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UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI PISA

FACOLTA’ DI GIURISPRUDENZA

 

Tesi di Laurea

IL TRATTAMENTO PENITENZIARIO DELL’INTERNATO

Anno Accademico 2000/2001

 

 

Francesca Pucci

 

 

 

CAPITOLO PRIMO:

LA STORIA DELL’OSPEDALE PSICHIATRICO

 

1 Introduzione

 

1.1 L’origine del manicomio giudiziario

1.2 Il codice Zanardelli

1.3 Il codice Rocco

 

CAPITOLO SECONDO:

I PRESUPPOSTI DI APPLICAZIONE DELLE MISURE DI SICUREZZA

 

2 La commissione del reato e l’imputabilità

2.1 Le condizioni che escludono l’imputabilità e la perizia psichiatrica

2.2 La perizia psichiatrica dopo la sentenza del giudice

2.3 I reclusi in ospedale psichiatrico giudiziario

 

CAPITOLO TERZO:

LA RIFORMA PSICHIATRICA

 

3 La situazione prima della legge n.180

3.1 L’entrata in vigore della legge

3.2 Le strutture necessarie per il funzionamento della legge

3.3 Critiche e importanza della 180

3.4 La proposta di legge di Grossi e Corleoni

3.5 La proposta di Legge di Riz

3.6 Il progetto di legge dell’Emilia Romagna

 

CAPITOLO QUARTO:

PARTE I

I DIRITTI DELL’INTERNATO NELL’ESECUZIONE DELLE MISURE DI SICUREZZA DETENTIVE

4 La crisi del “ doppio binario

4.1 Il trattamento rieducativo per gli internati, previsto dall’ordinamento penitenziario e la differenza con i condannati a pena detentiva

4.2 I rapporti con la famiglia e con l’ambiente esterno

4.3 La cura della malattia mentale, e il diritto alla salute

4.4 L’effetto della 180 sulla funzione terapeutica dell’O.P.G.

 

CAPITOLO QUARTO:

PARTE II

IL TRATTAMENTO PENITENZIARIO DEGLI INTERNATI

 

4 L’importanza della diagnosi della malattia, per individuare un proficuo trattamento terapeutico e di risocializzazione

4.1 Compiti e ruolo dell’educatore

4.2 Il ruolo dello psichiatra penitenziario. Rieducare o curare?

4.3 Le licenze e la loro funzione terapeutica

4.4 Che cosa sono gli O.P.G. in sostanza, carceri od ospedali? Che cosa fa la società per migliorarli?

4.5 Il problema dell’emarginazione

4.6 I trattamenti sperimentati nell’O.P.G. di Aversa

 

CAPITOLO QUINTO

IL SUPERAMENTO DELL’OSPEDALE PSICHIATRICO GIUDIZIARIO

5 L’ospedale psichiatrico giudiziario ed i relativi profili    d’illegittimità costituzionale

Le alternative all’O.P.G e la loro sinora scarsa utilizzazione in Italia

5.2 Le prospettive di riforma

Una possibile risposta: l’affidamento terapeutico di  tipo psicosociale

 

CAPITOLO SESTO:

IN VISITA ALL’OSPEDALE PSICHIATRICO GIUDIZIARIO DI CASTIGLION DELLE STIVIERE

 

6 Castiglione, il modello sanitario Italiano

6.1 I trattamenti previsti all’interno dell’O.P.G. di Castiglion delle Siviere

6.2 La dimissione del paziente

6.3 Una ricerca circa l’esito delle terapie, sui pazienti dimessi dall’O.P.G. di Castiglione

 

 

 

 

 

CAPITOLO PRIMO:

LA STORIA DELL’OSPEDALE PSICHIATRICO

 

1 Introduzione

Fino alla metà degli anni Settanta, l'uomo della strada veniva informato dell’esistenza dell’istituzione ospedale psichiatrico solo da qualche articolo di cronaca nera in cui si riferiva di reati commessi in modo apparentemente immotivato, da soggetti il cui equilibrio mentale era compromesso. Nonostante che negli anni Sessanta si aprisse in Italia un dibattito fra teorici e pratici del diritto sul significato politico e sociale delle due principali "istituzioni totali", manicomio e carcere, il manicomio giudiziario continuava a rimanere dietro le quinte.

Questo perché sia il manicomio civile che il carcere interessavano migliaia d’individui di ogni parte della Penisola; le sommosse carcerarie e le iniziative antimanicomiali costringevano l'opinione pubblica a occuparsi del problema. Invece nel manicomio giudiziario, presente in sole sette sedi in Italia e comprendente una popolazione di poche migliaia di persone fra reclusi e operatori; non si verificavano mai delle sommosse e gli episodi anomali, quali i numerosi suicidi, venivano filtrati opportunamente sia dall'interno dell'istituzione, che dalle amministrazioni pubbliche; inoltre, l'opinione pubblica non si interessava alle storie di quei pazzi criminali che apparivano come soggetti incomprensibili e pericolosi. 

Il problema del manicomio giudiziario nacque per l'opinione pubblica il 5 Gennaio del 1975, quando i quotidiani pubblicarono la notizia che una donna, Antonietta Bernardini era morta dopo che nel manicomio giudiziario di Pozzuoli era bruciato il materasso su cui era legata.[1] Allora l'opinione pubblica si scosse e si creò una vera e propria ondata d’indignazione civile. I giornalisti iniziarono ad indagare sul passato della donna, e si scoprì che il potere giudiziario era stato rapido nel rinchiuderla in galera e poi nel trasferirla in manicomio giudiziario, ma era stato lento e inefficiente quando si era trattato di garantirle i diritti che la legge penale e la Costituzione riconoscono a tutti i cittadini. La Bernardini morì senza processo, da innocente.

Da quel momento la stampa e tutta l'opinione pubblica chiesero di chiudere i manicomi giudiziari, ma nel governo dell'epoca non vi era nessun’intenzione in questo senso, tanto che da allora ogni sforzo fu teso a far sì che non verificassero più scandali di queste dimensioni, in modo che i manicomi giudiziari potessero funzionare ancora, ma senza intralci. Ben presto si cercò di andare più a fondo nel problema, indagando sui meccanismi giuridici che stanno alla base dell'internamento in Ospedale psichiatrico giudiziario e sulle motivazioni di carattere socio-politico che sorreggevano e sorreggono l'istituzione. Si passò ad indagare le funzioni stesse del manicomio giudiziario e la figura giuridica del soggetto prosciolto per infermità psichica, che rappresenta il tipo d’internato cui l'istituzione è destinata. Si sono avuti una serie di provvedimenti giurisdizionali della Corte Costituzionale, che ha rimaneggiato molto l'assetto normativo che regola la materia. I numerosi interventi della Corte hanno messo in risalto una certa latitanza del potere legislativo, perciò si avverte l'esigenza del riordino di interi settori.

L’attuale fase del dibattito si caratterizza per il tentativo di esaminare più a fondo le motivazioni sostanziali della non imputabilità per infermità psichica.

 

1.1 L’origine del manicomio giudiziario

L'idea di una forma di controllo istituzionalizzato per soggetti caratterizzati da una condizione mentale patologica, oltre che da un comportamento "criminale" (anche se non necessariamente autori di reato), si pose all'attenzione degli studiosi nel secolo scorso, come conseguenza dell'individuazione di specifici compiti del carcere e del manicomio e della circostanza di fatto che nei penitenziari fu accertata l'esistenza di un gran numero di "pazzi". Si riteneva che, né il carcere né il manicomio civile potesse in modo adeguato ospitare i "pazzi criminali"o i "criminali impazziti"; il carcere, perchè era destinato ad ospitare coloro che violavano le norme penali colpevolmente, mentre il manicomio civile, avendo caratteristiche cliniche, non poteva custodire soggetti di cui era stata accertata la pericolosità.

Vi era la necessità di creare un terzo tipo di custodia[2], discutendo circa la denominazione da darsi a tale luogo: all'inizio fu accettata la terminologia di manicomio criminale, che derivò dall'uso inglese di chiamare i manicomi in questione con il titolo criminal's asylums. Infatti, l'istituto dei manicomi criminali ebbe la sua nascita in Inghilterra nel 1857, anno in cui s’istituì il primo manicomio criminale di Stato. L'esempio inglese fu seguito da altri paesi europei, fra cui il nostro.

In Italia, infatti, uno dei temi più discussi dalla freniatria e dall'antropologia criminale fu la responsabilità penale della persona giuridica folle e quindi l'organizzazione e l'utilizzo dei manicomi criminali. La maggior parte del dibattito si svolse sulla base della neo-psichiatria italiana che nella seconda metà del 1800, aveva un’impostazione organicistica, per questo le alienazioni mentali erano malattie del cervello e non dello spirito; ogni fenomeno psichiatrico aveva base materiale e con il nuovo metodo sperimentale, fondato sull'analisi di dati reali (antropometria, craniometria, esame somatico e statistiche); un soggetto malato doveva essere curato e guarito.

Con la pubblicazione della prima edizione de "L'uomo delinquente" di Lombroso (1876) è nata l’antropologia criminale[3].

Il pensiero lombrosiano a capo del positivismo, affermò il primato del modello medico-psichiatrico su quello giuridico-normativo; introdusse una concezione del criminale patologica e deterministica; sostenne l'equivalenza dell'uomo delinquente e di quello nato pazzo, riconoscibile per determinate stigmate somatiche correlate a deformità mentali. Nacque lo stereotipo del "delinquente nato", così come lo definì il Ferri, inteso come soggetto più simile ad una bestia primitiva che ad un essere umano e caratterizzato da una condotta violenta, sproporzionata ed incontrollabile. Il determinismo di Lombroso portò inevitabilmente alla negazione del libero arbitrio e della volontà individuale, cosicché, nel campo giuridico, si sostituì al principio della responsabilità morale quello della responsabilità sociale[4]; al principio della punizione (pena = reclusione), quello del controllo e della difesa sociale[5](misura di sicurezza del manicomio criminale per i socialmente pericolosi al posto della pena).

Fino all'epoca dell'unificazione italiana, i vari Stati applicavano norme penali differenti, ma nessuna prevedeva istituti particolari per gli autori di reato non punibili a causa di una malattia mentale: il loro destino era sempre quello del manicomio comune.

 Diversa era la questione per le persone che a causa di una condanna erano già in carcere, e che in quel luogo manifestavano segni di malattia mentale: erano previste dalle norme dell'esecuzione penitenziaria punizioni corporali, quali la privazione del cibo, la permanenza in locali bui, umidi e freddi, l'isolamento perpetuo dagli altri detenuti. Naturalmente, queste vessazioni aggiuntive erano applicate abitualmente ai soggetti giudicati pericolosi, cioè coloro che persistevano nel tenere condotte oppositive nei confronti dell'istituto carcerario e che creavano disordine.

Avvenuta l'unificazione, fu esteso a quasi tutto il territorio nazionale, il Codice penale sardo del 1859, che finalmente regolava allo stesso modo la materia dei prosciolti per vizio di mente, ma questo non risolse i problemi. Cesare Lombroso, sulla base dei suoi studi di antropologia criminale, e collegandosi alle esigenze di "difesa sociale" della scuola positivista, propugnava la creazione di uno o più "manicomi criminali" che permettessero: la detenzione d’imputati sospettati di aver commesso il reato in stato di alienazione mentale, l'esecuzione della pena di condannati che fossero impazziti in carcere ed infine il mantenimento di imputati, il procedimento dei quali fosse sospeso per sopravvenuta alienazione[6].

Il progetto del Lombroso, sicuramente all'avanguardia in quei tempi, non era condiviso dai più che, preoccupati principalmente della situazione all'interno delle carceri, giudicavano più urgente la creazione di manicomi giudiziari per i soli condannati impazziti in carcere.

 Mentre fervevano le discussioni politiche nel 1876, ad Aversa l'amministrazione penitenziaria inaugurò il primo manicomio giudiziario italiano con la denominazione di "Sezione per maniaci" della locale "Casa penale per invalidi" con il solo compito di ospitare i detenuti «impazziti in carcere». In effetti, tale istituto fu promosso tramite un mero atto amministrativo, e soltanto nel 1891 la sua creazione fu formalizzata tramite una norma di legge contenuta all'interno del «regolamento generale degli stabilimenti carcerari» (r.d. 1 febbraio 1891, n. 260), lo stesso che andava a modificare il nuovo codice penale (codice Zanardelli) nato solo due anni prima, ma che non faceva nessun esplicito riferimento ai manicomi giudiziari.

Tale regolamento modificò sensibilmente la situazione, infatti, oltre a riconoscere formalmente l'istituto del manicomio giudiziario, previde che anche gli imputati prosciolti a causa della loro infermità mentale vi potessero essere rinchiusi, dopo un periodo d’osservazione presso lo stesso manicomio giudiziario o presso il manicomio provinciale ordinario.

Resta da notare che i condannati erano liberati allo scadere della pena, mentre i prosciolti per vizio di mente erano dimessi solo quando «cessassero le ragioni che determinano il ricovero», e quindi per questi ultimi non era previsto né un limite massimo né un limite minimo.

Dopo l'esperienza del manicomio di Aversa, peraltro non del tutto positiva (il Lombroso scriveva: “Vi è in Aversa un manicomio criminale che potrebbe chiamarsi un’immensa latrina[7]”) la necessità di aumentare il numero di tali istituti era così pressante da essere auspicata anche dallo stesso Lombroso. Successivamente il numero dei manicomi giudiziari fu aumentato e ad Aversa si aggiunsero Montelupo Fiorentino (1886), Reggio Emilia (1892), Barcellona Pozzo di Gotto (Messina) (1925), Castiglione delle Stiviere (Mantova) (Sezione giudiziaria d’ospedale psichiatrico civile privato, 1939) e Pozzuoli (1955).

Per trovare dei cambiamenti della struttura e del funzionamento dei manicomi, rispetto al regio decreto del 1891 sopra citato, bisogna aspettare la riforma dei codici penale e di procedura penale che vennero ad accogliere quelle idee che, riallacciandosi alla "scuola positivista", propugnavano un'opera di "bonifica morale", un'azione che tendesse soprattutto ad isolare dal corpo sociale le possibili fonti di "infezione". In questo disegno andavano certo compresi anche gli imputati prosciolti a causa d’infermità mentale.

Di conseguenza un tale sistema si preoccupa unicamente dei rischi che l'alienato libero comporta per la stabilità dell'organizzazione sociale, tralasciando completamente il risvolto soggettivo del problema e cioè le condizioni del malato e le conseguenti difficoltà personali e sociali di questo. Su tali basi nacquero le misure di sicurezza del nostro attuale codice penale, il codice Rocco.

 

1.2 Il codice Zanardelli

Il primo progetto sui manicomi pubblici e privati fu presentato da Depretis; seguirono poi quelli di Crispi, Nicotera e Giolitti, ma nessuno di questi progetti fu tradotto in legge[8].

Nel 1889 venne promulgato il nuovo codice penale (codice Zanardelli), ma non vi era contenuta alcuna menzione del manicomio criminale; esso regolava l'imputabilità dell'autore di reato malato di mente secondo principi di stampo classico. Infatti, veniva previsto il proscioglimento per infermità mentale, per cui non era punibile colui che, nel momento in cui aveva commesso il fatto, non aveva la coscienza o la libertà dei propri atti e il giudice, se stimava pericolosa la liberazione dell'imputato prosciolto, ne ordinava la consegna, finché il presidente del tribunale civile non avesse deciso la sua liberazione o il suo internamento definitivo (art.13 e 14 delle disposizioni per l’attuazione del codice penale, promulgate con r.d. 1 dicembre 1889, n. 6509). L'assegnazione alla casa di custodia, con cui il giudice poteva sostituire la pena della reclusione, era revocabile, ove fossero cessate le ragioni che l'avevano determinata.

Ammissione, custodia, licenziamento, trasferimento, evasione o semplici permessi d’uscita dall'istituzione dovevano essere segnalati all'autorità di pubblica sicurezza che controllava la potenziale o supposta pericolosità sociale del malato di mente: questa rimaneva, in fin dei conti, la ragione principale che guidava e condizionava l'intervento psichiatrico istituzionale. Nell'operare in tal modo era assoluto l'accordo tra le esigenze di controllo sociale e la psichiatria; anche se i freniatri si rammaricavano del fatto che per tutti i prosciolti e i semi-responsabili non fosse stato introdotto un sistema unitario e globale di controllo sociale, quale appunto il manicomio criminale. Nel 1891 venne effettuata una ispezione nei manicomi del Regno, promossa dal Ministro dell'Interno e affidata a tre esperti e notissimi alienisti: Lombroso, Tamburini e Ascenzi. Essi, al termine del loro lavoro, stilarono un’attenta relazione nella quale riassumevano per sommi capi i risultati che più direttamente si collegavano coi provvedimenti generali che la legge avrebbe dovuto attuare.[9] Denunciavano, però, numerosi problemi quali: l'affollamento degli istituti manicomiali; la mancanza di una legislazione unitaria, valida per tutte le regioni italiane; l'assenza di un’efficace sorveglianza su tutti i malati di mente ricoverati e non; delle disparità organizzative tra i diversi manicomi; l'esiguità e l'inadeguatezza della conduzione dei manicomi criminali esistenti. Gli estensori del rapporto lamentavano che l'uso dei manicomi criminali fosse frainteso e stravolto, rispetto alle richieste della scuola positiva, nel senso che in detti istituti erano ristretti i condannati impazziti e i giudicabili, invece dei prosciolti. Essi criticarono che, nel nuovo codice penale, non era annoverato il manicomio criminale come luogo in cui obbligatoriamente internare i prosciolti.

Preciso ed esplicito era il riferimento alla difesa sociale, che la legge doveva garantire attraverso una reclusione molto rigorosa.

Questa legge tanto invocata, non sarà varata ancora per molti anni (per la precisione fino al 1930, con l'attuale Codice Rocco).

Tuttavia, qualche prosciolto già alloggiava, nel manicomio criminale.

Questo era possibile grazie ad un incredibile escamotage legislativo, perciò si era utilizzato il Regio Decreto del 1 febbraio 1891, contenente il regolamento generale degli stabilimenti carcerari e dei riformatori governativi con cui era formalmente sancita e regolamentata la materia relativa a tali istituzioni.

Per la prima volta qui, ufficialmente, si utilizzava il termine "Manicomio giudiziario" e si stabiliva per quali categorie di persone doveva essere utilizzato: una prima categoria era costituita dai condannati alienati mentali che devono scontare una pena maggiore di un anno in virtù dell’art.469 “…sono destinati speciali stabilimenti, o manicomi giudiziari, nei quali si provveda ad un tempo alla repressione e alla cura..." Una seconda categoria erano i condannati che dovevano scontare una pena minore di un anno, colpiti da alienazione mentale, ma inoffensivi, paralitici o affetti da delirio transitorio, i quali potevano rimanere negli stabilimenti ordinari, se non mancavano i mezzi di cura e non si nuoceva alla disciplina interna, (art.470). Inoltre erano compresi, in base all’art.471, gli accusati o imputati prosciolti, ai sensi dell'art. 46 del codice penale, per i quali il presidente del tribunale civile aveva pronunciato il ricovero definitivo in un manicomio, ma in sezioni separate a seguito di decreto del Ministro dell’interno.

Sempre con lo stesso decreto potevano essere ricoverati gli accusati prosciolti, che ai sensi dell’art.13 r.d.1889, n.6509, dovevano essere provvisoriamente chiusi in un manicomio per l’osservazione, (art.472). Mentre, con domanda dell’autorità giudiziaria erano ricoverati in una sezione speciale gli inquisiti in stato d’osservazione. Art. 473: "Sopra apposita domanda dell'autorità giudiziaria, possono essere ricoverati in una sezione speciale dei manicomi giudiziari, anche gli inquisiti in stato di osservazione. L'assegnazione è fatta per decreto del ministro dell'Interno." I condannati impazziti in carcere erano liberati alla scadenza della pena, mentre i prosciolti per vizio di mente erano dimessi "quando cessavano le ragioni del ricovero", senza limite massimo o minimo prefissato.

Ma se questa era la normativa, cosa accadeva concretamente nei due manicomi criminali esistenti a quell'epoca?

Abbiamo la possibilità di ricostruire, per sommi capi, il destino dei reclusi sia ad Aversa, che a Montelupo. Ad Aversa, fra il 1876 e il 1891 furono ammessi 1007 pazienti. Inoltre 28 pazienti entrati nel periodo 1876-1891 erano ancora presenti nel 1898 e 14 di questi vi erano da più di dieci anni, mentre 979 erano nel frattempo usciti.

Il 56,1% furono dimessi prima di tre anni e solo il 5,8% vi uscirono dopo oltre sei anni. Occorre notare però, che 230 persone vi morirono. I prosciolti, in quel periodo, furono solamente 6. A Montelupo fra il 1886 e il 1891 furono ammesse 542 persone: di queste il 37,8% fu dimesso in un altro manicomio, il 32,1% uscì vivo, ma non in manicomio, più spesso in carcere, infine il 30,1% morì.

I prosciolti furono solamente sette[10].

Abbiamo visto come, indipendentemente dal dibattito politico e culturale dell'epoca, i manicomi criminali non furono mai strutture concretamente sanitarie. Infatti, sebbene fossero destinati ad un uso profilattico rispetto al crimine, essi furono usati come luoghi per la gestione punitiva della follia criminale. Ciò è provato dalla relativa brevità degli internamenti, in un'epoca priva di risorse terapeutiche concrete, la durata dei quali non è molto diversa da quell’attuale.

Non fu mai realizzata la “non afflittività” del manicomio criminale, unica vera differenza fra segregazione carceraria e manicomiale. Essi furono gestiti da un Direttore amministrativo, come tutti gli stabilimenti di pena ordinari e mediante un Regolamento che non differiva in alcun punto da quello carcerario.

Si legge in una relazione fatta dal Direttore Sanitario di Aversa, pubblicata nel 1900: “Quivi il trattamento alimentare è uguale a quello delle carceri, i giacigli sono gli stessi che si accordano ai detenuti, la disciplina, se non è più rigorosa, non è certo informata e subordinata alle speciali condizioni dei reclusi, e quel che è peggio, vi fanno assoluto difetto i mezzi igienico-terapeutici, che sono indispensabili al trattamento degli psicopatici; difetto che, peraltro non reca altrimenti meraviglia, quando si sappia che la direzione di questi particolari istituti è disimpegnata ad un profano di psichiatria, e che il servizio sanitario è ristretto alla ben limitata orbita di azione in cui possono spaziare i medici addetti ai comuni penitenziari”. Il manicomio criminale risultò essere qualcosa di molto diverso da ciò per il quale fu ideato e, infatti, scontentò immediatamente gli alienisti, anche in un momento nel quale la psichiatria ambiva a partecipare attivamente al controllo sociale.[11]

 

1.3 Il codice Rocco

La funzione del manicomio giudiziario dal 1876 e per tutto il periodo in cui vigeva il codice Zanardelli, era soprattutto quella di ospitare i detenuti impazziti in carcere, ponendosi quindi come reparto specializzato del carcere stesso. Nel periodo fascista, la necessità politica di un controllo sociale più stretto, fece individuare l'istituzione manicomio giudiziario come luogo privilegiato in cui isolare e reprimere quegli individui che non erano punibili con il carcere o isolabili con il manicomio. I principi della scuola lombrosiana[12], respinti in blocco dal codice Zanardelli, trovarono però il loro trionfo nel Codice Penale Italiano, attualmente in vigore, approvato nell’ottobre 1930: il Codice Rocco. Con esso nasce la normativa del "doppio binario", ovvero la coesistenza nell'ordinamento giuridico di pene e di misure di sicurezza.

Le misure di sicurezza si applicano in via di principio, solo alle persone che hanno commesso un reato e siano state riconosciute "socialmente pericolose[13]”. Il giudizio di pericolosità deve essere dimostrato sulla base delle circostanze indicate all’art.133, ritenute oggettive, anche se considerarle oggettive le priva di senso storico.

Per le persone per le quali era stata pronunciata sentenza di proscioglimento per vizio totale di mente, o di condanna a pena diminuita per vizio parziale di mente, la qualità di persona socialmente pericolosa era presunta dalla legge e si applicava sempre la misura di sicurezza, rispettivamente del ricovero in un manicomio giudiziario o in una casa di cura e custodia. Infatti, l'art. 204 c.p. diceva: le misure di sicurezza sono ordinate, previo accertamento che colui il quale ha commesso il fatto è persona socialmente pericolosa. Nei casi espressamente determinati, la qualità di persona socialmente pericolosa è presunta dalla legge (...). I casi espressamente determinati sono, appunto, il proscioglimento per infermità ed il riconoscimento di seminfermità mentale. Si voleva evitare che una persona prosciolta per vizio di mente potesse andare esente da sanzione penale. Da questo punto di vista, il codice Zanardelli, che affidava la valutazione al giudice, era sicuramente più liberale. La legge prevedeva un solo correttivo alla norma, ovvero la facoltà per il giudice di non applicare la misura di sicurezza del manicomio giudiziario alla persona prosciolta per vizio di mente, quando fossero trascorsi cinque anni, per i reati più brevi, o dieci anni, per i reati più gravi, fra il momento in cui il reato fu commesso e il momento in cui si pronuncia la sentenza di proscioglimento; oppure tra il momento in cui il proscioglimento fu pronunciato e quello in cui si deve dare inizio all'applicazione della misura di sicurezza. In tutti questi casi, il giudice applicava la misura solo se rilevava in concreto che il soggetto era "tutt'ora pericoloso" (art. 204 c.p., comma II e III).

Per effetto dell'art. 31 legge 10 ottobre 1986, n. 663, l'applicazione della misura di sicurezza alla persona prosciolta per infermità psichica non è più automatica. Essa deve essere inflitta solo se il giudice ritiene in concreto sussistente la pericolosità sociale del prosciolto. Ove quest'ultima sia giudicata insussistente, la questione è da ritenersi chiusa sotto il profilo giudiziario. Nonostante ritenga in concreto esclusa la pericolosità sociale, il giudice può valutare che sussista un disturbo psichico che consigli o imponga un trattamento psichiatrico. In questo caso potrà essere indotto a segnalare la situazione ai servizi di salute mentale perché si occupino del problema.

Per quanto riguarda la durata della misura di sicurezza, essa viene prefissata nel minimo, ma non nel massimo, e la sua durata minima è a sua volta correlata con la pena edittale massima, prevista per il reato commesso[14]. Per quanto concerne le misure di sicurezza cosiddette psichiatriche[15], la durata minima è prefissata in misura diversa secondo la pena edittale massima che è prevista per il reato in questione. La legge stabilisce che il giudice possa graduare la pena, ma non la misura di sicurezza, secondo le circostanze, senza oltrepassare il limite minimo o massimo prefissato per quella fattispecie criminosa.

La durata indeterminata delle misure di sicurezza le differenzia dalle pene detentive che, nel nostro ordinamento, devono sempre avere una durata massima prefissata.

L'indeterminatezza cronologica della sanzione detentiva nasce come potere del signore nei regimi autocratici e com’emanazione della potestà divina. Soltanto con la rivoluzione francese si ha l'affermarsi del principio dell’uguaglianza giuridica di tutti i cittadini, che sarà applicato in tempi diversi nei vari paesi europei. Nella seconda metà dell'Ottocento, in Italia, è la scuola classica che si fa promotrice del concetto della pena di durata predeterminata, mentre la scuola positiva privilegia l'indeterminatezza cronologica della pena.

Nel nostro paese si è finito per adottare un doppio criterio cronologico: durata predeterminata per le pene vere e proprie, indeterminata per le misure di sicurezza. Per queste ultime, infatti, l'indeterminatezza cronologica è strumentale al loro essere strumenti di repressione criminale, che si applicano quando la sanzione penale o non può giungere, o non è sufficiente per assicurare adeguate garanzie di difesa sociale.

In questo modo, il potere giudiziario ha in mano un’arma formidabile per suscitare nel reo uno stimolo a modificare i comportamenti sanzionati e quindi creare una forma molto particolare di consenso.

Il principio della durata della misura di sicurezza a tempo indeterminato è per il legislatore del 1930, un semplice corollario della concezione accolta della misura, quella di un provvedimento amministrativo di difesa sociale, che renda innocuo il soggetto, segregandolo e isolandolo per tutta la durata della sua pericolosità.

Al contrario, appare indispensabile al legislatore, la necessità di determinare un limite minimo, perché si presume che il provvedimento sarebbe inefficace, qualora fosse adottato per un tempo inferiore a certi limiti.

Anche l'attuale codice penale contempla, seppure in via subordinata, un’ipotesi analoga a quella prevista nel codice penale del 1889.

L'art. 222 c.p. prevede, infatti, che, in caso di proscioglimento per infermità psichica, quando si tratti di contravvenzioni o di delitti colposi o d’altri delitti per i quali la legge stabilisce una pena pecuniaria o la reclusione per un tempo non superiore nel massimo a due anni, non si dà luogo all'applicazione della misura di sicurezza del ricovero in un Ospedale psichiatrico giudiziario, ma la sentenza di proscioglimento è comunicata all'autorità di pubblica sicurezza. Questa norma, traccia evidente dell'art. 46 del codice penale del 1889, abilitava a sua volta l'autorità di pubblica sicurezza a promuovere provvedimenti anche di ricovero coattivo, così come previsti dalla legge e dal regolamento manicomiale in vigore fino al 1978.

Per pericolosità sociale, la legge intende genericamente, la possibilità che il soggetto commetta in futuro, non la stessa tipologia di reato, ma altri reati di qualsiasi natura. Questo è in contrasto con le tesi psichiatriche, che da lungo tempo hanno dimostrato l'assenza di un nesso automatico fra un determinato fatto commesso, e la previsione di un certo periodo di tempo in cui è possibile che la persona commetterà altri reati, ma il legislatore fascista aveva bisogno di uno strumento abbastanza estensibile da poterne fare un impiego prolungato nel tempo, secondo la necessità contingente, perciò prese dalle due scuole penalistiche dell’epoca i concetti che più gli erano funzionali: dalla scuola classica l’aspetto retributivo della misura di sicurezza, che ne fissa la durata minima, irriducibile e commisurata al reato commesso; mentre dalla scuola positiva, l’indeterminazione della durata massima, funzionale alle esigenze di difesa sociale.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

CAPITOLO SECONDO:

I PRESUPPOSTI DI APPLICAZIONE DELLE MISURE DI SICUREZZA

2 La commissione del reato e l’imputabilità

Il diritto penale si occupa delle malattie mentali nel momento in cui tratta dell'imputabilità[16]. Il codice, quando parla di "vizio di mente" intende uno stato mentale derivante da infermità, che escluda o diminuisca la capacità di intendere e di volere del soggetto nel momento in cui questo commette il reato. Nel primo caso, la legge penale prevede l'esclusione totale della pena, nel secondo una mera diminuzione, ed in entrambi l'applicazione di misure di sicurezza, seppur di diversa specie. In generale le misure di sicurezza sono provvedimenti intesi a riadattare il delinquente alla vita libera sociale, e cioè a promuoverne l'educazione oppure la cura, secondo che egli abbia bisogno dell'una o dell'altra, mettendolo, comunque, nell'impossibilità di nuocere.

