso il
manicomio provinciale ordinario.
Resta da notare
che i condannati erano liberati allo scadere della pena, mentre i prosciolti
per vizio di mente erano dimessi solo quando «cessassero le ragioni che
determinano il ricovero», e quindi per questi ultimi non era previsto né un
limite massimo né un limite minimo.
Dopo
l'esperienza del manicomio di Aversa, peraltro non del tutto positiva (il
Lombroso scriveva: “Vi è in Aversa un manicomio criminale che potrebbe
chiamarsi un’immensa latrina[7]”)
la necessità di aumentare il numero di tali istituti era così pressante da
essere auspicata anche dallo stesso Lombroso. Successivamente il numero dei
manicomi giudiziari fu aumentato e ad Aversa si aggiunsero Montelupo Fiorentino
(1886), Reggio Emilia (1892), Barcellona Pozzo di Gotto (Messina) (1925),
Castiglione delle Stiviere (Mantova) (Sezione giudiziaria d’ospedale
psichiatrico civile privato, 1939) e Pozzuoli (1955).
Per trovare dei
cambiamenti della struttura e del funzionamento dei manicomi, rispetto al regio
decreto del 1891 sopra citato, bisogna aspettare la riforma dei codici penale e
di procedura penale che vennero ad accogliere quelle idee che, riallacciandosi
alla "scuola positivista", propugnavano un'opera di "bonifica
morale", un'azione che tendesse soprattutto ad isolare dal corpo sociale
le possibili fonti di "infezione". In questo disegno andavano certo
compresi anche gli imputati prosciolti a causa d’infermità mentale.
Di conseguenza
un tale sistema si preoccupa unicamente dei rischi che l'alienato libero
comporta per la stabilità dell'organizzazione sociale, tralasciando
completamente il risvolto soggettivo del problema e cioè le condizioni del
malato e le conseguenti difficoltà personali e sociali di questo. Su tali basi
nacquero le misure di sicurezza del nostro attuale codice penale, il codice
Rocco.
1.2 Il codice Zanardelli
Il primo progetto sui
manicomi pubblici e privati fu presentato da Depretis; seguirono poi quelli di
Crispi, Nicotera e Giolitti, ma nessuno di questi progetti fu tradotto in legge[8].
Nel 1889 venne promulgato il
nuovo codice penale (codice Zanardelli), ma non vi era contenuta alcuna
menzione del manicomio criminale; esso regolava l'imputabilità dell'autore di
reato malato di mente secondo principi di stampo classico. Infatti, veniva
previsto il proscioglimento per infermità mentale, per cui non era punibile
colui che, nel momento in cui aveva commesso il fatto, non aveva la coscienza o
la libertà dei propri atti e il giudice, se stimava pericolosa la liberazione
dell'imputato prosciolto, ne ordinava la consegna, finché il presidente del
tribunale civile non avesse deciso la sua liberazione o il suo internamento
definitivo (art.13 e 14 delle disposizioni per l’attuazione del codice penale,
promulgate con r.d. 1 dicembre 1889, n. 6509). L'assegnazione alla casa di
custodia, con cui il giudice poteva sostituire la pena della reclusione, era
revocabile, ove fossero cessate le ragioni che l'avevano determinata.
Ammissione, custodia,
licenziamento, trasferimento, evasione o semplici permessi d’uscita
dall'istituzione dovevano essere segnalati all'autorità di pubblica sicurezza
che controllava la potenziale o supposta pericolosità sociale del malato di
mente: questa rimaneva, in fin dei conti, la ragione principale che guidava e
condizionava l'intervento psichiatrico istituzionale. Nell'operare in tal modo
era assoluto l'accordo tra le esigenze di controllo sociale e la psichiatria;
anche se i freniatri si rammaricavano del fatto che per tutti i prosciolti e i
semi-responsabili non fosse stato introdotto un sistema unitario e globale di
controllo sociale, quale appunto il manicomio criminale. Nel 1891 venne
effettuata una ispezione nei manicomi del Regno, promossa dal Ministro
dell'Interno e affidata a tre esperti e notissimi alienisti: Lombroso,
Tamburini e Ascenzi. Essi, al termine del loro lavoro, stilarono un’attenta
relazione nella quale riassumevano per sommi capi i risultati che più
direttamente si collegavano coi provvedimenti generali che la legge avrebbe
dovuto attuare.[9]
Denunciavano, però, numerosi problemi quali: l'affollamento degli istituti
manicomiali; la mancanza di una legislazione unitaria, valida per tutte le
regioni italiane; l'assenza di un’efficace sorveglianza su tutti i malati di
mente ricoverati e non; delle disparità organizzative tra i diversi manicomi;
l'esiguità e l'inadeguatezza della conduzione dei manicomi criminali esistenti.
Gli estensori del rapporto lamentavano che l'uso dei manicomi criminali fosse
frainteso e stravolto, rispetto alle richieste della scuola positiva, nel senso
che in detti istituti erano ristretti i condannati impazziti e i giudicabili,
invece dei prosciolti. Essi criticarono che, nel nuovo codice penale, non era
annoverato il manicomio criminale come luogo in cui obbligatoriamente internare
i prosciolti.
Preciso ed esplicito era il
riferimento alla difesa sociale, che la legge doveva garantire attraverso una
reclusione molto rigorosa.
Questa legge tanto invocata,
non sarà varata ancora per molti anni (per la precisione fino al 1930, con
l'attuale Codice Rocco).
Tuttavia, qualche prosciolto
già alloggiava, nel manicomio criminale.
Questo era possibile grazie
ad un incredibile escamotage legislativo, perciò si era utilizzato il Regio
Decreto del 1 febbraio 1891, contenente il regolamento generale degli
stabilimenti carcerari e dei riformatori governativi con cui era formalmente
sancita e regolamentata la materia relativa a tali istituzioni.
Per la prima volta qui,
ufficialmente, si utilizzava il termine "Manicomio giudiziario" e si
stabiliva per quali categorie di persone doveva essere utilizzato: una prima
categoria era costituita dai condannati alienati mentali che devono scontare
una pena maggiore di un anno in virtù dell’art.469 “…sono destinati speciali
stabilimenti, o manicomi giudiziari, nei quali si provveda ad un tempo alla
repressione e alla cura..." Una seconda categoria erano i condannati che
dovevano scontare una pena minore di un anno, colpiti da alienazione mentale,
ma inoffensivi, paralitici o affetti da delirio transitorio, i quali potevano
rimanere negli stabilimenti ordinari, se non mancavano i mezzi di cura e non si
nuoceva alla disciplina interna, (art.470). Inoltre erano compresi, in base
all’art.471, gli accusati o imputati prosciolti, ai sensi dell'art. 46 del
codice penale, per i quali il presidente del tribunale civile aveva pronunciato
il ricovero definitivo in un manicomio, ma in sezioni separate a seguito di
decreto del Ministro dell’interno.
Sempre con lo stesso decreto
potevano essere ricoverati gli accusati prosciolti, che ai sensi dell’art.13
r.d.1889, n.6509, dovevano essere provvisoriamente chiusi in un manicomio per
l’osservazione, (art.472). Mentre, con domanda dell’autorità giudiziaria erano
ricoverati in una sezione speciale gli inquisiti in stato d’osservazione. Art.
473: "Sopra apposita domanda dell'autorità giudiziaria, possono essere
ricoverati in una sezione speciale dei manicomi giudiziari, anche gli inquisiti
in stato di osservazione. L'assegnazione è fatta per decreto del ministro
dell'Interno." I condannati impazziti in carcere erano liberati alla
scadenza della pena, mentre i prosciolti per vizio di mente erano dimessi
"quando cessavano le ragioni del ricovero", senza limite massimo o
minimo prefissato.
Ma se questa era la
normativa, cosa accadeva concretamente nei due manicomi criminali esistenti a
quell'epoca?
Abbiamo la possibilità di
ricostruire, per sommi capi, il destino dei reclusi sia ad Aversa, che a
Montelupo. Ad Aversa, fra il 1876 e il 1891 furono ammessi 1007 pazienti.
Inoltre 28 pazienti entrati nel periodo 1876-1891 erano ancora presenti nel
1898 e 14 di questi vi erano da più di dieci anni, mentre 979 erano nel
frattempo usciti.
Il 56,1% furono dimessi
prima di tre anni e solo il 5,8% vi uscirono dopo oltre sei anni. Occorre
notare però, che 230 persone vi morirono. I prosciolti, in quel periodo, furono
solamente 6. A Montelupo fra il 1886 e il 1891 furono ammesse 542 persone: di
queste il 37,8% fu dimesso in un altro manicomio, il 32,1% uscì vivo, ma non in
manicomio, più spesso in carcere, infine il 30,1% morì.
I prosciolti furono
solamente sette[10].
Abbiamo visto come,
indipendentemente dal dibattito politico e culturale dell'epoca, i manicomi
criminali non furono mai strutture concretamente sanitarie. Infatti, sebbene
fossero destinati ad un uso profilattico rispetto al crimine, essi furono usati
come luoghi per la gestione punitiva della follia criminale. Ciò è provato
dalla relativa brevità degli internamenti, in un'epoca priva di risorse
terapeutiche concrete, la durata dei quali non è molto diversa da
quell’attuale.
Non fu mai realizzata la
“non afflittività” del manicomio criminale, unica vera differenza fra
segregazione carceraria e manicomiale. Essi furono gestiti da un Direttore
amministrativo, come tutti gli stabilimenti di pena ordinari e mediante un
Regolamento che non differiva in alcun punto da quello carcerario.
Si legge in una relazione
fatta dal Direttore Sanitario di Aversa, pubblicata nel 1900: “Quivi il
trattamento alimentare è uguale a quello delle carceri, i giacigli sono gli
stessi che si accordano ai detenuti, la disciplina, se non è più rigorosa, non
è certo informata e subordinata alle speciali condizioni dei reclusi, e quel
che è peggio, vi fanno assoluto difetto i mezzi igienico-terapeutici, che sono
indispensabili al trattamento degli psicopatici; difetto che, peraltro non reca
altrimenti meraviglia, quando si sappia che la direzione di questi particolari
istituti è disimpegnata ad un profano di psichiatria, e che il servizio
sanitario è ristretto alla ben limitata orbita di azione in cui possono
spaziare i medici addetti ai comuni penitenziari”. Il manicomio criminale
risultò essere qualcosa di molto diverso da ciò per il quale fu ideato e,
infatti, scontentò immediatamente gli alienisti, anche in un momento nel quale
la psichiatria ambiva a partecipare attivamente al controllo sociale.[11]
1.3 Il codice
Rocco
La funzione del manicomio
giudiziario dal 1876 e per tutto il periodo in cui vigeva il codice Zanardelli,
era soprattutto quella di ospitare i detenuti impazziti in carcere, ponendosi
quindi come reparto specializzato del carcere stesso. Nel periodo fascista, la
necessità politica di un controllo sociale più stretto, fece individuare l'istituzione
manicomio giudiziario come luogo privilegiato in cui isolare e reprimere quegli
individui che non erano punibili con il carcere o isolabili con il manicomio. I
principi della scuola lombrosiana[12],
respinti in blocco dal codice Zanardelli, trovarono però il loro trionfo nel
Codice Penale Italiano, attualmente in vigore, approvato nell’ottobre 1930: il
Codice Rocco. Con esso nasce la normativa del "doppio binario",
ovvero la coesistenza nell'ordinamento giuridico di pene e di misure di sicurezza.
Le misure di sicurezza si
applicano in via di principio, solo alle persone che hanno commesso un reato e
siano state riconosciute "socialmente pericolose[13]”.
Il giudizio di pericolosità deve essere dimostrato sulla base delle circostanze
indicate all’art.133, ritenute oggettive, anche se considerarle oggettive le
priva di senso storico.
Per le persone per le quali
era stata pronunciata sentenza di proscioglimento per vizio totale di mente, o
di condanna a pena diminuita per vizio parziale di mente, la qualità di persona
socialmente pericolosa era presunta dalla legge e si applicava sempre la misura
di sicurezza, rispettivamente del ricovero in un manicomio giudiziario o in una
casa di cura e custodia. Infatti, l'art. 204 c.p. diceva: le misure di
sicurezza sono ordinate, previo accertamento che colui il quale ha commesso il
fatto è persona socialmente pericolosa. Nei casi espressamente determinati, la
qualità di persona socialmente pericolosa è presunta dalla legge (...). I casi
espressamente determinati sono, appunto, il proscioglimento per infermità ed il
riconoscimento di seminfermità mentale. Si voleva evitare che una persona
prosciolta per vizio di mente potesse andare esente da sanzione penale. Da
questo punto di vista, il codice Zanardelli, che affidava la valutazione al
giudice, era sicuramente più liberale. La legge prevedeva un solo correttivo
alla norma, ovvero la facoltà per il giudice di non applicare la misura di
sicurezza del manicomio giudiziario alla persona prosciolta per vizio di mente,
quando fossero trascorsi cinque anni, per i reati più brevi, o dieci anni, per
i reati più gravi, fra il momento in cui il reato fu commesso e il momento in
cui si pronuncia la sentenza di proscioglimento; oppure tra il momento in cui
il proscioglimento fu pronunciato e quello in cui si deve dare inizio
all'applicazione della misura di sicurezza. In tutti questi casi, il giudice
applicava la misura solo se rilevava in concreto che il soggetto era
"tutt'ora pericoloso" (art. 204 c.p., comma II e III).
Per effetto dell'art. 31
legge 10 ottobre 1986, n. 663, l'applicazione della misura di sicurezza alla
persona prosciolta per infermità psichica non è più automatica. Essa deve
essere inflitta solo se il giudice ritiene in concreto sussistente la
pericolosità sociale del prosciolto. Ove quest'ultima sia giudicata
insussistente, la questione è da ritenersi chiusa sotto il profilo giudiziario.
Nonostante ritenga in concreto esclusa la pericolosità sociale, il giudice può
valutare che sussista un disturbo psichico che consigli o imponga un
trattamento psichiatrico. In questo caso potrà essere indotto a segnalare la
situazione ai servizi di salute mentale perché si occupino del problema.
Per quanto riguarda la
durata della misura di sicurezza, essa viene prefissata nel minimo, ma non nel
massimo, e la sua durata minima è a sua volta correlata con la pena edittale
massima, prevista per il reato commesso[14].
Per quanto concerne le misure di sicurezza cosiddette psichiatriche[15],
la durata minima è prefissata in misura diversa secondo la pena edittale
massima che è prevista per il reato in questione. La legge stabilisce che il
giudice possa graduare la pena, ma non la misura di sicurezza, secondo le
circostanze, senza oltrepassare il limite minimo o massimo prefissato per
quella fattispecie criminosa.
La durata indeterminata
delle misure di sicurezza le differenzia dalle pene detentive che, nel nostro
ordinamento, devono sempre avere una durata massima prefissata.
L'indeterminatezza
cronologica della sanzione detentiva nasce come potere del signore nei regimi
autocratici e com’emanazione della potestà divina. Soltanto con la rivoluzione
francese si ha l'affermarsi del principio dell’uguaglianza giuridica di tutti i
cittadini, che sarà applicato in tempi diversi nei vari paesi europei. Nella
seconda metà dell'Ottocento, in Italia, è la scuola classica che si fa
promotrice del concetto della pena di durata predeterminata, mentre la scuola
positiva privilegia l'indeterminatezza cronologica della pena.
Nel nostro paese si è finito
per adottare un doppio criterio cronologico: durata predeterminata per le pene
vere e proprie, indeterminata per le misure di sicurezza. Per queste ultime,
infatti, l'indeterminatezza cronologica è strumentale al loro essere strumenti
di repressione criminale, che si applicano quando la sanzione penale o non può
giungere, o non è sufficiente per assicurare adeguate garanzie di difesa
sociale.
In questo modo, il potere
giudiziario ha in mano un’arma formidabile per suscitare nel reo uno stimolo a
modificare i comportamenti sanzionati e quindi creare una forma molto
particolare di consenso.
Il principio della durata
della misura di sicurezza a tempo indeterminato è per il legislatore del 1930,
un semplice corollario della concezione accolta della misura, quella di un
provvedimento amministrativo di difesa sociale, che renda innocuo il soggetto,
segregandolo e isolandolo per tutta la durata della sua pericolosità.
Al contrario, appare
indispensabile al legislatore, la necessità di determinare un limite minimo,
perché si presume che il provvedimento sarebbe inefficace, qualora fosse
adottato per un tempo inferiore a certi limiti.
Anche l'attuale codice
penale contempla, seppure in via subordinata, un’ipotesi analoga a quella
prevista nel codice penale del 1889.
L'art. 222 c.p. prevede,
infatti, che, in caso di proscioglimento per infermità psichica, quando si
tratti di contravvenzioni o di delitti colposi o d’altri delitti per i quali la
legge stabilisce una pena pecuniaria o la reclusione per un tempo non superiore
nel massimo a due anni, non si dà luogo all'applicazione della misura di
sicurezza del ricovero in un Ospedale psichiatrico giudiziario, ma la sentenza
di proscioglimento è comunicata all'autorità di pubblica sicurezza. Questa
norma, traccia evidente dell'art. 46 del codice penale del 1889, abilitava a
sua volta l'autorità di pubblica sicurezza a promuovere provvedimenti anche di
ricovero coattivo, così come previsti dalla legge e dal regolamento manicomiale
in vigore fino al 1978.
Per pericolosità sociale, la
legge intende genericamente, la possibilità che il soggetto commetta in futuro,
non la stessa tipologia di reato, ma altri reati di qualsiasi natura. Questo è
in contrasto con le tesi psichiatriche, che da lungo tempo hanno dimostrato
l'assenza di un nesso automatico fra un determinato fatto commesso, e la
previsione di un certo periodo di tempo in cui è possibile che la persona
commetterà altri reati, ma il legislatore fascista aveva bisogno di uno
strumento abbastanza estensibile da poterne fare un impiego prolungato nel
tempo, secondo la necessità contingente, perciò prese dalle due scuole
penalistiche dell’epoca i concetti che più gli erano funzionali: dalla scuola
classica l’aspetto retributivo della misura di sicurezza, che ne fissa la
durata minima, irriducibile e commisurata al reato commesso; mentre dalla
scuola positiva, l’indeterminazione della durata massima, funzionale alle
esigenze di difesa sociale.
CAPITOLO SECONDO:
I PRESUPPOSTI DI
APPLICAZIONE DELLE MISURE DI SICUREZZA
2 La commissione del reato e
l’imputabilità
Il diritto penale si occupa
delle malattie mentali nel momento in cui tratta dell'imputabilità[16].
Il codice, quando parla di "vizio di mente" intende uno stato mentale
derivante da infermità, che escluda o diminuisca la capacità di intendere e di
volere del soggetto nel momento in cui questo commette il reato. Nel primo
caso, la legge penale prevede l'esclusione totale della pena, nel secondo una
mera diminuzione, ed in entrambi l'applicazione di misure di sicurezza, seppur
di diversa specie. In generale le misure di sicurezza sono provvedimenti intesi
a riadattare il delinquente alla vita libera sociale, e cioè a promuoverne
l'educazione oppure la cura, secondo che egli abbia bisogno dell'una o
dell'altra, mettendolo, comunque, nell'impossibilità di nuocere.
Vengono così ad affiancarsi
alle pene o a sostituirle quando queste siano escluse, come nel caso di vizio
di mente totale. Le misure di sicurezza, però differiscono dalle pene in
maniera sostanziale, perché non hanno il carattere di castigo e quindi non sono
proporzionate al delitto commesso, ma alla pericolosità del reo, che viene a
costituire anche la loro ragione giustificatrice. Tali misure di sicurezza
vengono, di norma, applicate solo dopo che il soggetto abbia realmente compiuto
un fatto previsto dalla legge come reato, e quindi abbia realmente mostrato la
sua pericolosità sociale[17].
Il concetto di
pericolosità sociale[18]è
espresso dall’art. 203, I comma, c.p.. Questo significa, che l'ordinamento penale, si preoccupa
dell'infermità mentale solo dal momento in cui il soggetto infermo si sia
concretamente reso pericoloso per la comunità ledendo un qualche bene tutelato
dalla stessa legge. Prima della riforma, per le persone per le quali era stata pronunciata sentenza di
proscioglimento per vizio totale di mente, o di condanna a pena diminuita per
vizio parziale di mente, la qualità di persona socialmente pericolosa era
presunta dalla legge e si applicava sempre la misura di sicurezza, art.204
c.p..
Furono numerosi i tentativi
di far dichiarare incostituzionale questo articolo, ma anche la Corte di
Cassazione, nella sentenza del 4.4.1985, confermò l'automaticità del
provvedimento.
Come si è visto la durata
della misura di sicurezza era indeterminata, di conseguenza la guarigione prima
dello scadere del termine della misura, così come la concreta non pericolosità
del soggetto, non avevano alcuna rilevanza, infatti la misura proseguiva anche
se il "pazzo" non era più tale, era un "ex pazzo", o se, pur
in costanza di malattia, non era, di fatto, motivo di pericolo per il prossimo.
Analogo regime vigeva per i
semi infermi.
L'alibi della terapeuticità
delle misure di sicurezza psichiatriche, era soltanto una giustificazione
formale, poiché la loro funzione era di fatto custodialistica e d’esclusione
sociale.
Con la riforma penitenziaria
del 1975, si ha una prima via d’uscita da una situazione che era spesso iniqua;
infatti, viene abolita la durata minima della misura di sicurezza e viene
introdotta la revoca anticipata della misura in caso di cessazione della
pericolosità dell'internato: art.69 IV comma e art.208 c.p..
Un ulteriore passo, in
mancanza di una riforma legislativa, è tracciato dalla giurisprudenza della
Corte Costituzionale. Le sentenze n. 139, 27 luglio 1982 e n. 249, 28 luglio
1983, sanciscono l'incostituzionalità dell'art. 222 c.p. (in seguito
soppresso), nella parte in cui affermava l'obbligo di applicare sempre la
misura di sicurezza; è inoltre introdotto il principio secondo il quale la
misura di sicurezza non può essere applicata al soggetto prosciolto per vizio
totale o parziale di mente se, al momento della sua applicazione, l'infermità
da cui era affetto, quando aveva commesso il delitto è venuta nel frattempo a
cessare. La legge prevede anche il caso della seminfermità mentale, quando
l'imputato ha "grandemente scemata all'epoca del fatto la capacità
d'intendere e di volere". Il seminfermo subisce un particolare
trattamento, perciò è considerato imputabile e punibile, ma la pena è diminuita
e si applica in aggiunta la misura di sicurezza del ricovero in una casa di
cura e custodia.
La misura di sicurezza non
sempre deve essere espiata dopo la reclusione, infatti, l'art. 220 del codice
penale, prevede che il giudice possa farla espiare prima o durante la pena,
sospendendo il decorso temporaneamente. La misura del ricovero in manicomio
giudiziario può essere applicata anche in via provvisoria,[19]dall’art.206c.p.
Se invece la persona viene giudicata imputabile e condannata alla reclusione,
nel silenzio della legge, si pone il problema di computare o meno il tempo
sofferto in misura di sicurezza provvisoria, ai fini della condanna definitiva.
Con l'ultima riforma
penitenziaria, la legge 10 ottobre 1986, n. 663, detta "legge
Gozzini", si aboliscono tutte le presunzioni di pericolosità previste dal
codice penale, sia quelle di pericolosità qualificata,[20]sia
quelle connesse a certi tipi di reati, sia le presunzioni nei confronti dei
portatori di vizio totale o parziale di mente.
Da questo momento in poi, la
pericolosità sociale diviene una caratteristica che deve accertarsi caso per
caso. La conseguenza più immediata è che, nei confronti dell'autore di reato,
anche gravissimo, che sia stato prosciolto per vizio totale e che non venga
riconosciuto pericoloso, non è previsto nessun provvedimento ed egli sfugge a
qualsiasi terapia o cura appropriata.
2.1 Le condizioni che
escludono l’imputabilità e la perizia psichiatrica
La legge ritiene che la
capacità di intendere e di volere non sia presente nei soggetti con età
inferiore agli anni quattordici (art.97 c.p.), a causa dell'immaturità
biologica e psicologica del fanciullo. La presunzione di non imputabilità del
minore degli anni quattordici è assoluta e non ammette prova contraria. Per i
soggetti d’età compresa fra i quattordici e i diciotto anni invece, la capacità
di intendere e di volere deve essere dimostrata caso per caso.
Per i soggetti che hanno
compiuto il diciottesimo anno d’età, la legge presume l'esistenza della piena
imputabilità, tanto che l'assenza di questa può derivare solo da cause
predeterminate dalla legge e deve essere in ogni caso dimostrata e motivata.
Le condizioni che escludono
l'imputabilità sono: la piena ubriachezza derivata da caso fortuito o da forza
maggiore (art. 91 c.p.); l'azione di sostanze stupefacenti derivante da caso
fortuito o da forza maggiore (art. 93 c.p.); l'infermità o la malattia psichica
(art. 88 c.p.); la cronica intossicazione da alcool[21]o
da sostanze stupefacenti[22]
(art. 95 c.p.); il sordomutismo (art. 96 c.p.). La legge esclude esplicitamente
che gli stati emotivi e passionali possano escludere o diminuire l'imputabilità
del soggetto (art. 90 c.p.).
Una volta stabilito,
attraverso prove e indagini, che un soggetto possa avere attinenza con un reato
penale e possa esserne quindi il colpevole, perché il magistrato lo dichiari
responsabile deve avere la certezza che quella persona, nel momento in cui ha
commesso il fatto, fosse capace di intendere e di volere. Se, invece, queste
due facoltà sono grandemente o totalmente scemate, nonostante la colpevolezza
del soggetto, la legge impedisce che venga dichiarato responsabile. Dunque, la
perizia psichiatrica diventa uno strumento fondamentale per il magistrato al
fine di decidere.
E’ il giudice che nomina il
perito d’ufficio fra tutti i medici specializzati in psichiatria[23].
Il perito avrà un
determinato periodo (di solito tre mesi prorogabili in caso di particolari
complessità), per rispondere ai quesiti del giudice.[24]
Spesso, gli accertamenti
peritali non avvengono nell'immediatezza del fatto, poiché non sono considerati
atti urgenti, essi rilevano perciò, situazioni psichiche che possono essere nel
frattempo mutate.
A questo proposito, è assai
problematica l'attendibilità di una perizia espletata in fasi avanzate del
dibattimento, come avviene in caso di rinnovazione di perizia già effettuata.
Per quanto riguarda il giudizio peritale conclusivo, bisogna distinguere tra:
giudizio sulle condizioni psichiche e giudizio sulla pericolosità sociale.
Riguardo al giudizio sulla pericolosità: si riscontra, in alcune perizie,
un’affermazione automatica della pericolosità sociale, tale valutazione si
esprime sovente in termini non problematici, non tiene conto se la pericolosità
sociale potrà manifestarsi in futuro nella commissione d’altri reati e ignora
le prospettive di vita che potrebbero essere offerte al soggetto, sia sul piano
sanitario sia su quello del suo reinserimento sociale, nonché le conseguenze
che potrebbero derivare per lui da un automatico ricovero in Ospedale
psichiatrico giudiziario.
Conclusasi la fase della
perizia, si conclude anche il compito del perito, poiché ad intervenire
direttamente è chiamato di nuovo il giudice: infatti, egli dovrà decidere,
sulla base dei risultati ottenuti dalla perizia, in piena autonomia[25].
Nella realtà però, accade che le perizie psichiatriche non sono analizzate dai giudici in modo dettagliato e approfondito; le cause di ciò sono da individuare, probabilmente, nel fatto che una lettura analitica comporterebbe una mole di lavoro enorme per il giudice, il quale non sarebbe nemmeno facilitato nella lettura dai termini medici.In tribunale la psichiatria è sovente strumentalizzata, e anzi accade che sia il magistrato a utilizzare lo psichiatra, non per uno specifico sapere, ma per una sorta di condivisione di un giudizio. Non è casuale, per esempio, che, in uno stesso processo, ci siano addirittura tre conclusioni psichiatriche, formulate rispettivamente dal medico chiamato dal Gip, da quello della difesa e da quello scelto dal pm.
2.2 La perizia psichiatrica
dopo la sentenza del giudice
Una volta che il soggetto
viene dichiarato incapace di intendere e di volere, viene mandato in ospedale
psichiatrico a questo punto: cosa ne è della perizia psichiatrica?
Nel nuovo codice di
procedura penale è prevista una verifica della pericolosità da effettuarsi dopo
il processo e prima dell'internamento in ospedale psichiatrico. A ciò provvede
il giudice di sorveglianza il quale, dopo, aver assunto il fascicolo del
dibattimento contenente la perizia, si ritira in camera di consiglio e accerta
la pericolosità "attuale". Questa nuova disciplina è stata dettata
dall'esigenza di tutelare i diritti del prosciolto il quale, nell'intervallo
fra la fine del processo e la concreta applicazione della misura di sicurezza,
potrebbe aver maturato una capacità psichica tale da inficiare del tutto la sua
pericolosità sociale. In camera di consiglio il magistrato è assistito da
un'équipe formata da medici, dall'assistente sociale e dall'educatore con la
quale procede alla riformulazione del progetto relativo al malato.
In questa fase il primo
documento che viene preso in considerazione è la perizia psichiatrica, ma il
più delle volte essa non è ancora stata inviata dal tribunale, perciò è
necessaria una richiesta esplicita per averla; inoltre spesso avviene che,
nonostante la richiesta venga inoltrata, la perizia non arrivi mai a
destinazione.
Questo dimostra come la
perizia psichiatrica svolga una funzione determinante durante lo svolgimento
del processo e quindi prima della sentenza, ma che non è ancora ad essa
riconosciuto l'altrettanto importante ruolo di indicatore ai fini del futuro
trattamento psichiatrico del prosciolto[26].