Vengono così ad affiancarsi alle pene o a sostituirle quando queste siano escluse, come nel caso di vizio di mente totale. Le misure di sicurezza, però differiscono dalle pene in maniera sostanziale, perché non hanno il carattere di castigo e quindi non sono proporzionate al delitto commesso, ma alla pericolosità del reo, che viene a costituire anche la loro ragione giustificatrice. Tali misure di sicurezza vengono, di norma, applicate solo dopo che il soggetto abbia realmente compiuto un fatto previsto dalla legge come reato, e quindi abbia realmente mostrato la sua pericolosità sociale[17].

Il concetto di pericolosità sociale[18]è espresso dall’art. 203, I comma, c.p.. Questo significa, che l'ordinamento penale, si preoccupa dell'infermità mentale solo dal momento in cui il soggetto infermo si sia concretamente reso pericoloso per la comunità ledendo un qualche bene tutelato dalla stessa legge. Prima della riforma, per le persone per le quali era stata pronunciata sentenza di proscioglimento per vizio totale di mente, o di condanna a pena diminuita per vizio parziale di mente, la qualità di persona socialmente pericolosa era presunta dalla legge e si applicava sempre la misura di sicurezza, art.204 c.p..

Furono numerosi i tentativi di far dichiarare incostituzionale questo articolo, ma anche la Corte di Cassazione, nella sentenza del 4.4.1985, confermò l'automaticità del provvedimento.

Come si è visto la durata della misura di sicurezza era indeterminata, di conseguenza la guarigione prima dello scadere del termine della misura, così come la concreta non pericolosità del soggetto, non avevano alcuna rilevanza, infatti la misura proseguiva anche se il "pazzo" non era più tale, era un "ex pazzo", o se, pur in costanza di malattia, non era, di fatto, motivo di pericolo per il prossimo.

Analogo regime vigeva per i semi infermi.

L'alibi della terapeuticità delle misure di sicurezza psichiatriche, era soltanto una giustificazione formale, poiché la loro funzione era di fatto custodialistica e d’esclusione sociale.

Con la riforma penitenziaria del 1975, si ha una prima via d’uscita da una situazione che era spesso iniqua; infatti, viene abolita la durata minima della misura di sicurezza e viene introdotta la revoca anticipata della misura in caso di cessazione della pericolosità dell'internato: art.69 IV comma e art.208 c.p..

Un ulteriore passo, in mancanza di una riforma legislativa, è tracciato dalla giurisprudenza della Corte Costituzionale. Le sentenze n. 139, 27 luglio 1982 e n. 249, 28 luglio 1983, sanciscono l'incostituzionalità dell'art. 222 c.p. (in seguito soppresso), nella parte in cui affermava l'obbligo di applicare sempre la misura di sicurezza; è inoltre introdotto il principio secondo il quale la misura di sicurezza non può essere applicata al soggetto prosciolto per vizio totale o parziale di mente se, al momento della sua applicazione, l'infermità da cui era affetto, quando aveva commesso il delitto è venuta nel frattempo a cessare. La legge prevede anche il caso della seminfermità mentale, quando l'imputato ha "grandemente scemata all'epoca del fatto la capacità d'intendere e di volere". Il seminfermo subisce un particolare trattamento, perciò è considerato imputabile e punibile, ma la pena è diminuita e si applica in aggiunta la misura di sicurezza del ricovero in una casa di cura e custodia.

La misura di sicurezza non sempre deve essere espiata dopo la reclusione, infatti, l'art. 220 del codice penale, prevede che il giudice possa farla espiare prima o durante la pena, sospendendo il decorso temporaneamente. La misura del ricovero in manicomio giudiziario può essere applicata anche in via provvisoria,[19]dall’art.206c.p. Se invece la persona viene giudicata imputabile e condannata alla reclusione, nel silenzio della legge, si pone il problema di computare o meno il tempo sofferto in misura di sicurezza provvisoria, ai fini della condanna definitiva.

Con l'ultima riforma penitenziaria, la legge 10 ottobre 1986, n. 663, detta "legge Gozzini", si aboliscono tutte le presunzioni di pericolosità previste dal codice penale, sia quelle di pericolosità qualificata,[20]sia quelle connesse a certi tipi di reati, sia le presunzioni nei confronti dei portatori di vizio totale o parziale di mente.

Da questo momento in poi, la pericolosità sociale diviene una caratteristica che deve accertarsi caso per caso. La conseguenza più immediata è che, nei confronti dell'autore di reato, anche gravissimo, che sia stato prosciolto per vizio totale e che non venga riconosciuto pericoloso, non è previsto nessun provvedimento ed egli sfugge a qualsiasi terapia o cura appropriata.

 

 

 

2.1 Le condizioni che escludono l’imputabilità e la perizia psichiatrica

La legge ritiene che la capacità di intendere e di volere non sia presente nei soggetti con età inferiore agli anni quattordici (art.97 c.p.), a causa dell'immaturità biologica e psicologica del fanciullo. La presunzione di non imputabilità del minore degli anni quattordici è assoluta e non ammette prova contraria. Per i soggetti d’età compresa fra i quattordici e i diciotto anni invece, la capacità di intendere e di volere deve essere dimostrata caso per caso.

Per i soggetti che hanno compiuto il diciottesimo anno d’età, la legge presume l'esistenza della piena imputabilità, tanto che l'assenza di questa può derivare solo da cause predeterminate dalla legge e deve essere in ogni caso dimostrata e motivata.

Le condizioni che escludono l'imputabilità sono: la piena ubriachezza derivata da caso fortuito o da forza maggiore (art. 91 c.p.); l'azione di sostanze stupefacenti derivante da caso fortuito o da forza maggiore (art. 93 c.p.); l'infermità o la malattia psichica (art. 88 c.p.); la cronica intossicazione da alcool[21]o da sostanze stupefacenti[22] (art. 95 c.p.); il sordomutismo (art. 96 c.p.). La legge esclude esplicitamente che gli stati emotivi e passionali possano escludere o diminuire l'imputabilità del soggetto (art. 90 c.p.).

Una volta stabilito, attraverso prove e indagini, che un soggetto possa avere attinenza con un reato penale e possa esserne quindi il colpevole, perché il magistrato lo dichiari responsabile deve avere la certezza che quella persona, nel momento in cui ha commesso il fatto, fosse capace di intendere e di volere. Se, invece, queste due facoltà sono grandemente o totalmente scemate, nonostante la colpevolezza del soggetto, la legge impedisce che venga dichiarato responsabile. Dunque, la perizia psichiatrica diventa uno strumento fondamentale per il magistrato al fine di decidere.

E’ il giudice che nomina il perito d’ufficio fra tutti i medici specializzati in psichiatria[23].

Il perito avrà un determinato periodo (di solito tre mesi prorogabili in caso di particolari complessità), per rispondere ai quesiti del giudice.[24]

Spesso, gli accertamenti peritali non avvengono nell'immediatezza del fatto, poiché non sono considerati atti urgenti, essi rilevano perciò, situazioni psichiche che possono essere nel frattempo mutate.

A questo proposito, è assai problematica l'attendibilità di una perizia espletata in fasi avanzate del dibattimento, come avviene in caso di rinnovazione di perizia già effettuata. Per quanto riguarda il giudizio peritale conclusivo, bisogna distinguere tra: giudizio sulle condizioni psichiche e giudizio sulla pericolosità sociale. Riguardo al giudizio sulla pericolosità: si riscontra, in alcune perizie, un’affermazione automatica della pericolosità sociale, tale valutazione si esprime sovente in termini non problematici, non tiene conto se la pericolosità sociale potrà manifestarsi in futuro nella commissione d’altri reati e ignora le prospettive di vita che potrebbero essere offerte al soggetto, sia sul piano sanitario sia su quello del suo reinserimento sociale, nonché le conseguenze che potrebbero derivare per lui da un automatico ricovero in Ospedale psichiatrico giudiziario.

Conclusasi la fase della perizia, si conclude anche il compito del perito, poiché ad intervenire direttamente è chiamato di nuovo il giudice: infatti, egli dovrà decidere, sulla base dei risultati ottenuti dalla perizia, in piena autonomia[25].

Nella realtà però, accade che le perizie psichiatriche non sono analizzate dai giudici in modo dettagliato e approfondito; le cause di ciò sono da individuare, probabilmente, nel fatto che una lettura analitica comporterebbe una mole di lavoro enorme per il giudice, il quale non sarebbe nemmeno facilitato nella lettura dai termini medici.In tribunale la psichiatria è sovente strumentalizzata, e anzi accade che sia il magistrato a utilizzare lo psichiatra, non per uno specifico sapere, ma per una sorta di condivisione di un giudizio. Non è casuale, per esempio, che, in uno stesso processo, ci siano addirittura tre conclusioni psichiatriche, formulate rispettivamente dal medico chiamato dal Gip, da quello della difesa e da quello scelto dal pm.

 

 

2.2 La perizia psichiatrica dopo la sentenza del giudice

Una volta che il soggetto viene dichiarato incapace di intendere e di volere, viene mandato in ospedale psichiatrico a questo punto: cosa ne è della perizia psichiatrica?

Nel nuovo codice di procedura penale è prevista una verifica della pericolosità da effettuarsi dopo il processo e prima dell'internamento in ospedale psichiatrico. A ciò provvede il giudice di sorveglianza il quale, dopo, aver assunto il fascicolo del dibattimento contenente la perizia, si ritira in camera di consiglio e accerta la pericolosità "attuale". Questa nuova disciplina è stata dettata dall'esigenza di tutelare i diritti del prosciolto il quale, nell'intervallo fra la fine del processo e la concreta applicazione della misura di sicurezza, potrebbe aver maturato una capacità psichica tale da inficiare del tutto la sua pericolosità sociale. In camera di consiglio il magistrato è assistito da un'équipe formata da medici, dall'assistente sociale e dall'educatore con la quale procede alla riformulazione del progetto relativo al malato.

In questa fase il primo documento che viene preso in considerazione è la perizia psichiatrica, ma il più delle volte essa non è ancora stata inviata dal tribunale, perciò è necessaria una richiesta esplicita per averla; inoltre spesso avviene che, nonostante la richiesta venga inoltrata, la perizia non arrivi mai a destinazione.

Questo dimostra come la perizia psichiatrica svolga una funzione determinante durante lo svolgimento del processo e quindi prima della sentenza, ma che non è ancora ad essa riconosciuto l'altrettanto importante ruolo di indicatore ai fini del futuro trattamento psichiatrico del prosciolto[26].

L'équipe dell'ospedale psichiatrico è totalmente autonomo, sia nel determinare che nell'attuare il trattamento medico, cui sottoporre l’ internato e ciò è preoccupante in quanto non esiste nessun tipo di controllo esterno che possa garantire il rispetto della persona soggetta alle cure e al contenimento fisico. Il gruppo di osservazione e trattamento è composto da: un medico generico che si occupa delle cure di medicina generale ed è il responsabile sanitario; un consulente psichiatra, responsabile del trattamento, della diagnosi e della terapia psichiatrica; un educatore, responsabile tecnico, che tiene i contatti con il magistrato di sorveglianza e giudica sull’opportunità del trattamento interno; un assistente sociale, portatore dei bisogni esterni degli internati e che si occupa del reperimento di servizi territoriali locali disponibili; un’esperta psicologa e un rappresentante della polizia penitenziaria.

Le guardie carcerarie, infatti, hanno un ruolo fondamentale all'interno dell'ospedale psichiatrico in quanto svolgono la funzione di controllo e di mantenimento dell'ordine simile a quella richiesta nelle carceri vere e proprie; inoltre, grazie alla recente riforma penitenziaria, la legge n. 395 del 1990, hanno aggiunto ai loro compiti quello di verifica e di giudizio riguardo al comportamento dei detenuti nelle celle.

In genere, il progetto di trattamento che è stabilito dall'équipe tende ad un'applicazione, che si svolga in tempi lunghi, tanto da avere la possibilità di coinvolgere oltre ai familiari del malato, anche i servizi territoriali di residenza di questo. Perciò si vuole consentire anche in sede di applicazione della misura di sicurezza una possibile dimissione anticipata: a questo fine gli accertamenti sulla pericolosità sono effettuati più volte, con una cadenza di tre-quattro mesi.

Avviene raramente che il giudizio di pericolosità, positivo in dibattimento sia cambiato in seguito dall'accertamento effettuato in ospedale, prima di tutto perché resta comunque un giudizio complesso e astratto, poi perché rappresenterebbe un'assunzione enorme di responsabilità da parte del direttore e di tutto lo staff medico. Altrettanto difficile è la possibilità che accada nel malato una remissione totale dell'attività psicotica tale da fare ipotizzare un annullamento del rischio di pericolosità; nel dubbio, si preferisce applicare al soggetto una misura di sicurezza provvisoria, ma in questo caso non sarà possibile per il team medico compilare un programma terapeutico completo e sarà elusa la necessità di cura.

 

 

2.3 I reclusi in ospedale psichiatrico giudiziario

La popolazione reclusa in Ospedale psichiatrico giudiziario può essere divisa per categorie giuridiche. Innanzi tutto vi sono i prosciolti folli: i prosciolti per vizio totale o parziale di mente, giudicati non imputabili per infermità mentale al momento del fatto, cui è applicata la misura di sicurezza del manicomio giudiziario (art. 222 c.p.).

Una seconda categoria è rappresentata dai condannati a pena sospesa: sono quelle persone già condannate per un reato a pena detentiva, nelle quali sia insorta una malattia mentale durante la detenzione in carcere. Infatti, se si ritiene che la malattia mentale sia tale da impedire l'ulteriore esecuzione della pena, questa è sospesa e il condannato inviato al manicomio giudiziario (art. 148 c.p.).

Il meccanismo di sospensione della pena, in questo caso è attivato dal sospetto dell'insorgenza di una malattia mentale ai danni del condannato, durante la sua detenzione. Il giudice di sorveglianza ordina, dopo aver espletato le indagini e gli accertamenti che ritiene opportuni, che l'esecuzione della pena detentiva sia interrotta, rimanendo sospeso il periodo da trascorrere ancora in carcere.

La direzione dell'Ospedale psichiatrico giudiziario invia periodicamente all'autorità giudiziaria una relazione sulle condizioni psichiche del condannato, e fino a che questo non è giudicato di nuovo "sano", la pena resta sospesa. Di solito sono detenuti il cui l'equilibrio psichico è stato sconvolto dall'esperienza del carcere, per cui non è più in grado di subire l'esecuzione della condanna alla reclusione, cosa abbastanza inspiegabile, dal momento che è considerato in grado di essere recluso in Ospedale psichiatrico giudiziario, a volte anche per un periodo di tempo più lungo.

Questo meccanismo si può spiegare solo dal punto di vista del formalismo giuridico: infatti, la reclusione manicomiale non è considerata tecnicamente una pena e non richiede un adeguato equilibrio psichico per essere attuata.

Nella realtà, si tratta comunque di una privazione della libertà personale e della detenzione in un istituto penitenziario, al di là di ciò che intende la legge. D'altra parte si è affermato che il ricovero manicomiale è curativo e serve a guarire il soggetto malato di mente, in modo che possa di nuovo continuare ad espiare la condanna che gli è stata inflitta.

Il manicomio giudiziario era stato progettato, in Italia, con lo scopo preciso di rinchiudervi i condannati impazziti in carcere.

Ma nella formulazione del codice Rocco, il vero motivo della sospensione della pena non era quello di rendere il condannato impazzito di nuovo capace di intendere il valore afflittivo e rieducativo della pena.

Infatti, ci si era accorti che alcuni detenuti potevano godere in manicomio di un trattamento meno duro rispetto a quello del carcere e quindi tentavano di farsi trasferire, simulando la pazzia.

Per scoraggiare questa tattica si era congegnato il meccanismo della sospensione della pena, che dissuase i simulatori, ma che distrusse chi veramente soffriva di disturbi psichici, dato che il ricovero in manicomio giudiziario era, una volta sospesa la pena, cosa del tutto diversa dalla pena stessa ed il tempo trascorso lì non era computabile ai fini della condanna. Dell’iniquità di questa situazione si discusse a lungo, fino a che la sentenza della Corte costituzionale n. 146 del 19. 6. 1975, dichiarò illegittima quella parte dell'art. 148 c.p. in cui dispone che il tempo trascorso in manicomio non è computato ai fini dell'esecuzione della pena, per contrasto con l'art. 3 della Costituzione, per il diverso trattamento che si instaura per il detenuto cui sopraggiunge una infermità psichica, a seconda che egli sia stato o meno già condannato.

Una terza categoria comprende i soggetti sottoposti a misura di sicurezza provvisoria: sono persone detenute, in attesa di processo, per le quali il giudice ritiene probabile un futuro riconoscimento di vizio totale o parziale di mente, ed alle quali decide di applicare in via provvisoria la misura di sicurezza del manicomio giudiziario[27].

La quarta categoria comprende, invece, i detenuti in esecuzione di perizia: sono gli imputati di un reato, per i quali il giudice abbia disposto perizia psichiatrica. Provengono dal carcere, e vi ritornano a seconda che la perizia si concluda con una relazione medica, negativa o convalidante l'esistenza del disturbo.

Questa categoria ha fornito negli anni uno dei maggiori contributi quantitativi alla popolazione manicomiale-giudiziaria.

Fino al 1975 non vi era nessuna restrizione all'invio in osservazione psichiatrica dal carcere al manicomio: era sufficiente che un medico del carcere (abitualmente non psichiatra) redigesse un certificato con la generica diagnosi di "agitazione psicomotoria" o "alienazione mentale", perché il trasferimento si attuasse immediatamente (art. 106, comma I del Regolamento penitenziario del 1931). Questo accadeva non solo quando il detenuto manifestava reali segni di patologia psichica, ma anche in caso di tensioni o insofferenze per situazioni intollerabili all'interno del carcere. Come si vede, manca qualsiasi accenno ad un intervento finalizzato alla cura della persona e al recupero del suo stato di salute.

L'invio in osservazione manicomiale può anche essere usato come deterrente nei confronti di detenuti "ribelli", non per ragioni di patologia, bensì per motivi sociali, economici o addirittura politici.[28]Subito dopo ogni rivolta, partivano dalle grandi carceri, decine di detenuti in traduzione speciale, suddivisi tra i penitenziari delle isole ed i manicomi giudiziari (non esistevano ancora le carceri di massima sicurezza).

Il pericolo più grosso si ha riguardo al tentativo degli autori di gravi reati di farsi credere "pazzi", simulando comportamenti abnormi. Questa pratica ha riempito gli ospedali giudiziari italiani: risulta da alcune indagini effettuate dal Tribunale di Sorveglianza di Firenze e di Mantova, che solo una percentuale inferiore al 20 % degli inviati in osservazione presenta un effettivo significato psichiatrico, tanto che la percentuale di persone riconosciute "sane di mente", oscilla tra il 73 e l'80 % dei casi.

A questo inconveniente ha cercato di porre rimedio la legge di riforma penitenziaria del 1975, disponendo che le osservazioni, di norma, debbono effettuarsi nello stabilimento dove si trova il detenuto, riservando a casi eccezionali l'osservazione in manicomio giudiziario. Inoltre, l'art. 11, comma I della stessa legge, prescrive che ogni istituto penitenziario deve disporre di un medico psichiatra.

La quinta categoria comprende i minorati psichici in sentenza: sono soggetti già condannati ad una pena diminuita, perché riconosciute nella sentenza come seminfermi di mente.

Sono assegnati in via amministrativa ad un manicomio giudiziario per espiare la loro pena detentiva invece che nel carcere ordinario.

In realtà, l'art. 98, comma VII del regolamento di esecuzione della legge penitenziaria del 1975, parla di assegnazione a istituti speciali per soggetti affetti da infermità o minorazioni psichiche, ma questi istituti esistono solo sulla carta e come al solito si rimedia all'ennesima carenza con l'internamento nell’Ospedale psichiatrico giudiziario.

I minorati psichici amministrativi: sono persone già condannate perché riconosciute sane di mente, i quali durante l'esecuzione della pena, presentano turbe psichiche d’entità minore rispetto a quelle che potrebbero provocare la sospensione della pena.

Da questa panoramica si può notare quanto sia complessa una corretta indagine sulle posizioni giuridiche considerate, soprattutto se si considera che un soggetto può, di fatto, trovarsi recluso in un Ospedale psichiatrico giudiziario in virtù di più e diverse posizioni giuridiche contemporanee.

Quindi, l'Ospedale psichiatrico giudiziario che nasce come istituzione segregante dei condannati impazziti, è divenuto oggi il ricettacolo di situazioni giuridiche e cliniche differenti e molteplici.

Quasi come se fosse la "pattumiera" di tutte le altre "istituzioni totali" presenti nel territorio italiano preordinate al controllo sociale, ma in particolare del carcere, tanto da essere essenziale al mantenimento della stabilità di queste ultime e, in ultima analisi, dell'intero assetto economico, sociale e politico del Paese.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

CAPITOLO TERZO:

LA RIFORMA PSICHIATRICA

 

3 La situazione prima della legge n.180

Il 16 maggio 1978 entra in vigore la legge n. 180, "Accertamenti e trattamenti sanitari volontari ed obbligatori" ponendo fine al vecchio sistema manicomiale[29], basato essenzialmente sulla legge n. 36 del 14 febbraio 1904, intitolata "Disposizioni sui manicomi e sugli alienati. Custodia e cura degli alienati". Quest’ultima legge, infatti, salvo alcune modifiche introdotte nel 1968, regolava ancora l'assistenza psichiatrica nel nostro paese.

La normativa del 1904 si ispirava, come del resto le legislazioni psichiatriche elaborate in precedenza negli altri paesi europei, alla legge francese del 1838. Quest'ultima, espressione delle concezioni dello Stato liberale, delineava un sistema a carattere sostanzialmente asilare[30], basato sull'obbligatorietà del trattamento e sulla nozione di pericolosità sociale dell'infermo di mente. In verità la legge n. 36 già alla sua nascita appariva vecchia[31]: era stata elaborata in un momento in cui, negli altri stati europei, si levavano già le prime voci contro il sistema manicomiale e si tentava il superamento del "modello" francese.

Essa non si poneva alcun fine terapeutico o riabilitativo, avendo piuttosto un diverso e duplice scopo. Da una parte mantenere e rafforzare una visione custodialistica e segregante della malattia mentale, vista come una realtà da occultare in quanto problema al quale la nostra organizzazione sociale non vuole o non è in grado di dare risposte diverse.

Dall'altra di fornire strumenti di difesa e controllo sociale verso la stessa, tali da sollevare la società dal peso della presenza di soggetti che, pur non essendosi resi colpevoli di alcunché, suscitano paura e creano disturbo all'ordine costituito.

Il concetto base e discriminante sul quale si fondava la legge era quello della pericolosità del malato mentale, o, “dell'alienato”, previsto dall’art.1, in base al quale le persone affette, per qualsiasi causa da alienazione mentale quando siano pericolose[32]a sé o agli altri devono essere custodite e curate nei manicomi[33].

Il terzo criterio, che faceva scattare il ricovero d'autorità in manicomio, era quello del "pubblico scandalo", un parametro quindi ancora più soggetto ai condizionamenti culturali e storici, ma soprattutto teoricamente più debole. Proseguiva infatti l'articolo 1 "...o riescano di pubblico scandalo e non siano e non possano essere convenientemente custodite e curate fuorché nei manicomi..."

Dunque la legge si disinteressava totalmente degli alienati non pericolosi, i quali non avrebbero subito alcuna limitazione della propria libertà personale, ma ai quali non veniva riconosciuto neanche alcun diritto terapeutico, nonostante la dichiarata finalità terapeutica della medicina.

Dalla sua nascita, agli inizi del XIX secolo, fin quasi ad oggi la psichiatria si è occupata del malato soltanto dal momento in cui il suo comportamento diveniva pericoloso. Solo a partire dalla legge n. 431 del 18 marzo 1968, intitolata "Provvidenze per l'assistenza psichiatrica", si riconosce l'opportunità, per chiunque manifesti un disturbo psichico, e, come accade per qualsiasi altro tipo di infermità, di poter chiedere aiuto.

Ma come disciplinava l'internamento in manicomio, la legge n. 36?

L'ammissione veniva stabilita in via ordinaria dal pretore sulla base di un certificato medico e su richiesta dei parenti, dei tutori, "e di chiunque altro nell'interesse degli infermi e della società"; spesso si ricorreva anche alla procedura del ricovero d'urgenza, in base ad un certificato medico".

L'estrema facilità con la quale poteva esser disposto tale ricovero d'urgenza e la totale assenza di garanzie per il paziente sia prima che durante la procedura di ricovero, spiegano l'abuso che è stato fatto di tale strumento.

L'aspetto più inquietante della vecchia legislazione era[34], però, l’assenza di limiti temporali alla degenza. Dopo un periodo massimo di osservazione di circa un mese, infatti, scattava, su indicazione del direttore, il procedimento giudiziario che internava definitivamente il paziente ed in conseguenza del quale questi perdeva la sua capacità d'agire in senso giuridico, il ricovero diveniva poi definitivo con un decreto emesso dal tribunale.

Un altro elemento che caratterizzava l'organizzazione interna del manicomio era il potere illimitato del direttore dell'istituto, previsto sia dalla legge n. 36 che dal regolamento del 1909.

Queste è il frutto, in primo luogo, della situazione autoritaria del tempo che accumunava il problema dei malati di mente a quello di altri individui socialmente indesiderati come i vagabondi, gli invalidi, le prostitute, o socialmente pericolosi, come i criminali, che avevano in comune unicamente il fatto di turbare l'ordine e la tranquillità sociale. A tutto ciò si aggiunge la nozione di malattia psichica elaborata dalla scienza medica dell'ultimo Ottocento, ossia l'idea della follia come forma di inspiegabile alienazione un'idea che vedeva come inscindibilmente legati tra loro disturbo psichico e pericolosità sociale. La conseguenza di tutto ciò era rappresentata dal fatto che una parte consistente delle patologie era considerata inarrestabile e inguaribile, e, non essendo conosciuti interventi terapeutici e farmacologici efficaci, il trattamento si riduceva essenzialmente all'internamento e più tardi alle terapie shock.

Agli inizi degli anni sessanta in contrapposizione a questa impostazione, nascono e si sviluppano nel nostro Paese esperienze volte a modificare le realtà manicomiali. Nascono le prime case famiglia, le comunità alloggio per gli ex degenti e i primi centri di igiene mentale; tutto ciò ben prima dell’esperienza di Basaglia e del suo movimento, che rientravano in una più ampia corrente di pensiero.

L'intera Europa è attraversata nel corso di questo decennio da esperienze di psichiatria alternativa di grande valore scientifico.

In questo fermento culturale si formarono in Italia alcuni isolati gruppi di psichiatri guidati da Franco Basaglia, che insoddisfatti della cultura e della pratica della psichiatria ufficiale, alla fine degli anni sessanta puntarono il dito sull'istituzione manicomiale[35], ritenendo che a causa delle condizioni disumane che la caratterizzano, non fa altro che aggravare la sofferenza mentale. Non solo, il fatto che in manicomio siano internate prevalentemente persone appartenenti ai ceti meno abbienti, conferma la funzione di controllo sociale svolta dallo stesso, il suo essere strumento di contenimento non solo della pazzia ma anche della povertà. Riguardo alle origini del disturbo mentale inoltre, questi psichiatri rifiutavano nettamente una visione organicistica, sostenendo l'importanza dell'influenza sociale sulla genesi e sul decorso della malattia.

Sulla base di queste convinzioni, essi iniziarono un'opera di rinnovamento all'interno delle realtà manicomiali.

Essa doveva tuttavia configurarsi soltanto come una fase di passaggio verso la totale distruzione istituzionale, ovvero il graduale smantellamento, realizzato a più livelli, del modo di essere e di pensare della società intera intorno alla malattia mentale.

Inizia così un processo di rinnovamento e di sperimentazione in alcuni ospedali psichiatrici.

Gli esempi più importanti in tal senso furono Perugia, Gorizia, (il cui direttore dal '62 era proprio Basaglia) Arezzo, Parma e Trieste.

Il primo passo fu quello di non intendere più il manicomio come luogo di contenimento stabile, ma piuttosto di utilizzarlo il più possibile (e in attesa della creazione di strutture territoriali che già venivano richieste) in senso terapeutico, sviluppando un clima di solidarietà e chiarezza fra medici, infermieri e pazienti, restituendo ad essi i diritti elementari, e creando condizioni di vita finalmente umane.

Alla fine di questo decennio si segnalano due fatti significativi.

In primo luogo l'emanazione della legge n. 431 del 1968, ricordiamo, in particolare, la possibilità di ricoveri volontari e la trasformazione di ricoveri coatti in volontari evitando così il procedimento di internamento definitivo. Tuttavia il regime di ammissione volontaria viene concepito dal legislatore del 1968 non come misura sostitutiva, bensì aggiuntiva rispetto a quella che rimane la principale forma di ammissione in istituto, ovvero l'internamento obbligatorio.

La stessa legge inoltre introduce i C.I.M. (Centri di Igiene Mentale), servizi per terapie ambulatoriali psichiatriche e psicoterapeutiche.

Il carattere innovativo di una simile disciplina, nella quale il momento custodialistico assume un valore accessorio o comunque strumentale, ed alla quale si deve la prima collocazione della malattia mentale sul piano generale della tutela della salute, ha indotto taluno a definire la legge 431 una sorta di "miniriforma" psichiatrica.

In effetti ad essa dobbiamo la creazione delle condizioni per l'attuazione della futura riforma dell'assistenza psichiatrica, nella quale finalmente il trattamento in condizioni di degenza ospedaliera dell'infermo di mente costituisce una forma di intervento residuale e comunque transitoria.

In secondo luogo, attraverso il D.P.R. n. 128 del 1969, intitolato "Ordinamento interno dei servizi ospedalieri", ha inizio il rinnovamento delle strutture ospedaliere. Da questo momento, proprio per l'importanza sempre più terapeutica e sempre meno custodialistica che gli ospedali psichiatrici stavano faticosamente acquisendo, si assiste ad una loro ristrutturazione, analoga a quella degli ospedali civili, in divisioni, sezioni e servizi speciali.

 

3.1 L’entrata in vigore della legge

Negli anni settanta il movimento di psichiatria antistituzionale entra in una nuova fase, che potremmo definire di impegno politico e non solo pratico-teorico.

In gran parte dei paesi industrializzati, ma soprattutto negli Stati Uniti a partire dagli anni cinquanta, si criticavano i grandi ospedali psichiatrici statali, e si dava sempre più valore all'aspetto psicologico e sociale del disturbo mentale.

Ma in nessun luogo come in Italia queste discussioni hanno portato ad un così radicale e rivoluzionario cambiamento con il passato come quella rappresentata dalla legge n. 180[36], che detta una normativa antiautoritaria e ispirata al principio della cura in libertà del malato di mente.

Infatti, alla fine degli anni settanta le pressioni per la chiusura dei manicomi sono sempre più insistenti. Contemporaneamente prende campo l'idea che allo smantellamento degli ospedali psichiatrici debba seguire un'assistenza psichiatrica territoriale estremamente diversificata secondo i bisogni dei pazienti.

Franco Basaglia muove dalla consapevolezza che l’ospedale psichiatrico non aveva alcuna valenza terapeutica, ma era di per sé produttore di malattia, l’unica possibilità di terapia nell’ospedale psichiatrico era, in definitiva, la sua stessa distruzione[37].

Per avviare il cambiamento, volle farsi carico egli stesso del percorso di formazione. Il lavoro che aveva sviluppato con originalità nell’Ospedale Psichiatrico di Gorizia, durante il decennio precedente fu rapidamente superato attraverso l’apertura, la trasformazione e la chiusura dell’Ospedale Psichiatrico di Trieste, e il parallelo avvio di una rete di servizi territoriali alternativi, in grado di sostituire lo stesso ospedale. Il profondo cambiamento avviato da Basaglia servì anche a orientare le ricerche sul malato, anziché sulla malattia, per costruire percorsi terapeutici riabilitativi e d’emancipazione che favorissero la partecipazione attiva degli utenti.

In sede legislativa e amministrativa si cominciò quindi a preparare il Servizio Sanitario Nazionale, di cui l'assistenza psichiatrica doveva essere parte integrante.

La maggior chiarezza raggiunta in campo medico e giuridico sulle esigenze e sui diritti personali del malato psichico porta all’approvazione della riforma dell’assistenza psichiatrica che si concretizza nella legge 13 maggio 1978 n. 180.

Le sue disposizioni fondamentali possono essere così riassunte:

1) I trattamenti sanitari obbligatori (TSO) devono avvenire nel rispetto della dignità e dei diritti della persona. Sono disposti perciò con provvedimento del sindaco su proposta motivata del medico e devono venire convalidati entro 48 ore dal giudice tutelare.

2) Gli interventi di prevenzione, cura e riabilitazione sono attuati di norma dai servizi e presidi territoriale extra-ospedalieri.

3) E’ fatto divieto di costruire nuovi ospedali psichiatrici e, dal 1° gennaio 1981, non potrà essere effettuato alcun ricovero in quelli esistenti.

4) La creazione e l’organizzazione dei servizi territoriali alternativi all’ospedale psichiatrico sono affidate alla Regione, cui viene demandato il compito di istituire speciali luoghi di cura per malati mentali all’interno degli ospedali generali e la realizzazione di una serie di strutture intermedie nel territorio, su base dipartimentale, sostitutive del manicomio[38].

Gli articoli di questa legge sono stati subito inglobati nella più ampia normativa sulla riforma sanitaria (legge 23 dicembre 1978, n. 833).

La legge n. 180 è decaduta, quindi, pochi mesi dopo la sua entrata in vigore; quando si parla della riforma dell’assistenza psichiatrica, si continua tuttavia a parlare di "legge 180" o di "legge Basaglia".

La nuova normativa sancisce la fine del manicomio, realizzando al contempo un'importante inversione di rotta nell'area dei trattamenti riservati ai soggetti affetti da disturbi mentali. Al manicomio ed ai centri di igiene mentali si sostituiscono i servizi psichiatrici territoriali ed, in particolare, il Dipartimento di salute mentale, una struttura di coordinamento volta a fornire non soltanto una risposta terapeutica, ma anche a garantire l'adozione di misure di tipo preventivo: l'intervento socio-sanitario non riguarda solo il momento della malattia, ma anche la fase curativa, riabilitativa e soprattutto preventiva.

La legge 180, mantiene tuttavia in vita la possibilità di effettuare ricoveri coatti per malati di mente.

Essa introduce infatti, il Trattamento sanitario obbligatorio, un provvedimento di tipo coercitivo, realizzabile anche in condizioni di degenza ospedaliera.

La legge 180/1978 (e successivamente anche la 833/1978) si limitava a trasferire alle Regioni, in attuazione dell'art. 118 Cost. e per le materie elencate nell'art. 117 Cost., le funzioni amministrative concernenti l'assistenza psichiatrica[39], precedentemente e fin dalle origini del manicomio esercitate dalle Province.

Sempre le Regioni individuano gli ospedali generali nei quali devono essere istituiti specifici servizi psichiatrici di diagnosi e cura (SPDC), servizi in cui si effettuano i Trattamenti sanitari obbligatori, che necessitano di degenza ospedaliera.

Sennonché, prevedendo la stessa legge 180, all'art.8, 5º comma, che "...negli attuali ospedali psichiatrici possono essere ricoverati, sempre che ne facciano richiesta, esclusivamente coloro che vi sono stati ricoverati anteriormente alla data di entrata in vigore della presente legge e che necessitano di trattamento psichiatrico in condizioni di degenza ospedaliera", si veniva a creare un grave vuoto assistenziale per quei soggetti che non erano mai stati ricoverati in ospedale psichiatrico al momento dell'entrata in vigore della legge e che necessitavano di Trattamento sanitario obbligatorio ospedaliero, almeno fino a quando le Regioni non avessero provveduto alla istituzione dei servizi psichiatrici di diagnosi e cura.

Ora, alcune Regioni, procedettero tempestivamente alla creazione dei servizi psichiatrici ospedalieri. Altre, in deroga alla legge dello Stato, emisero disposizioni transitorie che permettevano questi ricoveri durante i sessanta giorni necessari all'istituzione del servizio psichiatrico di diagnosi e cura ospedaliero. Ma quelle che, in ritardo nella istituzione dei servizi ospedalieri, non seguirono tale strada (ad esempio la Regione Lazio) andarono incontro a situazioni di reale emergenza negli ospedali generali, rifiutando l'ospedale psichiatrico ogni ricovero d'urgenza. Più in generale possiamo affermare che le Regioni hanno assunto comportamenti difformi nell'applicazione della nuova normativa (in gran parte demandata alla loro responsabilità), comportamenti legati in genere alle posizioni politiche delle diverse maggioranze di Governo regionali, come dimostra la quasi integrale applicazione della legge in Regioni quali la Toscana e l'Emilia Romagna.

Inoltre la legge entrava in vigore in una situazione di totale vuoto per quel che concerne le strutture territoriali psichiatriche, e di totale impreparazione del personale infermieristico e medico di fronte a un tipo di assistenza completamente diverso rispetto alla precedente, diversificata e per buona parte non medica ed infermieristica.

Di fatto, per periodi di tempo più o meno lunghi, a seconda dei luoghi, si crearono situazioni caotiche e di tensione, e la conseguenza più immediata fu quella di buttare sulle spalle del personale impreparato dei reparti internistici degli ospedali generali il peso della patologia mentale.

Per tutta la prima metà degli anni ottanta, si è registrata da più parti un'azione volta a frenare l'applicazione della legge in attesa di una sua modificazione o addirittura totale sostituzione con norme di segno contrario.

Il disagio che tale "sabotaggio" ha provocato, la mancata risposta alla domanda di cura dei pazienti, ha determinato il più delle volte nei familiari dei malati rabbia, reazioni di rigetto ed incessanti richieste di riapertura dei manicomi al punto da poter considerare essi addirittura i più accesi oppositori della legge, almeno in un primo momento[40]. Alcuni psichiatri, medici, proprietari delle strutture private convenzionate, nonché esponenti politici del centro-destra, facendosi interpreti del disagio dei familiari - impreparati il più delle volte ad accogliere e reinserire nel nucleo familiare un componente dato ormai per "perso", e di fatto spesso disadattato in conseguenza del lungo ricovero - hanno tentato l'affossamento della legge 180 ancor prima della sua applicazione. Vari sono stati i disegni di legge presentati in parlamento (mai approvati), la maggior parte dei quali tendenti a snaturare radicalmente la legge. D'altra parte i Governi succedutisi nel corso delle varie legislature, non si sono mai attivati concretamente per la sua attuazione, non sono intervenuti per molto tempo sulle Regioni inadempienti pur avendone il potere, e spesso hanno operato nel senso di sostenere le convenzioni con le strutture psichiatriche private neomanicomiali.

Essenzialmente a queste resistenze, al disimpegno sociale diffuso, nonché ai pregiudizi culturali ed alla preoccupazione che, ancora oggi, la chiusura di luoghi cosi "rassicuranti" per la società come i manicomi suscita tra la gente, si devono dunque i ritardi ed i problemi di natura pratica ed applicativa che innegabilmente si registrarono nell'immediata vigenza della legge 180.

A partire dagli anni novanta, comincia però a registrarsi un'inversione di rotta. Molti familiari, essendosi convinti che l'unico modo per garantire ai propri congiunti un'assistenza più umana e valida, sia quello di far funzionare la riforma, si sono trasformati in decisi sostenitori della stessa. Gli psichiatri che all'inizio appoggiavano i tentativi di revisione della legge 180, hanno mutato posizione.

Anche i politici e gli amministratori contrari alla legge 180 hanno dovuto cedere il passo ad una posizione più morbida, o comunque abbandonare l'idea di una riapertura dei manicomi.

 

3.2 Le strutture necessarie per il funzionamento della legge

L'intervento terapeutico in condizioni di degenza ospedaliera è soltanto una parte, dell'assistenza psichiatrica delineata nella nuova legislazione.

Lo scopo principale, è proprio quello di creare una rete di strutture sparse sul territorio capaci di dare risposte assistenziali ai molteplici bisogni del malato di mente, in definitiva servizi in grado di prevenire proprio il ricovero ospedaliero. Anche queste tuttavia non sono state individuate dal legislatore del 1978; è ricaduta quindi ancora una volta sulle Regioni l'incombenza di delinearle e organizzarle, e ciò ha creato, tralasciando i lunghi periodi di inerzia, situazioni disomogenee.

A questo problema dovrebbe aver posto fine il "Progetto Obiettivo per la tutela della Saluta Mentale 1994-96" emanato, dopo esser stato approvato dal Parlamento, con Decreto del Presidente della Repubblica il 7 aprile del 1994. Tale Progetto, un provvedimento sostanzialmente di indirizzo, segna, per varie ragioni, una tappa fondamentale nelle vicende relative all'assistenza psichiatrica del nostro paese.

In primo luogo, è il primo ed unico atto normativo che, in ben sedici anni, conferma e sviluppa i contenuti della legge 180, chiudendo così un periodo storico di battaglie e di contrapposizione intorno ad essa.

Secondariamente conferma, con un accenno critico, alcuni dati di fatto: ovvero le carenze, la mancata attribuzione di risorse, l'assenza di una costante e corretta azione di promozione, indirizzo e coordinamento relativamente al sistema di assistenza psichiatrico delineato dalla riforma. Infine individua, per la prima volta nei dettagli, la rete dei servizi psichiatrici sul territorio, stabilendone l'organizzazione dipartimentale.

Tutte le attività, territoriali e ospedaliere, nelle quali si sostanzia l'intervento psichiatrico pubblico, dovranno secondo il Progetto fare capo al Dipartimento di salute mentale (D.S.M.).

Per Dipartimento di salute mentale si intende l'insieme delle strutture psichiatriche di una USL. Le figure professionali del dipartimento sono: psichiatri; psicologi; assistenti sociali; infermieri; educatori; ausiliari e personale amministrativo.

Lo scopo di questa struttura è quello di garantire l'unitarietà della programmazione e della gestione di tutti i servizi.

I suoi compiti fondamentali sono: la programmazione, sia da un punto di vista terapeutico che di risocializzazione; la prevenzione; l'integrazione con l'ospedale (nel quale si situa il servizio psichiatrico di diagnosi e cura, considerato parte integrante del dipartimento di salute mentale, anche se collocato in un'azienda diversa); il collegamento con altri servizi, con l'associazione dei familiari, con le cooperative sociali ed il volontariato; la limitazione della cronicità e dei ricoveri.

Le attività di prevenzione, cura, riabilitazione e risocializzazione sono svolte attraverso una pluralità di strutture, ovvero il Centro di salute mentale (C.S.M.), il Servizio psichiatrico di diagnosi e cura e le strutture semiresidenziali e residenziali.

Il Centro di salute mentale è una struttura territoriale che, oltre ad essere sede organizzativa dell'équipe, svolge attività psichiatrica ambulatoriale e domiciliare. Inoltre funge da filtro ai ricoveri, dovendo portare avanti in questo senso anche un'attività di prevenzione. Il Progetto Obiettivo del 1994 presenta tuttavia anche dei limiti. Essendo infatti un provvedimento di indirizzo, avrebbe dovuto, per risultare realmente utile, essere emanato poco dopo l'entrata in vigore della legge 180, e non quando ogni Regione aveva già legiferato sull'argomento. D'altra parte, come abbiamo già constatato, è anche vero che non tutte le Regioni hanno tradotto in realtà le proprie leggi. Ciò nonostante e, ancora una volta, nel progetto non sono inseriti vincoli e sanzioni volte a far pressione sulla Regione affinché predisponga un progetto obiettivo a livello regionale.

Infine, oltre ad esser giunto in ritardo, non è stato accompagnato da quei finanziamenti necessari a garantirne l'incisività.

Comunque la crescita organizzativa e quantitativa dei servizi psichiatrici avvenuta negli ultimi tempi, è stata un filtro alla proposte di trattamento sanitario obbligatorio, consentendo, anche in situazioni di urgenza, interventi extraospedalieri.

 

3.3 Critiche e importanza della 180

La legge 13 maggio 1978, n. 180 "Accertamenti e trattamenti sanitari volontari obbligatori" ha completamente modificato la situazione precedente, riconoscendo il diritto alla libertà del cittadino nei confronti del trattamento sanitario quale deriva dall'art. 31 della Carta Costituzionale e, sostituendo il concetto di "pericolosità" con quello di "tutela della salute pubblica" ai fini della legittimazione dell'obbligatorietà del trattamento stesso.

La legge predetta tende inoltre alla progressiva eliminazione degli Ospedali Psichiatrici, indicati dalle nuove concezioni quali "luoghi di esclusione e sofferenza". Restano invece funzionanti, in quanto non vi si fa cenno nella legge e restano quindi soggetti alla normativa finora in vigore, i Manicomi Giudiziari, regolati dal nuovo regolamento di esecuzione emanato con D. P. R 29 aprile 1976, n. 431. Si tratta sì di un'istituzione diversa e a sé stante rispetto all'ospedale psichiatrico, ma pur sempre collegata a quello che era l'obiettivo principale del legislatore del 1978, ovvero superare una concezione segregante ed esclusivamente punitiva della malattia mentale.

In tal modo è venuta a crearsi una disparità di trattamento tra il soggetto resosi autore di reato e giudicato totalmente incapace di intendere e di volere per infermità di mente ed il soggetto, altrettanto infermo di mente, che non ha commesso reati.

Quello, infatti, se ritenuto socialmente pericoloso dovrà subire un trattamento sanitario obbligatorio e durevole, che è del tutto in contrasto con lo spirito della riforma sanitaria in atto e che viceversa non si applica mai ai comuni infermi di mente. Ma non solo.

Una delle conseguenze più temute della deistituzionalizzazione è rappresentata dal rischio che essi assumano, in aggiunta a quelle di custodia e contenimento che già hanno, le funzioni di controllo e di difesa prima attribuita agli ospedali psichiatrici, viste e considerate anche le difficoltà incontrate nell'attuazione della riforma psichiatrica ed i conseguenti vuoti assistenziali che inizialmente e, soprattutto nel centro-sud, si sono creati e che possono aver trasformato nel frattempo alcuni malati in condizioni di abbandono in autori di reato.

L'aumento dei suicidi e del ricorso agli Ospedali Psichiatrici Giudiziari (OPG) registrato a partire dalla seconda metà degli anni settanta, è stato spesso collegato allo smantellamento del sistema manicomiale, sebbene non sia mai stata dimostrata alcuna correlazione tra questi due fatti e la disponibilità delle strutture psichiatriche.

Tuttavia, il fatto che la 180 non abbia in alcun modo considerato il problema degli ospedali psichiatrici giudiziari ha sicuramente prodotto in tale ambito, nuove e preoccupanti tendenze e situazioni.

In primo luogo, con la chiusura degli ospedali psichiatrici, si evidenzia maggiormente la contraddizione di una struttura come l'ospedale psichiatrico giudiziario, da sempre chiamata a coniugare restrizione e cura, terapia e controllo, ed oggi, ormai impossibilitata a divenire una realtà terapeutica, sempre più attratta nella situazione carceraria. Rinunciando a qualsiasi fine terapeutico, anche a causa del sovrapporsi al suo interno di figure professionali diverse non centrate sull'aspetto psichiatrico del trattamento, nonché per la scarsità di collegamenti con i servizi psichiatrici esterni, e per la mancanza di un chiaro mandato istituzionale (solo custodia o anche trattamento sanitario?), l'ospedale psichiatrico giudiziario risulta ormai condannato ad assumere la veste di una struttura penitenziaria. Tale situazione, con tutte le regolamentazioni e limitazioni in termini di spazi e di strutture che ad essa conseguono, rende arduo qualsiasi intervento di tipo sanitario, e sempre più anacronistica un'istituzione del genere.

Inoltre, fino al maggio del 1978, la maggior parte delle revoche delle misure di sicurezza avveniva con il contestuale ricovero in ospedale psichiatrico. Attraverso una serie di convenzioni con i manicomi civili, si realizzava un passaggio di competenza nella gestione degli ammalati.

Con la chiusura degli ospedali psichiatrici, questa "dimissione anticipata" dall'ospedale psichiatrico giudiziario non è stata più possibile. Anzi, sempre più, anche a causa delle difficoltà di attuazione a cui va incontro ancora oggi la riforma psichiatrica, il manicomio criminale finisce per funzionare da contenitore di problemi eterogenei e sovente incompatibili con un mandato curativo, rimanendo l'espressione più crudele ed agghiacciante del mancato superamento del binomio pericolosità sociale-malattia mentale.

La legge 180, ha comunque determinato una svolta importante: l’apertura dei manicomi, la possibilità per gli internati di esprimere idee, di accedere a lavori retribuiti, di costruire una casa propria, la possibilità di una vita personale e intima.

Ecco dunque il merito di Franco Basaglia: aver sviluppato una nuova concezione della comunità terapeutica come «luogo nel quale sia possibile avvicinarsi reciprocamente in un rapporto umano, che diventa terapeutico in quanto immediato e spontaneo...».

Il Centro di Salute Mentale, concretamente alternativo alla clinica, è riuscito a produrre percorsi abilitativi e di emancipazione, a farsi carico di quella necessaria attività di sostegno verso il “fuori” del mondo.

Sono attuabili oggi nuove prospettive terapeutico-riabilitative fondate sulle molteplici forme di integrazione sociali.

È questo, il senso più alto della legge.

Tuttavia, sebbene il numero degli psichiatri addetti ai servizi pubblici sia decuplicato nell’arco di un ventennio (da 700 a 7000), la psichiatria stessa è cambiata poco. Ciononostante, i mutamenti continuano: il Ministero della Sanità ha decretato la definitiva chiusura dei manicomi[41], imponendo sanzioni pecuniarie alle regioni inadempienti.

Si chiude così un ciclo, in Italia, ma, speriamo, anche nel resto del mondo: finisce il secolo dei manicomi. Un secolo certamente non onorevole per la psichiatria e gli psichiatri. Al suo posto, si iniziano veri processi di prevenzione, capaci di contrastare la disabilità e la discriminazione. Questa, forse, è l’eredità più difficile da amministrare che il lavoro di Franco Basaglia ci ha lasciato.

La legge finanziaria del 1994 e le successive[42], hanno poi imposto e regolato lo smantellamento definitivo degli ospedali psichiatrici e la dimissione dei pazienti che vi erano rimasti. Esse si ricollegavano alla legge 180, assumendo quindi l'esistenza di una rete territoriale di servizi che potesse far fronte ai problemi e alle esigenze di assistenza dei pazienti dimessi dai manicomi.

 

 

3.4 La proposta di legge di Grossi e Corleoni

Nel 1983 viene presentato in Senato il disegno di legge n. 177, detto progetto Grossi, che può considerarsi come il primo serio tentativo di supplire alla legge n. 180, nella parte in cui non considera gli internati in Ospedale psichiatrico giudiziario.

Lo scopo principale dei i firmatari del progetto è quello di abolire la legislazione penale speciale per i sofferenti psichici, presente nei codici e nella legislazione penitenziaria italiana. I firmatari lamentano inoltre, la mancata applicazione della riforma penitenziaria del 1975 e della legge 689 del 1981 nei confronti dei malati di mente-rei[43].

Questi, infatti, se commettono reati medi o medio-piccoli, sono sottoposti alla misura di sicurezza dell'Ospedale psichiatrico giudiziario, che è una sanzione detentiva; i benefici che, al fine del reinserimento sociale, sono concessi in sede di esecuzione al sano di mente autore di reato, sono invece negati a chi è stato prosciolto dal reato per infermità mentale.

La soluzione proposta dal disegno di legge in esame, è quella provocatoria di abolire la nozione stessa di incapacità di intendere e di volere nei confronti del malato di mente, dichiarandolo quindi imputabile, ritenendo che la presunta imputabilità del soggetto che soffre di disturbi psichici sia dovuta al fatto che egli possa disporre di una certa porzione di libertà, sufficiente a dominare il proprio comportamento. Così, se il malto di mente non è più considerato un "oggetto", bensì un "soggetto", potrà a maggior ragione essere considerato autore di reato[44].

La conclusione a cui arriva il progetto è di dichiarare imputabile il soggetto infermo di mente-autore di reato, equiparandolo ai soggetti che commettono reati in stato di ubriachezza, di stupefazione, o in stato emotivo e passionale[45], abolire quindi l'internamento in Ospedale psichiatrico giudiziario, sostituendolo con il carcere.

Analizzando gli articoli del progetto si riscontra che i primi dieci prevedono l'abrogazione della legislazione penale speciale per malati di mente.

In particolare gli artt. 18 e 19 prevedono il servizio sanitario all'interno del carcere, disponendo che quest'ultimo sia attrezzato con le strutture sanitarie idonee alla cura dei disturbi psichici dei detenuti e che per la pratica delle cure e delle terapie riabilitative medico-psichiatriche, gli organi penitenziari richiedano la collaborazione dei servizi psichiatrici territoriali. Per l'attuazione di queste norme, sono istituite apposite sezioni carcerarie per i detenuti con disturbi psichici gravi, che non risulta possibile curare in carcere.

Viene sancito il diritto del detenuto alle cure mediche e riabilitative, a cui corrisponde l'obbligo, per gli organi penitenziari, di elaborare, all'inizio dell'esecuzione della pena, un piano per la cura e l'assistenza psichiatrica. Questo piano viene redatto da un medico scelto dallo stesso detenuto e approvato dal giudice di sorveglianza; il medico rimane responsabile della attuazione e riferisce gli esiti, ogni tre mesi, al magistrato di sorveglianza.

L’art. 21 del progetto prevede l'applicazione delle misure alternative alla detenzione e la sospensione condizionale della pena ai malati di mente- rei, (a scopo terapeutico e per il tempo necessario a tale finalità). Anche durante la sospensione il soggetto deve sottoporsi alla cura, altrimenti si ha la revoca del beneficio.

Comunque il disegno di legge n. 177 ha suscitato molte critiche, sia degli psichiatri, che dei magistrati e dei politici[46]; ci si chiede a che pro reintrodurre l'obbligo di sottoporsi a cure e a prescrizioni mediche come unica scelta alla detenzione, secondo un programma che deve essere addirittura sottoposto all'approvazione del giudice.

Ciò è palesemente in contrasto con il trattamento sanitario obbligatorio, che prevede sì un intervento del giudice, ma solo per verificare il rispetto delle procedure previste.

Il progetto Grossi, però non ha attribuito al giudice un così vasto potere: non è stata considerata la previsione della libera scelta da parte del detenuto del medico di fiducia, tanto che quest'ultimo deve appartenere al servizio sanitario esterno al carcere; inoltre, è solo con il consenso del detenuto che il piano di cura può divenire esecutivo[47].

Gli aspetti positivi del D.d.l. 117 riguardano il fatto di aver previsto per gli infermi di mente le stesse facilitazioni dei detenuti imputabili, come la sospensione della pena e le misure alternative alla detenzione e l'aver previsto una terapia che si collochi al di fuori della struttura chiusa dell'Ospedale psichiatrico giudiziario. Le premesse su cui si fonda il progetto Grossi sono state difese da più parti, e sono quelle della deistituzionalizzazione dei malati di mente, promosse in precedenza dalla legge 180. La soluzione del carcere come alternativa al manicomio giudiziario si scontra con tali premesse, visto che non elimina ed anzi acuisce il problema di una cura efficace all'interno di una istituzione altrettanto chiusa e ghettizzante[48].

Nel 1996 viene così presentato dal senatore Corleoni un disegno legge, su rivisitazione del disegno Grossi.

La parte più caratteristica della proposta riguarda l’inizio: "L'infermità psichica non esclude, né diminuisce l'imputabilità".

Viene poi previsto che l'infermo di mente autore di reato, considerato sempre e comunque imputabile, soggiaccia alla condanna penale, e che sia poi trattato, durante l'esecuzione della pena detentiva, presso "speciali sezioni carcerarie attrezzate per la costituzione del gruppo terapeutico", nelle quali si esegue uno specifico "piano di cura e di assistenza medico-psichiatrica". Sembra di poter valutare che oggi, la proposta di legge qui descritta, possa incontrare minor ostilità di quella che toccò nel 1983 alla proposta del Senatore Grossi.

Nella relazione al progetto si fa riferimento ad un’indagine sulla situazione sanitaria nelle carceri ad opera della Commissione igiene e sanità del Senato: l'aumentata incidenza del numero di coloro che sono sottoposti al ricovero in Ospedale psichiatrico giudiziario per un breve periodo di tempo (due anni), evidenzia come in tali strutture trovino ricovero molti pazienti psichiatrici a bassa pericolosità sociale. Questo sembra dovuto ad una carenza dei servizi psichiatrici del Servizio sanitario nazionale e di adeguate strutture intermedie. Infatti, uno dei maggiori problemi, è quello degli internati che hanno commesso reati di lieve gravità.

 

3.5 La proposta di Legge di Riz

Il 2 agosto del 1995, viene presentato il disegno di legge n. 2038, di iniziativa del senatore Riz, avente ad oggetto alcune modifiche al libro primo del codice penale.

Una questione particolarmente interessante, affrontata dal progetto è quella della graduazione della pericolosità[49].

L'art. 165 del disegno di legge Riz, prevede che il giudice, ove accerti che la pericolosità sia significativamente ridotta, trasforma la misura di sicurezza detentiva in quella non detentiva, consistente nella sottoposizione alla libertà vigilata o sorvegliata.

Perché questa innovazione non perda la sua utilità, è necessario che le trasformazioni nelle due direzioni possano ripetersi anche più volte e senza limiti prefissati. Inoltre, che il provvedimento di trasformazione possa essere adottato dal giudice e posto in esecuzione, con procedura giurisdizionale semplice ed in tempi brevi. La prevista trasformazione rende oltretutto superflue l'art. 53 dell'Ordinamento penitenziario in tema di licenze annue e di licenza di esperimento per i sottoposti alla misura di sicurezza del ricovero in Ospedale psichiatrico giudiziario.

Altre sostanziali innovazioni apportate dal progetto, si trovano in materia di ricovero in Ospedale psichiatrico giudiziario: alla sua esecuzione, concorrono anche i servizi sociali e sanitari pubblici non giudiziari del territorio di residenza o di domicilio del detenuto.

Lo scopo è quello di evitare l’allontanamento del soggetto dal suo territorio, eliminando i frequenti fenomeni di marginalizzazione. Questa considerazione è fondamentale al fine della capacità di reinserimento del soggetto nel suo ambienta, una volta terminata l'esecuzione della misura di sicurezza.

Il progetto prevede che gli ospedali psichiatrici giudiziari siano dislocati nelle diverse regioni italiane, e che accolgano, in linea di massima, solo i soggetti pertinenti a quel determinato territorio.

A tale scopo, potrebbe essere prevista la possibilità di una convenzione tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome, avvalendosi delle vecchie strutture degli ospedali psichiatrici civili, definitivamente soppressi dalla data del 31 dicembre 1996.

Peraltro, non si esclude la possibilità di istituire nuovi ospedali psichiatrici giudiziari nelle diverse regioni, come aggregati ad istituti penitenziari di diversa natura.

Attualmente i soggetti internati per misura di sicurezza sono circa 1100, e sono distribuiti nei sei ospedali psichiatrici giudiziari esistenti in Italia, più o meno disseminati in tutta Italia, ma molte regioni ne sono prive. Questo fa sì che molti internati siano costretti a soggiornare anche per tempi lunghi in aree geografiche assai distanti dalla loro zona di origine, il che rende di fatto impossibile ogni contatto con l'ambiente familiare, ma anche con i Servizi di salute mentale del servizio sanitario nazionale. Per converso, questa situazione di deportazione, facilita, di fatto, le dinamiche di espulsione dal contesto sociale.

La proposta del disegno di legge Riz non risponde appieno alla volontà di eliminare definitivamente gli ospedali psichiatrici giudiziari, ma rappresenta forse una soluzione intermedia, di compromesso e sicuramente attuabile con minori difficoltà pratiche e ideologiche. Appare auspicabile per molteplici ragioni: innanzi tutto, eviterebbe lo sradicamento dell'internato dal suo luogo geografico di origine o comunque di appartenenza; impegnerebbe le Amministrazioni e gli Enti locali ad un rapporto finalmente fattivo con le problematiche concernenti l'internamento dei loro cittadini; infine, nel corso della misura di sicurezza, renderebbe possibile l'instaurazione di un regolare contatto tra internati e servizi sociali e sanitari territorialmente pertinenti, anche nel caso di esecuzione della misura non detentiva.