L'équipe dell'ospedale
psichiatrico è totalmente autonomo, sia nel determinare che nell'attuare il
trattamento medico, cui sottoporre l’ internato e ciò è preoccupante in quanto
non esiste nessun tipo di controllo esterno che possa garantire il rispetto
della persona soggetta alle cure e al contenimento fisico. Il gruppo di
osservazione e trattamento è composto da: un medico generico che si occupa
delle cure di medicina generale ed è il responsabile sanitario; un consulente
psichiatra, responsabile del trattamento, della diagnosi e della terapia
psichiatrica; un educatore, responsabile tecnico, che tiene i contatti con il
magistrato di sorveglianza e giudica sull’opportunità del trattamento interno;
un assistente sociale, portatore dei bisogni esterni degli internati e che si
occupa del reperimento di servizi territoriali locali disponibili; un’esperta psicologa
e un rappresentante della polizia penitenziaria.
Le guardie carcerarie,
infatti, hanno un ruolo fondamentale all'interno dell'ospedale psichiatrico in
quanto svolgono la funzione di controllo e di mantenimento dell'ordine simile a
quella richiesta nelle carceri vere e proprie; inoltre, grazie alla recente
riforma penitenziaria, la legge n. 395 del 1990, hanno aggiunto ai loro compiti
quello di verifica e di giudizio riguardo al comportamento dei detenuti nelle
celle.
In genere, il progetto di
trattamento che è stabilito dall'équipe tende ad un'applicazione, che si svolga
in tempi lunghi, tanto da avere la possibilità di coinvolgere oltre ai
familiari del malato, anche i servizi territoriali di residenza di questo.
Perciò si vuole consentire anche in sede di applicazione della misura di
sicurezza una possibile dimissione anticipata: a questo fine gli accertamenti
sulla pericolosità sono effettuati più volte, con una cadenza di tre-quattro
mesi.
Avviene raramente che il
giudizio di pericolosità, positivo in dibattimento sia cambiato in seguito
dall'accertamento effettuato in ospedale, prima di tutto perché resta comunque
un giudizio complesso e astratto, poi perché rappresenterebbe un'assunzione
enorme di responsabilità da parte del direttore e di tutto lo staff medico.
Altrettanto difficile è la possibilità che accada nel malato una remissione
totale dell'attività psicotica tale da fare ipotizzare un annullamento del
rischio di pericolosità; nel dubbio, si preferisce applicare al soggetto una
misura di sicurezza provvisoria, ma in questo caso non sarà possibile per il
team medico compilare un programma terapeutico completo e sarà elusa la
necessità di cura.
2.3 I reclusi in ospedale
psichiatrico giudiziario
La popolazione reclusa in
Ospedale psichiatrico giudiziario può essere divisa per categorie giuridiche.
Innanzi tutto vi sono i prosciolti folli: i prosciolti per vizio totale o
parziale di mente, giudicati non imputabili per infermità mentale al momento
del fatto, cui è applicata la misura di sicurezza del manicomio giudiziario
(art. 222 c.p.).
Una seconda categoria è
rappresentata dai condannati a pena sospesa: sono quelle persone già condannate
per un reato a pena detentiva, nelle quali sia insorta una malattia mentale
durante la detenzione in carcere. Infatti, se si ritiene che la malattia
mentale sia tale da impedire l'ulteriore esecuzione della pena, questa è
sospesa e il condannato inviato al manicomio giudiziario (art. 148 c.p.).
Il meccanismo di sospensione
della pena, in questo caso è attivato dal sospetto dell'insorgenza di una
malattia mentale ai danni del condannato, durante la sua detenzione. Il giudice
di sorveglianza ordina, dopo aver espletato le indagini e gli accertamenti che
ritiene opportuni, che l'esecuzione della pena detentiva sia interrotta,
rimanendo sospeso il periodo da trascorrere ancora in carcere.
La direzione dell'Ospedale
psichiatrico giudiziario invia periodicamente all'autorità giudiziaria una
relazione sulle condizioni psichiche del condannato, e fino a che questo non è
giudicato di nuovo "sano", la pena resta sospesa. Di solito sono
detenuti il cui l'equilibrio psichico è stato sconvolto dall'esperienza del
carcere, per cui non è più in grado di subire l'esecuzione della condanna alla
reclusione, cosa abbastanza inspiegabile, dal momento che è considerato in
grado di essere recluso in Ospedale psichiatrico giudiziario, a volte anche per
un periodo di tempo più lungo.
Questo meccanismo si può
spiegare solo dal punto di vista del formalismo giuridico: infatti, la reclusione
manicomiale non è considerata tecnicamente una pena e non richiede un adeguato
equilibrio psichico per essere attuata.
Nella realtà, si tratta
comunque di una privazione della libertà personale e della detenzione in un
istituto penitenziario, al di là di ciò che intende la legge. D'altra parte si
è affermato che il ricovero manicomiale è curativo e serve a guarire il
soggetto malato di mente, in modo che possa di nuovo continuare ad espiare la
condanna che gli è stata inflitta.
Il manicomio giudiziario era
stato progettato, in Italia, con lo scopo preciso di rinchiudervi i condannati
impazziti in carcere.
Ma nella formulazione del
codice Rocco, il vero motivo della sospensione della pena non era quello di
rendere il condannato impazzito di nuovo capace di intendere il valore
afflittivo e rieducativo della pena.
Infatti, ci si era accorti
che alcuni detenuti potevano godere in manicomio di un trattamento meno duro
rispetto a quello del carcere e quindi tentavano di farsi trasferire, simulando
la pazzia.
Per scoraggiare questa
tattica si era congegnato il meccanismo della sospensione della pena, che
dissuase i simulatori, ma che distrusse chi veramente soffriva di disturbi
psichici, dato che il ricovero in manicomio giudiziario era, una volta sospesa
la pena, cosa del tutto diversa dalla pena stessa ed il tempo trascorso lì non
era computabile ai fini della condanna. Dell’iniquità di questa situazione si
discusse a lungo, fino a che la sentenza della Corte costituzionale n. 146 del
19. 6. 1975, dichiarò illegittima quella parte dell'art. 148 c.p. in cui
dispone che il tempo trascorso in manicomio non è computato ai fini
dell'esecuzione della pena, per contrasto con l'art. 3 della Costituzione, per
il diverso trattamento che si instaura per il detenuto cui sopraggiunge una
infermità psichica, a seconda che egli sia stato o meno già condannato.
Una terza categoria
comprende i soggetti sottoposti a misura di sicurezza provvisoria: sono persone
detenute, in attesa di processo, per le quali il giudice ritiene probabile un
futuro riconoscimento di vizio totale o parziale di mente, ed alle quali decide
di applicare in via provvisoria la misura di sicurezza del manicomio
giudiziario[27].
La quarta categoria
comprende, invece, i detenuti in esecuzione di perizia: sono gli imputati di un
reato, per i quali il giudice abbia disposto perizia psichiatrica. Provengono
dal carcere, e vi ritornano a seconda che la perizia si concluda con una
relazione medica, negativa o convalidante l'esistenza del disturbo.
Questa categoria ha fornito
negli anni uno dei maggiori contributi quantitativi alla popolazione
manicomiale-giudiziaria.
Fino al 1975 non vi era
nessuna restrizione all'invio in osservazione psichiatrica dal carcere al
manicomio: era sufficiente che un medico del carcere (abitualmente non
psichiatra) redigesse un certificato con la generica diagnosi di
"agitazione psicomotoria" o "alienazione mentale", perché
il trasferimento si attuasse immediatamente (art. 106, comma I del Regolamento
penitenziario del 1931). Questo accadeva non solo quando il detenuto
manifestava reali segni di patologia psichica, ma anche in caso di tensioni o
insofferenze per situazioni intollerabili all'interno del carcere. Come si
vede, manca qualsiasi accenno ad un intervento finalizzato alla cura della
persona e al recupero del suo stato di salute.
L'invio in osservazione
manicomiale può anche essere usato come deterrente nei confronti di detenuti
"ribelli", non per ragioni di patologia, bensì per motivi sociali,
economici o addirittura politici.[28]Subito
dopo ogni rivolta, partivano dalle grandi carceri, decine di detenuti in
traduzione speciale, suddivisi tra i penitenziari delle isole ed i manicomi
giudiziari (non esistevano ancora le carceri di massima sicurezza).
Il pericolo più grosso si ha
riguardo al tentativo degli autori di gravi reati di farsi credere
"pazzi", simulando comportamenti abnormi. Questa pratica ha riempito
gli ospedali giudiziari italiani: risulta da alcune indagini effettuate dal
Tribunale di Sorveglianza di Firenze e di Mantova, che solo una percentuale
inferiore al 20 % degli inviati in osservazione presenta un effettivo
significato psichiatrico, tanto che la percentuale di persone riconosciute
"sane di mente", oscilla tra il 73 e l'80 % dei casi.
A questo inconveniente ha
cercato di porre rimedio la legge di riforma penitenziaria del 1975, disponendo
che le osservazioni, di norma, debbono effettuarsi nello stabilimento dove si
trova il detenuto, riservando a casi eccezionali l'osservazione in manicomio
giudiziario. Inoltre, l'art. 11, comma I della stessa legge, prescrive che ogni
istituto penitenziario deve disporre di un medico psichiatra.
La quinta categoria
comprende i minorati psichici in sentenza: sono soggetti già condannati
ad una pena diminuita, perché riconosciute nella sentenza come seminfermi di
mente.
Sono assegnati in via
amministrativa ad un manicomio giudiziario per espiare la loro pena detentiva
invece che nel carcere ordinario.
In realtà, l'art. 98, comma
VII del regolamento di esecuzione della legge penitenziaria del 1975, parla di
assegnazione a istituti speciali per soggetti affetti da infermità o
minorazioni psichiche, ma questi istituti esistono solo sulla carta e come al
solito si rimedia all'ennesima carenza con l'internamento nell’Ospedale psichiatrico
giudiziario.
I minorati psichici
amministrativi: sono persone già condannate perché riconosciute sane di
mente, i quali durante l'esecuzione della pena, presentano turbe psichiche
d’entità minore rispetto a quelle che potrebbero provocare la sospensione della
pena.
Da questa panoramica si può
notare quanto sia complessa una corretta indagine sulle posizioni giuridiche
considerate, soprattutto se si considera che un soggetto può, di fatto,
trovarsi recluso in un Ospedale psichiatrico giudiziario in virtù di più e
diverse posizioni giuridiche contemporanee.
Quindi, l'Ospedale
psichiatrico giudiziario che nasce come istituzione segregante dei condannati
impazziti, è divenuto oggi il ricettacolo di situazioni giuridiche e cliniche
differenti e molteplici.
Quasi come se fosse la
"pattumiera" di tutte le altre "istituzioni totali"
presenti nel territorio italiano preordinate al controllo sociale, ma in
particolare del carcere, tanto da essere essenziale al mantenimento della
stabilità di queste ultime e, in ultima analisi, dell'intero assetto economico,
sociale e politico del Paese.
CAPITOLO TERZO:
LA RIFORMA PSICHIATRICA
Il 16 maggio 1978 entra in
vigore la legge n. 180, "Accertamenti e trattamenti sanitari volontari ed
obbligatori" ponendo fine al vecchio sistema manicomiale[29],
basato essenzialmente sulla legge n. 36 del 14 febbraio 1904, intitolata
"Disposizioni sui manicomi e sugli alienati. Custodia e cura degli
alienati". Quest’ultima legge, infatti, salvo alcune modifiche introdotte
nel 1968, regolava ancora l'assistenza psichiatrica nel nostro paese.
La normativa del 1904 si
ispirava, come del resto le legislazioni psichiatriche elaborate in precedenza
negli altri paesi europei, alla legge francese del 1838. Quest'ultima,
espressione delle concezioni dello Stato liberale, delineava un sistema a
carattere sostanzialmente asilare[30],
basato sull'obbligatorietà del trattamento e sulla nozione di pericolosità
sociale dell'infermo di mente. In verità la legge n. 36 già alla sua nascita
appariva vecchia[31]: era stata
elaborata in un momento in cui, negli altri stati europei, si levavano già le
prime voci contro il sistema manicomiale e si tentava il superamento del
"modello" francese.
Essa non si poneva alcun
fine terapeutico o riabilitativo, avendo piuttosto un diverso e duplice scopo.
Da una parte mantenere e rafforzare una visione custodialistica e segregante
della malattia mentale, vista come una realtà da occultare in quanto problema
al quale la nostra organizzazione sociale non vuole o non è in grado di dare
risposte diverse.
Dall'altra di fornire
strumenti di difesa e controllo sociale verso la stessa, tali da sollevare la
società dal peso della presenza di soggetti che, pur non essendosi resi colpevoli
di alcunché, suscitano paura e creano disturbo all'ordine costituito.
Il concetto base e
discriminante sul quale si fondava la legge era quello della pericolosità del
malato mentale, o, “dell'alienato”, previsto dall’art.1, in base al quale le
persone affette, per qualsiasi causa da alienazione mentale quando siano
pericolose[32]a sé o agli
altri devono essere custodite e curate nei manicomi[33].
Il terzo criterio, che
faceva scattare il ricovero d'autorità in manicomio, era quello del
"pubblico scandalo", un parametro quindi ancora più soggetto ai
condizionamenti culturali e storici, ma soprattutto teoricamente più debole.
Proseguiva infatti l'articolo 1 "...o riescano di pubblico scandalo e non
siano e non possano essere convenientemente custodite e curate fuorché nei
manicomi..."
Dunque la legge si
disinteressava totalmente degli alienati non pericolosi, i quali non avrebbero
subito alcuna limitazione della propria libertà personale, ma ai quali non
veniva riconosciuto neanche alcun diritto terapeutico, nonostante la dichiarata
finalità terapeutica della medicina.
Dalla sua nascita, agli
inizi del XIX secolo, fin quasi ad oggi la psichiatria si è occupata del malato
soltanto dal momento in cui il suo comportamento diveniva pericoloso. Solo a
partire dalla legge n. 431 del 18 marzo 1968, intitolata "Provvidenze per
l'assistenza psichiatrica", si riconosce l'opportunità, per chiunque
manifesti un disturbo psichico, e, come accade per qualsiasi altro tipo di
infermità, di poter chiedere aiuto.
Ma come disciplinava
l'internamento in manicomio, la legge n. 36?
L'ammissione veniva
stabilita in via ordinaria dal pretore sulla base di un certificato medico e su
richiesta dei parenti, dei tutori, "e di chiunque altro nell'interesse
degli infermi e della società"; spesso si ricorreva anche alla procedura
del ricovero d'urgenza, in base ad un certificato medico".
L'estrema facilità con la
quale poteva esser disposto tale ricovero d'urgenza e la totale assenza di
garanzie per il paziente sia prima che durante la procedura di ricovero,
spiegano l'abuso che è stato fatto di tale strumento.
L'aspetto più inquietante
della vecchia legislazione era[34],
però, l’assenza di limiti temporali alla degenza. Dopo un periodo massimo di
osservazione di circa un mese, infatti, scattava, su indicazione del direttore,
il procedimento giudiziario che internava definitivamente il paziente ed in
conseguenza del quale questi perdeva la sua capacità d'agire in senso
giuridico, il ricovero diveniva poi definitivo con un decreto emesso dal tribunale.
Un altro elemento che
caratterizzava l'organizzazione interna del manicomio era il potere illimitato
del direttore dell'istituto, previsto sia dalla legge n. 36 che dal regolamento
del 1909.
Queste è il frutto, in primo
luogo, della situazione autoritaria del tempo che accumunava il problema dei
malati di mente a quello di altri individui socialmente indesiderati come i
vagabondi, gli invalidi, le prostitute, o socialmente pericolosi, come i
criminali, che avevano in comune unicamente il fatto di turbare l'ordine e la
tranquillità sociale. A tutto ciò si aggiunge la nozione di malattia psichica
elaborata dalla scienza medica dell'ultimo Ottocento, ossia l'idea della follia
come forma di inspiegabile alienazione un'idea che vedeva come inscindibilmente
legati tra loro disturbo psichico e pericolosità sociale. La conseguenza di
tutto ciò era rappresentata dal fatto che una parte consistente delle patologie
era considerata inarrestabile e inguaribile, e, non essendo conosciuti
interventi terapeutici e farmacologici efficaci, il trattamento si riduceva
essenzialmente all'internamento e più tardi alle terapie shock.
Agli inizi degli anni
sessanta in contrapposizione a questa impostazione, nascono e si sviluppano nel
nostro Paese esperienze volte a modificare le realtà manicomiali. Nascono le
prime case famiglia, le comunità alloggio per gli ex degenti e i primi centri
di igiene mentale; tutto ciò ben prima dell’esperienza di Basaglia e del suo
movimento, che rientravano in una più ampia corrente di pensiero.
L'intera Europa è
attraversata nel corso di questo decennio da esperienze di psichiatria
alternativa di grande valore scientifico.
In questo fermento culturale
si formarono in Italia alcuni isolati gruppi di psichiatri guidati da Franco
Basaglia, che insoddisfatti della cultura e della pratica della psichiatria
ufficiale, alla fine degli anni sessanta puntarono il dito sull'istituzione
manicomiale[35], ritenendo
che a causa delle condizioni disumane che la caratterizzano, non fa altro che
aggravare la sofferenza mentale. Non solo, il fatto che in manicomio siano
internate prevalentemente persone appartenenti ai ceti meno abbienti, conferma
la funzione di controllo sociale svolta dallo stesso, il suo essere strumento
di contenimento non solo della pazzia ma anche della povertà. Riguardo alle
origini del disturbo mentale inoltre, questi psichiatri rifiutavano nettamente
una visione organicistica, sostenendo l'importanza dell'influenza sociale sulla
genesi e sul decorso della malattia.
Sulla base di queste
convinzioni, essi iniziarono un'opera di rinnovamento all'interno delle realtà
manicomiali.
Essa doveva tuttavia
configurarsi soltanto come una fase di passaggio verso la totale distruzione
istituzionale, ovvero il graduale smantellamento, realizzato a più livelli, del
modo di essere e di pensare della società intera intorno alla malattia mentale.
Inizia così un processo di
rinnovamento e di sperimentazione in alcuni ospedali psichiatrici.
Gli esempi più importanti in
tal senso furono Perugia, Gorizia, (il cui direttore dal '62 era proprio
Basaglia) Arezzo, Parma e Trieste.
Il primo passo fu quello di
non intendere più il manicomio come luogo di contenimento stabile, ma piuttosto
di utilizzarlo il più possibile (e in attesa della creazione di strutture
territoriali che già venivano richieste) in senso terapeutico, sviluppando un
clima di solidarietà e chiarezza fra medici, infermieri e pazienti, restituendo
ad essi i diritti elementari, e creando condizioni di vita finalmente umane.
Alla fine di questo decennio
si segnalano due fatti significativi.
In primo luogo l'emanazione
della legge n. 431 del 1968, ricordiamo, in particolare, la possibilità di
ricoveri volontari e la trasformazione di ricoveri coatti in volontari evitando
così il procedimento di internamento definitivo. Tuttavia il regime di
ammissione volontaria viene concepito dal legislatore del 1968 non come misura
sostitutiva, bensì aggiuntiva rispetto a quella che rimane la principale forma
di ammissione in istituto, ovvero l'internamento obbligatorio.
La stessa legge inoltre
introduce i C.I.M. (Centri di Igiene Mentale), servizi per terapie
ambulatoriali psichiatriche e psicoterapeutiche.
Il carattere innovativo di
una simile disciplina, nella quale il momento custodialistico assume un valore
accessorio o comunque strumentale, ed alla quale si deve la prima collocazione
della malattia mentale sul piano generale della tutela della salute, ha indotto
taluno a definire la legge 431 una sorta di "miniriforma"
psichiatrica.
In effetti ad essa dobbiamo
la creazione delle condizioni per l'attuazione della futura riforma
dell'assistenza psichiatrica, nella quale finalmente il trattamento in
condizioni di degenza ospedaliera dell'infermo di mente costituisce una forma
di intervento residuale e comunque transitoria.
In secondo luogo, attraverso
il D.P.R. n. 128 del 1969, intitolato "Ordinamento interno dei servizi
ospedalieri", ha inizio il rinnovamento delle strutture ospedaliere. Da
questo momento, proprio per l'importanza sempre più terapeutica e sempre meno
custodialistica che gli ospedali psichiatrici stavano faticosamente acquisendo,
si assiste ad una loro ristrutturazione, analoga a quella degli ospedali
civili, in divisioni, sezioni e servizi speciali.
3.1 L’entrata in vigore della legge
Negli anni settanta il
movimento di psichiatria antistituzionale entra in una nuova fase, che potremmo
definire di impegno politico e non solo pratico-teorico.
In gran parte dei paesi
industrializzati, ma soprattutto negli Stati Uniti a partire dagli anni
cinquanta, si criticavano i grandi ospedali psichiatrici statali, e si dava
sempre più valore all'aspetto psicologico e sociale del disturbo mentale.
Ma in nessun luogo come in
Italia queste discussioni hanno portato ad un così radicale e rivoluzionario
cambiamento con il passato come quella rappresentata dalla legge n. 180[36],
che detta una normativa antiautoritaria e ispirata al principio della cura in
libertà del malato di mente.
Infatti, alla fine degli
anni settanta le pressioni per la chiusura dei manicomi sono sempre più
insistenti. Contemporaneamente prende campo l'idea che allo smantellamento
degli ospedali psichiatrici debba seguire un'assistenza psichiatrica
territoriale estremamente diversificata secondo i bisogni dei pazienti.
Franco Basaglia muove dalla
consapevolezza che l’ospedale psichiatrico non aveva alcuna valenza
terapeutica, ma era di per sé produttore di malattia, l’unica possibilità di
terapia nell’ospedale psichiatrico era, in definitiva, la sua stessa
distruzione[37].
Per avviare il cambiamento,
volle farsi carico egli stesso del percorso di formazione. Il lavoro che aveva
sviluppato con originalità nell’Ospedale Psichiatrico di Gorizia, durante il
decennio precedente fu rapidamente superato attraverso l’apertura, la
trasformazione e la chiusura dell’Ospedale Psichiatrico di Trieste, e il
parallelo avvio di una rete di servizi territoriali alternativi, in grado di
sostituire lo stesso ospedale. Il profondo cambiamento avviato da Basaglia
servì anche a orientare le ricerche sul malato, anziché sulla malattia, per
costruire percorsi terapeutici riabilitativi e d’emancipazione che favorissero
la partecipazione attiva degli utenti.
In sede legislativa e
amministrativa si cominciò quindi a preparare il Servizio Sanitario Nazionale,
di cui l'assistenza psichiatrica doveva essere parte integrante.
La maggior chiarezza
raggiunta in campo medico e giuridico sulle esigenze e sui diritti personali
del malato psichico porta all’approvazione della riforma dell’assistenza
psichiatrica che si concretizza nella legge 13 maggio 1978 n. 180.
Le sue disposizioni
fondamentali possono essere così riassunte:
1) I trattamenti sanitari
obbligatori (TSO) devono avvenire nel rispetto della dignità e dei diritti
della persona. Sono disposti perciò con provvedimento del sindaco su proposta
motivata del medico e devono venire convalidati entro 48 ore dal giudice
tutelare.
2) Gli
interventi di prevenzione, cura e riabilitazione sono attuati di norma dai
servizi e presidi territoriale extra-ospedalieri.
3) E’ fatto
divieto di costruire nuovi ospedali psichiatrici e, dal 1° gennaio 1981, non
potrà essere effettuato alcun ricovero in quelli esistenti.
4) La creazione
e l’organizzazione dei servizi territoriali alternativi all’ospedale
psichiatrico sono affidate alla Regione, cui viene demandato il compito di
istituire speciali luoghi di cura per malati mentali all’interno degli ospedali
generali e la realizzazione di una serie di strutture intermedie nel
territorio, su base dipartimentale, sostitutive del manicomio[38].
Gli articoli di questa legge
sono stati subito inglobati nella più ampia normativa sulla riforma sanitaria
(legge 23 dicembre 1978, n. 833).
La legge n. 180 è decaduta,
quindi, pochi mesi dopo la sua entrata in vigore; quando si parla della riforma
dell’assistenza psichiatrica, si continua tuttavia a parlare di "legge
180" o di "legge Basaglia".
La nuova normativa sancisce
la fine del manicomio, realizzando al contempo un'importante inversione di
rotta nell'area dei trattamenti riservati ai soggetti affetti da disturbi
mentali. Al manicomio ed ai centri di igiene mentali si sostituiscono i servizi
psichiatrici territoriali ed, in particolare, il Dipartimento di salute
mentale, una struttura di coordinamento volta a fornire non soltanto una
risposta terapeutica, ma anche a garantire l'adozione di misure di tipo
preventivo: l'intervento socio-sanitario non riguarda solo il momento della
malattia, ma anche la fase curativa, riabilitativa e soprattutto preventiva.
La legge 180, mantiene
tuttavia in vita la possibilità di effettuare ricoveri coatti per malati di
mente.
Essa introduce infatti, il
Trattamento sanitario obbligatorio, un provvedimento di tipo coercitivo,
realizzabile anche in condizioni di degenza ospedaliera.
La legge 180/1978 (e
successivamente anche la 833/1978) si limitava a trasferire alle Regioni, in
attuazione dell'art. 118 Cost. e per le materie elencate nell'art. 117 Cost.,
le funzioni amministrative concernenti l'assistenza psichiatrica[39],
precedentemente e fin dalle origini del manicomio esercitate dalle Province.
Sempre le Regioni
individuano gli ospedali generali nei quali devono essere istituiti specifici
servizi psichiatrici di diagnosi e cura (SPDC), servizi in cui si effettuano i
Trattamenti sanitari obbligatori, che necessitano di degenza ospedaliera.
Sennonché, prevedendo la
stessa legge 180, all'art.8, 5º comma, che "...negli attuali ospedali
psichiatrici possono essere ricoverati, sempre che ne facciano richiesta,
esclusivamente coloro che vi sono stati ricoverati anteriormente alla data di
entrata in vigore della presente legge e che necessitano di trattamento
psichiatrico in condizioni di degenza ospedaliera", si veniva a creare un
grave vuoto assistenziale per quei soggetti che non erano mai stati ricoverati
in ospedale psichiatrico al momento dell'entrata in vigore della legge e che
necessitavano di Trattamento sanitario obbligatorio ospedaliero, almeno fino a
quando le Regioni non avessero provveduto alla istituzione dei servizi
psichiatrici di diagnosi e cura.
Ora, alcune Regioni,
procedettero tempestivamente alla creazione dei servizi psichiatrici
ospedalieri. Altre, in deroga alla legge dello Stato, emisero disposizioni
transitorie che permettevano questi ricoveri durante i sessanta giorni
necessari all'istituzione del servizio psichiatrico di diagnosi e cura
ospedaliero. Ma quelle che, in ritardo nella istituzione dei servizi
ospedalieri, non seguirono tale strada (ad esempio la Regione Lazio) andarono
incontro a situazioni di reale emergenza negli ospedali generali, rifiutando
l'ospedale psichiatrico ogni ricovero d'urgenza. Più in generale possiamo
affermare che le Regioni hanno assunto comportamenti difformi nell'applicazione
della nuova normativa (in gran parte demandata alla loro responsabilità),
comportamenti legati in genere alle posizioni politiche delle diverse
maggioranze di Governo regionali, come dimostra la quasi integrale applicazione
della legge in Regioni quali la Toscana e l'Emilia Romagna.
Inoltre la legge entrava in
vigore in una situazione di totale vuoto per quel che concerne le strutture
territoriali psichiatriche, e di totale impreparazione del personale
infermieristico e medico di fronte a un tipo di assistenza completamente
diverso rispetto alla precedente, diversificata e per buona parte non medica ed
infermieristica.
Di fatto, per periodi di
tempo più o meno lunghi, a seconda dei luoghi, si crearono situazioni caotiche
e di tensione, e la conseguenza più immediata fu quella di buttare sulle spalle
del personale impreparato dei reparti internistici degli ospedali generali il peso
della patologia mentale.
Per tutta la prima metà
degli anni ottanta, si è registrata da più parti un'azione volta a frenare
l'applicazione della legge in attesa di una sua modificazione o addirittura
totale sostituzione con norme di segno contrario.
Il disagio che tale
"sabotaggio" ha provocato, la mancata risposta alla domanda di cura
dei pazienti, ha determinato il più delle volte nei familiari dei malati
rabbia, reazioni di rigetto ed incessanti richieste di riapertura dei manicomi
al punto da poter considerare essi addirittura i più accesi oppositori della
legge, almeno in un primo momento[40].
Alcuni psichiatri, medici, proprietari delle strutture private convenzionate,
nonché esponenti politici del centro-destra, facendosi interpreti del disagio
dei familiari - impreparati il più delle volte ad accogliere e reinserire nel
nucleo familiare un componente dato ormai per "perso", e di fatto
spesso disadattato in conseguenza del lungo ricovero - hanno tentato
l'affossamento della legge 180 ancor prima della sua applicazione. Vari sono
stati i disegni di legge presentati in parlamento (mai approvati), la maggior
parte dei quali tendenti a snaturare radicalmente la legge. D'altra parte i
Governi succedutisi nel corso delle varie legislature, non si sono mai attivati
concretamente per la sua attuazione, non sono intervenuti per molto tempo sulle
Regioni inadempienti pur avendone il potere, e spesso hanno operato nel senso
di sostenere le convenzioni con le strutture psichiatriche private
neomanicomiali.