 

3.6 Il progetto di legge dell’Emilia Romagna

 

Presso la Fondazione "Giovanni Michelucci" di Fiesole, si è formato un gruppo di lavoro composto essenzialmente da giuristi e da psichiatri che ha rielaborato nel corso degli anni 1996 e 1997 una proposta legislativa, che è stata poi, adottata dalla Giunta regionale dell'Emilia Romagna, per una futura proposta di legge.

Questo progetto non supera lo schema della misura di sicurezza. L'unico intervento abolizionista del progetto è quello che concerne la nozione di seminfermità mentale e la corrispondente misura di sicurezza della casa di cura e di custodia. La soluzione dell’abolizione della imputabilità, con le sue qualità ed i suoi limiti, è stata messa da parte dopo la discussione iniziale presso la Fondazione Michelucci.

Il progetto mantiene l’impostazione della pericolosità sociale, che è propria della misura di sicurezza, e mantiene anche l'altro elemento connesso di prevedere un intervento proprio del sistema penale.

A questo è dovuto il mantenimento della presenza del personale penitenziario.

Anche se la misura di sicurezza non è soppressa, ci sono nel progetto aspetti di alleggerimento della stessa, estesi ed incisivi.

Un ulteriore punto di cambiamento, è rappresentato da una definizione analitica della pericolosità sociale, che dovrebbe ridurre i casi di applicazione della misura, nei confronti del prosciolto per vizio totale di mente.

Questa non sarà caratterizzata da un solo tipo di risposta, ma da una graduazione della stessa. Le misure di sicurezza di assegnazione in istituto dovrebbero essere numericamente molto ridotte.

Il progetto si occupa di porre le basi, per un equilibrio organizzativo dell'intervento psichiatrico, nei confronti di persone affette da malattie mentali in situazioni di detenzione. La prima finalità è quella di assicurare agli istituti per l’esecuzione della misura chiusa, le caratteristiche essenziali di cura e di possibile riabilitazione sociale, limitando, in primo luogo, il numero delle persone assistite, inoltre dalle strutture del progetto sono esclusi e restano in carcere: i detenuti in osservazione psichiatrica, quelli a perizia psichiatrica, i c.d. minorati psichici, gli internati a misura di sicurezza imputabili.

Infatti, l'Ospedale psichiatrico giudiziario attuale contiene tutte le difficoltà che il sistema carcerario gestisce con fatica, anche quando dovrebbe essere il carcere ad affrontare tali problemi.

Il progetto in esame opera un'altra abolizione: quella dell’applicazione provvisoria della misura di sicurezza, prevista dall'art. 206 c.p.; ipotizzando strutture interne al carcere attrezzate.

Questo risultato, però, porterebbe al carcere stesso un esclusivo vantaggio: quello di avere una sede reale per rimediare al disagio psichico presente in modo rilevante nelle strutture penitenziarie.

In definitiva, il carcere deve organizzare una propria area psichiatrica, che nel progetto è detta centro psichiatrico di diagnosi e cura carcerari. Nel progetto è previsto anche il caso in cui un soggetto "per il quale risultino eccezionali esigenze di sicurezza" e la cui presenza negli istituti a cui sono assegnati i prosciolti ostacolerebbe il normale lavoro di cura e di riabilitazione, venga assegnato ai centri psichiatrici carcerari.

La distribuzione degli istituti è prevista su base regionale.

Il problema della vigilanza resta inalterato. Si prevede che "la gestione delle attività sanitarie è affidata al Servizio sanitario nazionale, che la svolge fruendo di autonomia organizzativa". Vi è un servizio di custodia, proprio della Amministrazione penitenziaria, che deve restare esterno alla parte della struttura destinata alla vita e alle attività degli internati: "il personale di tale servizio (di custodia) interviene all'interno dell'istituto a richiesta del responsabile del servizio sanitario".

Nel progetto in questione, il servizio sociale è l'agente di sostegno e di controllo fra soggetto e servizio sanitario pubblico, presso il quale lo stesso soggetto deve impegnarsi in un programma terapeutico e riabilitativo relativo al suo disagio psichico. Questa misura s’ispira ad alcune soluzioni operate oggi dai magistrati di sorveglianza, che sostituiscono, quando risulta possibile, alla misura di sicurezza dell'Ospedale psichiatrico giudiziario, quella della libertà vigilata, fra le cui prescrizioni vi è quella di stabilire un rapporto continuativo di assistenza e cura con il servizio psichiatrico pubblico.

Le due misure, chiusa ed aperta, sono considerate connesse: da quella chiusa si può passare a quella aperta e viceversa.

Diversamente da quelle previste dal codice vigente, per le nuove misure non si prevede né una durata minima, né una massima.

Si prevede solo che, periodicamente, ci sia un riesame della pericolosità[50]del soggetto: ogni anno per la misura chiusa, ogni sei mesi per quella aperta.

La possibilità di revoca della misura invece rimane.

Il giudice competente per la fase successiva alla sentenza di proscioglimento è il magistrato di sorveglianza, che mantiene le competenze proprie delle misure di sicurezza attuali.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

CAPITOLO QUARTO:

PARTE I

I DIRITTI DELL’INTERNATO NELL’ESECUZIONE DELLE MISURE DI SICUREZZA DETENTIVE

 

4 La crisi del “ doppio binario

Con il codice penale del 1930, è stato adottato un sistema che disciplina le ipotesi di imputabilità diminuita, infatti, alla tradizionale sanzione privativa della libertà personale è stata aggiunta la misura di sicurezza. L’origine di questo sistema cumulativo, si basava sul principio fondamentale che la tradizionale sanzione penale e le nuove misure di sicurezza possedessero diverse funzioni: la prima aveva una funzione retributiva, le seconde ne possedevano una preventiva sia generale sia speciale. C’era così spazio per entrambe, a causa delle loro diverse funzioni e presupposti.

Questo sistema entra, però in crisi con la promulgazione della costituzione nel 1948, infatti, l’art.27 comma III riconosce una funzione preventiva speciale per le pene tradizionali, affermando che le pene devono tendere alla rieducazione del condannato. Comincia ad essere anche dubbio, se la sanzione penale abbia mantenuto anche una natura retributiva, non solo perché la retribuzione non costituisce una funzione autonoma della pena, ma ha solo un significato di “ criterio di regolazione interno[51]”, ma anche perché non si rinviene la sua base costituzionale nell’art.27[52].

Il riconoscimento di una funzione preventiva anche alla pena, oltre che alla misura di sicurezza ha fatto però piombare il sistema cumulativo in una profonda crisi. Il sistema cumulativo trova, infatti, le sue basi in una differente funzione di entrambi i due tipi di sanzione, così che lo stesso sistema perde la sua legittimità se la funzione si scopre invece la medesima.

Questa legittimazione non si riscontra neanche nell’art.25 della costituzione, il quale, infatti riguarda un diverso aspetto, cioè l’estensione del principio di legalità anche alle misure di sicurezza. Nonostante tutto, però la crisi del sistema cumulativo non ha ancora prodotto cambiamenti nella legislazione. L’unica tendenza verso un cambiamento dell’attuale sistema, si ha da parte della giurisprudenza, in relazione alla fungibilità tra custodia cautelare, pena definitiva e misura di sicurezza. Infatti da un’originaria posizione di rifiuto si è passati ad una posizione più aperta, espressa, ad esempio dalla sentenza della corte di Cassazione[53], che ha considerato legittimo dedurre dal tempo della condanna o della custodia cautelare quello passato in esecuzione della misura di sicurezza applicata provvisoriamente e poi non più confermata in via definitiva.

 

4.1 Il trattamento rieducativo per gli internati, previsto dall’ordinamento penitenziario e la differenza con i condannati a pena detentiva

La legge n.354 del 1975, indica quale sia la disciplina da applicare agli internati e quindi, anche a coloro che sono in ospedale psichiatrico giudiziario.  L’art.1 ord. Pen., contrappone il trattamento alla rieducazione operando una distinzione tra due concetti spesso confusi fra loro.

Viene in tal modo chiarito già, in sede di principi direttivi che il trattamento penitenziario deve informarsi a criteri di assoluta imparzialità, mentre il trattamento rieducativo deve essere individualizzato secondo le specifiche condizioni dell’internato o del condannato. La suddetta crisi del doppio binario, però ha avuto dei riflessi anche a livello di trattamento e di disciplina, infatti, come sarà esposto in seguito, non c’è una grossa differenza nel trattamento dei detenuti rispetto a quello per gli internati; pur essendoci una grossa differenza fra le due categorie di soggetti, i secondi sono, infatti, malati di mente e quindi più bisognosi di cure e trattamenti idonei alla loro situazione.

L’art.1 comma V della legge n.354 del 1975 dispone, che nei confronti dei condannati e degli internati deve essere adottato un trattamento rieducativo che tenda, anche attraverso i contatti con l’ambiente esterno, al reinserimento sociale degli stessi.

L’indicazione finalistica contenuta nell’ultimo comma dell’art.1 sembra fornire una direttiva di fondo per l’intera riforma penitenziaria. In effetti, tale indicazione è accolta anche nel regolamento d’esecuzione (d.P.R.n.431/1976, sostituito dal d.p.r n.230/2000), il quale individua la finalità di trattamento di condannati e internati nella rieducazione, intesa come processo di modificazione degli atteggiamenti che sono di ostacolo ad una costruttiva partecipazione sociale. Da queste norme sembrerebbe che il legislatore, sia pure a distanza di trenta anni, si sia finalmente impegnato ad attuare il principio sancito dal suddetto art.27 della Costituzione, almeno limitatamente alla sfera dell’esecuzione.

D’altra parte, un’indicazione non trascurabile in questo senso era nel frattempo intervenuta con le “ Regole minime per il trattamento dei detenuti”, adottate dal Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa con la risoluzione n.5 del 1973, sulla scorta del testo approvato nel 1955 dall’Assemblea generale dell’ONU; infatti, l’art.66 prevede che: “il trattamento dei condannati ad una pena o misura privativa della libertà deve avere lo scopo, per quanto la durata della pena lo consenta, di creare in essi la volontà e la capacità che permetteranno loro, dopo la liberazione, di vivere nel rispetto della legge e di provvedere alla loro necessità”. Nonostante tutto questo, però, la posizione degli internati negli stabilimenti per l’esecuzione delle misure di sicurezza detentive, non può considerarsi, ad una valutazione complessiva della normativa, sopravvenuta rispetto a quella preesistente (c.d. Regolamento penitenziario: R.D.18 giugno 1931, n. 787), modificata così profondamente come quella dei detenuti. Questa considerazione può essere fatta già ad una prima valutazione del materiale legislativo, indipendentemente cioè dalle osservazioni sul modo in cui le misure di sicurezza sono praticamente eseguite.

La grossa innovazione portata dalla legge del 1975, l’osservazione scientifica della personalità e la connessa individualizzazione del trattamento, introdotta dagli art. 13 e ss., integrati dalle norme del Regolamento, congiuntamente per i condannati e gli internati, si può considerare tale solo per la pena ma non per la misura di sicurezza.

Per questa seconda specie di sanzione, infatti, già il regolamento del 1931 prevedeva, seppur con maggior tassatività e rigidità, la formulazione di “rilievi sulla personalità degli internati” per la formulazione di un programma di trattamento. Inoltre, per quanto riguarda il trattamento degli internati, esistevano diverse norme rigorosamente tenute distinte da quelle sulle misure di sicurezza.

Si può dunque notare, che le innovazioni, rappresentate dai metodi di osservazione e di riadattamento della personalità, interessano la misura di sicurezza in maniera meno rilevante.

Comunque se le due specie di sanzioni sono adesso molto più vicine che in passato sotto il profilo esecutivo, ciò non deve legittimare una completa assimilazione dei due livelli di osservazione e di intervento sulle personalità dei condannati e degli internati, posto che per questi ultimi si tratta pur sempre di considerare come dato essenziale con il quale lavorare, un elemento che manca ai primi, ossia la pericolosità sociale processualmente accertata. Il legislatore del 75 non ha comunque superato il sistema del doppio binario: è presente, infatti, il criterio della differenziazione degli istituti per l’esecuzione delle pene e delle misure di sicurezza (art.64) ed il connesso criterio della separazione dei sottoposti a pena dagli internati[54].

Quindi, le innovazioni apportate dalla disciplina esecutiva delle misure di sicurezza sono meno incisive. Innanzi tutto, per quanto riguarda l’assegnazione ed il raggruppamento degli internati, i criteri previsti dall’art. 14, in base al quale, il numero degli stessi deve essere limitato per favorire l’individualizzazione del trattamento, “con particolare riguardo alla possibilità di procedere ad un trattamento rieducativo comune e all’esigenza di evitare influenze nocive reciproche” (art.14 I e II comma) erano già nel vecchio regolamento[55]. Anche per quanto riguarda il lavoro, a parte le modifiche costituite dalle nuove modalità e dal diverso regime della tutela e della remunerazione dello stesso, comuni ai detenuti e agli internati, (art.20-25 legge n. 354/75; art.45-54 d.r.p. 431/76), l’organizzazione e gli scopi del lavoro negli stabilimenti per le misure di sicurezza erano specificatamente finalizzati al riadattamento degli internati alla vita sociale[56], a differenza del lavoro nelle carceri. Per l’istruzione civile e il servizio religioso, invece, il vecchio regolamento rinviava alle norme dei carcerati, così come avviene con il regolamento n.354/1975, all’art.19, 26-28. Lart.19 prevede la possibilità di effettuare negli istituti penitenziari, dei corsi di addestramento professionale, secondo gli orientamenti vigenti e con l’ausilio di metodi adeguati alla condizione dei soggetti. Possono, infatti, essere costituite scuole di istruzione secondaria, e deve essere agevolato anche il compimento degli studi universitari, favorendo la corrispondenza per radio e televisore. L’art.26 garantisce, la libertà di professare la propria religione, infatti l’ultimo comma (modificato dalla legge n.663 del 1986) prevede che gli appartenenti a religione diversa dalla cattolica hanno diritto di ricevere l’assistenza dei ministri del proprio culto e di celebrare i riti. Importante ai fini riabilitativi è l’art.27 che prevede l’organizzazione di attività sportive e ricreative volte alla realizzazione della personalità dei detenuti e degli internati.

Una commissione apposita ha il compito di organizzare le attività, cercando di mantenere contatti con il mondo esterno.

Importanza particolare è riservata anche alla famiglia, infatti, l’istituto deve cercare di migliorare o ristabilire i contatti con la famiglia (art.28). Due settori, invece dove l’innovazione si è fatta più sentire anche per gli internati sono quelli delle licenze e delle sanzioni (art.27 e ss. R.d. 787/1931). Per quanto riguarda la licenza la materia è stata profondamente cambiata, art.53 della legge del 1975, sia nel senso di, giurisdizionalizzare completamente un fenomeno, prima di competenza anche delle direzioni degli stabilimenti, sia nel senso di sottrarre le licenze dal campo delle ricompense, nel quale prima erano collocate. Quanto alle sanzioni[57], è stato fissato il principio di legalità ridimensionando le sanzioni applicabili. Un importante novità è la possibilità di applicare agli internati il regime di semilibertà, la sola misura alternativa alla detenzione tra quelle disciplinate negli art. 47 e ss. O.p., estesa anche agli internati dagli art.48 e 50 della stessa legge.[58]Il generico richiamo agli “internati”, pone il problema se la misura possa essere applicata anche ai sottoposti all’ospedale psichiatrico giudiziario ed alla cura di casa e di custodia. L’applicabilità però risulta sia dalla lettera della legge sia dall’art.20 del regolamento: “Gli infermi e i seminfermi di mente in permesso o in licenza ricevono, ove occorra, assistenza da parte dei servizi psichiatrici pubblici degli enti locali”. A differenza del carcerato, però l’internato può essere ammesso al regime di semiliberta, in ogni tempo, art. 50 O.P.. Alle perplessità suscitate dall’applicazione di questo regime ai soggetti internati in misure di sicurezza di lunga durata, poiché l’istituto potrebbe essere snaturato mancandovi la duplice finalità di non interrompere i contatti con l’ambiente esterno e di preparare la definitiva dimissione, si è risposto “ il carattere terapeutico della misura di sicurezza riduce l’intensità dell’obiezione[59]”.

Una norma che riguarda specificatamente l’internato in regime di semilibertà è l’art.51 dell’O.P., che stabilisce che, in caso di assenza dall’istituto senza giustificato motivo per oltre tre ore si applicano le disposizioni dell’ultimo comma dell’art.53, e cioè la revoca, essendo il comportamento indice d’inidoneità al trattamento.

La revoca della concessione della semilibertà non è invece prevista, in aggiunta alle sanzioni disciplinari, nell’ipotesi dell’art.30 ult. comma della legge n. 354 (non modificato dalla legge n. 450/77) relativa al caso dell’internato che rientra dopo tre ore dalla scadenza del permesso senza giustificato motivo. All’affinamento del sistema delle misure di sicurezza si è accompagnato un aumento del potere discrezionale del giudice nell’applicazione delle stesse, conseguente alla declaratoria d’incostituzionalità parziale dell’art.207 cod. pen.. Quindi con la riforma penitenziaria la pena detentiva perde il carattere di afflittività, che la distingueva dalla misura di sicurezza e in particolare da quella del manicomio giudiziario, infatti, fin dal 1930, esso oltre ad avere una funzione di difesa sociale (comune a tutte le misure di sicurezza), aveva anche una funzione terapeutica, come luogo di cura e di custodia, funzione denunciata spesso, come contraddittoria da psichiatri e studiosi.

Nessun manicomio giudiziario viene aperto dopo il codice rocco, se si eccettua la convenzione con Castiglione e Pozzuoli, aperto nel 1955, sicché i vecchi istituti bastano a soddisfare le esigenze istituzionali, che sono però stabili dal punto di vista quantitativo e relativamente indifferenti agli incrementi della popolazione penitenziaria.

La riforma penitenziaria stempera la differenza tra carcere e manicomio giudiziario, infatti, non ci sono differenze tra il regime e i diritti dei detenuti internati, né per quanto riguarda il trattamento intramurale (osservazione della personalità, trattamenti), né per quello in ambiente libero con eccezione dell’affidamento in prova non previsto per gli internati.

Come si è visto, il titolo I “trattamento”, si applica integralmente alle due categorie, compresi gli internati in o.p.g.. Le uniche differenze si hanno nell’art.20 III comma, per cui il lavoro non è obbligatorio, in relazione all’art.20 3° e 4° comma del regolamento d’esecuzione, che prevede, nei casi d’inidoneità, la possibilità di attività di ergoterapia, e  nell’art.53, che prevede le licenze per gli internati.

Il regolamento d’esecuzione contiene le uniche norme particolari negli art.111,112 e 113 che regolano la materia degli O.P.G., per quanto riguarda l’accertamento delle infermità psichiche e la possibilità di stipulare convenzioni con ospedali psichiatrici civili.

Questo può portare alla considerazione che ci sono le premesse per eliminare la misura di sicurezza, che non ha più una sua funzione autonoma né differenziata. Inoltre ci sono anche le premesse per scegliere una sanzione diversa anche per il folle, che potrebbe essere benissimo una sanzione solamente terapeutica e commisurata alle esigenze del soggetto.

 

4.2 I rapporti con la famiglia e con l’ambiente esterno

I contatti con l’ambiente esterno trovano un’esplicita menzione quale possibile modalità del trattamento rieducativo, quasi a confermare che l’ordine può essere assicurato attraverso le norme sul trattamento, ma che il recupero sociale degli internati implica un quid pluris, comportando un passaggio da uno stato di passività ad un ruolo di partecipazione attiva. Un ruolo primario, nel trattamento rieducativo hanno i rapporti con la famiglia, infatti l’art.28 prevede che particolare cura va dedicata a mantenere o ristabilire le relazioni degli internati con i loro congiunti, in conformità agli art. 29-31Cost.

Le agevolazioni concretamente previste attengono, innanzi tutto, al modo di esecuzione della misura di sicurezza, che, dovrebbe essere effettuata, in linea di principio, nell’ambito della regione o della residenza, al fine di non rendere difficoltoso i contatti con la famiglia. Questo però non è attuabile sul piano pratico, poiché in Italia sono solo sei gli O.P.G. presenti, ed in oltre c’e né uno solo per le donne, Castigion delle Stiviere. Risulta, quindi difficile che l’internato possa rimanere vicino al luogo di sua residenza.

Comunque, i contatti famigliari sono i principali interessi umani che il trattamento rieducativo tende a sostenere, com’è confermato dalle norme interne ad ogni istituto, che consentono il possesso di oggetti di particolare valore morale e affettivo (art.10 reg. esec.), e la possibilità di ricevere dall’esterno oggetti e generi alimentari, (art.14).

Il distacco fisico dalla famiglia non è tuttavia totale, grazie alla previsione di effettuare colloqui con i propri familiari.

Inoltre, molta importanza riveste anche la corrispondenza, perché specialmente se l’internato è lontano dalla sua città, permette di mantenere un contatto con l’ambiente esterno. L’art.18 O.P. ammette la corrispondenza senza limiti di sorta. Mutato il regime costituzionale, infatti, la disciplina prevista in materia di corrispondenza dal vecchio regolamento non appariva conforme all’art.15 II comma Cost., secondo cui la corrispondenza ed ogni altra forma di comunicazione possono essere limitate soltanto per atto motivato dell’autorità giudiziaria con le garanzie stabilite dalla legge. Infatti l’art.103 di tale regolamento, era stato ritenuto illegittimo nella misura in cui attribuiva all’autorità penitenziaria un potere autonomo di censura e di sequestro della corrispondenza dei detenuti, a prescindere dall’atto motivato dell’autorità giudiziari. La soluzione del nuovo ordinamento prevede, invece, la sottoposizione della corrispondenza al visto di controllo da parte del direttore, previo provvedimento motivato del magistrato di sorveglianza, che non può essere di carattere generale, ma deve riguardare singoli internati, art.18 ord.pen.. Anche la corrispondenza telefonica, art.18 V comma che l’internato può avere con i familiari e in casi particolari con terzi, secondo le modalità del regolamento, è prevista al fine di incentivare i rapporti famigliari. Il regolamento d’esecuzione devolve poi al regolamento interno di ogni istituto, la disciplina dei tempi e delle modalità. Una particolare attenzione è riconosciuta anche ai rapporti con soggetti non legati da vincoli di parentela o di coniugio, infatti, sarebbe stato incoerente porsi come obiettivo il recupero sociale e nel contempo non consentirgli di salvaguardare, per quanto possibile, i propri interessi e le proprie relazioni nella vita libera. L’art.18 I comma prevede che gli internati possono avere colloqui con l’esterno “anche al fine di compiere atti giuridici”. Se, quindi, l’internato non è in stato d’interdizione può compiere, con soggetti liberi[60], atti di contenuto economico. Un ulteriore profilo di rilevanza dei rapporti che l’internato può mantenere con l’esterno, senza uscire dall’istituto, è dato dalla possibilità di richiedere di essere visitato da un sanitario di fiducia, a proprie spese, (art.11 comma 9° O.P.).

Ma i rapporti con il mondo esterno, oltre che in termini di relazioni personali, sono curati anche sul piano informativo e sul piano istruttivo, al fine di consentire all’internato l’accesso ai libri, alla stampa periodica, alla radio e alla televisione, e per questo gli istituti devono essere forniti di una biblioteca.

Per quanto attiene al profilo dell’istruzione, l’art.19, dopo aver previsto l’organizzazione dei corsi della scuola dell’obbligo e di istruzione secondaria di secondo grado negli istituti penitenziari, dispone che è agevolato il compimento degli studi dei corsi universitari. A questo fine l’art.42 prevede la possibilità che siano disposti trasferimenti anche per motivi di studio, così da avvicinare l’internato al luogo d’istruzione. Questa possibilità però è rimasta sulla carta, dato il numero limitato di O.P.G. sul territorio e la loro concentrazione al sud d’Italia.

La normativa penitenziaria prevede anche una gamma di interventi diretti a garantire i rapporti dell’internato con l’esterno e con i familiari, il loro mantenimento e la loro ricostruzione.

Nel caso, infatti, ci sia disinteresse da parte della famiglia o dello stesso internato, la direzione lo segnala al centro di servizio sociale e là dove ci sia necessità, anche al consiglio d’aiuto sociale.

L’art.78 prevede, anche la collaborazione di assistenti volontari, cioè di persone idonee all’assistenza e all’educazione, appositamente autorizzati dall’amministrazione penitenziaria, su proposta del magistrato di sorveglianza, allo scopo di partecipare al sostegno morale degli internati e ad un loro futuro reinserimento nella vita sociale. L’assistenza deve anche preparare le famiglie, gli ambienti prossimi di vita e il soggetto stesso al suo ritorno, così da rimuovere le difficoltà che possono ostacolarne il reinserimento, (art.45 comma II ord. Pen.). Istituzionalmente prevista a tutela della posizione dell’internato nella società libera, è l’assistenza post- penitenziaria, art.46, che coinvolge oltre al servizio sociale, gli assistenti volontari e il consiglio di aiuto sociale. Essenziale è che il reinserimento nella società non sia ostacolato da un risorgere di problemi psicologici, per questo è previsto un aiuto nel periodo di tempo che immediatamente precede, e per il tempo successivo. Tutto ciò, insomma, che sia in grado di contribuire a rompere l’isolamento dell’internato ha di per sé una funzione educativa, in quanto garantisce la stabilità del reinserimento e allontana i rischi di una ricaduta.

 

4.3 La cura della malattia mentale, e il diritto alla salute

Per coloro che sono internati in O.P.G., l’ordinamento prevede oltre ad un trattamento rieducativo, art.1, anche e soprattutto un trattamento di tipo medico, essendo questi malati mentali, la cui cura è garantita anche al livello costituzionale dall’art.32: “ La repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività”. Il diritto alla terapia, costituisce senza dubbio uno degli aspetti del diritto alla salute, diritto che solo in epoca recente ha conosciuto l’estensione dalla salute fisica a quella psichica. Il trattamento psichico dell’autore di reato si instaura di regola con un trattamento forzoso e coattivo.

Come regola generale, il trattamento del sofferente psichico è volto a modificare i comportamenti e le condotte, di modo che essi non si rilevino in futuro ancora pericolosi ed instabili mentalmente. Naturalmente, l’intervento è più completo e maggiormente pregevole se, oltre alle condotte, riesce a modificare anche la radice genetica psicopatologica; ed ancor più, se in aggiunta si modifica anche l’eventuale stato di sofferenza soggettiva dell’individuo.

Il settore della psichiatria, che si occupa dell’intervento sul sofferente psichico autore di reato (psichiatria giudiziaria da distinguersi dalla psichiatria giudiziaria forense) non utilizza strumenti tanto diversi da quelli utilizzati dalla psichiatria civile. Da una valutazione di numerose cartelle cliniche di ospedali psichiatrici giudiziari si riscontra che gli istituti utilizzano con enorme prevalenza strumenti di intervento farmacologico, che consiste nell’assunzione di farmaci di vario tipo, come antidepressivi, ansiolitici, ecc, in relazione ovviamente alla tipologia clinica e anche a quella giuridica[61].

Tra i trattamenti fisici, l’unico ancora abbastanza diffuso è l’elettroconvulsionante, che in Italia, è invece poco utilizzato[62].

Il suo uso, infatti non si rintraccia nelle istituzioni penitenziarie: da un lato perché richiede attrezzature e personale specializzato; dall’altro, perché viene considerato con molta diffidenza, essendo ritenuto un trattamento particolarmente violento; ed infine perché, comportando una serie di rischi per il paziente, potrebbe esporre gli operatori e l’amministrazione a problemi di risarcimento di danno.

Del tutto inesistenti, sono, invece i trattamenti di psico-chirurgia, praticamente abbandonati ovunque.

Se i trattamenti assolutamente maggioritari sono quelli farmacologici, non mancano però, esempi (più sporadici in Italia, più sistematici in altri Paesi) di interventi attuati attraverso strumenti psicoterapeutici e di gruppo.

La scarsa utilizzazione deriva da problemi pratici ed organizzativi: dispendio energetico, quantità e qualità del personale operante, ambiente idoneo. 

Comunque anche quando è utilizzato questo strumento, il fine rimane sempre quello della modifica comportamentale e condottuale: stabile e duratura, se si può. L’intervento psicoterapeutico è allora appunto un intervento basato in prevalenza su presupposti di tipo cognitivo; talora ha connotazioni tipicamente comportamentistiche[63]. Per certi versi, insomma, si avvicina di più agli interventi psicoterapeutici veri e propri.  Quindi, i trattamenti di tipo medico sono diretti ad incidere, in ordine di priorità, su tre livelli: sulle condotte, sulle loro motivazioni psicopatologiche; sulla sofferenza soggettiva. 

Sul piano pratico, però, negli O.P.G. italiani, ci sono dei grossi problemi dovuti alla mancanza di organicità degli approcci diagnostici, delle prassi terapeutiche, delle procedure della pratica psichiatrica, di fronte alle quali l’amministrazione penitenziaria non può che dichiararsi estranea, perché è una materia non regolabile con atti amministrativi.

Sono presenti, infatti negli O.P.G. grosse difficoltà per il reperimento di specialisti in psichiatria previsti dall’art.11 della legge penitenziaria, che spesso sono in numero limitato rispetto al numero dei pazienti.

Queste difficoltà dipendono, nella maggioranza[64] dei casi, da problemi economici, infatti, la maggior parte dei finanziamenti è diretta al pagamento della polizia penitenziaria, molto più cara del personale sanitario. Il quale, quindi, viene sacrificato.

Un altro problema che si pone è se si possa parlare veramente di diritto di cura, oppure se negli O.P.G., venga invece attuato un dovere alla cura, sulla base di una lettura dualistica dell’art.32 C., cioè, i trattamenti sanitari coattivi vengono interpretati come rispondenti alla ratio della tutela della salute, come interesse della collettività, con corrispettiva compressione[65]di uno più diritti fondamentali dell’individuo.

Mentre una lettura unitaria dell’art.32, vede l’interesse della collettività e il diritto dell’individuo come mai configgenti. Purtroppo, spesso la cura dei malati autori di reato è concepita più per la tutela della società che non per favorire l’individuo stesso.

 

4.4 L’effetto della 180 sulla funzione terapeutica dell’O.P.G.

Con la legge n.180 del 1978, come si visto, vengono aboliti i manicomi: l’O.P.G., però non resta travolto dalla nuova regolamentazione, e così l’istituto manicomiale giudiziario, nato prima del manicomio civile, sopravvive ad esso. Sembra ingenuo porsi il perché della sopravvivenza dell’istituto, ove lo si collochi nel complesso quadro della stratificata regolamentazione del sistema del controllo sociale penale, legato, cioè, al sistema della imputabilità, della pericolosità, della misura di sicurezza. Ancora una volta, com’è accaduto per la riforma penitenziaria, l’O.P.G., ben collocato nel quadro del sistema penale, resta immune da riforme. Sono due gli effetti dell’applicazione della 180: il primo obiettivo e reale, il secondo postulato da molti, ma smentito dai dati.

Il primo effetto è costituito dalla forzata interruzione di quella pratica di delega all’istituzione civile per la gestione del manicomio giudiziario. L’ottima esperienza di Castiglion delle Stiviere aveva portato l’amministrazione ad accentuare l’opera di collaborazione, attraverso apposite convenzioni, con il manicomio civile, per permettere una gestione più efficiente dell’istituto, nell’accentuazione della sua funzione terapeutica. Lo sviluppo di questa tendenza, che contraddice un’esclusiva preoccupazione del il potere centrale alla “custodia”, era andato progressivamente affermandosi, tanto che, anche sulla base dell’art.100 del Regolamento di esecuzione, gli internati potevano essere ospitati in molti manicomi diffusi sul territorio, specialmente del nord. L’art.100, oggi sostituito dall’art. 113, una delle poche norme che disciplina esclusivamente l’ospedale giudiziario, prevede, che: “Nel rispetto della normativa vigente l'Amministrazione penitenziaria, al fine di agevolare la cura delle infermità ed il reinserimento sociale dei soggetti internati negli ospedali psichiatrici giudiziari, organizza le strutture di accoglienza  tenendo conto delle più avanzate acquisizioni terapeutiche anche attraverso protocolli di trattamento psichiatrico convenuti con altri servizi psichiatrici territoriali pubblici”.

Questa esperienza positiva, pero è stata interrotta dalla abolizione del manicomio.

Non è interrotto, però, il dialogo con il territorio, che deve riprendere su nuove basi e con diverse finalità.

Il secondo preteso, effetto della legge n. 180 sarebbe stato quello di innescare un aumento della popolazione dell’O.P.G. Si ritenne, infatti, che l’abolizione del manicomio civile avrebbe accentuato la criminalizzazione della malattia psichiatrica, posto che l’assenza di alternative avrebbe massicciamente aumentato la popolazione dei prosciolti folli, per reati di scarsa pericolosità. Invece, questo temuto effetto, per fortuna non c’e stato, infatti, la popolazione dei prosciolti folli è stabile, con oscillazioni del tutto fisiologiche, contrastanti con l’aumento della popolazione penitenziaria[66]. Globalmente il numero dei sottoposti alla misura di sicurezza si è quasi dimezzato rispetto al 1960, quando cioè era presente l’istituzione manicomiale civile.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

CAPITOLO QUARTO:

PARTE II

IL TRATTAMENTO PENITENZIARIO DEGLI INTERNATI

 

4 L’importanza della diagnosi della malattia, per individuare un proficuo trattamento terapeutico e di risocializzazione

I compiti dell’O.P.G sono essenzialmente due: risocializzare i malati di mente, autori di reati, e curare i detenuti giudicabili o condannati, affetti da disordini neuropsichici.

Una personalità irregolare ed un ambiente familiare, in genere negativo, costituiscono, a volte fattori che rendono necessaria la proroga del ricovero, per evitare una sicura recidiva criminale.

Pertanto, ogni malato di mente, autore di reato, deve essere sottoposto ad un duplice trattamento: terapeutico e di risocializzazione.

Il trattamento di risocializzazione ha lo scopo di rimuovere i disturbi neuropsichici, mentre le tecniche di risocializzazione[67], tendono a migliorare la personalità difettosa di base. Pertanto, premessa indispensabile, per un giusto trattamento, è la diagnosi esatta della malattia, alla quale si perviene con l’esame clinico e gli accertamenti di laboratorio. Col metodo clinico si individuano le tappe più importanti della vita dell’internato[68]. Gli elementi raccolti, fra cui la formazione e la storia individuale, saranno integrati con quelli ambientali. L’insieme dei dati sono infine utilizzati per fare la diagnosi, la prognosi e il trattamento.

In ogni comportamento deviante si troveranno sempre ele­menti legati alla personalità ed elementi legati all'ambiente, il problema sarà di stabilire sino a che punto lo scambio uomo-ambiente, condizioni imperfezioni o difettosità, oppure veri e propri sconfinamenti morbosi.

Ogni soggetto, quindi va stu­diato, accuratamente nelle precedenti relazioni personali e familiari, senza trascurare la valutazione del suo ambiente di vita e di lavoro e del comportamento sociale in fase predetentiva e poi, va sottoposto ad esami somatici, ad indagini neurologiche e ad altri esami specialistici.

L'esame delle funzioni psichiche viene eseguito da specia­listi in psichiatria ed integrato con test di perso­nalità e di intelligenza.

Ad ogni soggetto è intestata una cartella clinica, in cui sono registrati, già all'atto dell'ammissione, i dati emersi dal primo esame clinico allargati, successivamente, dalle informazioni rese dalle autorità dei luoghi d’origine e di residenza ed inte­grati dai dati delle indagini.

Una volta formulata la diagnosi, cominciano le terapie che comprendono un insieme di tecniche le quali, realizzano, nel maggior numero dei casi, un trattamento puramente sin­tomatico, data l'incertezza che ancora regna intorno alle malat­tie mentali[69].

I metodi comprendono: la farma­coterapia, i trattamenti somatici, la psico-chirurgia, i trattamenti psicoterapici.

La farmaco-terapia viene eseguita con tranquillanti, antidepressivi e stimolanti. I trattamenti somatici com­pletano le cure con l'uso di sostanze ricostituenti, sedative e toniche. Queste terapie influiscono sulla personalità psi­chica di base di una discreta quota d’internati nei quali si debella, con le cure propriamente psichiatriche, la malattia di mente.

Naturalmente, per la rimanente quota di soggetti, la cui malattia mentale è cronica ed il cui recupero sociale è praticamente impossibile, esistono solo problemi di umana custo­dia.

E' evidente che ciò è appannaggio di tutte le comunità psichiatriche e non dei soli manicomi giudiziari.

Il trattamento quindi, deve tendere a migliorare la personalità psichica degli internati recuperabili, così da resti­tuire alla società, non già persone in stato di squilibrio psichico e quindi di « pericolo sociale », ma individui che, per consolidata reintegrazione e per allenamento fisico al lavoro, sono in grado, almeno nella maggioranza dei casi, di inserirsi nelle attività produttive della società.

Per corrispondere a queste finalità, occorrono attrezzatu­re idonee a creare in seno alle comunità ospedaliere, un am­biente sociale capace di influire in senso migliorativo sulla personalità difettosa.

Poiché nella genesi della recidiva criminale hanno un ruolo determinante le anomalie di base, il trattamento di riso­cializzazione[70] è importante quanto quello terapeutico vero e proprio.

I motivi che ostacolano l'integrazione sociale del prosciol­to, sono essenzialmente due: la scarsa collaborazione del privato e la poca qualificazione del soggetto dimesso.

Forse, il motivo è uno solo ed è il secondo, giacché, a cau­sa della mancata qualificazione professionale, non è possibile, in alcuni casi, trovargli un lavoro nel mercato esterno.

Nella maggioranza dei casi, le porte dei complessi industriali restano chiuse agli in­ternati, quindi la maggior parte effettua lavori agricoli sta­gionali e di manovalanza.

La minor parte, accetta l'offerta di pubblici dormitori, op­pure l'assistenza dell'E.C.A., col versamento di modesti con­tributi giornalieri.  Questo stato di fatti prospetta la necessità di aprire mercati di lavoro agli internati. Premessa indispensabile è che egli acquisisca una prepa­razione tecnica adeguata, così che possa essere richiesto per i vantaggi che l'azienda potrà trarre dalla qualificazione tecnica dell'occu­pando. Questo il problema principale.

Allo stato attuale, i manicomi giudiziari sono privi di la­vorazioni a carattere industriale, capaci di un insegnamento teorico-pratico qualificato, per cui la quota di dimissibili, aumentata progressivamente da dieci anni a questa parte, trascorre gli anni di misura di sicurezza in ozio[71].

La maggioranza (circa il 70-80%) degli internati, infatti, è priva di un mestiere e vive in ozio, in came­rate fredde e mal funzionali, in reparti spesso affollati, gli anni delle misure di sicurezza[72].

Da qualche anno, tuttavia, il trattamento socio-terapeutico è ufficialmente entrato anche in questi ambienti.

Naturalmente, allo stato attuale, siamo ancora nella fase dei primi tentativi socio-assistenziali i quali mantengono prevalentemente aspetti penitenziari.

L'Ospedale Psichiatrico giudiziario dovrebbe disporre di un'area prettamente ospedaliera e di una comunità sociale.

Nella prima, i reparti, dovrebbero ospitare i malati, nella seconda, in­vece, tutti coloro non più bisognosi di terapia, che devono essere utilmente inseriti in attività lavorative sotto la guida di un esperto, a sua volta consigliato dallo psicologo, il quale, dovrebbe indicare le possibilità d’adattamento e produttive di ciascuno[73].

La comunità, infatti, dovrebbe essere autonoma a tutti i livelli e dotata di servizi indispensabili e di lavorazioni che devono ripetere le caratteristiche di quelle esterne, perché deve essere concepita come scuola di lavoro e di vita, oltre che come centro di profilassi criminale e psichiatrico.

I problemi diagnostico-terapeutici e di risocializzazione, quelli assistenziali e di pura custodia sono oggi, però, affrontati con disagio per carenza di personale medico, infermieristico e di custodia.

Allo scopo di ovviare la mancanza di personale medico, è stata creata, in epoca recente, accanto al medico di ruolo, la figura del medico aggregato, la cui collaborazione, è stata pre­ziosa e utile, nelle attività sanitarie di medicina generica.

 

4.1 Compiti e ruolo dell’educatore

Le competenze operative degli educatori, in ambito penitenziario sono in parte, indicate nell’art.82[74]della legge n.354 del 1975 Ordinamento Penitenziario.

Per avere un quadro completo occorre, tuttavia, effettuare una lettura coordinata di vari articoli della stessa legge e del regolamento di esecuzione, in cui hanno trovato una più dettagliata e completa definizione.

Il complesso delle competenze di questo personale è stato, inoltre, meglio precisato dalla circolare[75]n.2625 del 1979 e riorganizzato con la circolare n.3337 del 1992 del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, con la quale si è provveduto alla provvisoria organizzazione in settori operativi degli istituti penitenziari e dei centri di servizio sociale, in attesa dell’emanazione del decreto ministeriale.

Uno dei compiti dell’educatore, è quello di partecipare all’attività di gruppo per l’osservazione scientifica della personalità degli internati (e dei carcerati). Si tratta di un gruppo di lavoro indicato nell’art.28[76]del regolamento di esecuzione, presieduto dal direttore dell’istituto e composto dall’educatore, dall’assistente sociale e dai dipendenti che hanno svolto attività di osservazione, nonché, a seconda delle necessità, dai professionisti previsti indicati dall’art.80[77]O.P..

Dell’osservazione scientifica della personalità si occupano l’art.13 dell’ordinamento e gli art.27, 28 e 29 del regolamento di esecuzione. Secondo l’art.27 del regolamento, l’osservazione scientifica è diretta all’accertamento dei bisogni di ciascun soggetto, connessi alle eventuali carenze psicofisiche, affettive, educative e sociali, che sono state di pregiudizio all’instaurazione di una normale vita di relazione.

In merito al ruolo affidato all’educatore, l’Amministrazione penitenziaria ha dato disposizioni anche tramite la circolare n.2598/505051 del 1979: in particolare l’educatore attraverso il colloquio deve desumere le problematiche del soggetto in merito all’ambiente familiare e sociale di provenienza, alla evoluzione della sua condizione personale rispetto alla situazione di partenza, agli atteggiamenti manifestati e alle loro motivazioni.

L’educatore rende atto di queste informazioni attraverso una registrazione sintetica, aggiornata periodicamente in base all’art.26[78]dell’ordinamento penitenziario.

Da questo emerge il senso dell’art.29[79], che attribuisce all’educatore il ruolo di Segretario tecnico del gruppo di lavoro per l’osservazione.

Un compito di particolare rilievo, assegnato di prassi all’educatore nella sua qualità di Segretario tecnico è quello di assicurare che sia formulato in tempi dovuti (art.27 del regolamento di esecuzione) il rapporto di sintesi. Questo è l’atto conclusivo dell’osservazione, in cui viene delineata una visione unitaria delle problematiche dell’internato e tracciate le linee essenziali del programma di intervento educativo. Da questo punto di vista esso costituisce, in realtà, già un atto del trattamento rieducativo. Il rapporto di sintesi è composto di due parti: la prima indica tutti i dati della vita del soggetto, gli aspetti esistenziali delle vicende umane sofferte, esclusi i dati e le circostanze inerenti ai reati commessi, che possono essere utilizzati per fini diversi da quelli socio-pedagogici e rieducativi.

Nella seconda parte, saranno indicate le linee fondamentali degli interventi da svolgere ai fini della risocializzazione, elaborati sulla base degli elementi illustrati nella prima parte. Saranno, perciò, indicate le attività (di lavoro, di istruzione, e altre) e i collegamenti con la famiglia e con l’esterno in generale.

In base alla normativa: il trattamento è diretto a promuovere un processo di modificazione degli atteggiamenti che sono di ostacolo ad una costruttiva partecipazione sociale (art.1 r.e.).

L’art.82 dell’ordinamento penitenziario attribuisce questo compito all’educatore, che lo esplica secondo strategie individuali o di gruppo, coordinando la sua azione con quella di tutto il personale addetto alle attività rieducative[80].

Tali attività, di assistenza, d’istruzione o culturali e del tempo libero, opportunamente coordinate e pianificate dall’educatore, finiscono per avere anche una valenza rieducativa.

L’educatore ha anche alcuni compiti nel servizio di biblioteca[81]: nella conduzione di questo servizio, questi non è il bibliotecario di routine, che consegna e ritira i libri, ma deve trasformare questa opportunità di contatto con i ristretti, in un occasione di incontro pedagogicamente costruttivo (circolare del 1979). In questa ottica il servizio di biblioteca viene inteso come “Grande Mediatore”di linguaggi di esperienze e culture[82].

Nella conduzione di questo servizio l’educatore si avvale, dal punto di vista organizzativo dell’opera dei rappresentanti degli internati (art.12 O.P), designati tramite sorteggio.

Le competenze dell’educatore, non espressamente previste dall’art.82 O.P., ma indicate in altri articoli della legge e del regolamento sono: 1) Partecipare alla commissione per le attività culturali come animatore e coordinatore delle varie iniziative (art.27 O.P.).

2) Far parte del consiglio di disciplina (art.40 O.P).

3) Partecipare alle attività della commissione per il regolamento interno (art.16 O.P), questa partecipazione è indispensabile per integrare i contenuti del trattamento educativo con quelli legati alla sicurezza e alla custodia.

La circolare del 1979 indica anche una serie di mansioni delegabili, da parte del direttore dell’istituto all’educatore.

In proposito, va ricordato che nel momento in cui fu varata la riforma del 75, la figura dell’educatore non esisteva.

Pertanto il sistema che si intendeva porre in essere non poteva immediatamente fare riferimento a questo tipo di operatore.

Si è perciò richiamato la figura del capo dell’istituto per tutta una serie di attività attinenti all’area della rieducazione.

Sono da ritenersi di competenza dell’area educativa anche i colloqui di primo ingresso (art.23 r.e.).

Si tratta di un adempimento molto importante, perché teso ad aiutare la persona a superare le difficoltà psicologiche con il primo impatto con l’istituto. Al colloquio di primo ingresso è strettamente connesso anche il “Servizio nuovi giunti” istituito dalla circolare n.3233 del 1987, quale particolare servizio per detenuti e internati nuovi giunti dalla libertà, questa prevede la delega ad un educatore del compito di coordinare il Servizio nuovi giunti e l’attività dei vari operatori ad esso interessati, esperti, sanitari.

 

4.2 Il ruolo dello psichiatra penitenziario. Rieducare o curare?

Ogni istituto penitenziario è dotato di un servizio medico e di un servizio farmaceutico, rispondenti ad esigenze di cura della salute dei detenuti e degli internati e dispone oltre a ciò dell'opera di almeno uno specialista in psichiatria. Così stabilisce il I comma dell'art. 11 della legge 354/75 intitolato Servizio Sanitario, la cui esecuzione è regolata dagli art. 17 e 20 del D.P.R. 431/76.

La legge prevede che, ove siano necessarie cure o accertamenti diagnostici, che non possono essere apprestati dai servizi sanitari degli istituti, i condannati e gli internati sono trasferiti, con provvedimento del magistrato di sorveglianza, in ospedali civili o in altri luoghi esterni di cura.

A questo proposito va citato l'art. 7 del D.L. 14 giugno 1993 n. 187, convertito, con modificazioni, nella legge 12 agosto 1993 n. 296, recante nuove misure in materia di trattamento penitenziario.

L'art. 7 (Servizio Sanitario) prevede che "in ciascun capoluogo di provincia, negli ospedali generali sono riservati reparti destinati, in via prioritaria, al ricovero in luogo esterno di cura, ai sensi dell'art. 11 della l. 354/75 e dell'art. 17 del D.P.R. 431/76, dei detenuti e degli internati per i quali la competente autorità abbia disposto il piantonamento. Alle cure e agli accertamenti diagnostici provvede la struttura ospedaliera, mentre alla sicurezza dei reparti ospedalieri destinati ai detenuti e agli internati provvede l'Amministrazione Penitenziaria, mediante il personale del Corpo di Polizia Penitenziaria.

Esiste all'interno di ogni istituto penitenziario un'organizzazione sanitaria, prevista dalla legge n. 740 del 1970 "Ordinamento delle categorie di personale sanitario addetto agli istituti di prevenzione e pena non appartenenti ai ruoli organici dell'Amministrazione penitenziaria".

La necessità di dedicare una riflessione specifica ai problemi dell'etica dello psichiatra, che opera nell'ambito giudiziario e penitenziario, deriva dal particolare ruolo che egli ricopre e al peculiare rapporto che si instaura con le persone oggetto della sua attenzione professionale: egli opera, infatti in condizioni ben diverse da quelle sue abituali, da quelle cioè del prestatore di cura in quello speciale rapporto fiduciario che si instaura fra medico e paziente[83].

L'intervento dello psichiatra può essere richiesto dal Direttore dell'Istituto o dal medico incaricato, che avendo la responsabilità di visitare quotidianamente il detenuto ammalato, può accorgersi di eventuali disturbi o sofferenze psichiche che potrebbero essere più opportunamente valutate dallo psichiatra e quindi procede alla formulazione della richiesta di visita specialistica.

Lo psichiatra penitenziario[84]si trova a dover adempiere ad un duplice mandato, quello eminentemente clinico e quello di difesa sociale.

Chi opera in ambito penitenziario e giudiziario, infatti, oltre a farsi carico dell'interesse del soggetto di cui si occupa, non può dimenticarsi di avere un committente, il giudice o l'amministrazione penitenziaria e comunque la società, come espressione di un mandato di interesse pubblico[85].

Per quanto riguarda il ruolo dello psichiatra come operatore carcerario, l'ambiguità di ruolo è massima, poiché nella stessa persona confluiscono le funzioni di colui che deve fornire informazioni all'autorità giudiziaria o all'amministrazione penitenziaria e, quella di operatore del trattamento.

Si tratta in sostanza di una situazione in cui convivono controllo e cura, in cui lo psichiatra che opera in carcere oltre che terapeuta diviene anche criminologo.

Come tale è fra coloro che si occupano, per conto dell'amministrazione giudiziaria o penitenziaria, di studiare la personalità di un delinquente per valutarne la probabilità di recidiva. Per esercitare questa attività, dovrà spogliarsi, in parte, dell'abituale veste professionale, vale a dire quel particolare atteggiamento di affettività che lo porta ad essere solidale col soggetto che gli si affida in cerca di aiuto. In pratica l'alleanza terapeutica viene a scontrarsi con il fatto che il paziente, in molti casi, è esaminato non in prospettiva di una cura o di un intervento a suo favore, bensì per assolvere a richieste e a necessità dell'amministrazione giudiziaria.

La duplicità del mandato, l'impossibilità di un'effettiva alleanza terapeutica e il dover esaminare in modo neutrale un soggetto creano una situazione di ambiguità e di conflitto, che sono comunque inevitabili, e che è compito etico dell'esperto conciliare.

La duplicità del ruolo, tra l'altro, comporta per lui un atteggiamento che non deve essere certo di diffidenza e ostilità, ma non può essere neppure di acritica accettazione di tutto quanto gli viene riferito[86]: certo neppure il terapeuta stimerà sempre e comunque sincere le parole del detenuto, ma la corrispondenza al vero avrà per lui minor importanza, rilevando piuttosto, ai suoi fini, il perché una cosa viene sottaciuta ed un'altra magari travisata[87].

Lo psichiatra deve essere consapevole che il reo in questione, possa avere particolare interesse a simulare o dissimulare stati d'animo e propositi, addirittura cercare di manipolare e strumentalizzare l'esaminatore, dal giudizio del quale possono a lui derivare concreti ed attuali benefici o pregiudizi in termini di libertà personale.

La particolare caratteristica del soggetto, che lo psichiatra si trova di fronte, quella cioè di aver commesso un reato, comporta d'altra parte il rischio opposto a quello terapeutico, rischio del "distanziamento moralistico[88]”.

L'obiettivo ideale è, secondo Ponti, quello di trovare un giusto equilibrio fra i compiti valutativi, la consapevolezza del ruolo pubblico e delle conseguenze che esso comporta e la disponibilità, che può consentire la comprensione.

La duplicità del ruolo comporta anche dei problemi per il segreto professionale dello psichiatra: esso potrà essere invocato solo quando il suo ruolo è esclusivamente terapeutico.

Quando, invece il suo compito è di fornire informazioni richieste dall'amministrazione della giustizia, per formulare programmi di trattamento o per la concessione delle misure premiali, allora non può essere invocato, questo ovviamente anche quando le informazioni acquisite possono essere dannose al soggetto in esame.

Inoltre, contrariamente alle scienze mediche, nelle quali i margini di incertezza sono assai più ridotti, nella psichiatria e nella criminologia le certezze sono pressoché inesistenti. Ciò vale ancor più nei giudizi di previsione del comportamento futuro, cioè nei giudizi per la pericolosità sociale, per i quali la prudenza è resa obbligatoria non solo dalla relatività della conoscenza predittiva, ma anche dalla consapevolezza delle rilevanti implicazioni che il giudizio comporta sia per il soggetto, che per la società.

È però difficile sdoppiare l'operatore nei due ruoli distinti, tanto che, è stato più volte auspicato anche da Ponti e Merzagora, che le due funzioni fossero effettivamente svolte da persone differenti, e non solo in momenti diversi della loro attività.

Al di là di questi interventi di aiuto e sostegno o anche propriamente curativi, lo psichiatra che stringe un'alleanza terapeutica non può però dimenticare di essere anche investito della responsabilità di effettuare un intervento pur sempre mirato a trattamenti correzionali, tenendo presenti i fini istituzionali della risocializzazione.

Ma in definitiva, qual è il ruolo dello psichiatra quello di rieducare, oppure ha compiti e fini esclusivamente terapeutici?

Molti psichiatri penitenziari ritengono che il loro compito sia quello della diagnosi e cura degli stati morbosi, nonché della prevenzione delle ricadute, con l'obiettivo di minimizzare i danni che un sistema ingiusto produce a persone socialmente sfavorite.

Altri, ritengono che la rieducazione sociale sia compito della psichiatria, sostenendo che per riabilitare una persona sia a livello psichiatrico che giuridico, sia necessario suscitare in essa una passione che può nascere solo all'interno di una relazione psicoterapeutica[89].

Ma non è allo psichiatra che spetta il difficile compito della rieducazione, semmai all'istituzione penitenziaria nel suo complesso, attraverso le molteplici figure professionali che operano all'interno di essa.

Infatti, l'Ordinamento Penitenziario all'art. 1 stabilisce che "nei confronti dei condannati e degli internati deve essere attuato un trattamento rieducativo, che tenda, anche attraverso contatti con l'ambiente esterno, al reinserimento sociale degli stessi".

L'inciso "anche attraverso contatti con l'ambiente esterno" rafforza l'idea che si tratti di reinserimento sociale e non di mera riabilitazione psichiatrica. Quando poi la stessa legge all'art. 15 stabilisce gli elementi del trattamento e li individua (oltre che nell'istruzione, nel lavoro, nella religione, nelle attività culturali ricreative e sportive) nell'agevolazione di opportuni contatti con il mondo esterno, ancora una volta è chiaro che il trattamento rieducativo ha per scopo il recupero alla vita sociale.

In questo contesto, si può affermare che il compito dello psichiatra penitenziario sia quello di recare cura e assistenza ai detenuti e non quello di rieducare. Solo dopo tale conquista si può iniziare a parlare di rieducazione.

La necessità di svolgere una funzione intermedia, fra i bisogni del detenuto e il mandato repressivo e contenitivo del carcere, è quindi alla base di tutte le responsabilità che gravano sullo psichiatra penitenziario. Egli rimane colui che da un lato non può ignorare la legalità, ma dall'altro comprende i motivi che hanno portato allo sconfinamento nell'illegalità.

Inevitabilmente egli si troverà ad essere soggetto a pressioni e sarà coinvolto in una lunga serie di scontri: con il personale militare, ad esempio, ma anche con gli altri medici penitenziari che, pur avendo in comune con i primi, lo stesso mandato terapeutico, concepiscono il carcere in maniera diversa.

 

 

 

4.3 Le licenze e la loro funzione terapeutica

Il regolamento penitenziario prevede la concessione di tre specie di licenze: una, per gravi esigenze personali o familiari, di durata non superiore a 15 gg. (art.30 O.P.); una licenza pre­mio di gg. 30 e non più di una volta l'anno, ed una licenza esperimento di sei mesi, sostitutiva degli ultimi sei mesi della misura di sicurezza (art. 53 I e II comma O.P.) .

La licenza premio e quella di esperimento sono di natura incentivante e di ricompensa, mentre la prima, ossia la licenza concessa per motivi eccezionali, risponde alle necessità di provvedere a gravi esigenze. Non mancò una certa sorpresa quando si ebbe la prima notizia di tale istituzione nel regime dell'esecuzione delle misu­re di sicurezza, sorpresa che, per la verità, scomparve subito per dar luogo al generale consenso.

I penitenziaristi ritengono, la concessione della licenza giustamente connaturale agli Istituti di rieducazione, e, del resto, gli Istituti per l'esecuzione delle misure di sicurezza, sono essenzialmente stabilimenti specializzati per l'opera di rieducazione, o per lo studio delle cause di pericolosità di ciascun soggetto[90].

Sul piano pratico, in sostanza, l'istituto delle licenze rea­lizza, da una parte, un'interruzione ed una trasformazione con­temporanea della misura di sicurezza detentiva e contribuisce, dall'altra, a adeguare il carattere della misura alle necessità curative o rieducative dell'internato.

Le   licenze   influenzano   positivamente   tutta   l'esecuzione.

Esse costituiscono, difatti, un efficace incoraggiamento a mantenere una buona condotta, inoltre hanno anche un valore sperimentale, in quanto permettono di accertare il grado di riadattamento raggiunto dall'internato, e consen­tono, infine, la dimissione temporanea di coloro che si reinte­grano psichicamente, quando non è ancora trascorso il periodo minimo del ricovero.

Sono inviati in licenza, ogni anno, un largo numero d'internati e, tenuto conto degli insuccessi, si può so­stenere in linea generale che hanno agevo­lato, efficacemente, l'attuazione delle finalità curative e riedu­cative delle misure di sicurezza[91].

Ci sono stati casi in cui, l'internato in licenza si è reso responsabile d’infrazioni agli obblighi della libertà vigilata ed in altri casi è ricaduto nel reato.

In ogni modo sul piano pratico, si deve riconoscere alla licenza un’im­portante funzione sperimentale. Difatti, non è possibile formulare un giudizio esatto sulla reintegrazione psichica di un internato, utilizzando esclu­sivamente i dati derivanti dall'esame del comportamento, che l'internato lascia osservare in degenza, quando cioè, è elemento di una collettività ben ordinata e ben disciplinata, che si muove, vive ed opera lungo schemi precostituiti dalla volontà dei dirigenti e studiati per assicurare ordine e di­sciplina, pur nel pieno rispetto delle singole personalità, nei rapporti fra uomini ed ambiente.

Ai fini della prognosi sociale, non basta accertare che il ricoverato tiene regolare condotta, si accosta con umanità ai problemi altrui, mostra buone iniziative ed è affettuoso con i familiari durante i colloqui. Questi rilievi, sul modo di collocarsi del soggetto nel mon­do in cui vive e sul modo di esprimersi in senso affettivo e sociale, attraverso la corrispondenza epistolare ed attraverso il colloquio con i familiari, non costituiscono elementi sufficienti per formulare un attendibile giudizio prognostico. Bisogna, difatti, tener presente che, mentre poche sono le spinte a delinquere in un regime di vita adeguato, molte sono, invece, le cause potenzialmente criminogene che pos­sono traumatizzare il dimesso in libertà.

La società se vuole la riabilitazione di chi è caduto nel delitto e vuole la riutilizzazione dell'ex alienato fra le forze lavorative, deve correre qualche rischio, sia pure ben calco­lato.

Del resto, la soppressione delle licenze non sopprime il ri­schio, sicché il problema si sposta, aggravandosi, ma non si risolve, perché il reinserimento dell'internato nella società non sarebbe più graduale, ma brusco.

Egli, in tale eve­nienza, passerebbe improvvisamente, pur con le debite cau­tele e garanzie, dalla vita calma e riposante dell'Istituto ad un regime di vita vertiginoso.

Ma quali sono i criteri, con cui sono formulate le proposte di licenza per i sottoposti a misura di sicurezza di ordine psichiatrico?

Innanzi tutto sono fatte opportune indagini sullo “status” familiare ed ambientale del soggetto, e sulla condotta cri­minosa, e di solito sono proposti al Giudice di Sorveglianza solo quei soggetti, per i quali si ha una diagnosi di guarigione clinica, non contraddetta da successive osservazioni.

Naturalmente, il rispetto assoluto di questa regola impone una dura selezione, riducendo il numero di coloro che hanno i requisiti validi per aspirare alla licenza. Pertanto, non si concede la licenza agli internati af­fetti da infermità psichiche produttive di disordini comporta­mentali né a coloro che, per quanto clinicamente guariti, man­cano di assistenza, o presentano, nell'ambiente familiare o so­ciale, ostacoli, o, comunque, difficoltà tali da pregiudicare il successo dell'esperimento[92].