Essenzialmente a queste
resistenze, al disimpegno sociale diffuso, nonché ai pregiudizi culturali ed
alla preoccupazione che, ancora oggi, la chiusura di luoghi cosi
"rassicuranti" per la società come i manicomi suscita tra la gente,
si devono dunque i ritardi ed i problemi di natura pratica ed applicativa che
innegabilmente si registrarono nell'immediata vigenza della legge 180.
A partire dagli anni
novanta, comincia però a registrarsi un'inversione di rotta. Molti familiari,
essendosi convinti che l'unico modo per garantire ai propri congiunti
un'assistenza più umana e valida, sia quello di far funzionare la riforma, si
sono trasformati in decisi sostenitori della stessa. Gli psichiatri che
all'inizio appoggiavano i tentativi di revisione della legge 180, hanno mutato
posizione.
Anche i politici e gli
amministratori contrari alla legge 180 hanno dovuto cedere il passo ad una
posizione più morbida, o comunque abbandonare l'idea di una riapertura dei
manicomi.
3.2 Le strutture necessarie per il funzionamento della
legge
L'intervento terapeutico in
condizioni di degenza ospedaliera è soltanto una parte, dell'assistenza
psichiatrica delineata nella nuova legislazione.
Lo scopo principale, è
proprio quello di creare una rete di strutture sparse sul territorio capaci di
dare risposte assistenziali ai molteplici bisogni del malato di mente, in
definitiva servizi in grado di prevenire proprio il ricovero ospedaliero. Anche
queste tuttavia non sono state individuate dal legislatore del 1978; è ricaduta
quindi ancora una volta sulle Regioni l'incombenza di delinearle e
organizzarle, e ciò ha creato, tralasciando i lunghi periodi di inerzia,
situazioni disomogenee.
A questo problema dovrebbe
aver posto fine il "Progetto Obiettivo per la tutela della Saluta Mentale
1994-96" emanato, dopo esser stato approvato dal Parlamento, con Decreto
del Presidente della Repubblica il 7 aprile del 1994. Tale Progetto, un
provvedimento sostanzialmente di indirizzo, segna, per varie ragioni, una tappa
fondamentale nelle vicende relative all'assistenza psichiatrica del nostro
paese.
In primo luogo, è il primo
ed unico atto normativo che, in ben sedici anni, conferma e sviluppa i
contenuti della legge 180, chiudendo così un periodo storico di battaglie e di
contrapposizione intorno ad essa.
Secondariamente conferma,
con un accenno critico, alcuni dati di fatto: ovvero le carenze, la mancata
attribuzione di risorse, l'assenza di una costante e corretta azione di
promozione, indirizzo e coordinamento relativamente al sistema di assistenza
psichiatrico delineato dalla riforma. Infine individua, per la prima volta nei
dettagli, la rete dei servizi psichiatrici sul territorio, stabilendone
l'organizzazione dipartimentale.
Tutte le attività,
territoriali e ospedaliere, nelle quali si sostanzia l'intervento psichiatrico
pubblico, dovranno secondo il Progetto fare capo al Dipartimento di salute
mentale (D.S.M.).
Per Dipartimento di salute
mentale si intende l'insieme delle strutture psichiatriche di una USL. Le
figure professionali del dipartimento sono: psichiatri; psicologi; assistenti
sociali; infermieri; educatori; ausiliari e personale amministrativo.
Lo scopo di questa struttura
è quello di garantire l'unitarietà della programmazione e della gestione di
tutti i servizi.
I suoi compiti fondamentali sono:
la programmazione, sia da un punto di vista terapeutico che di
risocializzazione; la prevenzione; l'integrazione con l'ospedale (nel quale si
situa il servizio psichiatrico di diagnosi e cura, considerato parte integrante
del dipartimento di salute mentale, anche se collocato in un'azienda diversa);
il collegamento con altri servizi, con l'associazione dei familiari, con le
cooperative sociali ed il volontariato; la limitazione della cronicità e dei
ricoveri.
Le attività di prevenzione,
cura, riabilitazione e risocializzazione sono svolte attraverso una pluralità
di strutture, ovvero il Centro di salute mentale (C.S.M.), il Servizio
psichiatrico di diagnosi e cura e le strutture semiresidenziali e residenziali.
Il Centro di salute mentale
è una struttura territoriale che, oltre ad essere sede organizzativa
dell'équipe, svolge attività psichiatrica ambulatoriale e domiciliare. Inoltre
funge da filtro ai ricoveri, dovendo portare avanti in questo senso anche
un'attività di prevenzione. Il Progetto Obiettivo del 1994 presenta tuttavia
anche dei limiti. Essendo infatti un provvedimento di indirizzo, avrebbe
dovuto, per risultare realmente utile, essere emanato poco dopo l'entrata in
vigore della legge 180, e non quando ogni Regione aveva già legiferato sull'argomento.
D'altra parte, come abbiamo già constatato, è anche vero che non tutte le
Regioni hanno tradotto in realtà le proprie leggi. Ciò nonostante e, ancora una
volta, nel progetto non sono inseriti vincoli e sanzioni volte a far pressione
sulla Regione affinché predisponga un progetto obiettivo a livello regionale.
Infine, oltre ad esser
giunto in ritardo, non è stato accompagnato da quei finanziamenti necessari a
garantirne l'incisività.
Comunque la crescita
organizzativa e quantitativa dei servizi psichiatrici avvenuta negli ultimi
tempi, è stata un filtro alla proposte di trattamento sanitario obbligatorio,
consentendo, anche in situazioni di urgenza, interventi extraospedalieri.
3.3 Critiche e importanza della 180
La legge 13 maggio 1978, n.
180 "Accertamenti e trattamenti sanitari volontari obbligatori" ha
completamente modificato la situazione precedente, riconoscendo il diritto alla
libertà del cittadino nei confronti del trattamento sanitario quale deriva
dall'art. 31 della Carta Costituzionale e, sostituendo il concetto di
"pericolosità" con quello di "tutela della salute pubblica"
ai fini della legittimazione dell'obbligatorietà del trattamento stesso.
La legge predetta tende
inoltre alla progressiva eliminazione degli Ospedali Psichiatrici, indicati
dalle nuove concezioni quali "luoghi di esclusione e sofferenza".
Restano invece funzionanti, in quanto non vi si fa cenno nella legge e restano
quindi soggetti alla normativa finora in vigore, i Manicomi Giudiziari,
regolati dal nuovo regolamento di esecuzione emanato con D. P. R 29 aprile
1976, n. 431. Si tratta sì di un'istituzione diversa e a sé stante rispetto
all'ospedale psichiatrico, ma pur sempre collegata a quello che era l'obiettivo
principale del legislatore del 1978, ovvero superare una concezione segregante
ed esclusivamente punitiva della malattia mentale.
In tal modo è venuta a
crearsi una disparità di trattamento tra il soggetto resosi autore di reato e
giudicato totalmente incapace di intendere e di volere per infermità di mente
ed il soggetto, altrettanto infermo di mente, che non ha commesso reati.
Quello, infatti, se ritenuto
socialmente pericoloso dovrà subire un trattamento sanitario obbligatorio e
durevole, che è del tutto in contrasto con lo spirito della riforma sanitaria in
atto e che viceversa non si applica mai ai comuni infermi di mente. Ma non
solo.
Una delle conseguenze più
temute della deistituzionalizzazione è rappresentata dal rischio che essi
assumano, in aggiunta a quelle di custodia e contenimento che già hanno, le
funzioni di controllo e di difesa prima attribuita agli ospedali psichiatrici,
viste e considerate anche le difficoltà incontrate nell'attuazione della
riforma psichiatrica ed i conseguenti vuoti assistenziali che inizialmente e,
soprattutto nel centro-sud, si sono creati e che possono aver trasformato nel
frattempo alcuni malati in condizioni di abbandono in autori di reato.
L'aumento dei suicidi e del
ricorso agli Ospedali Psichiatrici Giudiziari (OPG) registrato a partire dalla
seconda metà degli anni settanta, è stato spesso collegato allo smantellamento
del sistema manicomiale, sebbene non sia mai stata dimostrata alcuna
correlazione tra questi due fatti e la disponibilità delle strutture
psichiatriche.
Tuttavia, il fatto che la
180 non abbia in alcun modo considerato il problema degli ospedali psichiatrici
giudiziari ha sicuramente prodotto in tale ambito, nuove e preoccupanti
tendenze e situazioni.
In primo luogo, con la
chiusura degli ospedali psichiatrici, si evidenzia maggiormente la contraddizione
di una struttura come l'ospedale psichiatrico giudiziario, da sempre chiamata a
coniugare restrizione e cura, terapia e controllo, ed oggi, ormai
impossibilitata a divenire una realtà terapeutica, sempre più attratta nella
situazione carceraria. Rinunciando a qualsiasi fine terapeutico, anche a causa
del sovrapporsi al suo interno di figure professionali diverse non centrate
sull'aspetto psichiatrico del trattamento, nonché per la scarsità di
collegamenti con i servizi psichiatrici esterni, e per la mancanza di un chiaro
mandato istituzionale (solo custodia o anche trattamento sanitario?),
l'ospedale psichiatrico giudiziario risulta ormai condannato ad assumere la
veste di una struttura penitenziaria. Tale situazione, con tutte le
regolamentazioni e limitazioni in termini di spazi e di strutture che ad essa
conseguono, rende arduo qualsiasi intervento di tipo sanitario, e sempre più
anacronistica un'istituzione del genere.
Inoltre, fino al maggio del
1978, la maggior parte delle revoche delle misure di sicurezza avveniva con il
contestuale ricovero in ospedale psichiatrico. Attraverso una serie di
convenzioni con i manicomi civili, si realizzava un passaggio di competenza
nella gestione degli ammalati.
Con la chiusura degli
ospedali psichiatrici, questa "dimissione anticipata" dall'ospedale
psichiatrico giudiziario non è stata più possibile. Anzi, sempre più, anche a
causa delle difficoltà di attuazione a cui va incontro ancora oggi la riforma
psichiatrica, il manicomio criminale finisce per funzionare da contenitore di
problemi eterogenei e sovente incompatibili con un mandato curativo, rimanendo
l'espressione più crudele ed agghiacciante del mancato superamento del binomio
pericolosità sociale-malattia mentale.
La legge 180, ha comunque
determinato una svolta importante: l’apertura dei manicomi, la possibilità per
gli internati di esprimere idee, di accedere a lavori retribuiti, di costruire
una casa propria, la possibilità di una vita personale e intima.
Ecco dunque il merito di
Franco Basaglia: aver sviluppato una nuova concezione della comunità
terapeutica come «luogo nel quale sia possibile avvicinarsi reciprocamente in
un rapporto umano, che diventa terapeutico in quanto immediato e spontaneo...».
Il Centro di Salute Mentale,
concretamente alternativo alla clinica, è riuscito a produrre percorsi
abilitativi e di emancipazione, a farsi carico di quella necessaria attività di
sostegno verso il “fuori” del mondo.
Sono attuabili oggi nuove
prospettive terapeutico-riabilitative fondate sulle molteplici forme di
integrazione sociali.
È questo, il senso più alto
della legge.
Tuttavia, sebbene il numero
degli psichiatri addetti ai servizi pubblici sia decuplicato nell’arco di un
ventennio (da 700 a 7000), la psichiatria stessa è cambiata poco.
Ciononostante, i mutamenti continuano: il Ministero della Sanità ha decretato
la definitiva chiusura dei manicomi[41],
imponendo sanzioni pecuniarie alle regioni inadempienti.
Si chiude così un ciclo, in
Italia, ma, speriamo, anche nel resto del mondo: finisce il secolo dei
manicomi. Un secolo certamente non onorevole per la psichiatria e gli
psichiatri. Al suo posto, si iniziano veri processi di prevenzione, capaci di
contrastare la disabilità e la discriminazione. Questa, forse, è l’eredità più
difficile da amministrare che il lavoro di Franco Basaglia ci ha lasciato.
La legge finanziaria del
1994 e le successive[42],
hanno poi imposto e regolato lo smantellamento definitivo degli ospedali
psichiatrici e la dimissione dei pazienti che vi erano rimasti. Esse si
ricollegavano alla legge 180, assumendo quindi l'esistenza di una rete
territoriale di servizi che potesse far fronte ai problemi e alle esigenze di
assistenza dei pazienti dimessi dai manicomi.
3.4 La proposta di legge di
Grossi e Corleoni
Nel 1983 viene presentato in
Senato il disegno di legge n. 177, detto progetto Grossi, che può considerarsi
come il primo serio tentativo di supplire alla legge n. 180, nella parte in cui
non considera gli internati in Ospedale psichiatrico giudiziario.
Lo scopo principale dei i firmatari
del progetto è quello di abolire la legislazione penale speciale per i
sofferenti psichici, presente nei codici e nella legislazione penitenziaria
italiana. I firmatari lamentano inoltre, la mancata applicazione della riforma
penitenziaria del 1975 e della legge 689 del 1981 nei confronti dei malati di
mente-rei[43].
Questi, infatti, se
commettono reati medi o medio-piccoli, sono sottoposti alla misura di sicurezza
dell'Ospedale psichiatrico giudiziario, che è una sanzione detentiva; i
benefici che, al fine del reinserimento sociale, sono concessi in sede di
esecuzione al sano di mente autore di reato, sono invece negati a chi è stato
prosciolto dal reato per infermità mentale.
La soluzione proposta dal
disegno di legge in esame, è quella provocatoria di abolire la nozione stessa
di incapacità di intendere e di volere nei confronti del malato di mente,
dichiarandolo quindi imputabile, ritenendo che la presunta imputabilità del
soggetto che soffre di disturbi psichici sia dovuta al fatto che egli possa disporre
di una certa porzione di libertà, sufficiente a dominare il proprio
comportamento. Così, se il malto di mente non è più considerato un
"oggetto", bensì un "soggetto", potrà a maggior ragione
essere considerato autore di reato[44].
La conclusione a cui arriva
il progetto è di dichiarare imputabile il soggetto infermo di mente-autore di
reato, equiparandolo ai soggetti che commettono reati in stato di ubriachezza,
di stupefazione, o in stato emotivo e passionale[45],
abolire quindi l'internamento in Ospedale psichiatrico giudiziario,
sostituendolo con il carcere.
Analizzando gli articoli del
progetto si riscontra che i primi dieci prevedono l'abrogazione della
legislazione penale speciale per malati di mente.
In particolare gli artt. 18
e 19 prevedono il servizio sanitario all'interno del carcere, disponendo che
quest'ultimo sia attrezzato con le strutture sanitarie idonee alla cura dei
disturbi psichici dei detenuti e che per la pratica delle cure e delle terapie
riabilitative medico-psichiatriche, gli organi penitenziari richiedano la
collaborazione dei servizi psichiatrici territoriali. Per l'attuazione di
queste norme, sono istituite apposite sezioni carcerarie per i detenuti con
disturbi psichici gravi, che non risulta possibile curare in carcere.
Viene sancito il diritto del
detenuto alle cure mediche e riabilitative, a cui corrisponde l'obbligo, per
gli organi penitenziari, di elaborare, all'inizio dell'esecuzione della pena,
un piano per la cura e l'assistenza psichiatrica. Questo piano viene redatto da
un medico scelto dallo stesso detenuto e approvato dal giudice di sorveglianza;
il medico rimane responsabile della attuazione e riferisce gli esiti, ogni tre
mesi, al magistrato di sorveglianza.
L’art. 21 del progetto
prevede l'applicazione delle misure alternative alla detenzione e la
sospensione condizionale della pena ai malati di mente- rei, (a scopo
terapeutico e per il tempo necessario a tale finalità). Anche durante la
sospensione il soggetto deve sottoporsi alla cura, altrimenti si ha la revoca
del beneficio.
Comunque il disegno di legge
n. 177 ha suscitato molte critiche, sia degli psichiatri, che dei magistrati e
dei politici[46]; ci si
chiede a che pro reintrodurre l'obbligo di sottoporsi a cure e a prescrizioni
mediche come unica scelta alla detenzione, secondo un programma che deve essere
addirittura sottoposto all'approvazione del giudice.
Ciò è palesemente in
contrasto con il trattamento sanitario obbligatorio, che prevede sì un
intervento del giudice, ma solo per verificare il rispetto delle procedure
previste.
Il progetto Grossi, però non
ha attribuito al giudice un così vasto potere: non è stata considerata la
previsione della libera scelta da parte del detenuto del medico di fiducia,
tanto che quest'ultimo deve appartenere al servizio sanitario esterno al
carcere; inoltre, è solo con il consenso del detenuto che il piano di cura può
divenire esecutivo[47].
Gli aspetti positivi del
D.d.l. 117 riguardano il fatto di aver previsto per gli infermi di mente le
stesse facilitazioni dei detenuti imputabili, come la sospensione della pena e
le misure alternative alla detenzione e l'aver previsto una terapia che si
collochi al di fuori della struttura chiusa dell'Ospedale psichiatrico
giudiziario. Le premesse su cui si fonda il progetto Grossi sono state difese
da più parti, e sono quelle della deistituzionalizzazione dei malati di mente,
promosse in precedenza dalla legge 180. La soluzione del carcere come
alternativa al manicomio giudiziario si scontra con tali premesse, visto che
non elimina ed anzi acuisce il problema di una cura efficace all'interno di una
istituzione altrettanto chiusa e ghettizzante[48].
Nel 1996 viene così
presentato dal senatore Corleoni un disegno legge, su rivisitazione del disegno
Grossi.
La parte più caratteristica
della proposta riguarda l’inizio: "L'infermità psichica non esclude, né
diminuisce l'imputabilità".
Viene poi previsto che
l'infermo di mente autore di reato, considerato sempre e comunque imputabile,
soggiaccia alla condanna penale, e che sia poi trattato, durante l'esecuzione
della pena detentiva, presso "speciali sezioni carcerarie attrezzate per
la costituzione del gruppo terapeutico", nelle quali si esegue uno
specifico "piano di cura e di assistenza medico-psichiatrica". Sembra
di poter valutare che oggi, la proposta di legge qui descritta, possa
incontrare minor ostilità di quella che toccò nel 1983 alla proposta del
Senatore Grossi.
Nella relazione al progetto
si fa riferimento ad un’indagine sulla situazione sanitaria nelle carceri ad
opera della Commissione igiene e sanità del Senato: l'aumentata incidenza del
numero di coloro che sono sottoposti al ricovero in Ospedale psichiatrico
giudiziario per un breve periodo di tempo (due anni), evidenzia come in tali
strutture trovino ricovero molti pazienti psichiatrici a bassa pericolosità
sociale. Questo sembra dovuto ad una carenza dei servizi psichiatrici del
Servizio sanitario nazionale e di adeguate strutture intermedie. Infatti, uno
dei maggiori problemi, è quello degli internati che hanno commesso reati di lieve
gravità.
3.5 La proposta di Legge di
Riz
Il 2 agosto del 1995, viene
presentato il disegno di legge n. 2038, di iniziativa del senatore Riz, avente
ad oggetto alcune modifiche al libro primo del codice penale.
Una questione
particolarmente interessante, affrontata dal progetto è quella della
graduazione della pericolosità[49].
L'art. 165 del disegno di
legge Riz, prevede che il giudice, ove accerti che la pericolosità sia
significativamente ridotta, trasforma la misura di sicurezza detentiva in
quella non detentiva, consistente nella sottoposizione alla libertà vigilata o
sorvegliata.
Perché questa innovazione
non perda la sua utilità, è necessario che le trasformazioni nelle due
direzioni possano ripetersi anche più volte e senza limiti prefissati. Inoltre,
che il provvedimento di trasformazione possa essere adottato dal giudice e
posto in esecuzione, con procedura giurisdizionale semplice ed in tempi brevi.
La prevista trasformazione rende oltretutto superflue l'art. 53
dell'Ordinamento penitenziario in tema di licenze annue e di licenza di
esperimento per i sottoposti alla misura di sicurezza del ricovero in Ospedale
psichiatrico giudiziario.
Altre sostanziali
innovazioni apportate dal progetto, si trovano in materia di ricovero in
Ospedale psichiatrico giudiziario: alla sua esecuzione, concorrono anche i
servizi sociali e sanitari pubblici non giudiziari del territorio di residenza
o di domicilio del detenuto.
Lo scopo è quello di evitare
l’allontanamento del soggetto dal suo territorio, eliminando i frequenti
fenomeni di marginalizzazione. Questa considerazione è fondamentale al fine
della capacità di reinserimento del soggetto nel suo ambienta, una volta
terminata l'esecuzione della misura di sicurezza.
Il progetto prevede che gli
ospedali psichiatrici giudiziari siano dislocati nelle diverse regioni
italiane, e che accolgano, in linea di massima, solo i soggetti pertinenti a
quel determinato territorio.
A tale scopo, potrebbe
essere prevista la possibilità di una convenzione tra lo Stato, le Regioni e le
Province autonome, avvalendosi delle vecchie strutture degli ospedali
psichiatrici civili, definitivamente soppressi dalla data del 31 dicembre 1996.
Peraltro, non si esclude la
possibilità di istituire nuovi ospedali psichiatrici giudiziari nelle diverse
regioni, come aggregati ad istituti penitenziari di diversa natura.
Attualmente i soggetti
internati per misura di sicurezza sono circa 1100, e sono distribuiti nei sei
ospedali psichiatrici giudiziari esistenti in Italia, più o meno disseminati in
tutta Italia, ma molte regioni ne sono prive. Questo fa sì che molti internati
siano costretti a soggiornare anche per tempi lunghi in aree geografiche assai
distanti dalla loro zona di origine, il che rende di fatto impossibile ogni
contatto con l'ambiente familiare, ma anche con i Servizi di salute mentale del
servizio sanitario nazionale. Per converso, questa situazione di deportazione,
facilita, di fatto, le dinamiche di espulsione dal contesto sociale.
La proposta del disegno di
legge Riz non risponde appieno alla volontà di eliminare definitivamente gli
ospedali psichiatrici giudiziari, ma rappresenta forse una soluzione
intermedia, di compromesso e sicuramente attuabile con minori difficoltà
pratiche e ideologiche. Appare auspicabile per molteplici ragioni: innanzi
tutto, eviterebbe lo sradicamento dell'internato dal suo luogo geografico di
origine o comunque di appartenenza; impegnerebbe le Amministrazioni e gli Enti
locali ad un rapporto finalmente fattivo con le problematiche concernenti
l'internamento dei loro cittadini; infine, nel corso della misura di sicurezza,
renderebbe possibile l'instaurazione di un regolare contatto tra internati e
servizi sociali e sanitari territorialmente pertinenti, anche nel caso di
esecuzione della misura non detentiva.
Presso la Fondazione "Giovanni Michelucci" di Fiesole, si è formato un gruppo di lavoro composto essenzialmente da giuristi e da psichiatri che ha rielaborato nel corso degli anni 1996 e 1997 una proposta legislativa, che è stata poi, adottata dalla Giunta regionale dell'Emilia Romagna, per una futura proposta di legge.
Questo progetto non supera
lo schema della misura di sicurezza. L'unico intervento abolizionista del
progetto è quello che concerne la nozione di seminfermità mentale e la
corrispondente misura di sicurezza della casa di cura e di custodia. La
soluzione dell’abolizione della imputabilità, con le sue qualità ed i suoi
limiti, è stata messa da parte dopo la discussione iniziale presso la Fondazione
Michelucci.
Il progetto mantiene
l’impostazione della pericolosità sociale, che è propria della misura di
sicurezza, e mantiene anche l'altro elemento connesso di prevedere un
intervento proprio del sistema penale.
A questo è dovuto il
mantenimento della presenza del personale penitenziario.
Anche se la misura di
sicurezza non è soppressa, ci sono nel progetto aspetti di alleggerimento della
stessa, estesi ed incisivi.
Un ulteriore punto di
cambiamento, è rappresentato da una definizione analitica della pericolosità
sociale, che dovrebbe ridurre i casi di applicazione della misura, nei
confronti del prosciolto per vizio totale di mente.
Questa non sarà
caratterizzata da un solo tipo di risposta, ma da una graduazione della stessa.
Le misure di sicurezza di assegnazione in istituto dovrebbero essere
numericamente molto ridotte.
Il progetto si occupa di
porre le basi, per un equilibrio organizzativo dell'intervento psichiatrico,
nei confronti di persone affette da malattie mentali in situazioni di detenzione.
La prima finalità è quella di assicurare agli istituti per l’esecuzione della
misura chiusa, le caratteristiche essenziali di cura e di possibile
riabilitazione sociale, limitando, in primo luogo, il numero delle persone
assistite, inoltre dalle strutture del progetto sono esclusi e restano in
carcere: i detenuti in osservazione psichiatrica, quelli a perizia
psichiatrica, i c.d. minorati psichici, gli internati a misura di sicurezza
imputabili.
Infatti, l'Ospedale
psichiatrico giudiziario attuale contiene tutte le difficoltà che il sistema
carcerario gestisce con fatica, anche quando dovrebbe essere il carcere ad
affrontare tali problemi.
Il progetto in esame opera
un'altra abolizione: quella dell’applicazione provvisoria della misura di
sicurezza, prevista dall'art. 206 c.p.; ipotizzando strutture interne al
carcere attrezzate.
Questo risultato, però,
porterebbe al carcere stesso un esclusivo vantaggio: quello di avere una sede
reale per rimediare al disagio psichico presente in modo rilevante nelle
strutture penitenziarie.
In definitiva, il carcere
deve organizzare una propria area psichiatrica, che nel progetto è detta centro
psichiatrico di diagnosi e cura carcerari. Nel progetto è previsto anche il
caso in cui un soggetto "per il quale risultino eccezionali esigenze di
sicurezza" e la cui presenza negli istituti a cui sono assegnati i
prosciolti ostacolerebbe il normale lavoro di cura e di riabilitazione, venga
assegnato ai centri psichiatrici carcerari.
La distribuzione degli
istituti è prevista su base regionale.
Il problema della vigilanza
resta inalterato. Si prevede che "la gestione delle attività sanitarie è
affidata al Servizio sanitario nazionale, che la svolge fruendo di autonomia
organizzativa". Vi è un servizio di custodia, proprio della
Amministrazione penitenziaria, che deve restare esterno alla parte della
struttura destinata alla vita e alle attività degli internati: "il
personale di tale servizio (di custodia) interviene all'interno dell'istituto a
richiesta del responsabile del servizio sanitario".
Nel progetto in questione,
il servizio sociale è l'agente di sostegno e di controllo fra soggetto e
servizio sanitario pubblico, presso il quale lo stesso soggetto deve impegnarsi
in un programma terapeutico e riabilitativo relativo al suo disagio psichico.
Questa misura s’ispira ad alcune soluzioni operate oggi dai magistrati di
sorveglianza, che sostituiscono, quando risulta possibile, alla misura di
sicurezza dell'Ospedale psichiatrico giudiziario, quella della libertà
vigilata, fra le cui prescrizioni vi è quella di stabilire un rapporto
continuativo di assistenza e cura con il servizio psichiatrico pubblico.
Le due misure, chiusa ed
aperta, sono considerate connesse: da quella chiusa si può passare a quella
aperta e viceversa.
Diversamente da quelle
previste dal codice vigente, per le nuove misure non si prevede né una durata
minima, né una massima.
Si prevede solo che,
periodicamente, ci sia un riesame della pericolosità[50]del
soggetto: ogni anno per la misura chiusa, ogni sei mesi per quella aperta.
La possibilità di revoca
della misura invece rimane.
Il giudice competente per la
fase successiva alla sentenza di proscioglimento è il magistrato di
sorveglianza, che mantiene le competenze proprie delle misure di sicurezza
attuali.
CAPITOLO QUARTO:
PARTE I
I
DIRITTI DELL’INTERNATO NELL’ESECUZIONE DELLE MISURE DI SICUREZZA DETENTIVE
Con il codice penale del
1930, è stato adottato un sistema che disciplina le ipotesi di imputabilità
diminuita, infatti, alla tradizionale sanzione privativa della libertà
personale è stata aggiunta la misura di sicurezza. L’origine di questo sistema
cumulativo, si basava sul principio fondamentale che la tradizionale sanzione
penale e le nuove misure di sicurezza possedessero diverse funzioni: la prima
aveva una funzione retributiva, le seconde ne possedevano una preventiva sia
generale sia speciale. C’era così spazio per entrambe, a causa delle loro
diverse funzioni e presupposti.
Questo sistema entra, però
in crisi con la promulgazione della costituzione nel 1948, infatti, l’art.27
comma III riconosce una funzione preventiva speciale per le pene tradizionali,
affermando che le pene devono tendere alla rieducazione del condannato.
Comincia ad essere anche dubbio, se la sanzione penale abbia mantenuto anche
una natura retributiva, non solo perché la retribuzione non costituisce una
funzione autonoma della pena, ma ha solo un significato di “ criterio di
regolazione interno[51]”,
ma anche perché non si rinviene la sua base costituzionale nell’art.27[52].
Il riconoscimento di una
funzione preventiva anche alla pena, oltre che alla misura di sicurezza ha
fatto però piombare il sistema cumulativo in una profonda crisi. Il sistema
cumulativo trova, infatti, le sue basi in una differente funzione di entrambi i
due tipi di sanzione, così che lo stesso sistema perde la sua legittimità se la
funzione si scopre invece la medesima.
Questa legittimazione non si
riscontra neanche nell’art.25 della costituzione, il quale, infatti riguarda un
diverso aspetto, cioè l’estensione del principio di legalità anche alle misure
di sicurezza. Nonostante tutto, però la crisi del sistema cumulativo non ha
ancora prodotto cambiamenti nella legislazione. L’unica tendenza verso un
cambiamento dell’attuale sistema, si ha da parte della giurisprudenza, in
relazione alla fungibilità tra custodia cautelare, pena definitiva e misura di
sicurezza. Infatti da un’originaria posizione di rifiuto si è passati ad una
posizione più aperta, espressa, ad esempio dalla sentenza della corte di
Cassazione[53], che ha
considerato legittimo dedurre dal tempo della condanna o della custodia
cautelare quello passato in esecuzione della misura di sicurezza applicata
provvisoriamente e poi non più confermata in via definitiva.