Grosso modo, essi costituiscono due categorie di cui, la prima è essenzialmente composta da soggetti che, episodica­mente, sono stati malati in senso stretto ed in conseguenza, autori di reati.

Difatti, in questi casi, l'episodio morboso si è esaurito dopo breve tempo, presentando una piena reintegrazione psichica nella vita di Istituto, in base alla propria cultura, sensibilità ed educazione.

Naturalmente, benché guarito, deve trascorrere, come si è detto, la misura di sicurezza nella fondata presunzione che possa ricadere nella malattia e, quindi, nel delitto. Sono i soggetti appartenenti a questa categoria che ven­gono proposti ed inviati in licenza e per loro il premio assume un'importanza ecce­zionale, in quanto la dimissione temporanea li libera dal com­plesso dell'alienato e li avvicina al mondo di provenienza che hanno lasciato ed offeso in un momento di non imputabilità.

L'altro gruppo di soggetti, cui è concessa la licenza, è composto da elementi che presentarono, all'epoca del delitto, manifestazioni patologiche acute[93](in genere manifestazioni de­liranti) che scompaiono in corso di ricovero.

Precede la concessione della licenza, una seduta d’esame, in cui il Collegio Medico ed il Giudice di Sorveglianza esa­minano ogni singolo caso. Nel corso delle sedute di riesame, il Collegio Medico non si limita ad effettuare una pura e semplice diagnosi psichiatrica ed il Magistrato, dal canto suo, a ratifi­care una proposta formulata dal Consiglio di Disciplina.

L'internato prospetta, infatti, i suoi problemi, si libera delle sue ansie e si rasserena nel costatare che magistrato e medico sono affiancati in un'opera che ha, per ultimo fine, la sua gua­rigione.

Tali colloqui sono efficacemente completivi del trattamen­to generale ed hanno il potere di distruggere quella specie di muro invalicabile che ogni internato è portato, un pò per il delitto commesso ed un pò per il ricovero in manicomio, a con­siderare fra sé e la società ed a ritenere questa simbolica mu­raglia, come una barriera impenetrabile alla comprensione ed alla solidarietà umana. L'iniziativa, perciò, della riunione collegiale opera potentemente in tali sensi, poiché non si occupa solamente degli aspetti procedurali, ma tende a comprendere ciascuna vicenda tenendo presenti sia le esigenze della personalità sia quelle attinenti alla pubblica sicurezza.

La licenza funziona anche da stimolo a migliorare la condotta e, difatti, gli internati, « per cosi dire promossi », al rientro nell'Istituto, tornano al lavoro con maggiore impegno e con maggiore zelo[94].

Si inquadrano meglio nella vita comunitaria, ed, in questi casi, l'esperimento consente di raccogliere ulteriori dati, che saranno utilizzati, per la dimissione definitiva del soggetto, in sede di riesame della pericolosità.

Quest’esperimento è indispensabile, soprattutto per i ricoverati   seminfermi di mente, che sono affetti da personalità psicopatiche, essendo necessarie preventive prove sociali, prima del definitivo inserimento nella società. Essi, difatti, hanno in genere, molti precedenti penali e una situazione economico-sociale difficile.

In questi casi, i risultati dell'esperimento e la precisa conoscenza della situazione ambientale vengono perfezionati con l'esame collegiale, dal punto di vista clinico, sociale e giuridico.  

Viene raggiunta, così, una decisione concordata, che comporta il fine della difesa sociale, con il diritto alla libertà individuale.

 

4.4 Che cosa sono gli O.P.G. in sostanza, carceri od ospedali? Che cosa fa la società per migliorarli?

Chi opera dentro il carcere sa che il disturbo mentale non riguarda pochi detenuti per i quali potrebbero bastare alcune misure di contenimento, si tratta, purtroppo di un problema diffuso negli Istituti di pena ordinari, che ripropone il tragico intreccio tra psichiatria e diritto, cura del malato e tutela della società[95].

Il luogo fisico dove questo intreccio si manifesta e si cura in tutta la complessità, sono gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, una realtà che l'Amministrazione penitenziaria deve affrontare, misurandosi ogni giorno con problemi di grande delicatezza.

Oggi, in Italia sono circa 1200 i detenuti ospitati e curati negli O.P.G. Per molti di loro, il vero carcere è la malattia e la speranza è legata alle possibilità di recupero psichico e di un superamento dell'infermità.

Ma che cosa sono realmente gli OPG? Come funzionano? Che cosa si deve fare per riorganizzare questo servizio, evitando la presenza sul territorio di tanti piccoli manicomi sotto i quali nascondere ciò che non si deve e non si vuole far vedere?

Secondo i direttori degli O.P.G.[96], di Reggio Emilia[97]e Barcellona Pozzo di Gotto[98], gli ospedali psichiatrici giudiziari sono strutture soprattutto repressive, votate ad assicurare la difesa sociale e ad emarginare l'uomo malato, essendo strutture eminentemente carcerarie, dove immettere di tutto, infatti, anche gli stessi servizi sanitari nazionali di natura psichiatrica, volentieri lasciano in O.P.G soggetti di difficile gestione.

Infatti, gli ospedali psichiatrici giudiziari, ancora oggi non sono delle strutture penitenziarie deputate alla cura, ma sono organizzate come strutture deputate di più alla pena.

Nell’ospedale di Barcellona Pozzo del Gotto c’è stato, però, negli ultimi anni, un incremento del volontariato cattolico, che è stato  uninterlocutore importante e imprescindibile nelle strategie trattamentali, poste in essere sia all’interno dell’istituto che in esterno[99].

Anche le licenze-esperimento sono gestite dal volontariato stesso, anche grazie all’aiuto del Dipartimento di salute mentale.

Rimane, naturalmente, una diffidenza profonda con gli abitanti della città, anche perché fino all'altro ieri si diceva che la presenza del manicomio avesse, di fatto, incentivato il radicamento mafioso sul territorio barcellonese e messinese in particolare, a suo tempo, zone di bassa, pericolosità dal punto di vista mafioso.

Con il Dipartimento di salute mentale è stata, però, raggiunta ormai un'intesa importante, il quale si è impegnato a facilitate la presa in carico, cosiddetta intelligente dei soggetti, per favorire una dimissione più precoce possibile.

Con gli Enti di formazione sono stati anche realizzati degli sportelli formativi e regolarmente un gruppo di internati vengono portati in luoghi di lavoro in esterno.

Per quanto riguarda l’ospedale psichiatrico di Reggio Emilia, questa è in una struttura veramente penitenziaria[100].

Ogni piano ha una sua scala d’accesso per impedire appunto la commistione; le stanze hanno una metratura per ospitare una sola persona, ma poiché sono presenti fra i 200/220 ricoverati, praticamente, in quasi tutte le stanze ci sono due persone[101].

In questa situazione a Reggio Emilia, quindi non è possibile dividere le varie categorie di pazienti[102].

Comunque, in Emilia Romagna si stanno realizzando delle iniziative di miglioramento abbastanza importanti.

Dal luglio dell'anno scorso, infatti, l’amministrazione penitenziaria ha attivato delle convenzioni con il Comune e con la Regione per un progetto sperimentale[103]. In un reparto, gestito esclusivamente da personale parasanitario e sanitario, senza Polizia Penitenziaria è stata effettuata una custodia attenuata con una trentina di ricoverati.

Fornendo praticamente alla Asl e alla Regione la possibilità di lavorare in una struttura sempre carceraria, ma più orientata verso la riabilitazione.

Con questo cambiamento, anche la situazione dei rapporti tra la città, tra l'Ente locale e il dipartimento di salute mentale di Reggio Emilia, è notevolmente cambiata. Adesso esiste un'ottima collaborazione.

Il volontariato è sviluppatissimo e dentro l’ospedale ci sono una quarantina di volontari che aiutano nel trattamento, non solo interno, ma anche esterno.

L'O.P.G di Napoli, invece, è un'antica struttura, nel centro storico, prestata al Ministero della Giustizia, ospita 170-180 internati e non solo, perché è annessa anche la Casa di Cura e Custodia della sezione per minorati psichici[104].

 L’istituto svolge, come altri ospedali, compiti di osservazione psichiatrica per le strutture penitenziarie[105]. Quindi, anche in questo ospedale giudiziario convivono situazioni diverse per quanto riguarda il trattamento penitenziario e per quanto riguarda i benefici che i soggetti possono ricevere dalla vita penitenziaria[106].

L'ospedale giudiziario più antico d'Italia, ad Aversa, è nato nel 1876 con semplice atto amministrativo e all'inizio funzionava soprattutto per eliminare quello che poteva essere dannoso e fastidioso nel carcere e nel manicomio.

Anche Ferraro, direttore dell’istituto, è d'accordo sulla necessità del superamento dell’O.P.G, ritenendo che l'unica possibilità di effettivo  cambiamento stia nel far venir meno l’ambiguità carcere-ospedale, attuando una sanitarizzazione e una riduzione notevole dell’aspetto custodialistico.

Ad Aversa, da circa quattro anni, si cerca di effettuare questo cambiamento, che ha portato ad un miglioramento nelle persone, che stanno all'interno, considerate come ricoverate, e non più come detenute.

Il problema principale, però riguarda il personale, infatti, nell’O.P.G di Aversa ci sono circa 60 infermieri, una novantina di agenti di Polizia penitenziaria e due soli medici direttori, cinque consulenti psichiatri, cinque medici incaricati, più uno per uno di ogni branca della specializzazione: un cardiologo, un dentista e così via[107].

Il personale, quindi, non è sufficiente per questo tipo di problemi; il numero degli infermieri dovrebbe essere aumentato e migliorato qualitativamente con dei corsi di formazione.

Comunque, nell’ultimo periodo l'istituto si sta aprendo molto alla città e al territorio, permettendo, non solo le uscite dei ricoverati, ma soprattutto gli ingressi della comunità esterna, all'interno.

Le varie iniziative, gli spettacoli, i convegni e l’esistenza di un museo storico, richiamano parecchie persone all'interno della struttura.

La collaborazione con le Università fa sì che alcune lezioni avvengano all'interno dell’istituto.

Anche negli Enti locali, per quello che concerne la Campania, ci sono stati ultimamente maggiori interessamenti.

E’ stato organizzato, infatti, con l'Assessore regionale alla Sanità un protocollo d'intesa, che prevede la presa in carico del paziente dal suo ingresso in Istituto fino all'uscita.

Il vero problema, però, come sostiene il professor Ferraro, direttore dell’istituto, non è tanto quello del malato di mente che arriva all'interno della struttura e che nel momento in cui viene preso in carico viene affidato alle varie attività trattamentali e riabilitative, infatti, nel giro di un tempo più o meno breve, nel 90% dei casi è nella condizione di potersi reintegrare in una società di vita civile.

Il problema è all'esterno: i servizi sanitari non sono in grado di potersene far carico, o il luogo di residenza in qualche modo lo rifiuta, o non ci sono famiglie disponibili ad accoglierlo.

Per cui, ad Aversa c’è una grossa percentuale di persone che stanno in proroga per mancanza di strutture, che possono farsene carico all'esterno.

Schiavon, direttore dell’ospedale psichiatrico di Castiglion delle Stiviere presenta, invece una situazione diversa.

L’O.P.G di Castiglione, infatti è favorito da questo punto di vista, perché vi si può senz'altro lavorare senza il gravame degli aspetti custodialistici.

Negli ultimi dieci anni, la realtà di Castiglione è considerata come un modello sanitario, anche se, questo modello non è estensibile a tutta la popolazione degli O.P.G, non essendoci personale di polizia, ma solo  di tipo sanitario.

Questo, permette al sanitario di avere autorità nei confronti del paziente, permettendo di lavorare, in base ad un progetto garantendo continuità, cosa che non è sempre possibile in certi contesti della psichiatria territoriale.

Anche secondo Scarpa[108], gli O.P.G, come misura di sicurezza, sono nati per punire, custodire, per difendersi dalle persone che sono ritenute pericolose socialmente.

Fondamentalmente, c'è bisogno, quindi, di una riforma specifica degli O.P.G; non si faranno progressi fino a quando ci saranno istituti cosi grandi che hanno il pericolo di diventare, per forza di cose, manicomi piuttosto che strutture di cura, lontane dal territorio, dalla famiglia, dai rapporti sociali, con una dimensione di chiusura e di separazione completa tra quello che è il mondo della psichiatria e quello che è il mondo sociale, dell'associazionismo, del territorio.

C'è bisogno di strutture più piccole, più vicine al rispettivo territorio dei pazienti internati, soprattutto con un servizio sanitario che non deve essere rappresentato da una pluralità di servizi sanitari, ma un unico servizio sanitario nazionale.

 

4.5 Il problema dell’emarginazione

L’emarginazione degli infermi di mente non è un prodotto delle strutture giuridiche, ma deriva da fattori culturali diversi, sorti spontaneamente nelle collettività storiche.

Non si deve dimenticare, infatti, che nella storia del passato le infermità mentali erano trattate come maledizioni divine[109].

Anche nelle epoche più recenti si è avuta una emarginazione dei folli, contro i quali le masse hanno manifestato insofferenza e chiusura, con azioni che comportavano la loro esclusione.

Quest’obbiettivo è stato realizzato con la procedura dell’etichettamento: il diritto ha stabilito alcuni limiti al di là dei quali è lecito far scattare i meccanismi di emarginazione e al di sotto dei quali è possibile avere tolleranza: ad esempio la legge n.36/1904 aveva definito la categoria dei malati di mente.

Questo etichettamento rappresenta la base dell’emarginazione: coloro che sono qualificati infermi di mente passano ipso-fatto in una sotto-categoria di persone. La conseguenza è quella, che questi stessi individui si percepiscono come esclusi e sviluppano dinamiche di difesa e di reazione che non giovano né ad essi né alla comunità, recando pregiudizio al loro adattamento sociale in maniera spesso irreparabile.

A ciò si aggiunge la modificazione che si ha nella psiche di colui che prova la durezza del trattamento dell’ospedale psichiatrico. Nell’interno dell’istituto, infatti, si rafforza il senso di emarginazione per l’atteggiamento del personale di assistenza che tende a porre una distanza con i degenti.

Il concetto che l’internato inizialmente aveva di sé, in un contesto familiare e sociale perde la sua consistenza, poiché il trattamento in internato, fatto di interventi coattivi, fa venir meno quella base di sicurezza che è indispensabile per l’equilibrio psichico.

La situazione è aggravata dall’ordinamento giuridico, che prevede alcune menomazioni di diritti nei confronti dei folli: i ricoverati, infatti, sono privati delle facoltà di esercitare taluni diritti, come l’elettorato e la potestà familiare.

Nei confronti dei ricoverati sono adottate misure privative o limitative della loro capacità giuridica (interdizione o inabilitazione). L’emarginazione così assume aspetti significativi: la rottura fra questi soggetti e la società diventa piena e le possibilità di recupero diventano scarsissime. Inoltre le risorse dell’ammalato di mente lo rendono spesso incapace di ricostruire la sua personalità su nuove basi. Egli rimane emarginato perché viene percepito come oggetto più che come soggetto dal personale, dagli altri ricoverati e dagli estranei. Quando è dimesso anche se con provvedimento che lo riabilita, egli si trova in difficoltà al rientro nella società. L’etichettamento da lui subito non è facilmente dimenticato.

 

4.6 I trattamenti sperimentati nell’O.P.G. di Aversa

Quali sono le terapie previste? Analizziamo quelle messe a punto nell’ospedale psichiatrico più antico d’Italia: Aversa.

In questo O.P.G. ci sono stati molti cambiamenti in meglio, infatti la condizione di vita degli internati, fino a qualche anno fa era pietosa ed assurda.

Gli internati venivano trattati con massicce dosi farmacologiche, spesso in situazione di contenzione forzata ed identificati con numeri, vivevano in situazioni igieniche precarie, con vitto di terz’ordine, ma soprattutto in un totale isolamento.

Questa condizione di vita sicuramente non dava alcun spazio alla comunicazione ne alla relazione, favorendo, anche a chi era meno compromesso, il peggioramento della propria condizione psico-fisica.

Con lo scopo, allora, di restituire spazi che favorissero i contatti relazionali, si è lavorato in questi ultimi tre anni, ed ancora si sta facendo[110].

L’idea di terapie di gruppo, inizialmente è nata dal volere sperimentare tecniche psicodrammatiche, di cui il dott. Ferraro, direttore dell’istituto, è esperto. Sono stati organizzati gruppi di tipo psicodrammatico nel teatro dell’istituto, ma le forti risposte emotive suscitate da questo tipo di tecnica fecero propendere per terapie più contenitive.

Si passò così a sperimentare dei gruppi d’ascolto, organizzati in uno spazio semiaperto, simile ad una piazza di paese. Fu allestito un bar con tavolini, dove era possibile sostare tutta la mattinata, per leggere il giornale, favorire la comunicazione e soprattutto ascoltare.

Questa nuova dimensione ha favorito e stimolato molto velocemente la comunicazione, nella ricreazione di uno spazio familiare e nel rispetto dei tempi dei ricoverati.

Si sono, pian piano, visti i primi successi e miglioramenti sviluppando la comunicazione, le relazioni ed il confronto. In seguito è stata favorita e sviluppata l’espressione in tutte le sue dimensioni, anche fra i più psicologicamente compromessi e chiusi nella propria malattia; fra i deliranti, gli allucinati, e gli ebefrenici.

Grazie ad un esperta dei linguaggi per l’espressione e la comunicazione, è stato allestito un Laboratorio di espressione con il colore, per sperimentare una nuova possibilità comunicativa, coinvolgendo nuovi e diversi gruppi di pazienti[111].

In questo modo i pazienti hanno degli spazi di libera comunicazione all’interno di un ambiente dove la reclusione annulla l’identità dell’individuo e ne nega l’espressione, individuando precisi interventi con funzioni riabilitative.

Sono stati effettuati anche dei cambiamenti con modifiche sul regolamento interno. E’ stato abolito il servizio di sorveglianza sulle torrette del muro perimetrale, mentre contemporaneamente sono stati  istituiti corsi di formazione psico-sanitaria per il personale di custodia. La partecipazione di tutte le figure operative dell’istituzione alle attività terapeutico-riabilitative, in qualità di osservatori partecipanti, ha migliorato la convivenza quotidiana, istruendo all’ascolto[112]e alla comprensione.

Sono stati organizzati reparti pilota di "socioterapia trattamentale" completamente gestiti dai ricoverati, con l’ausilio del solo personale sanitario paramedico, e senza la presenza del personale di Polizia Penitenziaria.

E’ stato sperimentato, poi ogni tipo di riabilitazione facendo organizzare e partecipare i ricoverati a spettacoli musicali, teatrali, ricreativi o sportivi.

E’ stata tentava l’apertura all’esterno, permettendo sempre più spesso l’ingresso della "gente comune" all’interno dell’istituto con visite al museo e all’area verde, visione agli spettacoli, partecipazione alle feste, al fine di sensibilizzare ed istruire la pubblica opinione circa quel luogo pre-giudicato contenitore solo di orrori.

Tutto ciò ha trasformato in pochi anni un luogo di chiusura e di negazione in un progetto di cura e riabilitazione, in cui è possibile sperimentare nuove ipotesi di rieducazione sociale, come stanno dimostrando i successi ottenuti negli ultimi anni.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

CAPITOLO QUINTO

IL SUPERAMENTO DELL’OSPEDALE PSICHIATRICO GIUDIZIARIO

 

5 L’ospedale psichiatrico giudiziario ed i relativi profili    d’illegittimità costituzionale

Come abbiamo visto nel precenti capitoli c’è un’eccedenza nel tradizionale ruolo degli O.P.G, adottati, non solo per i classici malati di mente autori di reato, ma usati anche come sanzione psichiatrica, o ancora come misura temporanea per diverse categorie di soggetti, per i quali sarebbe meglio il comune ospedale psichiatrico o dopo la legge 180/78, le sezioni speciali degli ospedali tradizionali.

 In ogni caso la durata della permanenza, dipende dal concetto astratto di gravità del reato, dieci anni in caso d’ergastolo, cinque per le pene non inferiori ai dieci anni; e di due in tutti gli altri casi.

E’ chiaro, quindi che l’O.P.G. assume anche una funzione retributiva, e quindi rischia di essere usato come una tradizionale sanzione penale. Questo ha costituito anche materia per un’eccezione di legittimità costituzionale, sottoposta al vaglio della Corte, ma respinta dalla medesima[113]. Originariamente, nel 1930, il manicomio criminale era stato, infatti, introdotto per assolvere due funzioni, ovverosia la custodia, con la durata minima, e la cura, chiara per il legislatore del 1930, perché in quel periodo il manicomio criminale era l’unico tipo di sistema conosciuto, che si prendesse cura del malato di mente. Tuttavia se la funzione custodialistica è rimasta immodificata, la funzione terapeutica sta ora, senza alcun dubbio, subendo una profonda crisi. Crisi che sorse dal movimento che negli anni settanta portò, in Italia, alla abolizione dei manicomi con la Legge 180/78, la cosiddetta “Legge Basaglia”, che consisteva nel considerare il trattamento essenzialmente come volontario e ciò in conformità con l’art.32 Cost. e, come eccezione, obbligatorio, e questo in casi davvero particolari, con ricovero nelle sezioni speciali, da organizzare nei comuni ospedali. Quest’idea, sebbene criticata[114], dimostra in ogni caso, che anche per il legislatore il modello più adatto di terapia non è più il manicomio tradizionale.

Stando così le cose anche l’O.P.G., che è l’unico istituto tradizionale ancora esistente può essere giudicato contrario ad alcune disposizioni della nostra costituzione.

La prima illegittimità riguarda il principio di uguaglianza, art.3 Cost., in quanto c’è una discriminazione nei confronti del malato mentale autore di reato, non c’è, infatti, alcuna ragione per mantenere l’istituzione del manicomio criminale, quando i simili manicomi civili sono già stati aboliti[115]. A quest’argomento potrebbe essere opposto che esiste una differenza tra infermo di mente e infermo di mente autore di reato, poiché solo quest’ultimo ha commesso, appunto, un reato, e quindi anche l’istituzione prevista per lui deve possedere una funzione più orientata alla custodia.

Quest’ultimo, però non è un argomento molto persuasivo[116], se si è d’accordo che il reato nella vita di un malato rappresenta spesso solo un sintomo della malattia stessa, per cui la differenza fra le due categoria di soggetti non è tale da prevedere tipi di trattamento così differenziati, come, invece, avviene nel nostro ordinamento.

Un altro problema di illegittimità costituzionale riguarda l’art.32 della Costituzione, che prescrive che il diritto alla salute è in primo luogo un diritto fondamentale della persona, e solo dopo della comunità, ma anche che i trattamenti obbligatori, sono legittimi solo se prescritti dalla legge.

In questo settore, l’istituzione dell’O.P.G. può essere giudicata contraria a tale disposizione, soprattutto per due profili.

Il primo riguarda le misure disciplinari, che possono essere adottate nei riguardi dei malati mentali a volte contrarie alla dignità della persona.

Il secondo riguarda il contenuto stesso del trattamento attuato nell’O.P.G., il quale, come si è visto, risulta troppo simile a quello disposto in carcere per gli autori di reato capaci d’intendere e di volere, per cui è difficile parlare di un trattamento terapeutico in senso proprio, in quanto prevale la parte custodialistica, rispetto a quella di cura.

Per questo si può mettere in dubbio che il trattamento nell’O.P.G., possa essere conforme al principio espresso dall’art.32 della Costituzione. Quest’ultimo profilo deve essere messo in relazione anche con l’art. 27, III comma Cost., che prescrive che le pene devono tendere alla rieducazione del condannato.

Fra le pene, devono essere comprese anche le misure di sicurezza, ma la nostra Corte costituzionale ha sempre respinto l’idea che l’art.27 comma III possa essere applicato alle misure di sicurezza, ritenendo che questa disposizione riguarda solo le pene “strictu senso”, perché le misure di sicurezza possiedono “ex se” tale tendenza, che deve essere invece espressamente riconosciuta alle pene, e ciò in base ad una specifica disposizione in esame anche alle misure di sicurezza[117].

Nella direzione tracciata dalla corte non è quindi possibile usare il controllo costituzionale delle misure di sicurezza, sotto il profilo dell’art.27 III comma. Ciò appare anche contraddittorio se affiancato ad una sentenza in cui la corte ha formalmente riconosciuto la funzione rieducativa della pena[118].

 

5.1 Le alternative all’O.P.G e la loro sinora scarsa utilizzazione in Italia

La ragione principale per cui gli O.P.G, nonostante le forti perplessità di ordine costituzionale sopra menzionate, non siano stati ancora dichiarati illegittimi dalla Corte, sembra risiedere nel rischio di un vuoto legislativo, in special modo perché in Italia reali alternative ad esso non sono state ancora sperimentate, quantomeno su larga scala[119].

In molti Paesi europei[120]è invece da lungo tempo, ben conosciuta l’esperienza dei c.d. “istituti di terapia sociale”, previsti per diverse categorie di autori di reato, non solo malati in senso classico, ma anche autori di reati sessuali o di delitti particolarmente gravi.

Questo tipo di istituzioni non è alternativo ai manicomi tradizionali, che in tali Paesi continuano a sussistere, ma si pongono a metà strada tra le pene e le misure di sicurezza.

In Italia gli istituti di terapia non sono stati ancora introdotti sia a livello legislativo sia a livello pratico, con le eccezioni di Lonate Bozzolo (Mi), e Civitavecchia (Roma), la cui situazione è piuttosto cambiata, la casa di lavoro di Lonate Bozzolo è stata chiusa e l’istituto di rieducazione per giovani-adulti a Civitavecchia è stato trasformato in carcere.

Questo ha provocato il fallimento di nuove prospettive in questo settore, ed in questa situazione sarà difficile che la Corte dichiarerà l’illegittimità costituzionale dei manicomi giudiziari.

 

5.2 Le prospettive di riforma

In tema di reato e malattia mentale siamo ad una svolta storica ma bisogna precisare che questa non deve essere una riforma parziale, riguardante solo le misure di sicurezza, infatti il legislatore non dovrebbe più creare strutture destinate appositamente ai malati di mente, perché ripeterebbe l’errore degli O.P.G. e nulla cambierebbe[121]. Dovrebbe, invece curare l’evoluzione dell’assetto psichiatrico sul territorio, valorizzando le strutture già in atto, delineate dal d.p.r.7 aprile 1994, che conferma la tendenza a superare l’O.P.G.

Per i prosciolti non più pericolosi, non sorgono problemi perché questi sono già seguiti dalle strutture territoriali residenziali o ambulatoriali. Per i pericolosi, il magistrato dovrebbe avere il potere di applicare in ogni momento o di trasformare o di estinguere la misura ritenuta più idonea, non solo in senso positivo per l’ammalato, ma anche in quello negativo, a seconda che la malat­tia presenti segni di guarigione, stabilizzazione, regressione, peggioramento.

Sotto tale profilo, è positiva, la proposta dell’affidamento in prova, caratterizzata da una serie di prescrizioni anche rigorose, che il servizio sociale e quello psichiatrico del territorio devono far rispettare.

Non si tratta di una brutta copia della misura sostitutiva della pena; cambiano le finalità, che sono quelle di impedire la recidiva, contrastando la pericolosità sociale del soggetto mediante un programma individualizzato redatto e gestito dopo aver accertato che il soggetto stesso sia idoneo e capace di rispettare tutte le prescrizioni, anche quelle terapeutiche.

Le difficoltà più rilevanti, stanno nell’identificazione della struttura chiusa, che dovrà sostituire l’O.P.G. senza copiarne i difetti[122], coniugando le esigenze di sicurezza e di difesa sociale con il diritto del malato ad ottenere una terapia vera e propria.

La vera, soluzione sta ancora nelle strutture psichiatriche del territorio e precisamente nella creazione, in ogni Regione, o gruppo di regioni vicine, di una struttura residenziale protetta verso l’esterno da personale dell’amministrazione penitenzia­ria, gestita all’interno da personale medico e paramedico del servizio sanitario nazionale, capace non solo di rispondere ai vari bisogni assistenziali, terapeutici, riabilitativi del soggetto prosciolto tuttora ritenuto pericoloso, ma anche di studiare per il soggetto stesso il programma individualizzato[123]. Altre soluzioni non sono attuali, mentre la permanenza dello status quo, rischia di determinare un ritardo incolmabile, che prima o poi la Corte Costituzionale potrebbe intervenire creando un vuoto legislativo.

Una conferma di quanto sopra, è rinvenibile nel progetto obiettivo per la tutela e a salute mentale, valido per il triennio ‘98-2000, finalizzato sia al superamento degli O.P.G., che a realizzare forme di coordinamento tra i diparti­menti di salute mentale ed i servizi psichiatrici penitenziari[124]. Il progetto insiste sul dipartimento quale organo di coordi­namento, garante della integrazione ed unitarietà di tutti i servizi che vanno dall’ospedale alle strutture residenziali e semiresidenziali. A tale fine, i dipartimenti dovranno munirsi di un protocollo operativo di intervento sui pazienti gravi, che preveda il progetto personalizzato suddetto, utilizzando tutte le risorse, oltre alle a quelle residenziali. A queste ultime occorre fare riferimento se si vuole veramente superare l’O.P.G.: si tratta già di strutture extra ospedaliere in cui si svolge parte del programma personalizzato, terapeutico e socio riabilitativo, non destinate alla media e lunga degenza, cui si può bene aggiungere una sorveglianza esterna che limiti temporaneamente la libertà di circolazione del prosciolto.

Comunque nell’ambito del programma terapeutico, approvato dal magistrato di sorveglianza e sempre modificabile.

Come si è visto, però, la medicina penitenziaria, è rimasta al margine della riforma del 1978, infatti, i detenuti sono, fino ad oggi, stati esclusi dai vantaggi, e dagli svantaggi che offre il servizio sul territorio ai cittadini liberi. Il che non è giusto né ragionevole ai fini della parità di trattamento e della tutela della salute di tutti, come esigono gli art.3 e 32 della Costituzione.

Nonostante l’impegno professionale degli operatori, era chiaro che la medicina penitenziaria non avrebbe potuto competere con quella nazionale, in particolare per gli strumenti e le capacità finanziarie e quindi operative.

Già l’art. 11, primo comma O.P., prevedeva nel 1975 per ogni istituto un servizio medico “rispondente alle esigenze profilattiche e di cura dei detenuti”, questa è stata già una partenza sbagliata, perché ha isolato i detenuti, facendone una categoria a parte di non-cittadini.

La legge ha creato, anche una medicina psichiatrica penitenziaria autonoma, laddove imponeva in ogni caso l’opera di almeno uno specialista in psichiatria. Infatti i commi 2 e 10 del suddetto articolo e l’art. 17 del regolamento prevedevano il ricorso ai servizi locali, e addirittura, il trasferimento negli ospedali civili dei detenuti quando cure ed accertamenti “non possano essere apprestati dai servizi sanitari degli istituti”. L’amministrazione penitenziaria, ha fatto tutto il possibile anche per organizzare e gestire reparti ospedalieri propri e con mezzi propri, ma i risultati non possono che essere considerati modesti e sono comunque tali, da non poter competere con le strutture del servizio nazionale. Il che anche sotto tale profilo, penalizza ulteriormente i detenuti e non risponde alle loro esigenze di cittadini. Per questo, il Parlamento con legge 30 novembre 1998 n. 419[125], ha deciso di delegare al Governo l’emissione di più provvedimenti con i quali razionalizzare il sistema attuale, adottando un testo unico in materia di organizzazione e funzionamento delle aziende sanitarie e di quelle ospedaliere. Con questa legge il servizio pubblico si va attrezzando e munendo di una serie di presidi in grado di provvedere anche agli ammalati che hanno commesso reati e presentano ancora una pericolosità sociale residua.

Al più si tratta di stabilire che cosa si deve intendere, ai fini che interessano, per “protezione” e le modalità di attuazione della stessa, essendo evidente che il concetto è posto sia a tutela del malato che dei terzi e della società e si deve riferire contemporaneamente alla terapia ed al controllo fisico del soggetto. Come tale la protezione si deve rivolgere sia verso l’interno che verso l’esterno della struttura.

5.3 Una possibile risposta: l’affidamento terapeutico di tipo psicosociale

 

L’istituto dell’affidamento, inteso come alternativa non penitenziaria alla misura di sicurezza per malati di mente, che hanno commesso reati, è ad ogni effetto una misura di sicurezza[126], che deve essere applicata dal magistrato di sorveglianza: immediatamente, a coloro che hanno commesso reati meno gravi, (puniti con la reclusione o l’arresto non superiori nel massimo a 5 anni), che presentino tuttora una pericolosità residuale controllabile e gestibile senza bisogno di inserimenti residenziali coatti; dopo un certo periodo di internamento in una struttura chiusa, agli autori di reati puniti con pene superiori nel massimo a 5 anni, quando la pericolosità sociale rientri nei limiti di cui sopra, ed in attesa di proroga o di revoca.

La durata non può che essere variabile, legata alla natura della malattia.

Ineliminabili sono le analogie, ma anche le differenze, con l’istituto di uguale denominazione previsto dalla legge penitenziaria, per le pene detentive.

Innanzitutto l’osservazione della personalità, (ora soppressa con la legge n. 165/1998[127] per i condannati definitivi a pene anche residue non superiori a tre anni) deve continuare a sussistere qualunque sia la gravità del reato commesso, nei confronti degli infermi di mente autori di reato. L’osservazione del malato di mente richiede anche interventi medici terapeutici, a differenza dell’osservazione del condannato imputabile, che è libero di non accettare di collaborare. Entra in tal modo a pieno e prevalente titolo il servizio psichiatrico territoriale, sia nella fase d’osservazione che in quella trattamentale. Questo tipo di intervento, inoltre è già stato sperimentato con l’istituto dell’affidamento in prova al servizio sociale dei tossicodipendenti, molto simile a questo, ottenendo ottimi risultati

 

 

 

 

 

 

 

 

 

CAPITOLO SESTO:

IN VISITA ALL’OSPEDALE PSICHIATRICO GIUDIZIARIO DI CASTIGLION DELLE STIVIERE

 

6 Castiglione, il modello sanitario Italiano

Nei capitoli precedenti si sono delineati i presupposti storici, politici e giuridici del manicomio giudiziario, mentre in questo capitolo si tenterà di vedere al di là della normativa giuridica, analizzando una situazione vista dall’interno. In Italia di Ospedali Psichiatrici Giudiziari ne esistono cinque più uno. Il sesto è Castiglion delle Stiviere[128]. Quest’ospedale, in provincia di Mantova, rappresenta una figura anomala nel panorama psichiatrico giudiziario italiano.

Già la sua dislocazione geografica è particolare, essendo l’unico al nord d’Italia, inoltre, a differenza degli altri cinque, è una struttura privata, non direttamente gestita dall’Amministrazione del Ministero di Giustizia. E’ una struttura del Servizio sanitario nazionale, le cui regole di funzionamento sono le stesse delle Aziende sanitarie sul territorio nazionale. Nasce nel 1938[129], come sezione giudiziaria dell’Ospedale Psichiatrico, sulla base di una convenzione stipulata con il Ministero di Grazia e Giustizia che consentiva di accogliere malati di mente autori di reato.

Di Castiglione si parla, e certamente non a torto, come di un manicomio avanzato, di un istituto dove le condizioni degli internati sono migliori che altrove. Le ragioni di questa differenza derivano soprattutto dall’organizzazione strutturale dell’O.P.G..

Gli altri O.P.G. dipendono dal ministero di Giustizia, che paga per i ricoverati una retta giornaliera di circa 120 mila lire[130], a Castiglione la retta è di 310 mila lire al giorno, ci sono undici medici[131], 140 infermieri, inoltre, è l’unico ospedale privo di polizia penitenziaria, molto più costosa degli infermieri. Quest’aspetto conferma il fatto che questa sia l’unica struttura che svolge da sempre il suo compito istituzionale, attraverso un assetto organizzativo ed operativo esclusivamente sanitario, secondo il principio per cui trattare e riabilitare il malato porta a neutralizzare la sua stessa violenza senza dover operare prioritariamente sulla repressione della medesima. Questo principio è coerente col presupposto che può non esserci differenza nel trattare la persona affetta da disturbi psichiatrici, sia che questa abbia o meno commesso un reato.

Un altro aspetto che conferma che Castiglione è una struttura prevalentemente sanitaria è il fatto che non è stato adottato nessun regolamento penitenziario interno[132], questo per evitare la presenza di regole rigide da rispettare che potessero andare contro la guarigione del paziente. Infatti, per esempio, non è previsto un limite minimo al numero dei colloqui, fatti in un apposito locale senza vetri divisori; le telefonate possono essere fatte ogni quindici giorni, ma sono previste delle deroghe per eventuali convenzioni terapeutiche con l’internato. Un'altra particolarità di questa struttura, che contribuisce a differenziarla dagli altri ospedali, è il fatto che sia l’unica dotata di una sezione femminile.

L’O.P.G. si trova nella zona collinare limitrofa all’area urbana[133] (località Ghisiola ); la struttura è completamente nuova. L’istituto è strutturato a padiglioni in modo da poter diversificare le diverse aree in base alle attività riabilitative e le attività in comune, ci sono: le aule scolastiche, il parlatorio, la cappella per il culto religioso, il laboratorio di pittura, il bar, la palestra, le piscine, gli impianti sportivi ed aree verdi. Ciò consente agli internati di poter fruire di ampi e confortevoli spazi. Le stanze di degenza rispettano i criteri della lungo degenza in struttura comunitaria, con personalizzazione delle stesse, e  concepite secondo gli attuali orientamenti psichiatrico riabilitativi, infatti sono prevalenti le stanze con uno o due posti letto, dotate ognuna di un proprio servizio igienico[134]. Inoltre viene data molta importanza anche alle aree ad uso comune, nella zona di soggiorno, per esempio, ci sono degli spazi appositi per i fumatori, inoltre, adiacente ad ogni reparto vi sono cortili e zone verdi per permettere ai pazienti di passare la maggior parte della giornata all’aria aperta. Anche la mensa è ben gestita, il cibo è differente a seconda dei pazienti, con un adeguato rapporto calorico e proteico.

 Un’importanza particolare ha il Bar centralizzato dell’O.P.G., gestito dallo stesso personale e dove sono inseriti internati in ergoterapia.

In quest’ambito sono svolte diverse attività ricreative durante l’anno[135]. La struttura ha una recettività pari a 240 posti (135 uomini e 105 donne). La convenzione (biennio 2000-2001), attualmente in vigore e regolante i rapporti tra Ministero della Giustizia ed Azienda Ospedaliera “C.Poma”, di cui l’O.P.G. è presidio, prevede una presenza massima pari a 200 internati. Il numero dei pazienti alla data 10.09.2001 è di 85 donne e 105 uomini, quindi non esistono fenomeni di sovraffollamento.

La struttura è divisa in quattro unità operative (due maschili e due femminili).

Fino al settembre del 1999, però, la divisione era diversa: tre reparti maschili ed uno femminile.

Per l’incremento costante del numero delle donne assegnate, e la proporzionale riduzione delle assegnazioni di uomini, è stato attivato un nuovo reparto femminile per detenute in osservazione psichiatrica ed internate ex art.148. Questa ridistribuzione ha consentito di risolvere il problema della commistione tra pazienti in misura di sicurezza (art.222 c.p.) e detenute con gravi disturbi del comportamento a prerogativa antisociale, per la cui gestione sono necessarie strutture e personale idoneo, che l’unico reparto femminile non era più in grado di offrire.

In ciascun reparto si svolgono due tipi di attività (oltre a quella clinica del paziente): una di osservazione del paziente, per dare un inquadramento criminologico e psichiatrico forense ed una fase di riabilitazione, in cui viene valutata la disabilità del paziente, e dove si cerca di individuare un possibile percorso riabilitativo e di reinserimento territoriale[136].

 

6.1 I trattamenti previsti all’interno dell’O.P.G. di Castiglion delle Stiviere

Dopo aver visto com’è strutturato e organizzato quest’ospedale, passiamo ad analizzare le terapie previste e attuate al fine di ridurre la pericolosità sociale e i rischi di cronicizzazione della malattia e per recuperare le abilità di base dei singoli utenti, per una loro formazione professionale ed un graduale inserimento del ricoverato nel mondo del lavoro. Poiché sono diversi gli ambiti psichiatrici d’intervento: il colloquio, l’individuazione diagnostica, l’individuazione dei problemi del paziente da un punto di vista sintomatologico, s’interviene sia con la terapia farmacologia, che con un trattamento di riabilitazione.

La riabilitazione consiste nell’individuare per ogni paziente, le aree delle capacità che aveva prima e che ha perso per la malattia, ed in base a quelle aree che prima funzionavano ed ora non funzionano più, si cerca di portare il pazienta dall’inabilità all’abilità.

Per questo, in ogni unità operativa, ci sono tre aree d’intervento. Innanzi tutto, l’area clinica assistenziale, dov’è svolta la terapia farmacologia, in cui sono adottati presidi terapeutici: psicofarmacologici, psicoterapeutici e riabilitativi e sono anche assicurati interventi per fronteggiare le situazioni di crisi e d’emergenza. In ogni unità lavorano medici a tempo pieno, in prevalenza specialisti in psichiatria. Vi sono anche medici provvisti di competenze affini, come neurologi, medici legali[137].

Accanto alla terapia farmacologica viene effettuata la terapia di riabilitazione, infatti, la prima da sola non è sufficiente a recuperare più di tanto il paziente, mentre la riabilitazione riesce a dare motivazione, soddisfazione e grossi incentivi personali al paziente per andare avanti. Il progetto riabilitativo, che si svolge nell’area della riabilitazione psico-sociale, allo stato attuale è composto da diverse attività riabilitative, che possono essere divise in quattro gruppi: un primo gruppo è rappresentato dall’attività scolastica, con un corso di alfabetizzazione, un corso di scuola media, un corso di canto (attivo dal 2001) e il giornalino interno[138], per il quale è prevista una redazione apposita.

Un secondo gruppo è costituito dalle attività espressive, il così detto “atelier di pittura”, per il quale è previsto appositamente un insegnante esterno, per tre giorni alla settimana[139], il quale è molto preparato sui pazienti, con cui ha, anche una certa affinità. Quindi, come attività espressiva, viene svolta prevalentemente la pittura, per cercare di facilitare la comunicazione e la socializzazione, accrescere l’autostima ed il raggiungimento del benessere psicofisico attraverso la liberta creatività espressiva. I pazienti, inoltre, con le loro opere, partecipano a mostre in ambito nazionale.

Un terzo gruppo è costituito dall’attività motoria, questa riveste un ruolo molto importante ai fini riabilitativi, perché gli psicofarmaci (tra i vari effetti) generano nei pazienti una grossa difficoltà di coordinazione e di movimento, infatti si è riscontrato che i soggetti, curati con psicofarmaci non hanno una buona coordinazione motoria; per esempio nel gioco del calcio non riuscivano a portare a termine un’azione, pur avendo le capacità per farlo[140]. Per cui con le attività motorie[141], si aiutano i pazienti ad una ripresa a livello muscolare e farli muovere significa toglierli dalla sedentarietà. Per le attività motorie l’O.P.G. è molto attrezzato, infatti, è stata all’allestita una palestra, un campo da tennis, le bocce, inoltre viene fatto praticare anche nuoto: d’estate nella piscina dell’O.P.G., in cui vanno uomini e donne dal lunedì al venerdì, mentre d’inverno è organizzato un corso d’idro-ginnastica presso la piscina di Desenzano, con il permesso del magistrato.

Il quarto gruppo di attività è quello di orientamento socio-lavorativo, svolto dall’Enaip[142], con insegnanti esterni che svolgono diversi corsi di formazione, tra i quali, cucito, idraulica, grafica, informatica, teatro e restauro. Altre attività lavorative si svolgono sia all’interno sia all’esterno dell’O.P.G., per esempio il lavoro in magazzino si svolge all’esterno, con l’autorizzazione del magistrato.

Sono state, anche organizzate gite culturali, sia in ambito regionale, sia fuori regione[143], per favorire visite alle aziende agricole e per consentire l’avvicinamento ai criteri di coltura biologica.

I pazienti che svolgono attività lavorativa, inoltre, sono pagati in base alle ore lavorate (massimo sei ore il giorno). In questo modo viene così garantita al singolo un’ampia autonomia nella cura di sé stesso, del proprio spazio, della gestione del denaro, degli effetti personali ed anche del fumo, ma vengono anche rafforzate le abilità sociali di gruppo, in un contesto di autonomia sia del proprio spazio che degli spazi comuni. Inoltre, al fine di recuperare nel singolo un senso sociale, i pazienti sono portati ad uno spontaneo rispetto delle regole di gruppo nell’ambito dei corsi in cui sono impegnati. A questo fine un ruolo importante svolgono anche i lavori di ergoterapia: gestione bar, biblioteca, pulizia dei vari locali e l’attività ricreativa, che presuppone la capacità del paziente di stare in gruppo.

Responsabile della formulazione, realizzazione e monitoraggio dei progetti è l’equipe, (medico psichiatra, psicologo, educatore, assistente sociale, caposala e personale infermieristico).

L’area scuola, attualmente, assorbe 25 persone, l’atelier di cultura da 15 a 20 persone, nell’area d’attività motoria ci sono in media dalle 40 alle 45 persone; l’Enaip 18[144]. Il problema consiste, però, nel capire quali siano le attività necessarie al paziente; per questo lo staff di ogni reparto[145], somministra ad ogni paziente un questionario[146], con il quale egli, in un primo momento indica quali siano i propri bisogni, che in seguito vengono valutati dall’equipe[147]al fine di individuare per ogni paziente il trattamento specifico.

Attualmente sono circa 100 (il 50% dei pazienti) le persone inserite nell’ambito della riabilitazione, mentre il restante 50% ozia, infatti, i pazienti non sono forzati ad effettuare le attività previste, perché il problema psichiatrico è un problema di lavorio mentale, il paziente è impegnato in un lavoro nella parte depressionale, quindi nel momento che gli è chiesto di fare qualcosa, egli deve essere pronto, non si può obbligare a farlo, a differenza dei carcerati, che non soffrono di disturbi psichiatrici. Infatti, là dove il soggetto è oppresso dai propri problemi, angoscia o depressione, o anche aggressività, ha poche possibilità di inserirsi civilmente nei vari gruppi sociali, perché tutto è impegnato nell’ambito psicologico. Per esempio, il caso di un giovane paziente omicida, che oltre al problema della schizofrenia aveva anche un problema di dipendenza con la madre, per cui viveva nell’O.P.G. in una sorta di “apnea”, per tutta la settimana, fino a che non vedeva la domenica la madre; è chiaro, quindi, che è difficile far lavorare un paziente di questo genere o inserirlo, perché è troppo preso dall’angoscia della separazione. Perciò è necessario prima andare in contro alle sue difficoltà, e poi cercare di attuare una terapia rieducativa, questo paziente infatti è stato con il tempo, inserito nell’ambito del lavoro[148].

 

6.2 La dimissione del paziente

Compito dell’O.P.G., non è solo quello di portare il paziente ad un recupero di tipo psicologico, ma, anche quello di dargli gli strumenti necessari per inserirsi nel mondo esterno. Per questo, l’O.P.G. di Castiglion delle Stiviere si distingue per l’impegno dimostrato nel tessere un rapporto continuativo tra il paziente e il mondo esterno, in particolare con i famigliari, ma anche con quelli che a vario titolo, sono interessati al suo miglioramento psico-fisico; per questo non è previsto un limite minimo al numero dei colloqui[149].

Il percorso terapeutico mira alla ricostruzione dell’identità personale d’ogni singolo individuo dopo la frattura creatasi con il reato ed a ripristinare i rapporti con il territorio di origine attraverso il coinvolgimento del Servizio psichiatrico Territoriale di riferimento.

Il paziente, infatti, una volta che ha recuperato l’incapacità personale, ed è diminuita la propria pericolosità, ritorna nell’area di provenienza. Per essere, dimesso, però, occorre: innanzi tutto il domicilio, che può essere presso la famiglia, ma questa non è necessaria o può essere una comunità, in ogni modo è indispensabile che ci sia un posto dove il paziente dimesso possa andare.

E’ necessario, inoltre, che nell’ambito del territorio di residenza ci sia un servizio psichiatrico che lo segua e delle persone che lo aiutino, (la famiglia o la comunità).

Quindi i pazienti non sono dimessi solo perché stanno bene, infatti, se non hanno un ambiente che li aiuti a reinserirsi nella società, dopo poco possono stare di nuovo male. Il paziente, perciò deve fare dei passaggi[150], prima di arrivare alla dimissione, per evitare il più possibile che ci siano delle ricadute, anche se la certezza di una completa guarigione non c’è quasi mai, essendo i pazienti afflitti da grosse malattie mentali; l’importante è cercare di migliore la loro qualità della vita, in modo che diventi umanamente più accettabile. Per questo ogni paziente dimesso è in contatto con il servizio psichiatrico del luogo, che viene informato dall’O.P.G. dell’arrivo del soggetto, anzi nella maggior parte dei casi viene organizzata preventivamente la visita del servizio per il paziente.

Tale coordinamento, infatti, spesso facilita la concessione di licenze, utili per i primi contatti dei soggetti con l’ambiente esterno e in particolare con le persone e i luoghi d’origine, oltre che condizionare, in senso favorevole, le decisioni della magistratura di sorveglianza in occasione del riesame della pericolosità dei soggetti stessi.

Notevole è quindi la mobilitazione sia del personale sanitario e sociale dell’O.P.G. nell’accompagnare i pazienti presso i Servizi competenti o le Comunità (allo scopo di programmare gli opportuni inserimenti), sia da parte degli operatori territoriali nel far visita ai pazienti in O.P.G.. Particolare attenzione è rivolta anche all’ambito lavorativo; al fine di reinserire il paziente nel mondo del lavoro, l’O.P.G. sta cercando di stipulare delle convenzioni con una serie di cooperative, in modo da poter inserire i pazienti in una formazione all’esterno dell’istituto, sia nell’ambito dell’industria o dell’area verde, o nell’ambito artigianale.

In tale contesto s’inserisce una sperimentazione a gestione comunitaria denominata “Avalon” con un progetto di accoglienza di 15 utenti maschi ampiamente autosufficienti[151]. Il progetto in esame prevede la realizzazione di un centro diurno, caratterizzato prevalentemente dallo svolgimento di corsi d’informatica, falegnameria, sartoria, ecc. tenuti con dall’Enaip di Mantova convenzionato con l’O.P.G..

Da quanto esposto emerge perché quest’ospedale si differenzi dagli altri istituti presenti. Questa struttura costituisce l’esempio di come le imprescindibili esigenze di custodia, possano essere conciliate con la necessità di programmare un trattamento terapeutico il più possibile individualizzato, secondo quanto è previsto dalla normativa penitenziaria all’art.13 l.n.354/75, in base al quale il trattamento penitenziario deve rispondere ai particolari bisogni di ciascun ed art.29 d.p.r. n.230/2000[152]. Infatti, una serie di circostanze, fra cui anche la costante collaborazione fra magistratura di sorveglianza e personale medico dell’O.P.G., hanno favorito la piena riuscita di quegli scopi che fin dagli anni settanta la struttura si prefigge di raggiungere.

In quest’istituto l’osservanza delle norme penali e penitenziarie, è stata finalizzata solo al raggiungimento di un rapido e duraturo equilibrio psico-fisico del paziente. Questo acquista ancora più rilievo considerato il carattere repressivo, che caratterizza ancora le misure “psichiatriche”.

L’aver saputo utilizzare in modo proficuo e rispettoso dei diritti umani, questa normativa, induce a ritenere che l’O.P.G. di Castiglione deve costituire il modello cui il legislatore dovrebbe far riferimento in sede di riforma, in modo che l’esperienza di quest’istituto possa estendersi a tutti gli altri O.P.G., ancora oggi assai più simili a carceri che avere e proprie strutture sanitarie.

 

6.3 Una ricerca circa l’esito delle terapie, sui pazienti dimessi dall’O.P.G. di Castiglione

Al fine di verificare quali fossero gli effetti dei vari trattamenti e delle terapie effettuate dall’istituto, sui pazienti, è stata eseguita una ricerca su un campione di 54 pazienti dimessi dall’O.P.G. di Castiglione, nel periodo che va dal 1992 al 1998; studiando l’esito clinico-riabilitativo e le variabili legate al reinserimento sociale.

Lo studio è stato condotto su un campione di 54 soggetti, nove donne e 45 uomini, internati in seguito a sentenza di proscioglimento ex art.222 c.p., e dimessi negli anni compresi fra 1992 e 1998.

I soggetti sono tutte persone nate in Lombardia, la scelta si basa sull’ipotesi che questo campione di internati non ha interrotto il legame coi familiari e le agenzie socio sanitarie territoriali preposte al reinserimento dopo la dimissione. Tale dato permette così di rilevare quanto il fattore ambientale possa essere determinante nella cura e nel recupero del malato. Queste considerazioni si pongono perfettamente in linea con alcune proposte di legge,[153]finalizzate proprio alla “regionalizzazzione degli O.P.G., per porre fine al fenomeno dello sradicamento dell’individuo dal suo ambiente d’origine, causato dallo scarso numero di O.P.G. in Italia.

 I risultati presentati in questa ricerca sono parte di un lavoro più generale progettato all’interno dell’O.P.G. di Castiglione delle Stiviere, finalizzato ad offrire uno spaccato realistico della popolazione ricoverata nella struttura in esame allo scopo di individuare quali fattori possono giocare un ruolo positivo nel reinserimento del paziente dopo l’internamento.

La ricerca è stata divisa in due parti, una prima, in cui sono state analizzate le caratteristiche personali e giudiziarie dei soggetti selezionati ed una seconda, in cui sono state raccolte ed elaborate alcune informazioni socio-sanitarie del dopo dimissioni, attraverso un contatto sia con le strutture sanitarie, sia con i familiari degli stessi internati, tramite un questionario predisposto da alcuni psichiatri dell’O.P.G..

Il campione è stato diviso[154]in base: a) il sesso; b) alla data di nascita; c) al luogo di nascita; d) allo stato civile; e) al grado d’istruzione; f) al lavoro svolto prima dell’internamento.

Per quanto riguarda la storia penale è stato tenuto conto del fatto di reato commesso per il quale è stata pronunciata sentenza assolutoria. In seguito è stata posta attenzione su un eventuale recidivismo, un indicatore molto rilevante di “ buon reinserimento sociale” prima dell’internamento.

La popolazione di internati è caratterizzata da un’età anagrafica relativamente giovane; infatti il 66% dei dimessi ha un’età compresa tra i 30 ed i 45 anni. Presenta un basso grado d’istruzione e una condizione lavorativa di disoccupazione o precarietà.

Provengono da quasi tutte le province della Lombardia.

Inoltre una costante è che solo una minoranza proviene dalla libertà. Infatti, il 40% degli internati è recidivo ed ha commesso, prevalentemente reati contro la persona. Quest’aspetto potrebbe distorcere il significato di alcuni risultati, soprattutto per quanto attiene alla durata effettiva della misura di sicurezza.

Rimane, infatti, indimostrabile l’ipotesi che il risultato del lavoro terapeutico di Castiglione avrebbe potuto portare ad una più rapida dimissione, se il soggetto non avesse dovuto inserirsi su un periodo di istituzionalizzazione già speso in altra struttura, funzionante su modelli organizzativi e approcci diversi.

In base ai dati raccolti si può anche affermare che, rispetto al malato di mente che delinque occasionalmente o che presenta un modesto recidiviamo, nella maggior parte dei casi il ricovero in O.P.G. è stato ordinato per reati contro la persona di una certa gravità: omicidio, tentato omicidio e fatti attinenti alla sfera sessuale ex art.609-bis c.p.. Per lo più si tratta di individui affetti da patologia psichica insorta nella prima giovinezza e di solito intercorre un periodo di circa 10 anni tra l’insorgenza del disturbo, tra il primo fatto e il fatto che porta all’O.P.G..

E’ stato, infine esaminata la durata media dell’internamento per categorie di reati, rapportandola sia alla pena minima, sia alla pena massima, per lo stesso stabilita.

Emerge, che coloro che hanno commesso fatti bagalletari subiscono un periodo d’internamento più lungo rispetto al limite minimo della pena edittale; mentre per i fatti più gravi la durata effettiva della misura di sicurezza rimane al di sotto del massimo edittale[155].

In base al campione preso in esame il 15% aveva già fatto ingresso in O.P.G.. Dopo il ricovero a Castiglione solo un paziente già precedentemente recidivo ed internato ha commesso un successivo fatto di reato. Il 91% dei dimessi non è incorso a nuove carcerazioni nell’arco temporale compreso tra un minimo di due e un massimo di otto anni.

L’esito della dimissione a seguito del ricovero a Castiglione ha dato luogo, quindi, ad una recidiva inferiore rispetto al dato fornito dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (DAP): ammontano a 25.7% i casi di recidiva. Basso è stato anche il tasso dei suicidi, se confrontato con quello della popolazione psichiatrica affetta da disturbi confrontabili.

Relativamente bassa è anche la percentuale di decessi “per condotta a rischio”, cioè i casi di morte dovuti ad abuso di sostanze alcoliche o stupefacenti. La percentuale dei decessi è del 17%, ma l’11% è avvenuto per cause naturali.

Per avere una visione realistica della condotta di vita post internamento, non può, però essere tralasciato il rapporto con il Servizio psichiatrico competente. Il 63% dei dimessi è in carico al servizio territoriale, compresi non solo i soggetti destinati alla famiglia d’origine (44%) o al proprio domicilio (2%), ma anche tutti i pazienti che sono stati inseriti presso i Centri Residenziali Terapeutici o i Servizi di Diagnosi e cura o, presso gli ex ospedali psichiatrici.

La maggioranza dei pazienti, quindi mantiene un rapporto costante e continuativo con l’ente di assistenza territoriale; con una frequenza settimanale del 32% o diurna 31% sia a livello ambulatoriale che domiciliare. Solo un 9% ha un rapporto sporadico con il Servizio di appartenenza.

 I servizi territoriali, a distanza di anni, sono stati, inoltre in grado di somministrare trattamenti terapeutici nel tempo, evitando il ricorso ai frequenti trattamenti sanitari obbligatori e instaurando una buona alleanza terapeutica. Inoltre, di fronte ad una progressiva diminuzione della presa in carico diretta del paziente da parte del servizio psichiatrico territoriale, tramite le strutture intermedie comunitarie, è corrisposto un aumento del rientro in famiglia o in abitazione autonoma.

Per quanto riguarda lo studio relativo al reinserimento lavorativo, bisogna dire che più della metà del campione analizzato non svolge alcun tipo di lavoro. Ciò permette di ipotizzare che, successivamente alle dimissioni dall’O.P.G., anche una parte di coloro che prima lavoravano, abbiano poi smesso. Va però considerato che, spesso il passato di questi individui, gli rende difficile trovare un’occupazione. Il 21% svolgono un’attività di lavoro protetto in struttura, l’11% presso cooperativa, il 18% svolge invece un’attività autonoma.

Al fine, invece di determinare il grado di autonomia acquisita dal soggetto, assume rilievo il dato riferito alla necessità o meno di assunzione di una terapia farmacologia. La stragrande maggioranza (82%) dei dimessi segue con metodicità una terapia più o meno intensa.

A distanza di due od otto anni dalla dimissione dall’O.P.G. di Castiglion delle Stiviere si può comunque dire che i risultati dell’esito del processo di reinserimento sono confortanti.

Lo studio ha, quindi, ribadito che il modello organizzativo esclusivamente sanitario e il lavoro integrato il territorio, è perfettamente idoneo a svolgere il compito terapeutico riabilitativo a vantaggio dei malati.

Questo studio potrebbe anche, fornire un contributo sull’attuale dibattito sul processo di riforma per il superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari. Quest’esperienza dimostra, infatti, come l’O.P.G. possa costituire lo strumento a volte indispensabile a garantire quelle risposte adeguate alle esigenze del reo, risposte che lo stesso difficilmente potrebbe trovare al di fuori del circuito penale. Questo vuol dire che, contrariamente a quanto affermato da alcuni, O.P.G., sicurezza sociale e rispetto dei diritti fondamentali dell’individuo, non sono concetti in contrasto fra loro.

Questo, quindi, ipotizza una trasformazione, non tanto della misura di sicurezza in sé, quanto dei suoi contenuti organizzativi e trattamentali, per cercare di superare gli aspetti prettamente punitivi e custodialistici che ancora oggi caratterizzano la maggior parte degli O.P.G. italiani.

 

                

 

 

                                  

 

 

 

 

 

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[2] Foucault M., La casa della follia, in AA.VV., Crimini di pace, Torino, 1975, pag.31.

[3] Baima Bollone, P.L., Cesare Lombroso ovvero il principio della irresponsabilità, Torino, 1992, pag.77-78.

[4] Baima Bollone, P.L., Cesare Lombroso ovvero il principio della irresponsabilità, Torino, 1992, pag.80.

[5] Lombroso C., Sull’istituzione dei manicomi in Italia, Rendiconti del Regio Istituto Lombardo di scienze, Lettere ed Arti, Vol. III.