4.1 Il trattamento
rieducativo per gli internati, previsto dall’ordinamento penitenziario e la
differenza con i condannati a pena detentiva
La legge n.354 del 1975,
indica quale sia la disciplina da applicare agli internati e quindi, anche a
coloro che sono in ospedale psichiatrico giudiziario. L’art.1 ord. Pen., contrappone il trattamento alla rieducazione
operando una distinzione tra due concetti spesso confusi fra loro.
Viene in tal modo chiarito
già, in sede di principi direttivi che il trattamento penitenziario deve
informarsi a criteri di assoluta imparzialità, mentre il trattamento
rieducativo deve essere individualizzato secondo le specifiche condizioni
dell’internato o del condannato. La suddetta crisi del doppio binario, però ha
avuto dei riflessi anche a livello di trattamento e di disciplina, infatti,
come sarà esposto in seguito, non c’è una grossa differenza nel trattamento dei
detenuti rispetto a quello per gli internati; pur essendoci una grossa
differenza fra le due categorie di soggetti, i secondi sono, infatti, malati di
mente e quindi più bisognosi di cure e trattamenti idonei alla loro situazione.
L’art.1 comma V della legge
n.354 del 1975 dispone, che nei confronti dei condannati e degli internati deve
essere adottato un trattamento rieducativo che tenda, anche attraverso i
contatti con l’ambiente esterno, al reinserimento sociale degli stessi.
L’indicazione finalistica
contenuta nell’ultimo comma dell’art.1 sembra fornire una direttiva di fondo
per l’intera riforma penitenziaria. In effetti, tale indicazione è accolta
anche nel regolamento d’esecuzione (d.P.R.n.431/1976, sostituito dal d.p.r
n.230/2000), il quale individua la finalità di trattamento di condannati e
internati nella rieducazione, intesa come processo di modificazione degli atteggiamenti
che sono di ostacolo ad una costruttiva partecipazione sociale. Da queste norme
sembrerebbe che il legislatore, sia pure a distanza di trenta anni, si sia
finalmente impegnato ad attuare il principio sancito dal suddetto art.27 della
Costituzione, almeno limitatamente alla sfera dell’esecuzione.
D’altra parte,
un’indicazione non trascurabile in questo senso era nel frattempo intervenuta
con le “ Regole minime per il trattamento dei detenuti”, adottate dal Comitato
dei ministri del Consiglio d’Europa con la risoluzione n.5 del 1973, sulla
scorta del testo approvato nel 1955 dall’Assemblea generale dell’ONU; infatti,
l’art.66 prevede che: “il trattamento dei condannati ad una pena o misura
privativa della libertà deve avere lo scopo, per quanto la durata della pena lo
consenta, di creare in essi la volontà e la capacità che permetteranno loro,
dopo la liberazione, di vivere nel rispetto della legge e di provvedere alla
loro necessità”. Nonostante tutto questo, però, la posizione degli internati negli
stabilimenti per l’esecuzione delle misure di sicurezza detentive, non può
considerarsi, ad una valutazione complessiva della normativa, sopravvenuta
rispetto a quella preesistente (c.d. Regolamento penitenziario: R.D.18 giugno
1931, n. 787), modificata così profondamente come quella dei detenuti. Questa
considerazione può essere fatta già ad una prima valutazione del materiale
legislativo, indipendentemente cioè dalle osservazioni sul modo in cui le
misure di sicurezza sono praticamente eseguite.
La grossa innovazione
portata dalla legge del 1975, l’osservazione scientifica della personalità e la
connessa individualizzazione del trattamento, introdotta dagli art. 13 e ss.,
integrati dalle norme del Regolamento, congiuntamente per i condannati e gli internati,
si può considerare tale solo per la pena ma non per la misura di sicurezza.
Per questa seconda specie di
sanzione, infatti, già il regolamento del 1931 prevedeva, seppur con maggior
tassatività e rigidità, la formulazione di “rilievi sulla personalità degli
internati” per la formulazione di un programma di trattamento. Inoltre, per
quanto riguarda il trattamento degli internati, esistevano diverse norme
rigorosamente tenute distinte da quelle sulle misure di sicurezza.
Si può dunque notare, che le
innovazioni, rappresentate dai metodi di osservazione e di riadattamento della
personalità, interessano la misura di sicurezza in maniera meno rilevante.
Comunque se le due specie di
sanzioni sono adesso molto più vicine che in passato sotto il profilo esecutivo,
ciò non deve legittimare una completa assimilazione dei due livelli di
osservazione e di intervento sulle personalità dei condannati e degli
internati, posto che per questi ultimi si tratta pur sempre di considerare come
dato essenziale con il quale lavorare, un elemento che manca ai primi, ossia la
pericolosità sociale processualmente accertata. Il legislatore del 75 non ha
comunque superato il sistema del doppio binario: è presente, infatti, il
criterio della differenziazione degli istituti per l’esecuzione delle pene e
delle misure di sicurezza (art.64) ed il connesso criterio della separazione
dei sottoposti a pena dagli internati[54].
Quindi, le innovazioni
apportate dalla disciplina esecutiva delle misure di sicurezza sono meno
incisive. Innanzi tutto, per quanto riguarda l’assegnazione ed il
raggruppamento degli internati, i criteri previsti dall’art. 14, in base al
quale, il numero degli stessi deve essere limitato per favorire
l’individualizzazione del trattamento, “con particolare riguardo alla
possibilità di procedere ad un trattamento rieducativo comune e all’esigenza di
evitare influenze nocive reciproche” (art.14 I e II comma) erano già nel
vecchio regolamento[55].
Anche per quanto riguarda il lavoro, a parte le modifiche costituite dalle nuove
modalità e dal diverso regime della tutela e della remunerazione dello stesso,
comuni ai detenuti e agli internati, (art.20-25 legge n. 354/75; art.45-54
d.r.p. 431/76), l’organizzazione e gli scopi del lavoro negli stabilimenti per
le misure di sicurezza erano specificatamente finalizzati al riadattamento
degli internati alla vita sociale[56],
a differenza del lavoro nelle carceri. Per l’istruzione civile e il servizio
religioso, invece, il vecchio regolamento rinviava alle norme dei carcerati,
così come avviene con il regolamento n.354/1975, all’art.19, 26-28. Lart.19
prevede la possibilità di effettuare negli istituti penitenziari, dei corsi di
addestramento professionale, secondo gli orientamenti vigenti e con l’ausilio
di metodi adeguati alla condizione dei soggetti. Possono, infatti, essere
costituite scuole di istruzione secondaria, e deve essere agevolato anche il
compimento degli studi universitari, favorendo la corrispondenza per radio e
televisore. L’art.26 garantisce, la libertà di professare la propria religione,
infatti l’ultimo comma (modificato dalla legge n.663 del 1986) prevede che gli
appartenenti a religione diversa dalla cattolica hanno diritto di ricevere
l’assistenza dei ministri del proprio culto e di celebrare i riti. Importante
ai fini riabilitativi è l’art.27 che prevede l’organizzazione di attività
sportive e ricreative volte alla realizzazione della personalità dei detenuti e
degli internati.
Una commissione apposita ha
il compito di organizzare le attività, cercando di mantenere contatti con il
mondo esterno.
Importanza particolare è
riservata anche alla famiglia, infatti, l’istituto deve cercare di migliorare o
ristabilire i contatti con la famiglia (art.28). Due settori, invece dove
l’innovazione si è fatta più sentire anche per gli internati sono quelli delle
licenze e delle sanzioni (art.27 e ss. R.d. 787/1931). Per quanto riguarda la
licenza la materia è stata profondamente cambiata, art.53 della legge del 1975,
sia nel senso di, giurisdizionalizzare completamente un fenomeno, prima di
competenza anche delle direzioni degli stabilimenti, sia nel senso di sottrarre
le licenze dal campo delle ricompense, nel quale prima erano collocate. Quanto
alle sanzioni[57], è stato
fissato il principio di legalità ridimensionando le sanzioni applicabili. Un
importante novità è la possibilità di applicare agli internati il regime di
semilibertà, la sola misura alternativa alla detenzione tra quelle disciplinate
negli art. 47 e ss. O.p., estesa anche agli internati dagli art.48 e 50 della
stessa legge.[58]Il generico
richiamo agli “internati”, pone il problema se la misura possa essere applicata
anche ai sottoposti all’ospedale psichiatrico giudiziario ed alla cura di casa
e di custodia. L’applicabilità però risulta sia dalla lettera della legge sia
dall’art.20 del regolamento: “Gli infermi e i seminfermi di mente in permesso o
in licenza ricevono, ove occorra, assistenza da parte dei servizi psichiatrici
pubblici degli enti locali”. A differenza del carcerato, però l’internato può
essere ammesso al regime di semiliberta, in ogni tempo, art. 50 O.P.. Alle
perplessità suscitate dall’applicazione di questo regime ai soggetti internati
in misure di sicurezza di lunga durata, poiché l’istituto potrebbe essere
snaturato mancandovi la duplice finalità di non interrompere i contatti con
l’ambiente esterno e di preparare la definitiva dimissione, si è risposto “ il
carattere terapeutico della misura di sicurezza riduce l’intensità
dell’obiezione[59]”.
Una norma che riguarda
specificatamente l’internato in regime di semilibertà è l’art.51 dell’O.P., che
stabilisce che, in caso di assenza dall’istituto senza giustificato motivo per
oltre tre ore si applicano le disposizioni dell’ultimo comma dell’art.53, e
cioè la revoca, essendo il comportamento indice d’inidoneità al trattamento.
La revoca della concessione
della semilibertà non è invece prevista, in aggiunta alle sanzioni
disciplinari, nell’ipotesi dell’art.30 ult. comma della legge n. 354 (non
modificato dalla legge n. 450/77) relativa al caso dell’internato che rientra
dopo tre ore dalla scadenza del permesso senza giustificato motivo.
All’affinamento del sistema delle misure di sicurezza si è accompagnato un
aumento del potere discrezionale del giudice nell’applicazione delle stesse,
conseguente alla declaratoria d’incostituzionalità parziale dell’art.207 cod.
pen.. Quindi con la riforma penitenziaria la pena detentiva perde il carattere
di afflittività, che la distingueva dalla misura di sicurezza e in particolare
da quella del manicomio giudiziario, infatti, fin dal 1930, esso oltre ad avere
una funzione di difesa sociale (comune a tutte le misure di sicurezza), aveva
anche una funzione terapeutica, come luogo di cura e di custodia, funzione
denunciata spesso, come contraddittoria da psichiatri e studiosi.
Nessun manicomio giudiziario
viene aperto dopo il codice rocco, se si eccettua la convenzione con
Castiglione e Pozzuoli, aperto nel 1955, sicché i vecchi istituti bastano a
soddisfare le esigenze istituzionali, che sono però stabili dal punto di vista
quantitativo e relativamente indifferenti agli incrementi della popolazione
penitenziaria.
La riforma penitenziaria
stempera la differenza tra carcere e manicomio giudiziario, infatti, non ci
sono differenze tra il regime e i diritti dei detenuti internati, né per quanto
riguarda il trattamento intramurale (osservazione della personalità,
trattamenti), né per quello in ambiente libero con eccezione dell’affidamento
in prova non previsto per gli internati.
Come si è visto, il titolo I
“trattamento”, si applica integralmente alle due categorie, compresi gli
internati in o.p.g.. Le uniche differenze si hanno nell’art.20 III comma, per
cui il lavoro non è obbligatorio, in relazione all’art.20 3° e 4° comma del
regolamento d’esecuzione, che prevede, nei casi d’inidoneità, la possibilità di
attività di ergoterapia, e nell’art.53,
che prevede le licenze per gli internati.
Il regolamento d’esecuzione
contiene le uniche norme particolari negli art.111,112 e 113 che regolano la
materia degli O.P.G., per quanto riguarda l’accertamento delle infermità
psichiche e la possibilità di stipulare convenzioni con ospedali psichiatrici
civili.
Questo può portare alla
considerazione che ci sono le premesse per eliminare la misura di sicurezza,
che non ha più una sua funzione autonoma né differenziata. Inoltre ci sono
anche le premesse per scegliere una sanzione diversa anche per il folle, che
potrebbe essere benissimo una sanzione solamente terapeutica e commisurata alle
esigenze del soggetto.
4.2 I rapporti con la
famiglia e con l’ambiente esterno
I contatti con l’ambiente
esterno trovano un’esplicita menzione quale possibile modalità del trattamento
rieducativo, quasi a confermare che l’ordine può essere assicurato attraverso
le norme sul trattamento, ma che il recupero sociale degli internati implica un
quid pluris, comportando un passaggio da uno stato di passività ad un ruolo di
partecipazione attiva. Un ruolo primario, nel trattamento rieducativo hanno i
rapporti con la famiglia, infatti l’art.28 prevede che particolare cura va dedicata
a mantenere o ristabilire le relazioni degli internati con i loro congiunti, in
conformità agli art. 29-31Cost.
Le agevolazioni
concretamente previste attengono, innanzi tutto, al modo di esecuzione della
misura di sicurezza, che, dovrebbe essere effettuata, in linea di principio,
nell’ambito della regione o della residenza, al fine di non rendere
difficoltoso i contatti con la famiglia. Questo però non è attuabile sul piano
pratico, poiché in Italia sono solo sei gli O.P.G. presenti, ed in oltre c’e né
uno solo per le donne, Castigion delle Stiviere. Risulta, quindi difficile che
l’internato possa rimanere vicino al luogo di sua residenza.
Comunque, i contatti
famigliari sono i principali interessi umani che il trattamento rieducativo
tende a sostenere, com’è confermato dalle norme interne ad ogni istituto, che
consentono il possesso di oggetti di particolare valore morale e affettivo
(art.10 reg. esec.), e la possibilità di ricevere dall’esterno oggetti e generi
alimentari, (art.14).
Il distacco fisico dalla
famiglia non è tuttavia totale, grazie alla previsione di effettuare colloqui
con i propri familiari.
Inoltre, molta importanza
riveste anche la corrispondenza, perché specialmente se l’internato è lontano
dalla sua città, permette di mantenere un contatto con l’ambiente esterno.
L’art.18 O.P. ammette la corrispondenza senza limiti di sorta. Mutato il regime
costituzionale, infatti, la disciplina prevista in materia di corrispondenza
dal vecchio regolamento non appariva conforme all’art.15 II comma Cost.,
secondo cui la corrispondenza ed ogni altra forma di comunicazione possono
essere limitate soltanto per atto motivato dell’autorità giudiziaria con le
garanzie stabilite dalla legge. Infatti l’art.103 di tale regolamento, era
stato ritenuto illegittimo nella misura in cui attribuiva all’autorità
penitenziaria un potere autonomo di censura e di sequestro della corrispondenza
dei detenuti, a prescindere dall’atto motivato dell’autorità giudiziari. La
soluzione del nuovo ordinamento prevede, invece, la sottoposizione della
corrispondenza al visto di controllo da parte del direttore, previo
provvedimento motivato del magistrato di sorveglianza, che non può essere di
carattere generale, ma deve riguardare singoli internati, art.18 ord.pen..
Anche la corrispondenza telefonica, art.18 V comma che l’internato può avere
con i familiari e in casi particolari con terzi, secondo le modalità del
regolamento, è prevista al fine di incentivare i rapporti famigliari. Il
regolamento d’esecuzione devolve poi al regolamento interno di ogni istituto,
la disciplina dei tempi e delle modalità. Una particolare attenzione è
riconosciuta anche ai rapporti con soggetti non legati da vincoli di parentela
o di coniugio, infatti, sarebbe stato incoerente porsi come obiettivo il recupero
sociale e nel contempo non consentirgli di salvaguardare, per quanto possibile,
i propri interessi e le proprie relazioni nella vita libera. L’art.18 I comma
prevede che gli internati possono avere colloqui con l’esterno “anche al fine
di compiere atti giuridici”. Se, quindi, l’internato non è in stato
d’interdizione può compiere, con soggetti liberi[60],
atti di contenuto economico. Un ulteriore profilo di rilevanza dei rapporti che
l’internato può mantenere con l’esterno, senza uscire dall’istituto, è dato
dalla possibilità di richiedere di essere visitato da un sanitario di fiducia,
a proprie spese, (art.11 comma 9° O.P.).
Ma i rapporti con il mondo
esterno, oltre che in termini di relazioni personali, sono curati anche sul
piano informativo e sul piano istruttivo, al fine di consentire all’internato
l’accesso ai libri, alla stampa periodica, alla radio e alla televisione, e per
questo gli istituti devono essere forniti di una biblioteca.
Per quanto attiene al
profilo dell’istruzione, l’art.19, dopo aver previsto l’organizzazione dei
corsi della scuola dell’obbligo e di istruzione secondaria di secondo grado
negli istituti penitenziari, dispone che è agevolato il compimento degli studi
dei corsi universitari. A questo fine l’art.42 prevede la possibilità che siano
disposti trasferimenti anche per motivi di studio, così da avvicinare
l’internato al luogo d’istruzione. Questa possibilità però è rimasta sulla
carta, dato il numero limitato di O.P.G. sul territorio e la loro
concentrazione al sud d’Italia.
La normativa penitenziaria
prevede anche una gamma di interventi diretti a garantire i rapporti
dell’internato con l’esterno e con i familiari, il loro mantenimento e la loro
ricostruzione.
Nel caso, infatti, ci sia
disinteresse da parte della famiglia o dello stesso internato, la direzione lo
segnala al centro di servizio sociale e là dove ci sia necessità, anche al
consiglio d’aiuto sociale.
L’art.78 prevede, anche la
collaborazione di assistenti volontari, cioè di persone idonee all’assistenza e
all’educazione, appositamente autorizzati dall’amministrazione penitenziaria,
su proposta del magistrato di sorveglianza, allo scopo di partecipare al
sostegno morale degli internati e ad un loro futuro reinserimento nella vita
sociale. L’assistenza deve anche preparare le famiglie, gli ambienti prossimi
di vita e il soggetto stesso al suo ritorno, così da rimuovere le difficoltà
che possono ostacolarne il reinserimento, (art.45 comma II ord. Pen.).
Istituzionalmente prevista a tutela della posizione dell’internato nella
società libera, è l’assistenza post- penitenziaria, art.46, che coinvolge oltre
al servizio sociale, gli assistenti volontari e il consiglio di aiuto sociale.
Essenziale è che il reinserimento nella società non sia ostacolato da un
risorgere di problemi psicologici, per questo è previsto un aiuto nel periodo
di tempo che immediatamente precede, e per il tempo successivo. Tutto ciò,
insomma, che sia in grado di contribuire a rompere l’isolamento dell’internato
ha di per sé una funzione educativa, in quanto garantisce la stabilità del
reinserimento e allontana i rischi di una ricaduta.
4.3 La cura della malattia
mentale, e il diritto alla salute
Per coloro che sono
internati in O.P.G., l’ordinamento prevede oltre ad un trattamento rieducativo,
art.1, anche e soprattutto un trattamento di tipo medico, essendo questi malati
mentali, la cui cura è garantita anche al livello costituzionale dall’art.32: “
La repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e
interesse della collettività”. Il diritto alla terapia, costituisce senza
dubbio uno degli aspetti del diritto alla salute, diritto che solo in epoca
recente ha conosciuto l’estensione dalla salute fisica a quella psichica. Il
trattamento psichico dell’autore di reato si instaura di regola con un
trattamento forzoso e coattivo.
Come regola generale, il
trattamento del sofferente psichico è volto a modificare i comportamenti e le
condotte, di modo che essi non si rilevino in futuro ancora pericolosi ed
instabili mentalmente. Naturalmente, l’intervento è più completo e maggiormente
pregevole se, oltre alle condotte, riesce a modificare anche la radice genetica
psicopatologica; ed ancor più, se in aggiunta si modifica anche l’eventuale
stato di sofferenza soggettiva dell’individuo.
Il settore della
psichiatria, che si occupa dell’intervento sul sofferente psichico autore di
reato (psichiatria giudiziaria da distinguersi dalla psichiatria giudiziaria
forense) non utilizza strumenti tanto diversi da quelli utilizzati dalla
psichiatria civile. Da una valutazione di numerose cartelle cliniche di
ospedali psichiatrici giudiziari si riscontra che gli istituti utilizzano con
enorme prevalenza strumenti di intervento farmacologico, che consiste nell’assunzione di
farmaci di vario tipo, come antidepressivi, ansiolitici, ecc, in relazione
ovviamente alla tipologia clinica e anche a quella giuridica[61].
Tra i trattamenti fisici,
l’unico ancora abbastanza diffuso è l’elettroconvulsionante, che in Italia, è
invece poco utilizzato[62].
Il suo uso, infatti non si
rintraccia nelle istituzioni penitenziarie: da un lato perché richiede
attrezzature e personale specializzato; dall’altro, perché viene considerato
con molta diffidenza, essendo ritenuto un trattamento particolarmente violento;
ed infine perché, comportando una serie di rischi per il paziente, potrebbe
esporre gli operatori e l’amministrazione a problemi di risarcimento di danno.
Del tutto inesistenti, sono,
invece i trattamenti di psico-chirurgia, praticamente abbandonati ovunque.
Se i trattamenti
assolutamente maggioritari sono quelli farmacologici, non mancano però, esempi
(più sporadici in Italia, più sistematici in altri Paesi) di interventi attuati
attraverso strumenti psicoterapeutici e di gruppo.
La scarsa utilizzazione
deriva da problemi pratici ed organizzativi: dispendio energetico, quantità e
qualità del personale operante, ambiente idoneo.
Comunque anche quando è
utilizzato questo strumento, il fine rimane sempre quello della modifica
comportamentale e condottuale: stabile e duratura, se si può. L’intervento
psicoterapeutico è allora appunto un intervento basato in prevalenza su
presupposti di tipo cognitivo; talora ha connotazioni tipicamente
comportamentistiche[63].
Per certi versi, insomma, si avvicina di più agli interventi psicoterapeutici
veri e propri. Quindi, i trattamenti di
tipo medico sono diretti ad incidere, in ordine di priorità, su tre livelli:
sulle condotte, sulle loro motivazioni psicopatologiche; sulla sofferenza
soggettiva.
Sul piano pratico, però,
negli O.P.G. italiani, ci sono dei grossi problemi dovuti alla mancanza di
organicità degli approcci diagnostici, delle prassi terapeutiche, delle
procedure della pratica psichiatrica, di fronte alle quali l’amministrazione
penitenziaria non può che dichiararsi estranea, perché è una materia non
regolabile con atti amministrativi.
Sono presenti, infatti negli
O.P.G. grosse difficoltà per il reperimento di specialisti in psichiatria
previsti dall’art.11 della legge penitenziaria, che spesso sono in numero
limitato rispetto al numero dei pazienti.
Queste difficoltà dipendono,
nella maggioranza[64]
dei casi, da problemi economici, infatti, la maggior parte dei finanziamenti è
diretta al pagamento della polizia penitenziaria, molto più cara del personale
sanitario. Il quale, quindi, viene sacrificato.
Un altro problema che si
pone è se si possa parlare veramente di diritto di cura, oppure se negli
O.P.G., venga invece attuato un dovere alla cura, sulla base di una lettura
dualistica dell’art.32 C., cioè, i trattamenti sanitari coattivi vengono
interpretati come rispondenti alla ratio della tutela della salute, come
interesse della collettività, con corrispettiva compressione[65]di
uno più diritti fondamentali dell’individuo.
Mentre una lettura unitaria
dell’art.32, vede l’interesse della collettività e il diritto dell’individuo
come mai configgenti. Purtroppo, spesso la cura dei malati autori di reato è
concepita più per la tutela della società che non per favorire l’individuo
stesso.
4.4 L’effetto della 180 sulla funzione terapeutica
dell’O.P.G.
Con la legge n.180 del 1978,
come si visto, vengono aboliti i manicomi: l’O.P.G., però non resta travolto
dalla nuova regolamentazione, e così l’istituto manicomiale giudiziario, nato
prima del manicomio civile, sopravvive ad esso. Sembra ingenuo porsi il perché
della sopravvivenza dell’istituto, ove lo si collochi nel complesso quadro
della stratificata regolamentazione del sistema del controllo sociale penale,
legato, cioè, al sistema della imputabilità, della pericolosità, della misura
di sicurezza. Ancora una volta, com’è accaduto per la riforma penitenziaria,
l’O.P.G., ben collocato nel quadro del sistema penale, resta immune da riforme.
Sono due gli effetti dell’applicazione della 180: il primo obiettivo e reale,
il secondo postulato da molti, ma smentito dai dati.
Il primo effetto è
costituito dalla forzata interruzione di quella pratica di delega
all’istituzione civile per la gestione del manicomio giudiziario. L’ottima
esperienza di Castiglion delle Stiviere aveva portato l’amministrazione ad
accentuare l’opera di collaborazione, attraverso apposite convenzioni, con il
manicomio civile, per permettere una gestione più efficiente dell’istituto,
nell’accentuazione della sua funzione terapeutica. Lo sviluppo di questa
tendenza, che contraddice un’esclusiva preoccupazione del il potere centrale
alla “custodia”, era andato progressivamente affermandosi, tanto che, anche
sulla base dell’art.100 del Regolamento di esecuzione, gli internati potevano
essere ospitati in molti manicomi diffusi sul territorio, specialmente del
nord. L’art.100, oggi sostituito dall’art. 113, una delle poche norme che
disciplina esclusivamente l’ospedale giudiziario, prevede, che: “Nel rispetto
della normativa vigente l'Amministrazione penitenziaria, al fine di agevolare
la cura delle infermità ed il reinserimento sociale dei soggetti internati
negli ospedali psichiatrici giudiziari, organizza le strutture di
accoglienza tenendo conto delle più avanzate acquisizioni terapeutiche
anche attraverso protocolli di trattamento psichiatrico convenuti con altri
servizi psichiatrici territoriali pubblici”.
Questa esperienza positiva,
pero è stata interrotta dalla abolizione del manicomio.
Non è interrotto, però, il
dialogo con il territorio, che deve riprendere su nuove basi e con diverse
finalità.
Il secondo preteso, effetto
della legge n. 180 sarebbe stato quello di innescare un aumento della
popolazione dell’O.P.G. Si ritenne, infatti, che l’abolizione del manicomio
civile avrebbe accentuato la criminalizzazione della malattia psichiatrica,
posto che l’assenza di alternative avrebbe massicciamente aumentato la
popolazione dei prosciolti folli, per reati di scarsa pericolosità. Invece,
questo temuto effetto, per fortuna non c’e stato, infatti, la popolazione dei
prosciolti folli è stabile, con oscillazioni del tutto fisiologiche,
contrastanti con l’aumento della popolazione penitenziaria[66].
Globalmente il numero dei sottoposti alla misura di sicurezza si è quasi
dimezzato rispetto al 1960, quando cioè era presente l’istituzione manicomiale
civile.
CAPITOLO QUARTO:
PARTE II
IL TRATTAMENTO PENITENZIARIO
DEGLI INTERNATI
4
L’importanza della diagnosi della malattia, per individuare un proficuo
trattamento terapeutico e di risocializzazione
I
compiti dell’O.P.G sono essenzialmente due: risocializzare i malati di mente,
autori di reati, e curare i detenuti giudicabili o condannati, affetti da
disordini neuropsichici.
Una
personalità irregolare ed un ambiente familiare, in genere negativo,
costituiscono, a volte fattori che rendono necessaria la proroga del ricovero,
per evitare una sicura recidiva criminale.
Pertanto,
ogni malato di mente, autore di reato, deve essere sottoposto ad un duplice
trattamento: terapeutico e di risocializzazione.
Il
trattamento di risocializzazione ha lo scopo di rimuovere i disturbi
neuropsichici, mentre le tecniche di risocializzazione[67],
tendono a migliorare la personalità difettosa di base. Pertanto, premessa
indispensabile, per un giusto trattamento, è la diagnosi esatta della malattia,
alla quale si perviene con l’esame clinico e gli accertamenti di laboratorio.
Col metodo clinico si individuano le tappe più importanti della vita
dell’internato[68]. Gli
elementi raccolti, fra cui la formazione e la storia individuale, saranno
integrati con quelli ambientali. L’insieme dei dati sono infine utilizzati per
fare la diagnosi, la prognosi e il trattamento.
In
ogni comportamento deviante si troveranno sempre elementi legati alla
personalità ed elementi legati all'ambiente, il problema sarà di stabilire sino
a che punto lo scambio uomo-ambiente, condizioni imperfezioni o difettosità,
oppure veri e propri sconfinamenti morbosi.
Ogni soggetto, quindi va studiato,
accuratamente nelle precedenti relazioni personali e familiari, senza
trascurare la valutazione del suo ambiente di vita e di lavoro e del
comportamento sociale in fase predetentiva e poi, va sottoposto ad esami
somatici, ad indagini neurologiche e ad altri esami specialistici.
L'esame delle funzioni
psichiche viene eseguito da specialisti in psichiatria ed integrato con test
di personalità e di intelligenza.
Ad ogni soggetto è intestata
una cartella clinica, in cui sono registrati, già all'atto dell'ammissione, i
dati emersi dal primo esame clinico allargati, successivamente, dalle informazioni
rese dalle autorità dei luoghi d’origine e di residenza ed integrati dai dati
delle indagini.
Una volta formulata la
diagnosi, cominciano le terapie che comprendono un insieme di tecniche le
quali, realizzano, nel maggior numero dei casi, un trattamento puramente sintomatico,
data l'incertezza che ancora regna intorno alle malattie mentali[69].
I metodi comprendono: la
farmacoterapia, i trattamenti somatici, la psico-chirurgia, i trattamenti
psicoterapici.