[6] A.Bocca, L’uomo delinquente, Torino, 1983, pag.50-55.

[7]Lombroso C., Sull’istituzione dei manicomi in Italia in Rendiconti del Regio Istituto Lombardo di scienze, Lettere ed Arti 1872, Vol.III, pag.45.

[8] Degl’Innocenti F., La funzione del Manicomio criminale in Italia, in Rivista Sperimentale di Freniatria, 1989, pp. 1218-1235.

[9] A. Tamburini, Dei manicomi criminali e di una lacuna nella odierna legislazione, in Rivista di discipline carcerarie, 1876, pag.67-68.

[10] Canosa R., Storia del manicomio in Italia dall’unità ad oggi, Milano, 1979, pag.50.

[11]Fornari U., Irresistibile impulso e responsabilità penale: aspetti normativi, in Rivista Sperimentale di Freniatria, 1988, pag.43-85,

 

[12] Vale a dire: il manicomio criminale, la pericolosità sociale del prosciolto per vizio totale di mente e il delinquente nato.

[13] Art.203 c.p.: “E’ socialmente pericolosa la persona, anche se non imputabile o non punibile, la quale ha commesso taluno dei fatti indicati nell'articolo precedente, quando è probabile che commetta nuovi fatti preveduti dalla legge come reati. La qualità di persona pericolosa si desume dalle circostanze indicate nell'art. 133”

[14] L'art. 222 c.p., I e II comma dispone:

...nel caso di proscioglimento per infermità psichica, ovvero per intossicazione cronica da alcool o da sostanze stupefacenti, ovvero per sordomutismo, è sempre ordinato il ricovero dell'imputato in un manicomio giudiziario per un tempo non inferiore a due anni; salvo che si tratti di contravvenzioni o di delitti colposi o di altri delitti per i quali la legge stabilisce la pena pecuniaria o la reclusione per un tempo non superiore nel massimo a due anni (...). La durata minima del ricovero nel Manicomio giudiziario è di dieci anni, se per il fatto commesso la legge stabilisce l'ergastolo, ovvero di cinque se per il fatto commesso la legge stabilisce la pena della reclusione per un tempo non inferiore nel minimo a dieci anni..”

[15]  Cioè: ricovero in manicomio giudiziario o in casa di cura o custodia.

[16] Art. 85 c.p. “nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato se al momento in cui lo ha commesso, non era imputabile.E' imputabile chi ha la capacità di intendere e di volere.”

[17] Art. 202, I comma, c.p.: «Le misure di sicurezza possono essere applicate soltanto alle persone socialmente pericolose che abbiano commesso un fatto preveduto dalla legge come reato.

 Fanno eccezione due particolari casi:a) il cosiddetto delitto impossibile e b) l'istigazione a commettere un reato e l'accordo per commetterlo quando questo non sia commesso.

[18]«... è socialmente pericolosa la persona, anche se non imputabile o non punibile, la quale ha commesso taluno dei fatti indicati nell'articolo precedente, quando è probabile che commetta taluno dei fatti preveduti dalla legge come reati.».

[19] L'applicazione provvisoria della misura di sicurezza, si ha nel caso in cui il giudice che procede valuti che la persona accusata di un reato sia socialmente pericolosa a causa di un vizio di mente. Il tempo trascorso in misura di sicurezza provvisoria, è calcolato nel periodo minimo della misura di sicurezza, eventualmente applicata in modo definitivo.

[20] Abitualità, professionalità, tendenza a delinquere.

[21] Con specifico riguardo alla cronica intossicazione (art. 95 c.p.), la giurisprudenza costante ha sempre sostenuto che questa, per escludere o diminuire l’imputabilità, deve consistere in un’alterazione non transitoria dell’equilibrio biochimico del soggetto, con conseguente alterazione patologica dei processi volitivi ed intellettivi irreversibili, cioè caratterizzata dall’impossibilità di guarigione. Cass. Pen., Sez. I 28.4.1982, Pagani; Sez. I 20.10.1987.

[22] Considerato che lo stato di tossicodipendenza non equivale a quello di cronica intossicazione, diviene decisiva al riguardo una perizia psichiatrica, che nella prassi processuale molto raramente viene eseguita.

[23] Fino a qualche anno fa nelle corti, non si accettava, che il perito presentasse le sue conclusioni riguardo alla personalità dell'imputato in esame. Non era possibile offrire elementi di carattere psicologico, dal momento che il riferimento teorico era ancora quello ottocentesco, secondo cui un'alterazione dell'intelletto o della volontà dipendeva da una lesione che riguardava l'organo cervello, una sua area specifica, e pertanto il magistrato chiedeva che fossero indicate, in maniera esatta, le lesioni che sottendevano a queste limitazioni. Ne discende che tutto quanto fosse attinente all'analisi psicologica, veniva considerato inidoneo alla chiarificazione dei fatti, e addirittura illecito parlarne, tanto che spesso la difesa o il pubblico ministero chiedevano che non si tenesse conto dei riferimenti formulati dal perito che si fondavano sulla cosiddetta analisi psicologica; in La Giustizia penale 1999, parte I: “ I presupposti”. Oggi, naturalmente, è difficile trovare giudici o pubblici ministeri che si oppongano all'analisi della personalità dell'imputato. Spesso, anzi, sono proprio i magistrati a formulare, nel quesito, la richiesta che si proceda ad una valutazione specifica della personalità.

[24] Da alcune recenti perizie si può evidenziare che i quesiti posti, dai vari giudici sono per lo più i medesimi, tanto che risulta possibile standardizzarli così: dica il perito se l’imputato: 1) Nel momento in cui commise il fatto era in stato di mente tale da escludere la capacità di intendere e di volere. In caso di risposta negativa: se tale stato di mente era tale da scemare grandemente, senza escluderla, la capacità di intendere e di volere; 2) Se ciò fosse dovuto ad infermità mentale, o a cronica intossicazione da alcool o da sostanze stupefacenti, oppure a sordomutismo; 3) Se sia attualmente persona socialmente pericolosa. Come si vede, i quesiti 1) e 2) ricalcano fedelmente la lettera degli art. 88 e 89 del codice penale sul vizio totale e parziale di mente.

[25] Cass. Ord. 28 aprile 1988, in Rivista di giurisprudenza penale.

[26] Andreoli V., La perizia psichiatrica, Lezione tenuta il 7 maggio 1999 alla Scuola di Specializzazione in Psichiatria Forense dell'Università del Sacro Cuore di Roma, dal sito www.psychiatryon line.it

 

[27] Il periodo trascorso in esecuzione di misura di sicurezza provvisoria è computato, sia ai fini della durata minima della misura di sicurezza definitiva (se l'imputato sarà poi prosciolto), sia ai fini dell'eventuale condanna a pena detentiva (se sarà condannato).

[28] Ciò accadeva frequentemente negli anni Settanta, quando vi era nelle carceri una vivace protesta per la mancata riforma del codice penale e per la ritardata approvazione della legge di riforma penitenziaria.

[29] Pajardi  P., Lettere al direttore,in Rivista Italiana di Medicina legale,1979, pag.219.

[30] Tartaglione G., Trattamento giuridico dei malati di mente, in Rassegna di studi Penitenziari e Criminologia, 1990, pag.393.

[31] Pajardi  P., Lettere al direttore, in Rivista Italiana di Medicina legale,1979, pag.219.

 

[32] La nozione di pericolosità si collocava nel quadro del modello interpretativo prevalente della patologia psichiatrica, ovvero quello biologico. Tale modello, nella sua formulazione più tradizionale, vede in alterazioni biologiche la causa dei disturbi del comportamento, sottovalutando i fattori psicosociali o interazionali a livello di famiglia, o di società.

[33] Tartaglione G.,Trattamento giuridico dei malati di mente, in Rassegna di studi Penitenziari e Criminologia, 1990, pag.394-395.

 

[34] Pajardi  P., Lettere al direttore,in Rivista Italiana di Medicina legale,1979, pag.219-220.

 

 

[35] Daga L.,Ospedali psichiatrici giudiziari, sistema penale e sistema penitenziario, in Rassegna di studi Penitenziari e Criminologia,1985, pag.11.

[36] Daga L.,Ospedali psichiatrici giudiziari, sistema penale e sistema penitenziario, in Rassegna di studi Penitenziari e Criminologia,1985, pag.12-13.

[37] Daga L.,Ospedali psichiatrici giudiziari, sistema penale e sistema penitenziario, in Rassegna di studi Penitenziari e Criminologia,1985, pag.12-13.

 

[38] Rocchi S., Il percorso legislativo della malattia in Italia, dal sito www.volontariato.it

[39] Rocchi S., Il percorso legislativo della malattia in Italia, dal sito www.volontariato.it

[40] Daga L.,Ospedali psichiatrici giudiziari, sistema penale e sistema penitenziario, in Rassegna di studi Penitenziari e Criminologia,1985, pag.12.

 

[41] I circa 15.000 ospiti ancora presenti nei 57 ospedali psichiatrici italiani (negli anni Settanta, gli internati nei 90 manicomi erano 120.000) verranno quindi collocati entro l’anno in residenze, gruppi famiglia o faranno ritorno nella loro comunità.

[42] Nel tentativo di evitare che i manicomi chiudessero solo "formalmente", le leggi hanno vietato l'uso delle aree dove essi sorgevano per qualunque forma di assistenza psichiatrica, e hanno consentito l'uso di tali aree per i pazienti anziani e disabili, a patto che la psichiatria non se ne occupasse più e li "cedesse", col personale e le strutture necessari, ai servizi socio-assistenziali delle Aziende Sanitarie Locali.

 

[43] Manna A., Il trattamento del malto di mente autore di reato, in Rassegna Italiana di criminologia, 1994, pag.285

[44] Manna A., Il trattamento del malto di mente autore di reato,in Rassegna Italiana di criminologia, 1994, pag.285.

[45] Manna A., Il trattamento del malto di mente autore di reato,in Rassegna Italiana di criminologia, 1994, pag.286-287.

 

[46] Altrettanto critici nei confronti del D.d.l. n.117, sono alcuni psichiatri che appartengono alla corrente "ortodossa", ovvero opposta alla ideologia ispiratrice della legge 180. Essi rifiutano categoricamente l'equiparazione fra malati di mente e sani di mente, che sta alla base del progetto Grossi e della abolizione della non imputabilità. Rifiutano cioè, di considerare uguali persone diverse a causa della malattia mentale, in quanto questo sarebbe il peggiore affronto alla dignità dei malati.

[47] Indubbiamente, tali norme sono indice della volontà di responsabilizzare il soggetto sofferente psichico e di renderlo finalmente partecipe della propria guarigione.

[48] Manna A., Il trattamento del malto di mente autore di reato,in Rassegna Italiana di criminologia, 1994, pag.287.

 

[49] Infatti, nell'ordinamento attuale, la pericolosità sociale è valutata nei termini del "tutto o nulla", ovvero sussiste o non sussiste. Nella pratica si assiste invece a situazioni di attenuazione o di accentuazione della pericolosità, proprio in correlazione al normale andamento clinico della malattia mentale. La normativa attuale si dimostra, da questo punto di vista, troppo rigida e iniqua: l'attenuazione della pericolosità può non essere tale da consigliare una revoca della misura, ma può suggerire un'esecuzione con modalità meno restrittive. Questa graduazione della pericolosità può essere utilizzata, sia per l'eventuale applicazione di misure alternative, sia per la concessione di licenze premio.

In tal modo si realizzano due possibili livelli di esecuzione della misura di sicurezza: uno detentivo e l'altro non detentivo, fuori dall’Ospedale psichiatrico giudiziario.

[50] Il progetto distingue fra l'accertamento in ordine all'imputabilità, che è compiuto con la perizia, e l'accertamento in ordine alla pericolosità sociale che "è compiuto dal giudice con l'acquisizione di ogni utile informazione al riguardo, tenuto conto di quanto è emerso dalla perizia". Quindi il giudice deve svolgere una ricerca basata su elementi di fatto, per l acquisizione dei quali, il perito non può essere delegato.

[51] Nel senso di assicurare la necessità di una proporzione tra reato e sanzione.

[52] Art.27 I comma: “La responsabilità penale è personale”.

[53]  Cass. Pen., Sez. Unite, 29 aprile 1978.

[54] Art. 14, comma III: “ E’ assicurata la separazione degli imputati dai condannati e internati, dei giovani al di sotto degli anni 25 dagli adulti, dei condannati dagli internati e dei condannati all’arresto dai condannati alla reclusione” , il IV comma costituisce un’eccezione:”E’ consentita, in particolari circostanze, l’ammissione di detenuti ed internati ad attività organizzate per categorie diverse da quelle di appartenenza.”

[55]Art.260, I comma.

[56] Art.271-272 R.D. n.787/1931: “Il lavoro deve avere carattere prevalentemente curativo e educativo, ed avere per oggetto l’avviamento ad un’occupazione, che gli possa consentire di vivere onestamente.

 

[57] Art. 38 I comma O.P.: “I detenuti e gli internati non possono essere puniti per un fatto che non sia espressamente previsto come reato”.

[58] I condannati e gli internati ammessi al regime di semilibertà sono assegnati in appositi istituti o apposite sezioni autonome di istituti ordinari…”

[59] Gennaro Bonomo Breda, Ordinamento penitenziario e misure alternative alla detenzione, 1977, Pag. 230-231.

[60]  Secondo l’art.15 reg. esec. “la cessione e la ricezione di somme in peculio fra internati o detenuti sono vietate”.

[61] Manacorta A., Psichiatria clinica e trattamento psichico autore di reato, in Rassegna Italiana di criminologia, Milano, 1993, pag.93-94.

[62] Manacorta A., Psichiatria clinica e trattamento psichico autore di reato, in Rassegna Italiana di criminologia, Milano, 1993, pag.95.

[63] Manacorda A., in Psichiatria clinica e trattamento del sofferente psichico autore di reato, in Rassegna Italiana di criminologia, Milano, 1993, pag.94-96.

[64] Unica eccezione Castiglion delle Stiviere.

[65] Manacorda A., in Psichiatria clinica e trattamento del sofferente psichico autore di reato, in Rassegna Italiana di criminologia, Milano, 1993, pag.96-97.

 

[66] L.Daga in Ospedali psichiatrici giudiziari, sistema penale e sistema penitenziario. Le alternative all’O.P.G e la loro sinora scarsa utilizzazione, 1985, pag. 12-13.

 

[67] Ergoterapia, ludoterapia.

[68] Ingrassia G., Le misure di sicurezza e il trattamento psicofarmacologico, in Rassegna di profilassi criminale e psichiatria, 1970, pag. 107-109.

[69] Ingrassia G., Su alcuni dati di Neuropsicofarmacologia, in Rassegna di profilassi criminale e psichiatria, 1970, pag.33-34.

[70] Dolcini E., La rieducazione del condannato tra mito e realtà, in AAVV, Diritti dei detenuti e trattamento penitenziario, Bologna 1980, pag. 55.

[71] De Fazio F:, Realtà e limiti di compiti terapeutici dei manicomi giudiziari, in Quaderni di criminologia clinica, 1971, pag. 117.

[72] Fortuna S., Custodia o cura: storia e vicende dei manicomi criminali, in Rassegna penitenziaria, 1997, pag.485.

[73] Dolcini E., La rieducazione del condannato tra mito e realtà, in AAVV, Diritti dei detenuti e trattamento penitenziario, Bologna 1980, pag. 56.

 

[74] Art.82 I comma:Gli educatori partecipano all’attività di gruppo per l’osservazione scientifica della personalità dei detenuti e degli internati e attendono al trattamento rieducativo individuale o di gruppo,coordinando la loro azione con quella di tutto il personale.

[75] Emanata in occasione della prima immissione in ruolo di educatori della allora direzione Generale degli istituti di prevenzione e pena.

[76] Art.28 II comma: Quando si ravvisa la necessità di procedere a particolari approfondimenti,i soggetti da osservare sono assegnati,su motivazione proposta dalla direzione,ai centri di osservazione.

[77] Art.80 IV comma: Per lo svolgimento delle attività di osservazione e di trattamento,    l’amministrazione penitenziaria può avvalersi di professionisti esperti in psicologia, servizio sociale, pedagogia, psichiatria e criminologia clinica…

[78] Art.26 I comma: Per ogni detenuto o internato è istituita una cartella personale…

[79] Art.29 III comma: La segreteria tecnica del gruppo è affidata, di regola all’educatore.

[80] Dellissanti A., La figura dell’educatore nell’amministrazione penitenziaria. Compiti e ruolo, bilancio dell’esperienza e prospettive in vista dell’attuazione dell’area educativa, in Rassegna Penitenziaria, 1997, pag. 152.

[81] Art.82 III comma: Collaborano inoltre nella tenuta della biblioteca e nella distribuzione dei libri, delle riviste e dei giornali.

[82] Dellissanti A.,La figura dell’educatore nell’amministrazione penitenziaria compiti e ruolo bilancio dell’esperienza e prospettive in vista dell’attuazione dell’area educativa, in Rassegna penitenziaria, 1997, pag.156, cap.4.4 compiti e ruolo nel servizio di biblioteca.

[83] Definita anche “alleanza terapeutica”.

[84] Lo psichiatra interviene nel sistema della giustizia penale con le seguenti funzioni:1)Come perito su diretto mandato della magistratura, per rispondere,(art. 220 c.p.p.) riguardo la capacità di intendere e di volere di un imputato. 2) Come operatore carcerario nella fase della "osservazione scientifica della personalità" prevista dall'Ordinamento Penitenziario per rilevare le carenze fisiopsichiche e le altre cause del disadattamento sociale, e ciò al fine di formulare indicazioni in merito al trattamento rieducativo. Anche in questo caso la prestazione è effettuata su richiesta della Magistratura, ovvero dell'Amministrazione Penitenziaria. 3) Sempre come operatore carcerario, ma nell'attività di trattamento e di cura, in un ruolo più specificamente terapeutico. 4) Come consulente di parte a favore dell'imputato, ovvero come consulente per conto del pubblico ministero, nel corso delle varie fasi del procedimento penale.

[85] Bandini T., Gatti U. Limiti e contraddizioni dell’opera del criminologo clinico nell’attuale sistema penitenziario italiano, in Rassegna penitenziaria e criminologica, 1980, pag. 165.

[86] Bandini T., Gatti U. Limiti e contraddizioni dell’opera del criminologo clinico nell’attuale sistema penitenziario italiano, in Rassegna penitenziaria e criminologica, 1980, pag. 167.

[87] Ponti G., Merzagora I., Psichiatria e giustizia, 1993, pag.181.

[88] Ponti G., Merzagora I., Psichiatria e giustizia, 1993, pag.18.

[89] Bandini T., Gatti U., Limiti e contraddizioni dell’opera del criminologo clinico nell’attuale sistema penitenziario italiano, in Rassegna Penitenziaria e Criminologia, 1980, pag.169.

 

[90] Fortuna S., Custodia o cura: storia e vicende dei manicomi criminali, in Rassegna penitenziaria, 1997, pag.487.

[91] Psichiatria giudiziaria, Il trattamento dei prosciolti e dei condannati seminfermi di mente, capitolo quarantesimo, pag.776-777.

[92] Dottor Calogero A., primario della sezione maschile dell’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Castiglion delle Stiviere, intervista personale.

[93] Dottor Calogero A., primario della sezione maschile dell’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Castiglion delle Stiviere, intervista personale.

 

[94] Cigarini R., Il trattamento dell’infermo di mente in Ospedale psichiatrico giudiziario, Marginalità e società, n.9, pag.70, 1989.

[95] Le Due città, Che cosa sono gli O.P.G.? Carceri od ospedali? Che cosa fa la società per migliorarli? Rispondono sei direttori, in Rivista dell’amministrazione penitenziaria, maggio 2001, pag.17.

[96] Le Due città, Che cosa sono gli O.P.G.? Carceri od ospedali? Che cosa fa la società per migliorarli? Rispondono sei direttori, in Rivista dell’amministrazione penitenziaria, maggio 2001, pag.18.

[97] Valeria Calevro, direttrice dell’O.P.G. di Reggio Emilia.

[98] Nunziante Rosanìa, direttore O.P.G di Barcellona Pozzo di Gotto.

[99] Per esempio, le gite per i ricoverati fatte ormai sistematicamente in accordo con la Magistratura di sorveglianza e con l’ausilio dei volontariati

[100]L’istituto è stato, infatti, costruito o comunque progettato negli anni delle emergenze del terrorismo e quindi con una struttura veramente segregante.

[101] Le Due città, Che cosa sono gli O.P.G.? Carceri od ospedali? Che cosa fa la società per migliorarli? Rispondono sei direttori, in Rivista dell’amministrazione penitenziaria, maggio 2001, pag.18.

[102] Ci sono i semi-infermi insieme con i prosciolti, con gli internati e gli osservandi, cioè persone che vengono dal carcere e devono stare un mese per fare l'osservazione psichiatrica, insieme con i prosciolti, che stanno in Istituto magari da diversi anni

[103] Per il momento limitato esclusivamente ai ricoverati che sono residenti in Emilia Romagna.

[104] Le Due città, Che cosa sono gli O.P.G.? Carceri od ospedali? Che cosa fa la società per migliorarli? Rispondono sei direttori, in Rivista dell’amministrazione penitenziaria, maggio 2001, pag.18-19.

[105] Le strutture penitenziari, infatti, inviano in osservazione, per 30 giorni detenuti in attesa di giudizio e hanno posizione giuridica definitiva, per i quali è necessario avere uno studio della loro condizione psichiatrica per valutare se possono o meno permanere nelle strutture penitenziarie ordinarie, oppure se hanno bisogno, in applicazione dell'art. 148, di cure che devono essere espletate in OPG.

[106] Il 50% degli internati, ha commesso reati gravi verso la persona, ma un altro 50% si trova nella situazione di avere commesso reati generati da maltrattamenti in famiglia, espressioni del disagio lacerante, che la malattia mentale porta nella famiglia, e del fallimento degli interventi della società civile. Ci sono, anche casi di simulazione: cioè la simulazione di chi è emarginato anche in carcere, di chi, non riesce a tollerare il regime custodiale forte che c'è in alcuni istituti, sovraffollati, e dove i soggetti più deboli,finiscono con il soccombere;questi soggetti, talora, cercano proprio rifugio in O.P.G.

[107] Le Due città, Che cosa sono gli O.P.G.? Carceri od ospedali? Che cosa fa la società per migliorarli? Rispondono sei direttori, in Rivista dell’amministrazione penitenziaria, maggio 2001, pag.19.

[108] Direttore dell’O.P.G di Montelupo Fiorentino.

[109] Tartaglione G., Trattamento giuridico dei malati di mente, in Rassegna di studi penitenziari e criminologia, 1990, pag.391.

[110] La realizzazione delle psicoterapie di gruppo nell’O.P.G. di Aversa, dal sito www.opgaversa.it.

[111] Laboratorio di espressione con il colore, dal sito www.opgaversa.it.

[112] Musicoterapia in Ospedale Psichiatrico Giudiziario. Un'ipotesi fantastica per far crescere i fiori nel cemento, dal sito www.opgaversa.it.

[113] Sentenza n. 106 del 1972.

[114]Questo perché le sezioni speciali nei normali ospedali non sono state ancora in tutta Italia attuate, con il risultato che molti malati mentali sono ora trattati nelle loro famiglie.

[115] Manna A., Il trattamento sanzionatorio del malato di mente autore e le prospettive di riforma in Rassegna italiana di criminologia, 1994,cap.3, pag.275-277.

[116] Manna A., Il trattamento sanzionatorio del malato di mente autore e le prospettive di riforma in Rassegna italiana di criminologia, 1994, cap.3, pag.279-280.

[117]  Così per esempio, le sentenze n.68/1967, in Giur.Costi.1967, p.742; n.1/1972; n.19/1974.

[118] Sent. N.313/1990, in Foro It.1990, I, pag. 2385 ss.

[119] Manna A., Il trattamento sanzionatorio del malato di mente autore e le prospettive di riforma in Rassegna italiana di criminologia, 1994, cap.4, pag.282-283.

[120] Come, ad esempio in Germania.

[121] Manna A., Il trattamento sanzionatorio del malato di mente autore e le prospettive di riforma in Rassegna italiana di criminologia, 1994, cap.5, pag.284.

 

[122] De Fazio F., A proposito della chiusura dei manicomi giudiziari, in Rassegna di criminologia, 1978, vol.IX, pag.177.

[123] Zappa G., Romano C. A., Infermità di mente, pericolosità sociale e misure di sicurezza alla prova degli anni duemila, in Rassegna Penitenziaria e criminologia, 1999, pag.96.

[124] Zappa G.,Romano C. A., Infermità di mente, pericolosità sociale e misure di sicurezza alla prova degli anni duemila, in Rassegna Penitenziaria e criminologia, 1999, pag.98.

 

[125] "Delega al Governo per la razionalizzazione del Servizio sanitario nazionale e per l'adozione di un testo unico in materia di organizzazione e funzionamento del Servizio sanitario nazionale. Modifiche al decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502"

pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 286 del 7 dicembre 1998

 

[126] Zappa G., Romano C. A., Infermità mentale, pericolosità sociale e misure di sicurezza alla prova degli anni duemila, in Rassegna Penitenziaria e criminologia, 1999, pag.106.

[127] C.d. Legge Simeoni.

[128] Schisa B.,Una volta li chiamavano manicomi giudiziari, Il Venerdi di Repubblica, 13 luglio 2001, profess. Ferraro, pag.54.

[129] Gandolfi S., Micheletti V.,Raponi G.,.Ronzini F.,Limiti e prospettive di un’esperienza in senso comunitario dopo tre anni dal suo inizio: la sezione giudiziaria dell’ospedale psichiatrico di Castiglion delle Stiviere, in Rivista sperimentale di Freniatria,XCVIII,1974, pag. 122.

Sulla data ci sono indicazioni contrastanti. Secondo altre fonti essa risalirebbe al 28.8.1939.

[130] Schisa B.,Una volta li chiamavano manicomi giudiziari, Il Venerdi di Repubblica, 13 luglio 2001, profess. Ferraro, pag.54.

[131] Il numero degli infermieri dipende dal numero degli internati.

[132] Previsto dall’art.16 O.P. II comma: “Le modalità di trattamento da seguire in ciascun istituto sono disciplinate nel regolamento interno..”.

[133] Dal novembre del 1998 si è completato il definitivo trasferimento.

[134]  I servizi igienici sono conformi alle caratteristiche tecniche previste per la costruzione degli edifici ospedalieri.

[135] Oltre al Bar sono presenti altre aree di svolgimento di attività ricreative: la zona lettura, la biblioteca, la sala per la proiezione di films, il laboratorio di pittura.

 

[136] Dottor Michel Schiavon, direttore dell’O.P.G., intervista personale.

[137] L’assistenza specialistica psichiatrica è integrata con prestazioni mediche specialistiche, erogate nel contesto di una struttura poliambulatoriale interna all’O.P.G., per altre specifiche esigenze i pazienti sono inviati all’Ospedale Civile di Castiglion delle Stiviere.

[138] Denominato “Surge et ambula”.

[139] Dal lunedì al mercoledì, il giovedì è dedicato al murale presso il reparto femminile.

[140] Dottor Antonino Calogero, primario della sezione maschile, intervista personale.

[141] Queste si svolgono tutti i giorni dal lunedì al venerdì.

[142] L’Enaip svolge dei corsi di formazione professionale regionale.Da anni è attivata una convenzione con l’Enaip di Mantova per il percorso formativo professionale dei singoli pazienti. Si svolgono due corsi, uno a Mantova e uno a Castiglione, quest’ultimo all’interno dell’O.P.G.

[143] Quattro giorni a Pienza e provincia di Siena.

[144] Dottor Calogero, intervista personale.

[145] I reparti sono quattro: due maschili e due femminili.

[146] Nel questionario, (questionario attività ), ci sono 19 domanda; nella quali li viene chiesto al paziente cosa fa durante la giornata, nel tempo libero, che cosa vorrebbe fare, con chi trascorre la maggior parte del tempo, quali giornali vorrebbe leggere o film vorrebbe vedere, ecc,ecc.

[147] Ogni operatore compila in seguito la “Scheda di rivelamento dei bisogni”, in cui viene fatta la diagnosi, indicato il giudizio di validità della valutazione (da 1 a5=molto attendibile ) e i motivi di un’eventuale difficoltà nella valutazione ( per es. mancanza di collaborazione da parte del paziente, ecc.).

 

[148] Dottor Calogero, intervista personale.

[149] L’orario di apertura delle visite è previsto tutti i giorni.

[150] Passaggi che vengono fatti con preventivi inserimenti nel proprio territorio, attraverso i permessi, previamente concordate con i Servizi psichiatrici territoriali.

[151] Analoga sperimentazione, denominata “Edera” è attiva presso la sezione femminile.

[152] Art.29: Programma individualizzato di trattamento: Il programma di trattamento contiene le specifiche indicazioni di cui al terzo comma dell'articolo 13 della legge, secondo i principi indicati nel sesto comma dell'articolo 1 della stessa.

 La compilazione del programma è effettuata da un gruppo di osservazione e trattamento presieduto dal direttore dell’istituto e composto dal personale e dagli esperti che hanno svolto le attività di osservazione indicate nell’articolo 28.

 Il gruppo tiene riunioni periodiche, nel corso delle quali esamina gli sviluppi del trattamento praticato e i suoi risultati.

 La segreteria tecnica del gruppo è affidata, di regola, all'educatore.

 

[153] In particolare il progetto di legge della regioni Emilia Romagna, Toscana e della Fondazione Michelacci di Firenze, inviato alle camere e pubblicato in “Supplemento speciale del Bollettino Ufficiale della Regione Emilia Romagna”n.166, 20 gennaio 1997.Tale proposta prevede la misura dell’“assegnazione ad apposito istituto in regime di custodia” per fatti per i quali la legge prevede nel massimo una pena non inferiore a dieci anni di reclusione. Questi istituti dovrebbe sostituire gli O.P.G.,riducendone le dimensione (max 30 internati) ed inoltre dovrebbero essere costituiti su base regionale ; proprio al fine la vicinanza ai luoghi di residenza. (art.5).

 

[154] I dati socio anagrafici di ciascun internato, sono stati raccolti dai rispettivi fascicoli personali.

[155] Questo non pone particolari problemi se si considera la funzione ell’O.P.G. e cioè la cura delle patologie mentali cui è collegato un certo grado di pericolosità.Appare, infatti, coerente con gli scopi non punitivi dell’O.P.G. che il singolo una volta raggiunto un certo equilibrio e cessata la pericolosità possa essere dimesso, indipendentemente dalla natura e dalla gravità del rato.