La farmaco-terapia viene
eseguita con tranquillanti, antidepressivi e stimolanti. I trattamenti somatici
completano le cure con l'uso di sostanze ricostituenti, sedative e toniche.
Queste terapie influiscono sulla personalità psichica di base di una discreta
quota d’internati nei quali si debella, con le cure propriamente psichiatriche,
la malattia di mente.
Naturalmente, per la
rimanente quota di soggetti, la cui malattia mentale è cronica ed il cui
recupero sociale è praticamente impossibile, esistono solo problemi di umana
custodia.
E' evidente che ciò è
appannaggio di tutte le comunità psichiatriche e non dei soli manicomi
giudiziari.
Il trattamento quindi, deve
tendere a migliorare la personalità psichica degli internati recuperabili, così
da restituire alla società, non già persone in stato di squilibrio psichico e
quindi di « pericolo sociale », ma individui che, per consolidata
reintegrazione e per allenamento fisico al lavoro, sono in grado, almeno nella
maggioranza dei casi, di inserirsi nelle attività produttive della società.
Per corrispondere a queste
finalità, occorrono attrezzature idonee a creare in seno alle comunità
ospedaliere, un ambiente sociale capace di influire in senso migliorativo
sulla personalità difettosa.
Poiché nella genesi della
recidiva criminale hanno un ruolo determinante le anomalie di base, il
trattamento di risocializzazione[70]
è importante quanto quello terapeutico vero e proprio.
I motivi che ostacolano
l'integrazione sociale del prosciolto, sono essenzialmente due: la scarsa
collaborazione del privato e la poca qualificazione del soggetto dimesso.
Forse, il motivo è uno solo
ed è il secondo, giacché, a causa della mancata qualificazione professionale,
non è possibile, in alcuni casi, trovargli un lavoro nel mercato esterno.
Nella maggioranza dei casi,
le porte dei complessi industriali restano chiuse agli internati, quindi la
maggior parte effettua lavori agricoli stagionali e di manovalanza.
La minor parte, accetta
l'offerta di pubblici dormitori, oppure l'assistenza dell'E.C.A., col
versamento di modesti contributi giornalieri.
Questo stato di fatti prospetta la necessità di aprire mercati di lavoro
agli internati. Premessa indispensabile è che egli acquisisca una preparazione
tecnica adeguata, così che possa essere richiesto per i vantaggi che l'azienda
potrà trarre dalla qualificazione tecnica dell'occupando. Questo il problema
principale.
Allo stato attuale, i
manicomi giudiziari sono privi di lavorazioni a carattere industriale, capaci
di un insegnamento teorico-pratico qualificato, per cui la quota di
dimissibili, aumentata progressivamente da dieci anni a questa parte, trascorre
gli anni di misura di sicurezza in ozio[71].
La maggioranza (circa il
70-80%) degli internati, infatti, è priva di un mestiere e vive in ozio, in
camerate fredde e mal funzionali, in reparti spesso affollati, gli anni delle
misure di sicurezza[72].
Da qualche anno, tuttavia,
il trattamento socio-terapeutico è ufficialmente entrato anche in questi
ambienti.
Naturalmente, allo stato
attuale, siamo ancora nella fase dei primi tentativi socio-assistenziali i
quali mantengono prevalentemente aspetti penitenziari.
L'Ospedale Psichiatrico
giudiziario dovrebbe disporre di un'area prettamente ospedaliera e di una
comunità sociale.
Nella prima, i reparti,
dovrebbero ospitare i malati, nella seconda, invece, tutti coloro non più
bisognosi di terapia, che devono essere utilmente inseriti in attività
lavorative sotto la guida di un esperto, a sua volta consigliato dallo
psicologo, il quale, dovrebbe indicare le possibilità d’adattamento e
produttive di ciascuno[73].
La comunità, infatti,
dovrebbe essere autonoma a tutti i livelli e dotata di servizi indispensabili e
di lavorazioni che devono ripetere le caratteristiche di quelle esterne, perché
deve essere concepita come scuola di lavoro e di vita, oltre che come centro di
profilassi criminale e psichiatrico.
I problemi
diagnostico-terapeutici e di risocializzazione, quelli assistenziali e di pura
custodia sono oggi, però, affrontati con disagio per carenza di personale
medico, infermieristico e di custodia.
Allo scopo di ovviare la
mancanza di personale medico, è stata creata, in epoca recente, accanto al
medico di ruolo, la figura del medico aggregato, la cui collaborazione, è stata
preziosa e utile, nelle attività sanitarie di medicina generica.
4.1 Compiti e ruolo
dell’educatore
Le competenze operative degli educatori, in ambito penitenziario sono in parte, indicate nell’art.82[74]della legge n.354 del 1975 Ordinamento Penitenziario.
Per avere un quadro completo occorre, tuttavia, effettuare una lettura coordinata di vari articoli della stessa legge e del regolamento di esecuzione, in cui hanno trovato una più dettagliata e completa definizione.
Il complesso delle competenze di questo personale è stato, inoltre, meglio precisato dalla circolare[75]n.2625 del 1979 e riorganizzato con la circolare n.3337 del 1992 del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, con la quale si è provveduto alla provvisoria organizzazione in settori operativi degli istituti penitenziari e dei centri di servizio sociale, in attesa dell’emanazione del decreto ministeriale.
Uno dei compiti dell’educatore, è quello di partecipare all’attività di gruppo per l’osservazione scientifica della personalità degli internati (e dei carcerati). Si tratta di un gruppo di lavoro indicato nell’art.28[76]del regolamento di esecuzione, presieduto dal direttore dell’istituto e composto dall’educatore, dall’assistente sociale e dai dipendenti che hanno svolto attività di osservazione, nonché, a seconda delle necessità, dai professionisti previsti indicati dall’art.80[77]O.P..
Dell’osservazione scientifica della personalità si occupano l’art.13 dell’ordinamento e gli art.27, 28 e 29 del regolamento di esecuzione. Secondo l’art.27 del regolamento, l’osservazione scientifica è diretta all’accertamento dei bisogni di ciascun soggetto, connessi alle eventuali carenze psicofisiche, affettive, educative e sociali, che sono state di pregiudizio all’instaurazione di una normale vita di relazione.
In merito al ruolo affidato all’educatore, l’Amministrazione penitenziaria ha dato disposizioni anche tramite la circolare n.2598/505051 del 1979: in particolare l’educatore attraverso il colloquio deve desumere le problematiche del soggetto in merito all’ambiente familiare e sociale di provenienza, alla evoluzione della sua condizione personale rispetto alla situazione di partenza, agli atteggiamenti manifestati e alle loro motivazioni.
L’educatore rende atto di queste informazioni attraverso una registrazione sintetica, aggiornata periodicamente in base all’art.26[78]dell’ordinamento penitenziario.
Da questo emerge il senso dell’art.29[79], che attribuisce all’educatore il ruolo di Segretario tecnico del gruppo di lavoro per l’osservazione.
Un compito di particolare rilievo, assegnato di prassi all’educatore nella sua qualità di Segretario tecnico è quello di assicurare che sia formulato in tempi dovuti (art.27 del regolamento di esecuzione) il rapporto di sintesi. Questo è l’atto conclusivo dell’osservazione, in cui viene delineata una visione unitaria delle problematiche dell’internato e tracciate le linee essenziali del programma di intervento educativo. Da questo punto di vista esso costituisce, in realtà, già un atto del trattamento rieducativo. Il rapporto di sintesi è composto di due parti: la prima indica tutti i dati della vita del soggetto, gli aspetti esistenziali delle vicende umane sofferte, esclusi i dati e le circostanze inerenti ai reati commessi, che possono essere utilizzati per fini diversi da quelli socio-pedagogici e rieducativi.
Nella seconda parte, saranno indicate le linee fondamentali degli interventi da svolgere ai fini della risocializzazione, elaborati sulla base degli elementi illustrati nella prima parte. Saranno, perciò, indicate le attività (di lavoro, di istruzione, e altre) e i collegamenti con la famiglia e con l’esterno in generale.
In base alla normativa: il trattamento è diretto a promuovere un processo di modificazione degli atteggiamenti che sono di ostacolo ad una costruttiva partecipazione sociale (art.1 r.e.).
L’art.82 dell’ordinamento penitenziario attribuisce questo compito all’educatore, che lo esplica secondo strategie individuali o di gruppo, coordinando la sua azione con quella di tutto il personale addetto alle attività rieducative[80].
Tali attività, di assistenza, d’istruzione o culturali e del tempo libero, opportunamente coordinate e pianificate dall’educatore, finiscono per avere anche una valenza rieducativa.
L’educatore ha anche alcuni compiti nel servizio di biblioteca[81]: nella conduzione di questo servizio, questi non è il bibliotecario di routine, che consegna e ritira i libri, ma deve trasformare questa opportunità di contatto con i ristretti, in un occasione di incontro pedagogicamente costruttivo (circolare del 1979). In questa ottica il servizio di biblioteca viene inteso come “Grande Mediatore”di linguaggi di esperienze e culture[82].
Nella conduzione di questo servizio l’educatore si avvale, dal punto di vista organizzativo dell’opera dei rappresentanti degli internati (art.12 O.P), designati tramite sorteggio.
Le competenze dell’educatore, non espressamente previste dall’art.82 O.P., ma indicate in altri articoli della legge e del regolamento sono: 1) Partecipare alla commissione per le attività culturali come animatore e coordinatore delle varie iniziative (art.27 O.P.).
2) Far parte del consiglio di disciplina (art.40 O.P).
3) Partecipare alle attività della commissione per il regolamento interno (art.16 O.P), questa partecipazione è indispensabile per integrare i contenuti del trattamento educativo con quelli legati alla sicurezza e alla custodia.
La circolare del 1979 indica anche una serie di mansioni delegabili, da parte del direttore dell’istituto all’educatore.
In proposito, va ricordato che nel momento in cui fu varata la riforma del 75, la figura dell’educatore non esisteva.
Pertanto il sistema che si intendeva porre in essere non poteva immediatamente fare riferimento a questo tipo di operatore.
Si è perciò richiamato la figura del capo dell’istituto per tutta una serie di attività attinenti all’area della rieducazione.
Sono da ritenersi di competenza dell’area educativa anche i colloqui di primo ingresso (art.23 r.e.).
Si tratta di un adempimento molto importante, perché teso ad aiutare la persona a superare le difficoltà psicologiche con il primo impatto con l’istituto. Al colloquio di primo ingresso è strettamente connesso anche il “Servizio nuovi giunti” istituito dalla circolare n.3233 del 1987, quale particolare servizio per detenuti e internati nuovi giunti dalla libertà, questa prevede la delega ad un educatore del compito di coordinare il Servizio nuovi giunti e l’attività dei vari operatori ad esso interessati, esperti, sanitari.
Ogni
istituto penitenziario è dotato di un servizio medico e di un servizio
farmaceutico, rispondenti ad esigenze di cura della salute dei detenuti e degli
internati e dispone oltre a ciò dell'opera di almeno uno specialista in
psichiatria. Così stabilisce il I comma dell'art. 11 della legge 354/75
intitolato Servizio Sanitario, la cui esecuzione è regolata dagli art. 17 e 20
del D.P.R. 431/76.
La
legge prevede che, ove siano necessarie cure o accertamenti diagnostici, che
non possono essere apprestati dai servizi sanitari degli istituti, i condannati
e gli internati sono trasferiti, con provvedimento del magistrato di
sorveglianza, in ospedali civili o in altri luoghi esterni di cura.
A
questo proposito va citato l'art. 7 del D.L. 14 giugno 1993 n. 187, convertito,
con modificazioni, nella legge 12 agosto 1993 n. 296, recante nuove misure in
materia di trattamento penitenziario.
L'art.
7 (Servizio Sanitario) prevede che "in ciascun capoluogo di provincia,
negli ospedali generali sono riservati reparti destinati, in via prioritaria,
al ricovero in luogo esterno di cura, ai sensi dell'art. 11 della l. 354/75 e
dell'art. 17 del D.P.R. 431/76, dei detenuti e degli internati per i quali la
competente autorità abbia disposto il piantonamento. Alle cure e agli
accertamenti diagnostici provvede la struttura ospedaliera, mentre alla
sicurezza dei reparti ospedalieri destinati ai detenuti e agli internati
provvede l'Amministrazione Penitenziaria, mediante il personale del Corpo di
Polizia Penitenziaria.
Esiste
all'interno di ogni istituto penitenziario un'organizzazione sanitaria,
prevista dalla legge n. 740 del 1970 "Ordinamento delle categorie di
personale sanitario addetto agli istituti di prevenzione e pena non
appartenenti ai ruoli organici dell'Amministrazione penitenziaria".
La necessità di dedicare una
riflessione specifica ai problemi dell'etica dello psichiatra, che opera
nell'ambito giudiziario e penitenziario, deriva dal particolare ruolo che egli
ricopre e al peculiare rapporto che si instaura con le persone oggetto della
sua attenzione professionale: egli opera, infatti in condizioni ben diverse da
quelle sue abituali, da quelle cioè del prestatore di cura in quello speciale
rapporto fiduciario che si instaura fra medico e paziente[83].
L'intervento
dello psichiatra può essere richiesto dal Direttore dell'Istituto o dal medico
incaricato, che avendo la responsabilità di visitare quotidianamente il
detenuto ammalato, può accorgersi di eventuali disturbi o sofferenze psichiche
che potrebbero essere più opportunamente valutate dallo psichiatra e quindi
procede alla formulazione della richiesta di visita specialistica.
Lo psichiatra penitenziario[84]si
trova a dover adempiere ad un duplice mandato, quello eminentemente clinico e
quello di difesa sociale.
Chi opera in ambito
penitenziario e giudiziario, infatti, oltre a farsi carico dell'interesse del
soggetto di cui si occupa, non può dimenticarsi di avere un committente, il
giudice o l'amministrazione penitenziaria e comunque la società, come
espressione di un mandato di interesse pubblico[85].
Per quanto riguarda il ruolo
dello psichiatra come operatore carcerario, l'ambiguità di ruolo è massima,
poiché nella stessa persona confluiscono le funzioni di colui che deve fornire
informazioni all'autorità giudiziaria o all'amministrazione penitenziaria e,
quella di operatore del trattamento.
Si tratta in sostanza di una
situazione in cui convivono controllo e cura, in cui lo psichiatra che opera in
carcere oltre che terapeuta diviene anche criminologo.
Come tale è fra coloro che
si occupano, per conto dell'amministrazione giudiziaria o penitenziaria, di
studiare la personalità di un delinquente per valutarne la probabilità di
recidiva. Per esercitare questa attività, dovrà spogliarsi, in parte,
dell'abituale veste professionale, vale a dire quel particolare atteggiamento
di affettività che lo porta ad essere solidale col soggetto che gli si affida
in cerca di aiuto. In pratica l'alleanza terapeutica viene a scontrarsi con il
fatto che il paziente, in molti casi, è esaminato non in prospettiva di una
cura o di un intervento a suo favore, bensì per assolvere a richieste e a
necessità dell'amministrazione giudiziaria.
La duplicità del mandato,
l'impossibilità di un'effettiva alleanza terapeutica e il dover esaminare in
modo neutrale un soggetto creano una situazione di ambiguità e di conflitto,
che sono comunque inevitabili, e che è compito etico dell'esperto conciliare.
La duplicità del ruolo, tra
l'altro, comporta per lui un atteggiamento che non deve essere certo di
diffidenza e ostilità, ma non può essere neppure di acritica accettazione di
tutto quanto gli viene riferito[86]:
certo neppure il terapeuta stimerà sempre e comunque sincere le parole del
detenuto, ma la corrispondenza al vero avrà per lui minor importanza, rilevando
piuttosto, ai suoi fini, il perché una cosa viene sottaciuta ed un'altra magari
travisata[87].
Lo psichiatra deve essere
consapevole che il reo in questione, possa avere particolare interesse a
simulare o dissimulare stati d'animo e propositi, addirittura cercare di
manipolare e strumentalizzare l'esaminatore, dal giudizio del quale possono a
lui derivare concreti ed attuali benefici o pregiudizi in termini di libertà
personale.
La particolare
caratteristica del soggetto, che lo psichiatra si trova di fronte, quella cioè
di aver commesso un reato, comporta d'altra parte il rischio opposto a quello
terapeutico, rischio del "distanziamento moralistico[88]”.
L'obiettivo ideale è,
secondo Ponti, quello di trovare un giusto equilibrio fra i compiti valutativi,
la consapevolezza del ruolo pubblico e delle conseguenze che esso comporta e la
disponibilità, che può consentire la comprensione.
La duplicità del ruolo
comporta anche dei problemi per il segreto professionale dello psichiatra: esso
potrà essere invocato solo quando il suo ruolo è esclusivamente terapeutico.
Quando, invece il suo
compito è di fornire informazioni richieste dall'amministrazione della
giustizia, per formulare programmi di trattamento o per la concessione delle
misure premiali, allora non può essere invocato, questo ovviamente anche quando
le informazioni acquisite possono essere dannose al soggetto in esame.
Inoltre, contrariamente alle
scienze mediche, nelle quali i margini di incertezza sono assai più ridotti,
nella psichiatria e nella criminologia le certezze sono pressoché inesistenti.
Ciò vale ancor più nei giudizi di previsione del comportamento futuro, cioè nei
giudizi per la pericolosità sociale, per i quali la prudenza è resa
obbligatoria non solo dalla relatività della conoscenza predittiva, ma anche
dalla consapevolezza delle rilevanti implicazioni che il giudizio comporta sia
per il soggetto, che per la società.
È però difficile sdoppiare
l'operatore nei due ruoli distinti, tanto che, è stato più volte auspicato
anche da Ponti e Merzagora, che le due funzioni fossero effettivamente svolte
da persone differenti, e non solo in momenti diversi della loro attività.
Al di là di questi
interventi di aiuto e sostegno o anche propriamente curativi, lo psichiatra che
stringe un'alleanza terapeutica non può però dimenticare di essere anche
investito della responsabilità di effettuare un intervento pur sempre mirato a
trattamenti correzionali, tenendo presenti i fini istituzionali della
risocializzazione.
Ma in definitiva, qual è il
ruolo dello psichiatra quello di rieducare, oppure ha compiti e fini
esclusivamente terapeutici?
Molti psichiatri
penitenziari ritengono che il loro compito sia quello della diagnosi e cura
degli stati morbosi, nonché della prevenzione delle ricadute, con l'obiettivo
di minimizzare i danni che un sistema ingiusto produce a persone socialmente
sfavorite.
Altri, ritengono che la
rieducazione sociale sia compito della psichiatria, sostenendo che per
riabilitare una persona sia a livello psichiatrico che giuridico, sia
necessario suscitare in essa una passione che può nascere solo all'interno di
una relazione psicoterapeutica[89].
Ma non è allo psichiatra che
spetta il difficile compito della rieducazione, semmai all'istituzione
penitenziaria nel suo complesso, attraverso le molteplici figure professionali
che operano all'interno di essa.
Infatti, l'Ordinamento
Penitenziario all'art. 1 stabilisce che "nei confronti dei condannati e
degli internati deve essere attuato un trattamento rieducativo, che tenda,
anche attraverso contatti con l'ambiente esterno, al reinserimento sociale
degli stessi".
L'inciso "anche
attraverso contatti con l'ambiente esterno" rafforza l'idea che si tratti
di reinserimento sociale e non di mera riabilitazione psichiatrica. Quando poi
la stessa legge all'art. 15 stabilisce gli elementi del trattamento e li
individua (oltre che nell'istruzione, nel lavoro, nella religione, nelle
attività culturali ricreative e sportive) nell'agevolazione di opportuni
contatti con il mondo esterno, ancora una volta è chiaro che il trattamento
rieducativo ha per scopo il recupero alla vita sociale.
In questo contesto, si può
affermare che il compito dello psichiatra penitenziario sia quello di recare
cura e assistenza ai detenuti e non quello di rieducare. Solo dopo tale
conquista si può iniziare a parlare di rieducazione.
La necessità di svolgere una
funzione intermedia, fra i bisogni del detenuto e il mandato repressivo e
contenitivo del carcere, è quindi alla base di tutte le responsabilità che
gravano sullo psichiatra penitenziario. Egli rimane colui che da un lato non
può ignorare la legalità, ma dall'altro comprende i motivi che hanno portato
allo sconfinamento nell'illegalità.
Inevitabilmente egli si
troverà ad essere soggetto a pressioni e sarà coinvolto in una lunga serie di
scontri: con il personale militare, ad esempio, ma anche con gli altri medici
penitenziari che, pur avendo in comune con i primi, lo stesso mandato
terapeutico, concepiscono il carcere in maniera diversa.
4.3 Le licenze e la loro
funzione terapeutica
Il regolamento penitenziario
prevede la concessione di tre specie di licenze: una, per gravi esigenze
personali o familiari, di durata non superiore a 15 gg. (art.30 O.P.); una
licenza premio di gg. 30 e non più di una volta l'anno, ed una licenza
esperimento di sei mesi, sostitutiva degli ultimi sei mesi della misura di
sicurezza (art. 53 I e II comma O.P.) .
La licenza premio e quella
di esperimento sono di natura incentivante e di ricompensa, mentre la prima,
ossia la licenza concessa per motivi eccezionali, risponde alle necessità di provvedere
a gravi esigenze. Non mancò una certa sorpresa quando si ebbe la prima notizia
di tale istituzione nel regime dell'esecuzione delle misure di sicurezza,
sorpresa che, per la verità, scomparve subito per dar luogo al generale
consenso.
I penitenziaristi ritengono,
la concessione della licenza giustamente connaturale agli Istituti di
rieducazione, e, del resto, gli Istituti per l'esecuzione delle misure di
sicurezza, sono essenzialmente stabilimenti specializzati per l'opera di
rieducazione, o per lo studio delle cause di pericolosità di ciascun soggetto[90].
Sul piano pratico, in
sostanza, l'istituto delle licenze realizza, da una parte, un'interruzione ed
una trasformazione contemporanea della misura di sicurezza detentiva e
contribuisce, dall'altra, a adeguare il carattere della misura alle necessità
curative o rieducative dell'internato.
Le licenze
influenzano positivamente tutta
l'esecuzione.
Esse costituiscono, difatti,
un efficace incoraggiamento a mantenere una buona condotta, inoltre hanno anche
un valore sperimentale, in quanto permettono di accertare il grado di
riadattamento raggiunto dall'internato, e consentono, infine, la dimissione
temporanea di coloro che si reintegrano psichicamente, quando non è ancora
trascorso il periodo minimo del ricovero.
Sono inviati in licenza,
ogni anno, un largo numero d'internati e, tenuto conto degli insuccessi, si può
sostenere in linea generale che hanno agevolato, efficacemente, l'attuazione
delle finalità curative e rieducative delle misure di sicurezza[91].
Ci sono stati casi in cui,
l'internato in licenza si è reso responsabile d’infrazioni agli obblighi della
libertà vigilata ed in altri casi è ricaduto nel reato.
In ogni modo sul piano
pratico, si deve riconoscere alla licenza un’importante funzione sperimentale.
Difatti, non è possibile formulare un giudizio esatto sulla reintegrazione
psichica di un internato, utilizzando esclusivamente i dati derivanti
dall'esame del comportamento, che l'internato lascia osservare in degenza,
quando cioè, è elemento di una collettività ben ordinata e ben disciplinata,
che si muove, vive ed opera lungo schemi precostituiti dalla volontà dei
dirigenti e studiati per assicurare ordine e disciplina, pur nel pieno
rispetto delle singole personalità, nei rapporti fra uomini ed ambiente.
Ai fini della prognosi
sociale, non basta accertare che il ricoverato tiene regolare condotta, si
accosta con umanità ai problemi altrui, mostra buone iniziative ed è affettuoso
con i familiari durante i colloqui. Questi rilievi, sul modo di collocarsi del
soggetto nel mondo in cui vive e sul modo di esprimersi in senso affettivo e
sociale, attraverso la corrispondenza epistolare ed attraverso il colloquio con
i familiari, non costituiscono elementi sufficienti per formulare un
attendibile giudizio prognostico. Bisogna, difatti, tener presente che, mentre
poche sono le spinte a delinquere in un regime di vita adeguato, molte sono,
invece, le cause potenzialmente criminogene che possono traumatizzare il
dimesso in libertà.
La società se vuole la
riabilitazione di chi è caduto nel delitto e vuole la riutilizzazione dell'ex
alienato fra le forze lavorative, deve correre qualche rischio, sia pure ben
calcolato.
Del resto, la soppressione
delle licenze non sopprime il rischio, sicché il problema si sposta,
aggravandosi, ma non si risolve, perché il reinserimento dell'internato nella
società non sarebbe più graduale, ma brusco.
Egli, in tale evenienza,
passerebbe improvvisamente, pur con le debite cautele e garanzie, dalla vita
calma e riposante dell'Istituto ad un regime di vita vertiginoso.
Ma quali sono i criteri, con
cui sono formulate le proposte di licenza per i sottoposti a misura di
sicurezza di ordine psichiatrico?
Innanzi tutto sono fatte
opportune indagini sullo “status” familiare ed ambientale del soggetto, e sulla
condotta criminosa, e di solito sono proposti al Giudice di Sorveglianza solo
quei soggetti, per i quali si ha una diagnosi di guarigione clinica, non
contraddetta da successive osservazioni.
Naturalmente, il rispetto
assoluto di questa regola impone una dura selezione, riducendo il numero di
coloro che hanno i requisiti validi per aspirare alla licenza. Pertanto, non si
concede la licenza agli internati affetti da infermità psichiche produttive di
disordini comportamentali né a coloro che, per quanto clinicamente guariti,
mancano di assistenza, o presentano, nell'ambiente familiare o sociale,
ostacoli, o, comunque, difficoltà tali da pregiudicare il successo
dell'esperimento[92].
Grosso modo, essi costituiscono
due categorie di cui, la prima è essenzialmente composta da soggetti che,
episodicamente, sono stati malati in senso stretto ed in conseguenza, autori
di reati.
Difatti, in questi casi,
l'episodio morboso si è esaurito dopo breve tempo, presentando una piena
reintegrazione psichica nella vita di Istituto, in base alla propria cultura,
sensibilità ed educazione.
Naturalmente, benché
guarito, deve trascorrere, come si è detto, la misura di sicurezza nella
fondata presunzione che possa ricadere nella malattia e, quindi, nel delitto.
Sono i soggetti appartenenti a questa categoria che vengono proposti ed
inviati in licenza e per loro il premio assume un'importanza eccezionale, in
quanto la dimissione temporanea li libera dal complesso dell'alienato e li
avvicina al mondo di provenienza che hanno lasciato ed offeso in un momento di
non imputabilità.
L'altro gruppo di soggetti,
cui è concessa la licenza, è composto da elementi che presentarono, all'epoca
del delitto, manifestazioni patologiche acute[93](in
genere manifestazioni deliranti) che scompaiono in corso di ricovero.
Precede la concessione della
licenza, una seduta d’esame, in cui il Collegio Medico ed il Giudice di
Sorveglianza esaminano ogni singolo caso. Nel corso delle sedute di riesame,
il Collegio Medico non si limita ad effettuare una pura e semplice diagnosi
psichiatrica ed il Magistrato, dal canto suo, a ratificare una proposta
formulata dal Consiglio di Disciplina.
L'internato prospetta,
infatti, i suoi problemi, si libera delle sue ansie e si rasserena nel
costatare che magistrato e medico sono affiancati in un'opera che ha, per
ultimo fine, la sua guarigione.
Tali colloqui sono
efficacemente completivi del trattamento generale ed hanno il potere di
distruggere quella specie di muro invalicabile che ogni internato è portato, un
pò per il delitto commesso ed un pò per il ricovero in manicomio, a considerare
fra sé e la società ed a ritenere questa simbolica muraglia, come una barriera
impenetrabile alla comprensione ed alla solidarietà umana. L'iniziativa,
perciò, della riunione collegiale opera potentemente in tali sensi, poiché non
si occupa solamente degli aspetti procedurali, ma tende a comprendere ciascuna
vicenda tenendo presenti sia le esigenze della personalità sia quelle attinenti
alla pubblica sicurezza.
La licenza funziona anche da
stimolo a migliorare la condotta e, difatti, gli internati, « per cosi dire
promossi », al rientro nell'Istituto, tornano al lavoro con maggiore impegno e
con maggiore zelo[94].
Si inquadrano meglio nella
vita comunitaria, ed, in questi casi, l'esperimento consente di raccogliere
ulteriori dati, che saranno utilizzati, per la dimissione definitiva del
soggetto, in sede di riesame della pericolosità.
Quest’esperimento è
indispensabile, soprattutto per i ricoverati
seminfermi di mente, che sono affetti da personalità psicopatiche,
essendo necessarie preventive prove sociali, prima del definitivo inserimento
nella società. Essi, difatti, hanno in genere, molti precedenti penali e una
situazione economico-sociale difficile.
In questi casi, i risultati
dell'esperimento e la precisa conoscenza della situazione ambientale vengono
perfezionati con l'esame collegiale, dal punto di vista clinico, sociale e
giuridico.
Viene raggiunta, così, una
decisione concordata, che comporta il fine della difesa sociale, con il diritto
alla libertà individuale.
4.4 Che cosa sono gli O.P.G.
in sostanza, carceri od ospedali? Che cosa fa la società per migliorarli?
Chi opera dentro il carcere
sa che il disturbo mentale non riguarda pochi detenuti per i quali potrebbero
bastare alcune misure di contenimento, si tratta, purtroppo di un problema
diffuso negli Istituti di pena ordinari, che ripropone il tragico intreccio tra
psichiatria e diritto, cura del malato e tutela della società[95].
Il luogo fisico dove questo
intreccio si manifesta e si cura in tutta la complessità, sono gli Ospedali
Psichiatrici Giudiziari, una realtà che l'Amministrazione penitenziaria deve
affrontare, misurandosi ogni giorno con problemi di grande delicatezza.
Oggi, in Italia sono circa
1200 i detenuti ospitati e curati negli O.P.G. Per molti di loro, il vero
carcere è la malattia e la speranza è legata alle possibilità di recupero
psichico e di un superamento dell'infermità.
Ma che cosa sono realmente
gli OPG? Come funzionano? Che cosa si deve fare per riorganizzare questo
servizio, evitando la presenza sul territorio di tanti piccoli manicomi sotto i
quali nascondere ciò che non si deve e non si vuole far vedere?
Secondo i direttori degli
O.P.G.[96],
di Reggio Emilia[97]e Barcellona
Pozzo di Gotto[98], gli
ospedali psichiatrici giudiziari sono strutture soprattutto repressive, votate
ad assicurare la difesa sociale e ad emarginare l'uomo malato, essendo
strutture eminentemente carcerarie, dove immettere di tutto, infatti, anche gli
stessi servizi sanitari nazionali di natura psichiatrica, volentieri lasciano
in O.P.G soggetti di difficile gestione.
Infatti, gli ospedali
psichiatrici giudiziari, ancora oggi non sono delle strutture penitenziarie
deputate alla cura, ma sono organizzate come strutture deputate di più alla
pena.
Nell’ospedale di Barcellona
Pozzo del Gotto c’è stato, però, negli ultimi anni, un incremento del
volontariato cattolico, che è stato
uninterlocutore importante e imprescindibile nelle strategie
trattamentali, poste in essere sia all’interno dell’istituto che in esterno[99].
Anche le licenze-esperimento
sono gestite dal volontariato stesso, anche grazie all’aiuto del Dipartimento
di salute mentale.
Rimane, naturalmente, una
diffidenza profonda con gli abitanti della città, anche perché fino all'altro
ieri si diceva che la presenza del manicomio avesse, di fatto, incentivato il
radicamento mafioso sul territorio barcellonese e messinese in particolare, a
suo tempo, zone di bassa, pericolosità dal punto di vista mafioso.
Con il Dipartimento di
salute mentale è stata, però, raggiunta ormai un'intesa importante, il quale si
è impegnato a facilitate la presa in carico, cosiddetta intelligente dei
soggetti, per favorire una dimissione più precoce possibile.
Con gli Enti di formazione
sono stati anche realizzati degli sportelli formativi e regolarmente un gruppo
di internati vengono portati in luoghi di lavoro in esterno.
Per quanto riguarda
l’ospedale psichiatrico di Reggio Emilia, questa è in una struttura veramente
penitenziaria[100].
Ogni piano ha una sua scala
d’accesso per impedire appunto la commistione; le stanze hanno una metratura
per ospitare una sola persona, ma poiché sono presenti fra i 200/220
ricoverati, praticamente, in quasi tutte le stanze ci sono due persone[101].
In questa situazione a
Reggio Emilia, quindi non è possibile dividere le varie categorie di pazienti[102].
Comunque, in Emilia Romagna
si stanno realizzando delle iniziative di miglioramento abbastanza importanti.
Dal luglio dell'anno scorso,
infatti, l’amministrazione penitenziaria ha attivato delle convenzioni con il
Comune e con la Regione per un progetto sperimentale[103].
In un reparto, gestito esclusivamente da personale parasanitario e sanitario,
senza Polizia Penitenziaria è stata effettuata una custodia attenuata con una
trentina di ricoverati.
Fornendo praticamente alla
Asl e alla Regione la possibilità di lavorare in una struttura sempre
carceraria, ma più orientata verso la riabilitazione.
Con questo cambiamento,
anche la situazione dei rapporti tra la città, tra l'Ente locale e il
dipartimento di salute mentale di Reggio Emilia, è notevolmente cambiata.
Adesso esiste un'ottima collaborazione.
Il volontariato è
sviluppatissimo e dentro l’ospedale ci sono una quarantina di volontari che
aiutano nel trattamento, non solo interno, ma anche esterno.
L'O.P.G di Napoli, invece, è
un'antica struttura, nel centro storico, prestata al Ministero della Giustizia,
ospita 170-180 internati e non solo, perché è annessa anche la Casa di Cura e
Custodia della sezione per minorati psichici[104].
L’istituto svolge, come altri ospedali, compiti di osservazione
psichiatrica per le strutture penitenziarie[105].
Quindi, anche in questo ospedale giudiziario convivono situazioni diverse per
quanto riguarda il trattamento penitenziario e per quanto riguarda i benefici
che i soggetti possono ricevere dalla vita penitenziaria[106].
L'ospedale giudiziario
più antico d'Italia,
ad Aversa, è nato nel 1876 con semplice atto amministrativo e all'inizio
funzionava soprattutto per eliminare quello che poteva essere dannoso e
fastidioso nel carcere e nel manicomio.
Anche Ferraro, direttore
dell’istituto, è d'accordo sulla necessità del superamento dell’O.P.G,
ritenendo che l'unica possibilità di effettivo
cambiamento stia nel far venir meno l’ambiguità carcere-ospedale,
attuando una sanitarizzazione e una riduzione notevole dell’aspetto
custodialistico.
Ad Aversa, da circa quattro
anni, si cerca di effettuare questo cambiamento, che ha portato ad un
miglioramento nelle persone, che stanno all'interno, considerate come
ricoverate, e non più come detenute.
Il problema principale, però
riguarda il personale, infatti, nell’O.P.G di Aversa ci sono circa 60
infermieri, una novantina di agenti di Polizia penitenziaria e due soli medici
direttori, cinque consulenti psichiatri, cinque medici incaricati, più uno per
uno di ogni branca della specializzazione: un cardiologo, un dentista e così
via[107].
Il personale, quindi, non è
sufficiente per questo tipo di problemi; il numero degli infermieri dovrebbe
essere aumentato e migliorato qualitativamente con dei corsi di formazione.
Comunque, nell’ultimo
periodo l'istituto si sta aprendo molto alla città e al territorio,
permettendo, non solo le uscite dei ricoverati, ma soprattutto gli ingressi
della comunità esterna, all'interno.
Le varie iniziative, gli
spettacoli, i convegni e l’esistenza di un museo storico, richiamano parecchie
persone all'interno della struttura.
La collaborazione con le
Università fa sì che alcune lezioni avvengano all'interno dell’istituto.
Anche negli Enti locali, per
quello che concerne la Campania, ci sono stati ultimamente maggiori
interessamenti.
E’ stato organizzato,
infatti, con l'Assessore regionale alla Sanità un protocollo d'intesa, che
prevede la presa in carico del paziente dal suo ingresso in Istituto fino
all'uscita.
Il vero problema, però, come
sostiene il professor Ferraro, direttore dell’istituto, non è tanto quello del
malato di mente che arriva all'interno della struttura e che nel momento in cui
viene preso in carico viene affidato alle varie attività trattamentali e
riabilitative, infatti, nel giro di un tempo più o meno breve, nel 90% dei casi
è nella condizione di potersi reintegrare in una società di vita civile.
Il problema è all'esterno: i
servizi sanitari non sono in grado di potersene far carico, o il luogo di
residenza in qualche modo lo rifiuta, o non ci sono famiglie disponibili ad
accoglierlo.
Per cui, ad Aversa c’è una
grossa percentuale di persone che stanno in proroga per mancanza di strutture,
che possono farsene carico all'esterno.
Schiavon, direttore
dell’ospedale psichiatrico di Castiglion delle Stiviere presenta, invece una
situazione diversa.
L’O.P.G di Castiglione,
infatti è favorito da questo punto di vista, perché vi si può senz'altro
lavorare senza il gravame degli aspetti custodialistici.
Negli ultimi dieci anni, la
realtà di Castiglione è considerata come un modello sanitario, anche se, questo
modello non è estensibile a tutta la popolazione degli O.P.G, non essendoci
personale di polizia, ma solo di tipo
sanitario.
Questo, permette al
sanitario di avere autorità nei confronti del paziente, permettendo di
lavorare, in base ad un progetto garantendo continuità, cosa che non è sempre
possibile in certi contesti della psichiatria territoriale.
Anche secondo Scarpa[108],
gli O.P.G, come misura di sicurezza, sono nati per punire, custodire, per
difendersi dalle persone che sono ritenute pericolose socialmente.
Fondamentalmente, c'è
bisogno, quindi, di una riforma specifica degli O.P.G; non si faranno progressi
fino a quando ci saranno istituti cosi grandi che hanno il pericolo di
diventare, per forza di cose, manicomi piuttosto che strutture di cura, lontane
dal territorio, dalla famiglia, dai rapporti sociali, con una dimensione di
chiusura e di separazione completa tra quello che è il mondo della psichiatria
e quello che è il mondo sociale, dell'associazionismo, del territorio.
C'è bisogno di strutture più
piccole, più vicine al rispettivo territorio dei pazienti internati,
soprattutto con un servizio sanitario che non deve essere rappresentato da una
pluralità di servizi sanitari, ma un unico servizio sanitario nazionale.
4.5 Il problema
dell’emarginazione
L’emarginazione degli infermi di mente non è un prodotto delle strutture giuridiche, ma deriva da fattori culturali diversi, sorti spontaneamente nelle collettività storiche.
Non si deve dimenticare, infatti, che nella storia del passato le infermità mentali erano trattate come maledizioni divine[109].
Anche nelle epoche più recenti si è avuta una emarginazione dei folli, contro i quali le masse hanno manifestato insofferenza e chiusura, con azioni che comportavano la loro esclusione.
Quest’obbiettivo è stato realizzato con la procedura dell’etichettamento: il diritto ha stabilito alcuni limiti al di là dei quali è lecito far scattare i meccanismi di emarginazione e al di sotto dei quali è possibile avere tolleranza: ad esempio la legge n.36/1904 aveva definito la categoria dei malati di mente.
Questo etichettamento rappresenta la base dell’emarginazione: coloro che sono qualificati infermi di mente passano ipso-fatto in una sotto-categoria di persone. La conseguenza è quella, che questi stessi individui si percepiscono come esclusi e sviluppano dinamiche di difesa e di reazione che non giovano né ad essi né alla comunità, recando pregiudizio al loro adattamento sociale in maniera spesso irreparabile.
A ciò si aggiunge la modificazione che si ha nella psiche di colui che prova la durezza del trattamento dell’ospedale psichiatrico. Nell’interno dell’istituto, infatti, si rafforza il senso di emarginazione per l’atteggiamento del personale di assistenza che tende a porre una distanza con i degenti.
Il concetto che l’internato inizialmente aveva di sé, in un contesto familiare e sociale perde la sua consistenza, poiché il trattamento in internato, fatto di interventi coattivi, fa venir meno quella base di sicurezza che è indispensabile per l’equilibrio psichico.
La situazione è aggravata dall’ordinamento giuridico, che prevede alcune menomazioni di diritti nei confronti dei folli: i ricoverati, infatti, sono privati delle facoltà di esercitare taluni diritti, come l’elettorato e la potestà familiare.
Nei confronti
dei ricoverati sono adottate misure privative o limitative della loro capacità
giuridica (interdizione o inabilitazione). L’emarginazione così assume aspetti
significativi: la rottura fra questi soggetti e la società diventa piena e le
possibilità di recupero diventano scarsissime. Inoltre le risorse dell’ammalato
di mente lo rendono spesso incapace di ricostruire la sua personalità su nuove
basi. Egli rimane emarginato perché viene percepito come oggetto più che come
soggetto dal personale, dagli altri ricoverati e dagli estranei. Quando è
dimesso anche se con provvedimento che lo riabilita, egli si trova in
difficoltà al rientro nella società. L’etichettamento da lui subito non è
facilmente dimenticato.
4.6 I
trattamenti sperimentati nell’O.P.G. di Aversa
Quali sono le terapie previste? Analizziamo quelle messe a punto nell’ospedale psichiatrico più antico d’Italia: Aversa.
In questo
O.P.G. ci sono stati molti cambiamenti in meglio, infatti la condizione di vita degli internati, fino a
qualche anno fa era pietosa ed assurda.
Gli internati venivano
trattati con massicce dosi farmacologiche, spesso in situazione di contenzione
forzata ed identificati con numeri, vivevano in situazioni igieniche precarie,
con vitto di terz’ordine, ma soprattutto in un totale isolamento.
Questa condizione di vita
sicuramente non dava alcun spazio alla comunicazione ne alla relazione,
favorendo, anche a chi era meno compromesso, il peggioramento della propria
condizione psico-fisica.
Con lo scopo, allora, di
restituire spazi che favorissero i contatti relazionali, si è lavorato in
questi ultimi tre anni, ed ancora si sta facendo[110].
L’idea di terapie di gruppo,
inizialmente è nata dal volere sperimentare tecniche psicodrammatiche, di cui
il dott. Ferraro, direttore dell’istituto, è esperto. Sono stati organizzati
gruppi di tipo psicodrammatico nel teatro dell’istituto, ma le forti risposte
emotive suscitate da questo tipo di tecnica fecero propendere per terapie più
contenitive.
Si passò così a sperimentare
dei gruppi d’ascolto, organizzati in uno spazio semiaperto, simile ad una
piazza di paese. Fu allestito un bar con tavolini, dove era possibile sostare
tutta la mattinata, per leggere il giornale, favorire la comunicazione e
soprattutto ascoltare.
Questa nuova dimensione ha
favorito e stimolato molto velocemente la comunicazione, nella ricreazione di
uno spazio familiare e nel rispetto dei tempi dei ricoverati.
Si sono, pian piano, visti i
primi successi e miglioramenti sviluppando la comunicazione, le relazioni ed il
confronto. In seguito è stata favorita e sviluppata l’espressione in tutte le
sue dimensioni, anche fra i più psicologicamente compromessi e chiusi nella
propria malattia; fra i deliranti, gli allucinati, e gli ebefrenici.
Grazie ad un esperta dei
linguaggi per l’espressione e la comunicazione, è stato allestito un
Laboratorio di espressione con il colore, per sperimentare una nuova possibilità
comunicativa, coinvolgendo nuovi e diversi gruppi di pazienti[111].
In questo modo i pazienti
hanno degli spazi di libera comunicazione all’interno di un ambiente dove la
reclusione annulla l’identità dell’individuo e ne nega l’espressione,
individuando precisi interventi con funzioni riabilitative.
Sono stati effettuati anche
dei cambiamenti con modifiche sul regolamento interno. E’ stato abolito il
servizio di sorveglianza sulle torrette del muro perimetrale, mentre
contemporaneamente sono stati istituiti
corsi di formazione psico-sanitaria per il personale di custodia. La
partecipazione di tutte le figure operative dell’istituzione alle attività
terapeutico-riabilitative, in qualità di osservatori partecipanti, ha
migliorato la convivenza quotidiana, istruendo all’ascolto[112]e
alla comprensione.
Sono stati organizzati
reparti pilota di "socioterapia trattamentale" completamente gestiti
dai ricoverati, con l’ausilio del solo personale sanitario paramedico, e senza
la presenza del personale di Polizia Penitenziaria.
E’ stato sperimentato, poi ogni tipo
di riabilitazione facendo organizzare e partecipare i ricoverati a spettacoli
musicali, teatrali, ricreativi o sportivi.
E’ stata tentava l’apertura
all’esterno, permettendo sempre più spesso l’ingresso della "gente
comune" all’interno dell’istituto con visite al museo e all’area verde,
visione agli spettacoli, partecipazione alle feste, al fine di sensibilizzare
ed istruire la pubblica opinione circa quel luogo pre-giudicato contenitore
solo di orrori.
Tutto ciò ha trasformato in
pochi anni un luogo di chiusura e di negazione in un progetto di cura e
riabilitazione, in cui è possibile sperimentare nuove ipotesi di rieducazione
sociale, come stanno dimostrando i successi ottenuti negli ultimi anni.
CAPITOLO QUINTO
IL
SUPERAMENTO DELL’OSPEDALE PSICHIATRICO GIUDIZIARIO
5 L’ospedale psichiatrico
giudiziario ed i relativi profili
d’illegittimità costituzionale
Come abbiamo visto nel precenti
capitoli c’è un’eccedenza nel tradizionale ruolo degli O.P.G, adottati, non
solo per i classici malati di mente autori di reato, ma usati anche come
sanzione psichiatrica, o ancora come misura temporanea per diverse categorie di
soggetti, per i quali sarebbe meglio il comune ospedale psichiatrico o dopo la
legge 180/78, le sezioni speciali degli ospedali tradizionali.
In ogni caso la durata della permanenza, dipende dal concetto
astratto di gravità del reato, dieci anni in caso d’ergastolo, cinque per le
pene non inferiori ai dieci anni; e di due in tutti gli altri casi.
E’ chiaro, quindi che
l’O.P.G. assume anche una funzione retributiva, e quindi rischia di essere
usato come una tradizionale sanzione penale. Questo ha costituito anche materia
per un’eccezione di legittimità costituzionale, sottoposta al vaglio della
Corte, ma respinta dalla medesima[113].
Originariamente, nel 1930, il manicomio criminale era stato, infatti,
introdotto per assolvere due funzioni, ovverosia la custodia, con la durata minima,
e la cura, chiara per il legislatore del 1930, perché in quel periodo il
manicomio criminale era l’unico tipo di sistema conosciuto, che si prendesse
cura del malato di mente. Tuttavia se la funzione custodialistica è rimasta
immodificata, la funzione terapeutica sta ora, senza alcun dubbio, subendo una
profonda crisi. Crisi che sorse dal movimento che negli anni settanta portò, in
Italia, alla abolizione dei manicomi con la Legge 180/78, la cosiddetta “Legge
Basaglia”, che consisteva nel considerare il trattamento essenzialmente come
volontario e ciò in conformità con l’art.32 Cost. e, come eccezione,
obbligatorio, e questo in casi davvero particolari, con ricovero nelle sezioni
speciali, da organizzare nei comuni ospedali. Quest’idea, sebbene criticata[114],
dimostra in ogni caso, che anche per il legislatore il modello più adatto di
terapia non è più il manicomio tradizionale.
Stando così le cose anche
l’O.P.G., che è l’unico istituto tradizionale ancora esistente può essere
giudicato contrario ad alcune disposizioni della nostra costituzione.
La prima illegittimità
riguarda il principio di uguaglianza, art.3 Cost., in quanto c’è una
discriminazione nei confronti del malato mentale autore di reato, non c’è,
infatti, alcuna ragione per mantenere l’istituzione del manicomio criminale,
quando i simili manicomi civili sono già stati aboliti[115].
A quest’argomento potrebbe essere opposto che esiste una differenza tra infermo
di mente e infermo di mente autore di reato, poiché solo quest’ultimo ha
commesso, appunto, un reato, e quindi anche l’istituzione prevista per lui deve
possedere una funzione più orientata alla custodia.
Quest’ultimo, però non è un
argomento molto persuasivo[116],
se si è d’accordo che il reato nella vita di un malato rappresenta spesso solo
un sintomo della malattia stessa, per cui la differenza fra le due categoria di
soggetti non è tale da prevedere tipi di trattamento così differenziati, come,
invece, avviene nel nostro ordinamento.
Un altro problema di
illegittimità costituzionale riguarda l’art.32 della Costituzione, che
prescrive che il diritto alla salute è in primo luogo un diritto fondamentale
della persona, e solo dopo della comunità, ma anche che i trattamenti
obbligatori, sono legittimi solo se prescritti dalla legge.
In questo settore,
l’istituzione dell’O.P.G. può essere giudicata contraria a tale disposizione,
soprattutto per due profili.
Il primo riguarda le misure
disciplinari, che possono essere adottate nei riguardi dei malati mentali a
volte contrarie alla dignità della persona.
Il secondo riguarda il
contenuto stesso del trattamento attuato nell’O.P.G., il quale, come si è
visto, risulta troppo simile a quello disposto in carcere per gli autori di
reato capaci d’intendere e di volere, per cui è difficile parlare di un trattamento
terapeutico in senso proprio, in quanto prevale la parte custodialistica,
rispetto a quella di cura.
Per questo si può mettere in
dubbio che il trattamento nell’O.P.G., possa essere conforme al principio
espresso dall’art.32 della Costituzione. Quest’ultimo profilo deve essere messo
in relazione anche con l’art. 27, III comma Cost., che prescrive che le pene
devono tendere alla rieducazione del condannato.
Fra le pene, devono essere
comprese anche le misure di sicurezza, ma la nostra Corte costituzionale ha
sempre respinto l’idea che l’art.27 comma III possa essere applicato alle
misure di sicurezza, ritenendo che questa disposizione riguarda solo le pene
“strictu senso”, perché le misure di sicurezza possiedono “ex se” tale
tendenza, che deve essere invece espressamente riconosciuta alle pene, e ciò in
base ad una specifica disposizione in esame anche alle misure di sicurezza[117].
Nella direzione tracciata
dalla corte non è quindi possibile usare il controllo costituzionale delle
misure di sicurezza, sotto il profilo dell’art.27 III comma. Ciò appare anche
contraddittorio se affiancato ad una sentenza in cui la corte ha formalmente
riconosciuto la funzione rieducativa della pena[118].
5.1 Le alternative all’O.P.G
e la loro sinora scarsa utilizzazione in Italia
La ragione principale per
cui gli O.P.G, nonostante le forti perplessità di ordine costituzionale sopra
menzionate, non siano stati ancora dichiarati illegittimi dalla Corte, sembra
risiedere nel rischio di un vuoto legislativo, in special modo perché in Italia
reali alternative ad esso non sono state ancora sperimentate, quantomeno su
larga scala[119].
In molti Paesi europei[120]è
invece da lungo tempo, ben conosciuta l’esperienza dei c.d. “istituti di
terapia sociale”, previsti per diverse categorie di autori di reato, non solo
malati in senso classico, ma anche autori di reati sessuali o di delitti
particolarmente gravi.
Questo tipo di istituzioni
non è alternativo ai manicomi tradizionali, che in tali Paesi continuano a
sussistere, ma si pongono a metà strada tra le pene e le misure di sicurezza.
In Italia gli istituti di
terapia non sono stati ancora introdotti sia a livello legislativo sia a
livello pratico, con le eccezioni di Lonate Bozzolo (Mi), e Civitavecchia
(Roma), la cui situazione è piuttosto cambiata, la casa di lavoro di Lonate
Bozzolo è stata chiusa e l’istituto di rieducazione per giovani-adulti a
Civitavecchia è stato trasformato in carcere.
Questo ha provocato il
fallimento di nuove prospettive in questo settore, ed in questa situazione sarà
difficile che la Corte dichiarerà l’illegittimità costituzionale dei manicomi
giudiziari.
5.2 Le prospettive di
riforma
In tema di reato e malattia
mentale siamo ad una svolta storica ma bisogna precisare che questa non deve
essere una riforma parziale, riguardante solo le misure di sicurezza, infatti il legislatore non dovrebbe più creare
strutture destinate appositamente ai malati di mente, perché ripeterebbe
l’errore degli O.P.G. e nulla cambierebbe[121].
Dovrebbe, invece curare l’evoluzione dell’assetto psichiatrico sul territorio,
valorizzando le strutture già in atto, delineate dal d.p.r.7 aprile 1994, che
conferma la tendenza a superare l’O.P.G.
Per i prosciolti
non più pericolosi, non sorgono problemi perché questi sono già
seguiti dalle strutture territoriali residenziali o ambulatoriali. Per i pericolosi, il magistrato dovrebbe avere il potere di
applicare in ogni momento o di trasformare o di
estinguere la misura ritenuta più idonea, non solo in senso
positivo per l’ammalato, ma anche in quello negativo, a seconda
che la malattia presenti segni di guarigione, stabilizzazione,
regressione, peggioramento.
Sotto
tale profilo, è positiva, la proposta dell’affidamento
in prova, caratterizzata da una serie di
prescrizioni anche rigorose, che il servizio sociale e quello psichiatrico del
territorio devono far rispettare.
Non si
tratta di una brutta copia della misura sostitutiva della
pena; cambiano le finalità, che sono quelle di impedire la recidiva,
contrastando la pericolosità sociale del soggetto mediante un programma
individualizzato redatto e gestito dopo aver accertato che il
soggetto stesso sia idoneo e capace di rispettare tutte le prescrizioni, anche
quelle terapeutiche.
Le difficoltà più rilevanti,
stanno nell’identificazione della struttura chiusa, che dovrà sostituire
l’O.P.G. senza copiarne i difetti[122],
coniugando le esigenze di sicurezza e di difesa sociale con il diritto del
malato ad ottenere una terapia vera e propria.
La
vera, soluzione sta ancora nelle strutture psichiatriche del territorio e
precisamente nella creazione, in ogni Regione, o gruppo di regioni vicine, di
una struttura residenziale protetta verso l’esterno da
personale dell’amministrazione penitenziaria, gestita all’interno da personale
medico e paramedico del servizio sanitario nazionale, capace non solo di
rispondere ai vari bisogni assistenziali, terapeutici, riabilitativi del
soggetto prosciolto tuttora ritenuto pericoloso, ma anche di studiare per il
soggetto stesso il programma individualizzato[123].
Altre soluzioni non sono attuali, mentre la permanenza dello status quo, rischia
di determinare un ritardo incolmabile, che prima o poi la Corte Costituzionale potrebbe
intervenire creando un vuoto legislativo.
Una
conferma di quanto sopra, è rinvenibile nel progetto obiettivo per la tutela e
a salute mentale, valido per il triennio ‘98-2000, finalizzato sia al
superamento degli O.P.G., che a realizzare forme di coordinamento tra i dipartimenti di
salute mentale ed i servizi psichiatrici penitenziari[124].
Il progetto insiste sul dipartimento quale organo di coordinamento, garante
della integrazione ed unitarietà di tutti i servizi che
vanno dall’ospedale alle strutture residenziali e semiresidenziali. A tale fine, i dipartimenti
dovranno munirsi di un protocollo operativo di intervento sui pazienti gravi,
che preveda il progetto personalizzato suddetto, utilizzando tutte le risorse,
oltre alle a quelle residenziali. A queste ultime occorre fare riferimento se
si vuole veramente superare l’O.P.G.: si tratta già di strutture extra ospedaliere
in cui si svolge parte del programma personalizzato, terapeutico e socio
riabilitativo, non destinate alla media e lunga degenza, cui si può bene
aggiungere una sorveglianza esterna che limiti temporaneamente la libertà di
circolazione del prosciolto.
Comunque nell’ambito del
programma terapeutico, approvato dal magistrato di sorveglianza e sempre
modificabile.
Come si è visto, però, la medicina penitenziaria, è rimasta al margine
della riforma del 1978, infatti, i detenuti sono, fino ad oggi, stati esclusi
dai vantaggi, e dagli svantaggi che offre il servizio sul territorio ai
cittadini liberi. Il che non è giusto né ragionevole ai fini della parità di
trattamento e della tutela della salute di tutti, come esigono gli art.3 e 32
della Costituzione.
Nonostante
l’impegno professionale degli operatori, era chiaro che la medicina
penitenziaria non avrebbe potuto competere con quella nazionale, in particolare
per gli strumenti e le capacità finanziarie e quindi operative.
Già
l’art. 11, primo comma O.P., prevedeva nel 1975 per ogni istituto un servizio
medico “rispondente alle esigenze profilattiche e di cura dei detenuti”, questa
è stata già una partenza sbagliata, perché ha isolato i detenuti, facendone una
categoria a parte di non-cittadini.
La legge
ha creato, anche una medicina psichiatrica penitenziaria autonoma, laddove
imponeva in ogni caso l’opera di almeno uno specialista in psichiatria. Infatti
i commi 2 e 10 del suddetto articolo e l’art. 17 del regolamento prevedevano il
ricorso ai servizi locali, e addirittura, il trasferimento negli ospedali
civili dei detenuti quando cure ed accertamenti “non possano essere apprestati
dai servizi sanitari degli istituti”. L’amministrazione penitenziaria, ha fatto
tutto il possibile anche per organizzare e gestire reparti ospedalieri propri e
con mezzi propri, ma i risultati non possono che essere considerati modesti e
sono comunque tali, da non poter competere con le strutture del servizio
nazionale. Il che anche sotto tale profilo, penalizza ulteriormente i detenuti
e non risponde alle loro esigenze di cittadini. Per questo, il Parlamento con
legge 30 novembre 1998 n. 419[125],
ha deciso di delegare al Governo l’emissione di più provvedimenti con i quali
razionalizzare il sistema attuale, adottando un testo unico in materia di
organizzazione e funzionamento delle aziende sanitarie e di quelle ospedaliere.
Con questa legge il servizio pubblico si va attrezzando e munendo di una serie di presidi
in grado di provvedere anche agli ammalati che hanno commesso reati e
presentano ancora una pericolosità sociale residua.
Al più si tratta di
stabilire che cosa si deve intendere, ai fini che interessano, per “protezione”
e le modalità di attuazione della stessa, essendo evidente che il concetto è
posto sia a tutela del malato che dei terzi e della società e si deve riferire
contemporaneamente alla terapia ed al controllo fisico del soggetto. Come tale
la protezione si deve rivolgere sia verso l’interno che verso l’esterno della
struttura.
5.3
Una possibile risposta: l’affidamento terapeutico di tipo psicosociale
L’istituto
dell’affidamento, inteso come alternativa non penitenziaria alla misura di
sicurezza per malati di mente, che hanno commesso reati, è ad ogni effetto una
misura di sicurezza[126],
che deve essere applicata dal magistrato di sorveglianza: immediatamente, a
coloro che hanno commesso reati meno gravi, (puniti con la reclusione o
l’arresto non superiori nel massimo a 5 anni), che presentino tuttora una
pericolosità residuale controllabile e gestibile senza bisogno di inserimenti
residenziali coatti; dopo un certo periodo di internamento in una struttura
chiusa, agli autori di reati puniti con pene superiori nel massimo a 5 anni,
quando la pericolosità sociale rientri nei limiti di cui sopra, ed in attesa di
proroga o di revoca.
La
durata non può che essere variabile, legata alla natura della malattia.
Ineliminabili
sono le analogie, ma anche le differenze, con l’istituto di uguale
denominazione previsto dalla legge penitenziaria, per le pene detentive.
Innanzitutto
l’osservazione della personalità, (ora soppressa con la legge n. 165/1998[127]
per i condannati definitivi a pene anche residue non superiori a tre anni) deve
continuare a sussistere qualunque sia la gravità del reato commesso, nei
confronti degli infermi di mente autori di reato. L’osservazione del malato di
mente richiede anche interventi medici terapeutici, a differenza
dell’osservazione del condannato imputabile, che è libero di non accettare di
collaborare. Entra in tal modo a pieno e prevalente titolo il servizio
psichiatrico territoriale, sia nella fase d’osservazione che in quella
trattamentale. Questo tipo di intervento, inoltre è già stato sperimentato con
l’istituto dell’affidamento in prova al servizio sociale dei tossicodipendenti,
molto simile a questo, ottenendo ottimi risultati
CAPITOLO SESTO:
IN VISITA ALL’OSPEDALE
PSICHIATRICO GIUDIZIARIO DI CASTIGLION DELLE STIVIERE
Nei capitoli precedenti si
sono delineati i presupposti storici, politici e giuridici del manicomio
giudiziario, mentre in questo capitolo si tenterà di vedere al di là della
normativa giuridica, analizzando una situazione vista dall’interno. In Italia
di Ospedali Psichiatrici Giudiziari ne esistono cinque più uno. Il sesto è
Castiglion delle Stiviere[128].
Quest’ospedale, in provincia di Mantova, rappresenta una figura anomala nel
panorama psichiatrico giudiziario italiano.
Già la sua dislocazione
geografica è particolare, essendo l’unico al nord d’Italia, inoltre, a
differenza degli altri cinque, è una struttura privata, non direttamente
gestita dall’Amministrazione del Ministero di Giustizia. E’ una struttura del
Servizio sanitario nazionale, le cui regole di funzionamento sono le stesse
delle Aziende sanitarie sul territorio nazionale. Nasce nel 1938[129],
come sezione giudiziaria dell’Ospedale Psichiatrico, sulla base di una
convenzione stipulata con il Ministero di Grazia e Giustizia che consentiva di
accogliere malati di mente autori di reato.
Di Castiglione si parla, e
certamente non a torto, come di un manicomio avanzato, di un istituto dove le
condizioni degli internati sono migliori che altrove. Le ragioni di questa
differenza derivano soprattutto dall’organizzazione strutturale dell’O.P.G..
Gli altri O.P.G. dipendono
dal ministero di Giustizia, che paga per i ricoverati una retta giornaliera di
circa 120 mila lire[130],
a Castiglione la retta è di 310 mila lire al giorno, ci sono undici medici[131],
140 infermieri, inoltre, è l’unico ospedale privo di polizia penitenziaria,
molto più costosa degli infermieri. Quest’aspetto conferma il fatto che questa
sia l’unica struttura che svolge da sempre il suo compito istituzionale,
attraverso un assetto organizzativo ed operativo esclusivamente sanitario,
secondo il principio per cui trattare e riabilitare il malato porta a
neutralizzare la sua stessa violenza senza dover operare prioritariamente sulla
repressione della medesima. Questo principio è coerente col presupposto che può
non esserci differenza nel trattare la persona affetta da disturbi
psichiatrici, sia che questa abbia o meno commesso un reato.
Un altro aspetto che
conferma che Castiglione è una struttura prevalentemente sanitaria è il fatto
che non è stato adottato nessun regolamento penitenziario interno[132],
questo per evitare la presenza di regole rigide da rispettare che potessero
andare contro la guarigione del paziente. Infatti, per esempio, non è previsto
un limite minimo al numero dei colloqui, fatti in un apposito locale senza
vetri divisori; le telefonate possono essere fatte ogni quindici giorni, ma
sono previste delle deroghe per eventuali convenzioni terapeutiche con
l’internato. Un'altra particolarità di questa struttura, che contribuisce a
differenziarla dagli altri ospedali, è il fatto che sia l’unica dotata di una sezione
femminile.
L’O.P.G. si trova nella zona
collinare limitrofa all’area urbana[133]
(località Ghisiola ); la struttura è completamente nuova. L’istituto è
strutturato a padiglioni in modo da poter diversificare le diverse aree in base
alle attività riabilitative e le attività in comune, ci sono: le aule
scolastiche, il parlatorio, la cappella per il culto religioso, il laboratorio
di pittura, il bar, la palestra, le piscine, gli impianti sportivi ed aree
verdi. Ciò consente agli internati di poter fruire di ampi e confortevoli
spazi. Le stanze di degenza rispettano i criteri della lungo degenza in
struttura comunitaria, con personalizzazione delle stesse, e concepite secondo gli attuali orientamenti
psichiatrico riabilitativi, infatti sono prevalenti le stanze con uno o due
posti letto, dotate ognuna di un proprio servizio igienico[134].
Inoltre viene data molta importanza anche alle aree ad uso comune, nella zona
di soggiorno, per esempio, ci sono degli spazi appositi per i fumatori,
inoltre, adiacente ad ogni reparto vi sono cortili e zone verdi per permettere
ai pazienti di passare la maggior parte della giornata all’aria aperta. Anche
la mensa è ben gestita, il cibo è differente a seconda dei pazienti, con un
adeguato rapporto calorico e proteico.
Un’importanza particolare ha il Bar centralizzato dell’O.P.G.,
gestito dallo stesso personale e dove sono inseriti internati in ergoterapia.
In quest’ambito sono svolte
diverse attività ricreative durante l’anno[135].
La struttura ha una recettività pari a 240 posti (135 uomini e 105 donne). La
convenzione (biennio 2000-2001), attualmente in vigore e regolante i rapporti
tra Ministero della Giustizia ed Azienda Ospedaliera “C.Poma”, di cui l’O.P.G.
è presidio, prevede una presenza massima pari a 200 internati. Il numero dei
pazienti alla data 10.09.2001 è di 85 donne e 105 uomini, quindi non esistono
fenomeni di sovraffollamento.
La struttura è divisa in
quattro unità operative (due maschili e due femminili).
Fino al settembre del 1999,
però, la divisione era diversa: tre reparti maschili ed uno femminile.
Per l’incremento costante
del numero delle donne assegnate, e la proporzionale riduzione delle
assegnazioni di uomini, è stato attivato un nuovo reparto femminile per
detenute in osservazione psichiatrica ed internate ex art.148. Questa
ridistribuzione ha consentito di risolvere il problema della commistione tra
pazienti in misura di sicurezza (art.222 c.p.) e detenute con gravi disturbi
del comportamento a prerogativa antisociale, per la cui gestione sono
necessarie strutture e personale idoneo, che l’unico reparto femminile non era
più in grado di offrire.
In ciascun reparto si
svolgono due tipi di attività (oltre a quella clinica del paziente): una di
osservazione del paziente, per dare un inquadramento criminologico e
psichiatrico forense ed una fase di riabilitazione, in cui viene valutata la
disabilità del paziente, e dove si cerca di individuare un possibile percorso
riabilitativo e di reinserimento territoriale[136].
6.1 I trattamenti previsti
all’interno dell’O.P.G. di Castiglion delle Stiviere
Dopo aver visto com’è
strutturato e organizzato quest’ospedale, passiamo ad analizzare le terapie
previste e attuate al fine di ridurre la pericolosità sociale e i rischi di
cronicizzazione della malattia e per recuperare le abilità di base dei singoli
utenti, per una loro formazione professionale ed un graduale inserimento del
ricoverato nel mondo del lavoro. Poiché sono diversi gli ambiti psichiatrici
d’intervento: il colloquio, l’individuazione diagnostica, l’individuazione dei
problemi del paziente da un punto di vista sintomatologico, s’interviene sia
con la terapia farmacologia, che con un trattamento di riabilitazione.
La riabilitazione consiste
nell’individuare per ogni paziente, le aree delle capacità che aveva prima e
che ha perso per la malattia, ed in base a quelle aree che prima funzionavano
ed ora non funzionano più, si cerca di portare il pazienta dall’inabilità
all’abilità.
Per questo, in ogni unità
operativa, ci sono tre aree d’intervento. Innanzi tutto, l’area clinica
assistenziale, dov’è svolta la terapia farmacologia, in cui sono adottati
presidi terapeutici: psicofarmacologici, psicoterapeutici e riabilitativi e
sono anche assicurati interventi per fronteggiare le situazioni di crisi e
d’emergenza. In ogni unità lavorano medici a tempo pieno, in prevalenza
specialisti in psichiatria. Vi sono anche medici provvisti di competenze
affini, come neurologi, medici legali[137].
Accanto alla terapia
farmacologica viene effettuata la terapia di riabilitazione, infatti, la prima
da sola non è sufficiente a recuperare più di tanto il paziente, mentre la
riabilitazione riesce a dare motivazione, soddisfazione e grossi incentivi
personali al paziente per andare avanti. Il progetto riabilitativo, che si
svolge nell’area della riabilitazione psico-sociale, allo stato attuale è
composto da diverse attività riabilitative, che possono essere divise in
quattro gruppi: un primo gruppo è rappresentato dall’attività scolastica, con
un corso di alfabetizzazione, un corso di scuola media, un corso di canto
(attivo dal 2001) e il giornalino interno[138],
per il quale è prevista una redazione apposita.
Un secondo gruppo è
costituito dalle attività espressive, il così detto “atelier di pittura”, per
il quale è previsto appositamente un insegnante esterno, per tre giorni alla
settimana[139], il quale
è molto preparato sui pazienti, con cui ha, anche una certa affinità. Quindi,
come attività espressiva, viene svolta prevalentemente la pittura, per cercare
di facilitare la comunicazione e la socializzazione, accrescere l’autostima ed
il raggiungimento del benessere psicofisico attraverso la liberta creatività
espressiva. I pazienti, inoltre, con le loro opere, partecipano a mostre in
ambito nazionale.
Un terzo gruppo è costituito
dall’attività motoria, questa riveste un ruolo molto importante ai fini
riabilitativi, perché gli psicofarmaci (tra i vari effetti) generano nei
pazienti una grossa difficoltà di coordinazione e di movimento, infatti si è
riscontrato che i soggetti, curati con psicofarmaci non hanno una buona
coordinazione motoria; per esempio nel gioco del calcio non riuscivano a
portare a termine un’azione, pur avendo le capacità per farlo[140].
Per cui con le attività motorie[141],
si aiutano i pazienti ad una ripresa a livello muscolare e farli muovere
significa toglierli dalla sedentarietà. Per le attività motorie l’O.P.G. è
molto attrezzato, infatti, è stata all’allestita una palestra, un campo da
tennis, le bocce, inoltre viene fatto praticare anche nuoto: d’estate nella
piscina dell’O.P.G., in cui vanno uomini e donne dal lunedì al venerdì, mentre
d’inverno è organizzato un corso d’idro-ginnastica presso la piscina di
Desenzano, con il permesso del magistrato.
Il quarto gruppo di attività
è quello di orientamento socio-lavorativo, svolto dall’Enaip[142],
con insegnanti esterni che svolgono diversi corsi di formazione, tra i quali,
cucito, idraulica, grafica, informatica, teatro e restauro. Altre attività
lavorative si svolgono sia all’interno sia all’esterno dell’O.P.G., per esempio
il lavoro in magazzino si svolge all’esterno, con l’autorizzazione del
magistrato.
Sono state, anche
organizzate gite culturali, sia in ambito regionale, sia fuori regione[143],
per favorire visite alle aziende agricole e per consentire l’avvicinamento ai
criteri di coltura biologica.
I pazienti che svolgono
attività lavorativa, inoltre, sono pagati in base alle ore lavorate (massimo
sei ore il giorno). In questo modo viene così garantita al singolo un’ampia
autonomia nella cura di sé stesso, del proprio spazio, della gestione del
denaro, degli effetti personali ed anche del fumo, ma vengono anche rafforzate
le abilità sociali di gruppo, in un contesto di autonomia sia del proprio
spazio che degli spazi comuni. Inoltre, al fine di recuperare nel singolo un
senso sociale, i pazienti sono portati ad uno spontaneo rispetto delle regole
di gruppo nell’ambito dei corsi in cui sono impegnati. A questo fine un ruolo
importante svolgono anche i lavori di ergoterapia: gestione bar, biblioteca,
pulizia dei vari locali e l’attività ricreativa, che presuppone la capacità del
paziente di stare in gruppo.
Responsabile della
formulazione, realizzazione e monitoraggio dei progetti è l’equipe, (medico
psichiatra, psicologo, educatore, assistente sociale, caposala e personale
infermieristico).
L’area scuola, attualmente,
assorbe 25 persone, l’atelier di cultura da 15 a 20 persone, nell’area
d’attività motoria ci sono in media dalle 40 alle 45 persone; l’Enaip 18[144].
Il problema consiste, però, nel capire quali siano le attività necessarie al
paziente; per questo lo staff di ogni reparto[145],
somministra ad ogni paziente un questionario[146],
con il quale egli, in un primo momento indica quali siano i propri bisogni, che
in seguito vengono valutati dall’equipe[147]al
fine di individuare per ogni paziente il trattamento specifico.
Attualmente sono circa 100
(il 50% dei pazienti) le persone inserite nell’ambito della riabilitazione,
mentre il restante 50% ozia, infatti, i pazienti non sono forzati ad effettuare
le attività previste, perché il problema psichiatrico è un problema di lavorio
mentale, il paziente è impegnato in un lavoro nella parte depressionale, quindi
nel momento che gli è chiesto di fare qualcosa, egli deve essere pronto, non si
può obbligare a farlo, a differenza dei carcerati, che non soffrono di disturbi
psichiatrici. Infatti, là dove il soggetto è oppresso dai propri problemi,
angoscia o depressione, o anche aggressività, ha poche possibilità di inserirsi
civilmente nei vari gruppi sociali, perché tutto è impegnato nell’ambito
psicologico. Per esempio, il caso di un giovane paziente omicida, che oltre al
problema della schizofrenia aveva anche un problema di dipendenza con la madre,
per cui viveva nell’O.P.G. in una sorta di “apnea”, per tutta la settimana,
fino a che non vedeva la domenica la madre; è chiaro, quindi, che è difficile
far lavorare un paziente di questo genere o inserirlo, perché è troppo preso
dall’angoscia della separazione. Perciò è necessario prima andare in contro
alle sue difficoltà, e poi cercare di attuare una terapia rieducativa, questo
paziente infatti è stato con il tempo, inserito nell’ambito del lavoro[148].
6.2 La dimissione del
paziente
Compito dell’O.P.G., non è
solo quello di portare il paziente ad un recupero di tipo psicologico, ma,
anche quello di dargli gli strumenti necessari per inserirsi nel mondo esterno.
Per questo, l’O.P.G. di Castiglion delle Stiviere si distingue per l’impegno
dimostrato nel tessere un rapporto continuativo tra il paziente e il mondo
esterno, in particolare con i famigliari, ma anche con quelli che a vario
titolo, sono interessati al suo miglioramento psico-fisico; per questo non è
previsto un limite minimo al numero dei colloqui[149].
Il percorso terapeutico mira
alla ricostruzione dell’identità personale d’ogni singolo individuo dopo la
frattura creatasi con il reato ed a ripristinare i rapporti con il territorio
di origine attraverso il coinvolgimento del Servizio psichiatrico Territoriale
di riferimento.
Il paziente, infatti, una
volta che ha recuperato l’incapacità personale, ed è diminuita la propria
pericolosità, ritorna nell’area di provenienza. Per essere, dimesso, però,
occorre: innanzi tutto il domicilio, che può essere presso la famiglia, ma
questa non è necessaria o può essere una comunità, in ogni modo è
indispensabile che ci sia un posto dove il paziente dimesso possa andare.
E’ necessario, inoltre, che
nell’ambito del territorio di residenza ci sia un servizio psichiatrico che lo
segua e delle persone che lo aiutino, (la famiglia o la comunità).
Quindi i pazienti non sono
dimessi solo perché stanno bene, infatti, se non hanno un ambiente che li aiuti
a reinserirsi nella società, dopo poco possono stare di nuovo male. Il
paziente, perciò deve fare dei passaggi[150],
prima di arrivare alla dimissione, per evitare il più possibile che ci siano
delle ricadute, anche se la certezza di una completa guarigione non c’è quasi
mai, essendo i pazienti afflitti da grosse malattie mentali; l’importante è
cercare di migliore la loro qualità della vita, in modo che diventi umanamente
più accettabile. Per questo ogni paziente dimesso è in contatto con il servizio
psichiatrico del luogo, che viene informato dall’O.P.G. dell’arrivo del
soggetto, anzi nella maggior parte dei casi viene organizzata preventivamente
la visita del servizio per il paziente.
Tale coordinamento, infatti,
spesso facilita la concessione di licenze, utili per i primi contatti dei
soggetti con l’ambiente esterno e in particolare con le persone e i luoghi
d’origine, oltre che condizionare, in senso favorevole, le decisioni della
magistratura di sorveglianza in occasione del riesame della pericolosità dei
soggetti stessi.
Notevole è quindi la
mobilitazione sia del personale sanitario e sociale dell’O.P.G.
nell’accompagnare i pazienti presso i Servizi competenti o le Comunità (allo
scopo di programmare gli opportuni inserimenti), sia da parte degli operatori
territoriali nel far visita ai pazienti in O.P.G.. Particolare attenzione è
rivolta anche all’ambito lavorativo; al fine di reinserire il paziente nel
mondo del lavoro, l’O.P.G. sta cercando di stipulare delle convenzioni con una
serie di cooperative, in modo da poter inserire i pazienti in una formazione
all’esterno dell’istituto, sia nell’ambito dell’industria o dell’area verde, o
nell’ambito artigianale.
In tale contesto s’inserisce
una sperimentazione a gestione comunitaria denominata “Avalon” con un progetto
di accoglienza di 15 utenti maschi ampiamente autosufficienti[151].
Il progetto in esame prevede la realizzazione di un centro diurno,
caratterizzato prevalentemente dallo svolgimento di corsi d’informatica,
falegnameria, sartoria, ecc. tenuti con dall’Enaip di Mantova convenzionato con
l’O.P.G..
Da quanto esposto emerge
perché quest’ospedale si differenzi dagli altri istituti presenti. Questa
struttura costituisce l’esempio di come le imprescindibili esigenze di
custodia, possano essere conciliate con la necessità di programmare un
trattamento terapeutico il più possibile individualizzato, secondo quanto è
previsto dalla normativa penitenziaria all’art.13 l.n.354/75, in base al quale
il trattamento penitenziario deve rispondere ai particolari bisogni di ciascun
ed art.29 d.p.r. n.230/2000[152].
Infatti, una serie di circostanze, fra cui anche la costante collaborazione fra
magistratura di sorveglianza e personale medico dell’O.P.G., hanno favorito la
piena riuscita di quegli scopi che fin dagli anni settanta la struttura si
prefigge di raggiungere.
In quest’istituto
l’osservanza delle norme penali e penitenziarie, è stata finalizzata solo al
raggiungimento di un rapido e duraturo equilibrio psico-fisico del paziente.
Questo acquista ancora più rilievo considerato il carattere repressivo, che
caratterizza ancora le misure “psichiatriche”.
L’aver saputo utilizzare in
modo proficuo e rispettoso dei diritti umani, questa normativa, induce a ritenere
che l’O.P.G. di Castiglione deve costituire il modello cui il legislatore
dovrebbe far riferimento in sede di riforma, in modo che l’esperienza di
quest’istituto possa estendersi a tutti gli altri O.P.G., ancora oggi assai più
simili a carceri che avere e proprie strutture sanitarie.
6.3 Una ricerca circa
l’esito delle terapie, sui pazienti dimessi dall’O.P.G. di Castiglione
Al fine di verificare quali
fossero gli effetti dei vari trattamenti e delle terapie effettuate
dall’istituto, sui pazienti, è stata eseguita una ricerca su un campione di 54
pazienti dimessi dall’O.P.G. di Castiglione, nel periodo che va dal 1992 al
1998; studiando l’esito clinico-riabilitativo e le variabili legate al
reinserimento sociale.
Lo studio è stato condotto
su un campione di 54 soggetti, nove donne e 45 uomini, internati in seguito a
sentenza di proscioglimento ex art.222 c.p., e dimessi negli anni compresi fra
1992 e 1998.
I soggetti sono tutte
persone nate in Lombardia, la scelta si basa sull’ipotesi che questo campione
di internati non ha interrotto il legame coi familiari e le agenzie socio
sanitarie territoriali preposte al reinserimento dopo la dimissione. Tale dato
permette così di rilevare quanto il fattore ambientale possa essere
determinante nella cura e nel recupero del malato. Queste considerazioni si
pongono perfettamente in linea con alcune proposte di legge,[153]finalizzate
proprio alla “regionalizzazzione degli O.P.G., per porre fine al fenomeno dello
sradicamento dell’individuo dal suo ambiente d’origine, causato dallo scarso
numero di O.P.G. in Italia.
I risultati presentati in questa ricerca sono parte di un lavoro
più generale progettato all’interno dell’O.P.G. di Castiglione delle Stiviere,
finalizzato ad offrire uno spaccato realistico della popolazione ricoverata
nella struttura in esame allo scopo di individuare quali fattori possono
giocare un ruolo positivo nel reinserimento del paziente dopo l’internamento.
La ricerca è stata divisa in
due parti, una prima, in cui sono state analizzate le caratteristiche personali
e giudiziarie dei soggetti selezionati ed una seconda, in cui sono state
raccolte ed elaborate alcune informazioni socio-sanitarie del dopo dimissioni,
attraverso un contatto sia con le strutture sanitarie, sia con i familiari
degli stessi internati, tramite un questionario predisposto da alcuni
psichiatri dell’O.P.G..
Il campione è stato diviso[154]in
base: a) il sesso; b) alla data di nascita; c) al luogo di nascita; d) allo
stato civile; e) al grado d’istruzione; f) al lavoro svolto prima dell’internamento.
Per quanto riguarda la
storia penale è stato tenuto conto del fatto di reato commesso per il quale è
stata pronunciata sentenza assolutoria. In seguito è stata posta attenzione su
un eventuale recidivismo, un indicatore molto rilevante di “ buon reinserimento
sociale” prima dell’internamento.
La popolazione di internati
è caratterizzata da un’età anagrafica relativamente giovane; infatti il 66% dei
dimessi ha un’età compresa tra i 30 ed i 45 anni. Presenta un basso grado
d’istruzione e una condizione lavorativa di disoccupazione o precarietà.
Provengono da quasi tutte le
province della Lombardia.
Inoltre una costante è che
solo una minoranza proviene dalla libertà. Infatti, il 40% degli internati è
recidivo ed ha commesso, prevalentemente reati contro la persona. Quest’aspetto
potrebbe distorcere il significato di alcuni risultati, soprattutto per quanto
attiene alla durata effettiva della misura di sicurezza.
Rimane, infatti,
indimostrabile l’ipotesi che il risultato del lavoro terapeutico di Castiglione
avrebbe potuto portare ad una più rapida dimissione, se il soggetto non avesse
dovuto inserirsi su un periodo di istituzionalizzazione già speso in altra
struttura, funzionante su modelli organizzativi e approcci diversi.
In base ai dati raccolti si
può anche affermare che, rispetto al malato di mente che delinque
occasionalmente o che presenta un modesto recidiviamo, nella maggior parte dei
casi il ricovero in O.P.G. è stato ordinato per reati contro la persona di una
certa gravità: omicidio, tentato omicidio e fatti attinenti alla sfera sessuale
ex art.609-bis c.p.. Per lo più si tratta di individui affetti da patologia
psichica insorta nella prima giovinezza e di solito intercorre un periodo di
circa 10 anni tra l’insorgenza del disturbo, tra il primo fatto e il fatto che
porta all’O.P.G..
E’ stato, infine esaminata
la durata media dell’internamento per categorie di reati, rapportandola sia
alla pena minima, sia alla pena massima, per lo stesso stabilita.
Emerge, che coloro che hanno
commesso fatti bagalletari subiscono un periodo d’internamento più lungo
rispetto al limite minimo della pena edittale; mentre per i fatti più gravi la
durata effettiva della misura di sicurezza rimane al di sotto del massimo
edittale[155].
In base al campione preso in
esame il 15% aveva già fatto ingresso in O.P.G.. Dopo il ricovero a Castiglione
solo un paziente già precedentemente recidivo ed internato ha commesso un
successivo fatto di reato. Il 91% dei dimessi non è incorso a nuove
carcerazioni nell’arco temporale compreso tra un minimo di due e un massimo di
otto anni.
L’esito della dimissione a
seguito del ricovero a Castiglione ha dato luogo, quindi, ad una recidiva
inferiore rispetto al dato fornito dal Dipartimento dell’Amministrazione
Penitenziaria (DAP): ammontano a 25.7% i casi di recidiva. Basso è stato anche
il tasso dei suicidi, se confrontato con quello della popolazione psichiatrica
affetta da disturbi confrontabili.
Relativamente bassa è anche
la percentuale di decessi “per condotta a rischio”, cioè i casi di morte dovuti
ad abuso di sostanze alcoliche o stupefacenti. La percentuale dei decessi è del
17%, ma l’11% è avvenuto per cause naturali.
Per avere una visione
realistica della condotta di vita post internamento, non può, però essere tralasciato
il rapporto con il Servizio psichiatrico competente. Il 63% dei dimessi è in
carico al servizio territoriale, compresi non solo i soggetti destinati alla
famiglia d’origine (44%) o al proprio domicilio (2%), ma anche tutti i pazienti
che sono stati inseriti presso i Centri Residenziali Terapeutici o i Servizi di
Diagnosi e cura o, presso gli ex ospedali psichiatrici.
La maggioranza dei pazienti,
quindi mantiene un rapporto costante e continuativo con l’ente di assistenza
territoriale; con una frequenza settimanale del 32% o diurna 31% sia a livello
ambulatoriale che domiciliare. Solo un 9% ha un rapporto sporadico con il
Servizio di appartenenza.
I servizi territoriali, a distanza di anni, sono stati, inoltre in
grado di somministrare trattamenti terapeutici nel tempo, evitando il ricorso
ai frequenti trattamenti sanitari obbligatori e instaurando una buona alleanza
terapeutica. Inoltre, di fronte ad una progressiva diminuzione della presa in
carico diretta del paziente da parte del servizio psichiatrico territoriale,
tramite le strutture intermedie comunitarie, è corrisposto un aumento del
rientro in famiglia o in abitazione autonoma.
Per quanto riguarda lo
studio relativo al reinserimento lavorativo, bisogna dire che più della metà
del campione analizzato non svolge alcun tipo di lavoro. Ciò permette di
ipotizzare che, successivamente alle dimissioni dall’O.P.G., anche una parte di
coloro che prima lavoravano, abbiano poi smesso. Va però considerato che,
spesso il passato di questi individui, gli rende difficile trovare
un’occupazione. Il 21% svolgono un’attività di lavoro protetto in struttura,
l’11% presso cooperativa, il 18% svolge invece un’attività autonoma.
Al fine, invece di
determinare il grado di autonomia acquisita dal soggetto, assume rilievo il
dato riferito alla necessità o meno di assunzione di una terapia farmacologia.
La stragrande maggioranza (82%) dei dimessi segue con metodicità una terapia
più o meno intensa.
A distanza di due od otto
anni dalla dimissione dall’O.P.G. di Castiglion delle Stiviere si può comunque
dire che i risultati dell’esito del processo di reinserimento sono confortanti.
Lo studio ha, quindi,
ribadito che il modello organizzativo esclusivamente sanitario e il lavoro
integrato il territorio, è perfettamente idoneo a svolgere il compito
terapeutico riabilitativo a vantaggio dei malati.
Questo studio potrebbe
anche, fornire un contributo sull’attuale dibattito sul processo di riforma per
il superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari. Quest’esperienza dimostra,
infatti, come l’O.P.G. possa costituire lo strumento a volte indispensabile a
garantire quelle risposte adeguate alle esigenze del reo, risposte che lo
stesso difficilmente potrebbe trovare al di fuori del circuito penale. Questo
vuol dire che, contrariamente a quanto affermato da alcuni, O.P.G., sicurezza
sociale e rispetto dei diritti fondamentali dell’individuo, non sono concetti
in contrasto fra loro.
Questo, quindi, ipotizza una
trasformazione, non tanto della misura di sicurezza in sé, quanto dei suoi
contenuti organizzativi e trattamentali, per cercare di superare gli aspetti
prettamente punitivi e custodialistici che ancora oggi caratterizzano la
maggior parte degli O.P.G. italiani.
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[2] Foucault M., La casa della follia, in AA.VV., Crimini di pace, Torino, 1975, pag.31.
[3] Baima Bollone, P.L., Cesare Lombroso ovvero il principio della irresponsabilità, Torino, 1992, pag.77-78.
[4] Baima Bollone, P.L., Cesare Lombroso ovvero il principio della irresponsabilità, Torino, 1992, pag.80.
[5] Lombroso C., Sull’istituzione dei manicomi in Italia, Rendiconti del Regio Istituto Lombardo di scienze, Lettere ed Arti, Vol. III.
[6] A.Bocca, L’uomo delinquente, Torino, 1983, pag.50-55.
[7]Lombroso C., Sull’istituzione dei manicomi in Italia in Rendiconti del Regio Istituto Lombardo di scienze, Lettere ed Arti 1872, Vol.III, pag.45.
[8] Degl’Innocenti F., La funzione del Manicomio criminale in Italia, in Rivista Sperimentale di Freniatria, 1989, pp. 1218-1235.
[9] A. Tamburini, Dei manicomi criminali e di una lacuna nella odierna legislazione, in Rivista di discipline carcerarie, 1876, pag.67-68.
[10] Canosa R., Storia del manicomio in Italia dall’unità ad oggi, Milano, 1979, pag.50.
[11]Fornari U., Irresistibile
impulso e responsabilità penale: aspetti normativi, in Rivista
Sperimentale di Freniatria, 1988, pag.43-85,
[12] Vale a dire: il manicomio criminale, la pericolosità sociale del prosciolto per vizio totale di mente e il delinquente nato.
[13] Art.203 c.p.: “E’ socialmente pericolosa la persona, anche se non imputabile o non punibile, la quale ha commesso taluno dei fatti indicati nell'articolo precedente, quando è probabile che commetta nuovi fatti preveduti dalla legge come reati. La qualità di persona pericolosa si desume dalle circostanze indicate nell'art. 133”
[14] L'art. 222 c.p., I e II comma dispone:
...nel caso di proscioglimento per infermità psichica, ovvero per intossicazione cronica da alcool o da sostanze stupefacenti, ovvero per sordomutismo, è sempre ordinato il ricovero dell'imputato in un manicomio giudiziario per un tempo non inferiore a due anni; salvo che si tratti di contravvenzioni o di delitti colposi o di altri delitti per i quali la legge stabilisce la pena pecuniaria o la reclusione per un tempo non superiore nel massimo a due anni (...). La durata minima del ricovero nel Manicomio giudiziario è di dieci anni, se per il fatto commesso la legge stabilisce l'ergastolo, ovvero di cinque se per il fatto commesso la legge stabilisce la pena della reclusione per un tempo non inferiore nel minimo a dieci anni..”
[15] Cioè: ricovero in manicomio giudiziario o in casa di cura o custodia.
[16] Art. 85 c.p. “nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato se al momento in cui lo ha commesso, non era imputabile.E' imputabile chi ha la capacità di intendere e di volere.”
[17] Art. 202, I comma, c.p.: «Le
misure di sicurezza possono essere applicate soltanto alle persone socialmente
pericolose che abbiano commesso un fatto preveduto dalla legge come reato.
Fanno eccezione due particolari casi:a) il cosiddetto delitto impossibile e b) l'istigazione a commettere un reato e l'accordo per commetterlo quando questo non sia commesso.
[18]«... è socialmente pericolosa la persona, anche se non imputabile o non punibile, la quale ha commesso taluno dei fatti indicati nell'articolo precedente, quando è probabile che commetta taluno dei fatti preveduti dalla legge come reati.».
[19] L'applicazione provvisoria della misura di sicurezza, si ha nel caso in cui il giudice che procede valuti che la persona accusata di un reato sia socialmente pericolosa a causa di un vizio di mente. Il tempo trascorso in misura di sicurezza provvisoria, è calcolato nel periodo minimo della misura di sicurezza, eventualmente applicata in modo definitivo.
[20] Abitualità, professionalità, tendenza a delinquere.
[21] Con specifico riguardo alla cronica intossicazione (art. 95 c.p.), la giurisprudenza costante ha sempre sostenuto che questa, per escludere o diminuire l’imputabilità, deve consistere in un’alterazione non transitoria dell’equilibrio biochimico del soggetto, con conseguente alterazione patologica dei processi volitivi ed intellettivi irreversibili, cioè caratterizzata dall’impossibilità di guarigione. Cass. Pen., Sez. I 28.4.1982, Pagani; Sez. I 20.10.1987.
[22] Considerato che lo stato di tossicodipendenza non equivale a quello di cronica intossicazione, diviene decisiva al riguardo una perizia psichiatrica, che nella prassi processuale molto raramente viene eseguita.
[23] Fino a qualche anno fa
nelle corti, non si accettava, che il perito presentasse le sue conclusioni
riguardo alla personalità dell'imputato in esame. Non era possibile offrire elementi
di carattere psicologico, dal momento che il riferimento teorico era ancora
quello ottocentesco, secondo cui un'alterazione dell'intelletto o della volontà
dipendeva da una lesione che riguardava l'organo cervello, una sua area
specifica, e pertanto il magistrato chiedeva che fossero indicate, in maniera
esatta, le lesioni che sottendevano a queste limitazioni. Ne discende che tutto
quanto fosse attinente all'analisi psicologica, veniva considerato inidoneo
alla chiarificazione dei fatti, e addirittura illecito parlarne, tanto che
spesso la difesa o il pubblico ministero chiedevano che non si tenesse conto
dei riferimenti formulati dal perito che si fondavano sulla cosiddetta analisi
psicologica; in La Giustizia penale 1999, parte I: “ I presupposti”. Oggi,
naturalmente, è difficile trovare giudici o pubblici ministeri che si oppongano
all'analisi della personalità dell'imputato. Spesso, anzi, sono proprio i
magistrati a formulare, nel quesito, la richiesta che si proceda ad una
valutazione specifica della personalità.
[24] Da alcune recenti perizie si può evidenziare che i quesiti posti, dai vari giudici sono per lo più i medesimi, tanto che risulta possibile standardizzarli così: dica il perito se l’imputato: 1) Nel momento in cui commise il fatto era in stato di mente tale da escludere la capacità di intendere e di volere. In caso di risposta negativa: se tale stato di mente era tale da scemare grandemente, senza escluderla, la capacità di intendere e di volere; 2) Se ciò fosse dovuto ad infermità mentale, o a cronica intossicazione da alcool o da sostanze stupefacenti, oppure a sordomutismo; 3) Se sia attualmente persona socialmente pericolosa. Come si vede, i quesiti 1) e 2) ricalcano fedelmente la lettera degli art. 88 e 89 del codice penale sul vizio totale e parziale di mente.
[25] Cass. Ord. 28 aprile 1988, in Rivista di giurisprudenza penale.
[26] Andreoli V., La perizia
psichiatrica, Lezione
tenuta il 7 maggio 1999 alla Scuola di Specializzazione in Psichiatria Forense
dell'Università del Sacro Cuore di Roma, dal sito www.psychiatryon line.it
[27] Il periodo trascorso in esecuzione di misura di sicurezza provvisoria è computato, sia ai fini della durata minima della misura di sicurezza definitiva (se l'imputato sarà poi prosciolto), sia ai fini dell'eventuale condanna a pena detentiva (se sarà condannato).
[28] Ciò accadeva frequentemente negli anni Settanta, quando vi era nelle carceri una vivace protesta per la mancata riforma del codice penale e per la ritardata approvazione della legge di riforma penitenziaria.
[29] Pajardi P., Lettere al direttore,in Rivista Italiana di Medicina legale,1979, pag.219.
[30] Tartaglione G., Trattamento giuridico dei malati di mente, in Rassegna di studi Penitenziari e Criminologia, 1990, pag.393.
[31] Pajardi P., Lettere al direttore, in Rivista Italiana di Medicina legale,1979, pag.219.
[32] La nozione di pericolosità
si collocava nel quadro del modello interpretativo prevalente della patologia
psichiatrica, ovvero quello biologico. Tale modello, nella sua formulazione più
tradizionale, vede in alterazioni biologiche la causa dei disturbi del
comportamento, sottovalutando i fattori psicosociali o interazionali a livello
di famiglia, o di società.
[33] Tartaglione G.,Trattamento giuridico dei malati di mente, in Rassegna di studi Penitenziari e Criminologia, 1990, pag.394-395.
[35] Daga L.,Ospedali psichiatrici giudiziari, sistema penale e sistema penitenziario, in Rassegna di studi Penitenziari e Criminologia,1985, pag.11.
[36] Daga L.,Ospedali psichiatrici giudiziari, sistema penale e sistema penitenziario, in Rassegna di studi Penitenziari e Criminologia,1985, pag.12-13.
[37] Daga L.,Ospedali psichiatrici giudiziari, sistema penale e sistema penitenziario, in Rassegna di studi Penitenziari e Criminologia,1985, pag.12-13.
[38] Rocchi S., Il percorso legislativo della malattia in Italia, dal sito www.volontariato.it
[39] Rocchi S., Il percorso legislativo della malattia in Italia, dal sito www.volontariato.it
[40] Daga L.,Ospedali psichiatrici giudiziari, sistema penale e sistema penitenziario, in Rassegna di studi Penitenziari e Criminologia,1985, pag.12.
[41] I circa 15.000 ospiti ancora presenti nei 57 ospedali psichiatrici italiani (negli anni Settanta, gli internati nei 90 manicomi erano 120.000) verranno quindi collocati entro l’anno in residenze, gruppi famiglia o faranno ritorno nella loro comunità.
[42] Nel tentativo di evitare
che i manicomi chiudessero solo "formalmente", le leggi hanno vietato
l'uso delle aree dove essi sorgevano per qualunque forma di assistenza
psichiatrica, e hanno consentito l'uso di tali aree per i pazienti anziani e
disabili, a patto che la psichiatria non se ne occupasse più e li "cedesse",
col personale e le strutture necessari, ai servizi socio-assistenziali delle
Aziende Sanitarie Locali.
[43] Manna A., Il trattamento del malto di mente autore di reato, in Rassegna Italiana di criminologia, 1994, pag.285
[44] Manna A., Il trattamento del malto di mente autore di reato,in Rassegna Italiana di criminologia, 1994, pag.285.
[45] Manna A., Il trattamento del malto di mente autore di reato,in Rassegna Italiana di criminologia, 1994, pag.286-287.
[46] Altrettanto critici nei confronti del D.d.l. n.117, sono alcuni psichiatri che appartengono alla corrente "ortodossa", ovvero opposta alla ideologia ispiratrice della legge 180. Essi rifiutano categoricamente l'equiparazione fra malati di mente e sani di mente, che sta alla base del progetto Grossi e della abolizione della non imputabilità. Rifiutano cioè, di considerare uguali persone diverse a causa della malattia mentale, in quanto questo sarebbe il peggiore affronto alla dignità dei malati.
[47] Indubbiamente, tali norme sono indice della volontà di responsabilizzare il soggetto sofferente psichico e di renderlo finalmente partecipe della propria guarigione.
[48] Manna A., Il trattamento del malto di mente autore di reato,in Rassegna Italiana di criminologia, 1994, pag.287.
[49] Infatti, nell'ordinamento
attuale, la pericolosità sociale è valutata nei termini del "tutto o
nulla", ovvero sussiste o non sussiste. Nella pratica si assiste invece a
situazioni di attenuazione o di accentuazione della pericolosità, proprio in
correlazione al normale andamento clinico della malattia mentale. La normativa
attuale si dimostra, da questo punto di vista, troppo rigida e iniqua:
l'attenuazione della pericolosità può non essere tale da consigliare una revoca
della misura, ma può suggerire un'esecuzione con modalità meno restrittive.
Questa graduazione della pericolosità può essere utilizzata, sia per
l'eventuale applicazione di misure alternative, sia per la concessione di
licenze premio.
In tal modo si realizzano due possibili livelli di esecuzione della misura di sicurezza: uno detentivo e l'altro non detentivo, fuori dall’Ospedale psichiatrico giudiziario.
[50] Il progetto distingue fra l'accertamento in ordine all'imputabilità, che è compiuto con la perizia, e l'accertamento in ordine alla pericolosità sociale che "è compiuto dal giudice con l'acquisizione di ogni utile informazione al riguardo, tenuto conto di quanto è emerso dalla perizia". Quindi il giudice deve svolgere una ricerca basata su elementi di fatto, per l acquisizione dei quali, il perito non può essere delegato.
[51] Nel senso di assicurare la necessità di una proporzione tra reato e sanzione.
[52] Art.27 I comma: “La responsabilità penale è personale”.
[53] Cass. Pen., Sez. Unite, 29 aprile 1978.
[54] Art. 14, comma III: “ E’ assicurata la separazione degli imputati dai condannati e internati, dei giovani al di sotto degli anni 25 dagli adulti, dei condannati dagli internati e dei condannati all’arresto dai condannati alla reclusione” , il IV comma costituisce un’eccezione:”E’ consentita, in particolari circostanze, l’ammissione di detenuti ed internati ad attività organizzate per categorie diverse da quelle di appartenenza.”
[55]Art.260, I comma.
[56] Art.271-272 R.D. n.787/1931: “Il lavoro deve avere carattere prevalentemente curativo e educativo, ed avere per oggetto l’avviamento ad un’occupazione, che gli possa consentire di vivere onestamente.
[57] Art. 38 I comma O.P.: “I detenuti e gli internati non possono essere puniti per un fatto che non sia espressamente previsto come reato”.
[58] I condannati e gli internati ammessi al regime di semilibertà sono assegnati in appositi istituti o apposite sezioni autonome di istituti ordinari…”
[59] Gennaro Bonomo Breda, Ordinamento penitenziario e misure alternative alla detenzione, 1977, Pag. 230-231.
[60] Secondo l’art.15 reg. esec. “la cessione e la ricezione di somme in peculio fra internati o detenuti sono vietate”.
[61] Manacorta A., Psichiatria clinica e trattamento psichico autore di reato, in Rassegna Italiana di criminologia, Milano, 1993, pag.93-94.
[62] Manacorta A., Psichiatria clinica e trattamento psichico autore di reato, in Rassegna Italiana di criminologia, Milano, 1993, pag.95.
[63] Manacorda A., in Psichiatria clinica e trattamento del sofferente psichico autore di reato, in Rassegna Italiana di criminologia, Milano, 1993, pag.94-96.
[64] Unica eccezione Castiglion delle Stiviere.
[65] Manacorda A., in Psichiatria clinica e trattamento del sofferente psichico autore di reato, in Rassegna Italiana di criminologia, Milano, 1993, pag.96-97.
[66] L.Daga in Ospedali psichiatrici giudiziari, sistema penale e sistema penitenziario. Le alternative all’O.P.G e la loro sinora scarsa utilizzazione, 1985, pag. 12-13.
[67] Ergoterapia, ludoterapia.
[68] Ingrassia G., Le misure di sicurezza e il trattamento psicofarmacologico, in Rassegna di profilassi criminale e psichiatria, 1970, pag. 107-109.
[69] Ingrassia G., Su alcuni dati di Neuropsicofarmacologia, in Rassegna di profilassi criminale e psichiatria, 1970, pag.33-34.
[70] Dolcini E., La rieducazione del condannato tra mito e realtà, in AAVV, Diritti dei detenuti e trattamento penitenziario, Bologna 1980, pag. 55.
[71] De Fazio F:, Realtà e limiti di compiti terapeutici dei manicomi giudiziari, in Quaderni di criminologia clinica, 1971, pag. 117.
[72] Fortuna S., Custodia o cura: storia e vicende dei manicomi criminali, in Rassegna penitenziaria, 1997, pag.485.
[73] Dolcini E., La rieducazione del condannato tra mito e realtà, in AAVV, Diritti dei detenuti e trattamento penitenziario, Bologna 1980, pag. 56.
[74] Art.82 I comma:Gli educatori partecipano all’attività di gruppo per l’osservazione scientifica della personalità dei detenuti e degli internati e attendono al trattamento rieducativo individuale o di gruppo,coordinando la loro azione con quella di tutto il personale.
[75] Emanata in occasione della prima immissione in ruolo di educatori della allora direzione Generale degli istituti di prevenzione e pena.
[76] Art.28 II comma: Quando si ravvisa la necessità di procedere a particolari approfondimenti,i soggetti da osservare sono assegnati,su motivazione proposta dalla direzione,ai centri di osservazione.
[77] Art.80 IV comma: Per lo svolgimento delle attività di osservazione e di trattamento, l’amministrazione penitenziaria può avvalersi di professionisti esperti in psicologia, servizio sociale, pedagogia, psichiatria e criminologia clinica…
[78] Art.26 I comma: Per ogni detenuto o internato è istituita una cartella personale…
[79] Art.29 III comma: La segreteria tecnica del gruppo è affidata, di regola all’educatore.
[80] Dellissanti A., La figura dell’educatore nell’amministrazione penitenziaria. Compiti e ruolo, bilancio dell’esperienza e prospettive in vista dell’attuazione dell’area educativa, in Rassegna Penitenziaria, 1997, pag. 152.
[81] Art.82 III comma: Collaborano inoltre nella tenuta della biblioteca e nella distribuzione dei libri, delle riviste e dei giornali.
[82] Dellissanti A.,La figura dell’educatore nell’amministrazione penitenziaria compiti e ruolo bilancio dell’esperienza e prospettive in vista dell’attuazione dell’area educativa, in Rassegna penitenziaria, 1997, pag.156, cap.4.4 compiti e ruolo nel servizio di biblioteca.
[83] Definita anche “alleanza terapeutica”.
[84] Lo psichiatra interviene nel sistema della giustizia penale con le seguenti funzioni:1)Come perito su diretto mandato della magistratura, per rispondere,(art. 220 c.p.p.) riguardo la capacità di intendere e di volere di un imputato. 2) Come operatore carcerario nella fase della "osservazione scientifica della personalità" prevista dall'Ordinamento Penitenziario per rilevare le carenze fisiopsichiche e le altre cause del disadattamento sociale, e ciò al fine di formulare indicazioni in merito al trattamento rieducativo. Anche in questo caso la prestazione è effettuata su richiesta della Magistratura, ovvero dell'Amministrazione Penitenziaria. 3) Sempre come operatore carcerario, ma nell'attività di trattamento e di cura, in un ruolo più specificamente terapeutico. 4) Come consulente di parte a favore dell'imputato, ovvero come consulente per conto del pubblico ministero, nel corso delle varie fasi del procedimento penale.
[85] Bandini T.,
Gatti U. Limiti e contraddizioni dell’opera del criminologo clinico
nell’attuale sistema penitenziario italiano, in Rassegna penitenziaria e
criminologica, 1980, pag. 165.
[86] Bandini T., Gatti U. Limiti e contraddizioni dell’opera del criminologo clinico nell’attuale sistema penitenziario italiano, in Rassegna penitenziaria e criminologica, 1980, pag. 167.
[87] Ponti G.,
Merzagora I., Psichiatria e giustizia, 1993, pag.181.
[88] Ponti G., Merzagora I., Psichiatria e giustizia, 1993, pag.18.
[89] Bandini T., Gatti U., Limiti e contraddizioni dell’opera del criminologo clinico nell’attuale sistema penitenziario italiano, in Rassegna Penitenziaria e Criminologia, 1980, pag.169.
[90] Fortuna S., Custodia o cura: storia e vicende dei manicomi criminali, in Rassegna penitenziaria, 1997, pag.487.
[91] Psichiatria giudiziaria, Il trattamento dei prosciolti e dei condannati seminfermi di mente, capitolo quarantesimo, pag.776-777.
[92] Dottor Calogero A., primario della sezione maschile dell’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Castiglion delle Stiviere, intervista personale.
[93] Dottor Calogero A., primario della sezione maschile dell’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Castiglion delle Stiviere, intervista personale.
[94] Cigarini
R., Il trattamento dell’infermo di mente in Ospedale psichiatrico
giudiziario, Marginalità e società, n.9, pag.70, 1989.
[95] Le Due città, Che cosa sono gli O.P.G.? Carceri od ospedali? Che cosa fa la società per migliorarli? Rispondono sei direttori, in Rivista dell’amministrazione penitenziaria, maggio 2001, pag.17.
[96] Le Due città, Che cosa sono gli O.P.G.? Carceri od ospedali? Che cosa fa la società per migliorarli? Rispondono sei direttori, in Rivista dell’amministrazione penitenziaria, maggio 2001, pag.18.
[97] Valeria Calevro, direttrice dell’O.P.G. di Reggio Emilia.
[98] Nunziante Rosanìa, direttore O.P.G di Barcellona Pozzo di Gotto.
[99] Per esempio, le gite per i ricoverati fatte ormai sistematicamente in accordo con la Magistratura di sorveglianza e con l’ausilio dei volontariati
[100]L’istituto è stato, infatti, costruito o comunque progettato negli anni delle emergenze del terrorismo e quindi con una struttura veramente segregante.
[101] Le Due città, Che cosa sono gli O.P.G.? Carceri od ospedali? Che cosa fa la società per migliorarli? Rispondono sei direttori, in Rivista dell’amministrazione penitenziaria, maggio 2001, pag.18.
[102] Ci sono i semi-infermi insieme con i prosciolti, con gli internati e gli osservandi, cioè persone che vengono dal carcere e devono stare un mese per fare l'osservazione psichiatrica, insieme con i prosciolti, che stanno in Istituto magari da diversi anni
[103] Per il momento limitato esclusivamente ai ricoverati che sono residenti in Emilia Romagna.
[104] Le Due città, Che cosa sono gli O.P.G.? Carceri od ospedali? Che cosa fa la società per migliorarli? Rispondono sei direttori, in Rivista dell’amministrazione penitenziaria, maggio 2001, pag.18-19.
[105] Le strutture penitenziari, infatti, inviano in osservazione, per 30 giorni detenuti in attesa di giudizio e hanno posizione giuridica definitiva, per i quali è necessario avere uno studio della loro condizione psichiatrica per valutare se possono o meno permanere nelle strutture penitenziarie ordinarie, oppure se hanno bisogno, in applicazione dell'art. 148, di cure che devono essere espletate in OPG.
[106] Il 50% degli internati, ha commesso reati gravi verso la persona, ma un altro 50% si trova nella situazione di avere commesso reati generati da maltrattamenti in famiglia, espressioni del disagio lacerante, che la malattia mentale porta nella famiglia, e del fallimento degli interventi della società civile. Ci sono, anche casi di simulazione: cioè la simulazione di chi è emarginato anche in carcere, di chi, non riesce a tollerare il regime custodiale forte che c'è in alcuni istituti, sovraffollati, e dove i soggetti più deboli,finiscono con il soccombere;questi soggetti, talora, cercano proprio rifugio in O.P.G.
[107] Le Due città, Che cosa sono gli O.P.G.? Carceri od ospedali? Che cosa fa la società per migliorarli? Rispondono sei direttori, in Rivista dell’amministrazione penitenziaria, maggio 2001, pag.19.
[108] Direttore dell’O.P.G di Montelupo Fiorentino.
[109]
Tartaglione G., Trattamento giuridico dei malati di mente, in
Rassegna di studi penitenziari e criminologia, 1990, pag.391.
[110] La realizzazione delle psicoterapie di gruppo nell’O.P.G. di Aversa, dal sito www.opgaversa.it.
[111] Laboratorio di espressione con il colore, dal sito www.opgaversa.it.
[112] Musicoterapia in Ospedale Psichiatrico Giudiziario. Un'ipotesi fantastica per far crescere i fiori nel cemento, dal sito www.opgaversa.it.
[113] Sentenza n. 106 del 1972.
[114]Questo perché le sezioni speciali nei normali ospedali non sono state ancora in tutta Italia attuate, con il risultato che molti malati mentali sono ora trattati nelle loro famiglie.
[115] Manna A., Il trattamento sanzionatorio del malato di mente autore e le prospettive di riforma in Rassegna italiana di criminologia, 1994,cap.3, pag.275-277.
[116] Manna A., Il trattamento sanzionatorio del malato di mente autore e le prospettive di riforma in Rassegna italiana di criminologia, 1994, cap.3, pag.279-280.
[117] Così per esempio, le sentenze n.68/1967, in Giur.Costi.1967, p.742; n.1/1972; n.19/1974.
[118] Sent. N.313/1990, in Foro It.1990,
I, pag. 2385 ss.
[119] Manna A., Il trattamento sanzionatorio del malato di mente autore e le prospettive di riforma in Rassegna italiana di criminologia, 1994, cap.4, pag.282-283.
[120] Come, ad esempio in Germania.
[121] Manna A., Il trattamento sanzionatorio del malato di mente autore e le prospettive di riforma in Rassegna italiana di criminologia, 1994, cap.5, pag.284.
[122] De Fazio F., A proposito della chiusura dei manicomi giudiziari, in Rassegna di criminologia, 1978, vol.IX, pag.177.
[123]
Zappa G., Romano C. A., Infermità di mente, pericolosità sociale e misure di
sicurezza alla prova degli anni duemila, in Rassegna Penitenziaria e
criminologia, 1999, pag.96.
[124]
Zappa G.,Romano C. A., Infermità di mente, pericolosità sociale e misure di
sicurezza alla prova degli anni duemila, in Rassegna Penitenziaria e
criminologia, 1999, pag.98.
[125] "Delega al Governo per
la razionalizzazione del Servizio sanitario nazionale e per l'adozione di un
testo unico in materia di organizzazione e funzionamento del Servizio sanitario
nazionale. Modifiche al decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502"
pubblicata
nella Gazzetta Ufficiale n. 286 del 7 dicembre 1998
[126] Zappa G., Romano C. A., Infermità mentale, pericolosità sociale e misure di sicurezza alla prova degli anni duemila, in Rassegna Penitenziaria e criminologia, 1999, pag.106.
[127] C.d. Legge Simeoni.
[128] Schisa B.,Una volta li chiamavano manicomi giudiziari, Il Venerdi di Repubblica, 13 luglio 2001, profess. Ferraro, pag.54.
[129] Gandolfi S., Micheletti V.,Raponi G.,.Ronzini F.,Limiti e prospettive di un’esperienza in senso comunitario dopo tre anni dal suo inizio: la sezione giudiziaria dell’ospedale psichiatrico di Castiglion delle Stiviere, in Rivista sperimentale di Freniatria,XCVIII,1974, pag. 122.
Sulla data ci sono indicazioni contrastanti. Secondo altre fonti essa risalirebbe al 28.8.1939.
[130] Schisa B.,Una volta li chiamavano manicomi giudiziari, Il Venerdi di Repubblica, 13 luglio 2001, profess. Ferraro, pag.54.
[131] Il numero degli infermieri dipende dal numero degli internati.
[132] Previsto dall’art.16 O.P. II comma: “Le modalità di trattamento da seguire in ciascun istituto sono disciplinate nel regolamento interno..”.
[133] Dal novembre del 1998 si è completato il definitivo trasferimento.
[134] I servizi igienici sono conformi alle caratteristiche tecniche previste per la costruzione degli edifici ospedalieri.
[135] Oltre al Bar sono presenti altre aree di svolgimento di attività ricreative: la zona lettura, la biblioteca, la sala per la proiezione di films, il laboratorio di pittura.
[136] Dottor Michel Schiavon, direttore dell’O.P.G., intervista personale.
[137] L’assistenza specialistica psichiatrica è integrata con prestazioni mediche specialistiche, erogate nel contesto di una struttura poliambulatoriale interna all’O.P.G., per altre specifiche esigenze i pazienti sono inviati all’Ospedale Civile di Castiglion delle Stiviere.
[138] Denominato “Surge et ambula”.
[139] Dal lunedì al mercoledì, il giovedì è dedicato al murale presso il reparto femminile.
[140] Dottor Antonino Calogero, primario della sezione maschile, intervista personale.
[141] Queste si svolgono tutti i giorni dal lunedì al venerdì.
[142] L’Enaip svolge dei corsi di formazione professionale regionale.Da anni è attivata una convenzione con l’Enaip di Mantova per il percorso formativo professionale dei singoli pazienti. Si svolgono due corsi, uno a Mantova e uno a Castiglione, quest’ultimo all’interno dell’O.P.G.
[143] Quattro giorni a Pienza e provincia di Siena.
[144] Dottor Calogero, intervista personale.
[145] I reparti sono quattro: due maschili e due femminili.
[146] Nel questionario, (questionario attività ), ci sono 19 domanda; nella quali li viene chiesto al paziente cosa fa durante la giornata, nel tempo libero, che cosa vorrebbe fare, con chi trascorre la maggior parte del tempo, quali giornali vorrebbe leggere o film vorrebbe vedere, ecc,ecc.
[147] Ogni operatore compila in seguito la “Scheda di rivelamento dei bisogni”, in cui viene fatta la diagnosi, indicato il giudizio di validità della valutazione (da 1 a5=molto attendibile ) e i motivi di un’eventuale difficoltà nella valutazione ( per es. mancanza di collaborazione da parte del paziente, ecc.).
[148] Dottor Calogero, intervista personale.
[149] L’orario di apertura delle visite è previsto tutti i giorni.
[150] Passaggi che vengono fatti con preventivi inserimenti nel proprio territorio, attraverso i permessi, previamente concordate con i Servizi psichiatrici territoriali.
[151] Analoga sperimentazione, denominata “Edera” è attiva presso la sezione femminile.
[153] In particolare il progetto di legge della regioni Emilia Romagna, Toscana e della Fondazione Michelacci di Firenze, inviato alle camere e pubblicato in “Supplemento speciale del Bollettino Ufficiale della Regione Emilia Romagna”n.166, 20 gennaio 1997.Tale proposta prevede la misura dell’“assegnazione ad apposito istituto in regime di custodia” per fatti per i quali la legge prevede nel massimo una pena non inferiore a dieci anni di reclusione. Questi istituti dovrebbe sostituire gli O.P.G.,riducendone le dimensione (max 30 internati) ed inoltre dovrebbero essere costituiti su base regionale ; proprio al fine la vicinanza ai luoghi di residenza. (art.5).
[154] I dati socio anagrafici di ciascun internato, sono stati raccolti dai rispettivi fascicoli personali.
[155] Questo non pone particolari problemi se si considera la funzione ell’O.P.G. e cioè la cura delle patologie mentali cui è collegato un certo grado di pericolosità.Appare, infatti, coerente con gli scopi non punitivi dell’O.P.G. che il singolo una volta raggiunto un certo equilibrio e cessata la pericolosità possa essere dimesso, indipendentemente dalla natura e dalla gravità del rato.