News | Perché nasce Antigone TOSCANA | Documenti | Iniziative | Links

UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI PISA

FACOLTA’ DI GIURISPRUDENZA

 

Tesi di Laurea

Il trattamento penitenziario dei collaboratori di giustizia nella legge 13 febbraio 2001, n°45

 

Anno Accademico 2000/2001

 

 

Massimo Pennacchi

 

 

INDICE

 

CAPITOLO II

Collaboratori di giustizia e sistema di protezione nella nuova previsione normativa.

 

1 Le linee ispiratrici del provvedimento.

 

2 Condizioni di applicabilità delle misure di protezione.

a). Rapporto tra programma di protezione e fattispecie penali.

 

b). Requisiti della condotta collaborativi

 

c). Situazione di pericolo e differenziazione degli strumenti di protezione.

 

3. Gli organi titolari del potere di proposta.     

 

4. La Commissione Centrale

 

5. Il Servizio Centrale di Protezione.  

 

6. Assunzione degli impegni, revoca e modifica delle speciali misure di protezione.

 

7. Le misure di assistenza. 

 

 

CAPITOLO III

Il  trattamento penitenziario.

 

1 Evoluzione della fattispecie collaborativa alla luce della legislazione del " doppio binario": le scelte della politica penitenziaria contro la criminalità organizzata.

 

2 Collaborazione con la giustizia e sistema premiale: la scelta di ricompensare le condotte collaborative in sede esecutiva.

 

3. Rapporto tra collaborazione con la giustizia e procedimento di sorveglianza.

 

4 Gli interventi sintomatici della Corte Costituzionale.

 

5 I Profili penitenziari sistematici della legge 13 febbraio 2001.

 

6 I presupposti per l'ammissione ai benefici penitenziari.

 

a). Importanza del contributo.

 

b). Il ravvedimento.

 

c). Esclusione della sussistenza di collegamenti con la criminalità organizzata.

 

d). Espiazione di un periodo minimo di pena.

 

7 Le misure alternative alla detenzione per i collaboratori di giustizia: caratteristiche e tipologia.

 

8 Collaboratori di giustizia e trattamento carcerario.

 

9 La disciplina transitoria.

 

CONSIDERAZIONI FINALI

 

BIBLIOGRAFIA

 

 

CAPITOLO II

Collaboratori di giustizia e sistema di protezione nella nuova previsione normativa.

1.     Le linee ispiratrici del provvedimento.

Il nuovo testo normativo si articola in quattro sezioni: nella prima sono trattati i temi concernenti le modifiche all’attuale sistema di protezione, nella seconda viene per la prima volta regolamentato lo status del testimone di giustizia, nella terza le modifiche al trattamento sanzionatorio e penitenziario dei collaboratori, nella quarta infine sono trattati i temi relativi al coordinamento normativo e alla destinazione dei patrimoni dei collaboratori. Il provvedimento è ispirato a tre idee-guida: la distinzione del momento premiale dal momento tutorio, la “selezione qualitativa dei collaboratori” e l’assicurazione di una piena trasparenza nella gestione processuale degli stessi.[1] La nostra attenzione in questo capitolo verterà sul Capo I della legge, specificatamente dall’ articolo 1 all’articolo 11 che modifica la disciplina dettata dal Capo II del D.L. n° 8/1991 intervenendo sulle condizioni di applicabilità delle misure di protezione, sui contenuti delle misure stesse, sulle procedure e sulle competenze previste per la loro adozione, nonché sulla struttura della commissione centrale e del servizio centrale di protezione.

2.     Condizioni di applicabilità delle misure di protezione.

a). Rapporto tra programma di protezione e fattispecie penali.

Il primo aspetto su cui la legge incide in maniera significativa riguarda l’ingresso nella protezione: l’art.2 comma 2 della legge  modifica integralmente l’art.9 del decreto legge 15/01/1991 n°8, delimitando infatti l’operatività delle speciali misure di protezione e del programma speciale ai casi di collaborazione che riguardano esclusivamente delitti commessi per finalità terroristico-eversive e i delitti specificatamente ricompresi dall’art. 51 comma 3 bis c.p.p.; si tratta sicuramente di una innovazione significativa, considerato che il vecchio riferimento all’art.380 c.p.p. era stato fonte di aspre polemiche ed aveva contribuito ad una crescita non più controllabile del fenomeno collaborativo.[2]  Tuttavia anche la nuova disciplina rischia di suscitare delle critiche [3],  considerato come una utilissima collaborazione possa trovare l’occasione anche in delitti non di stampo mafioso o comunque non ricompresi dall’art.51 comma 3 bis c.p.p. ; così la norma esclude da ogni misura speciale di protezione il soggetto che abbia prestato collaborazione in riferimento ad una pluralità di omicidi commessi in ambito di criminalità organizzata, ma non di stampo mafioso come accade per i gruppi criminali emergenti, ovvero il trafficante di sostanze stupefacenti che tuttavia non risulti inserito in una organizzazione corrispondente alla previsione di cui all’articolo 74 del DPR n°309/1990. Perciò se la collaborazione per questi altri reati dovesse esporre il collaboratore a grave ed attuale pericolo, non si potrà fare altro che ricorrere alle misure ordinarie di protezione che non comprendono però accorgimenti significativi, quali il trasferimento in comuni diversi da quelli di residenza e le misure di assistenza economica.

b). Requisiti della condotta collaborativa

L’art. 2 comma 3 della legge n°45/2001 riforma ampiamente anche le caratteristiche che la condotta collaborativa deve avere per poter attivare il programma di protezione. Infatti con la nuova normativa assumono rilievo le dichiarazioni intrinsecamente attendibili e che presentino inoltre, carattere di novità o di completezza ovvero appaiano per altri elementi di notevole importanza “ per lo sviluppo delle indagini o ai fini del giudizio ovvero per le attività di investigazione sulle connotazioni strutturali, le dotazioni di armi, esplosivi o beni, le articolazioni o i collegamenti interni o internazionali delle organizzazioni criminali di tipo mafioso o terroristico- eversivo o sugli obbiettivi, le finalità e le modalità operative di dette organizzazioni”.

L’intento del legislatore è duplice: in primo luogo, si vuole privilegiare la collaborazione funzionale alla investigazione preventiva, che consenta perciò di accertare le connotazioni, gli obbiettivi, le dotazioni e i collegamenti delle organizzazioni mafiose od eversive.[4]  Durante l’approvazione del provvedimento normativo al Senato, si deve però registrare un’importante modifica al testo originario consistente nella eliminazione del riferimento alla indispensabilità della collaborazione; [5] il pericolo- sottolineato dal Senatore Russo- riguardava il fatto che i requisiti della novità, attendibilità, completezza ed indispensabilità della collaborazione fossero prefigurati in una formula ecessivamente rigorosa, anche avuto riguardo alla considerazione che essi sono finalizzati all’ammissione alle misure o allo speciale programma di protezione, e non ad una loro attendibilità a fini probatori.[6] Inoltre bisogna considerare  anche le dichiarazioni che non siano completamente nuove, ma non per questo non rivestano caratteristiche tali da imporre  comunque la protezione del collaboratore sia per la serietà delle dichiarazioni, sia perché espongono il soggetto a pericolo di ritorsioni.

Tale argomentazione trova la conferma anche nel settore  penitenziario, dove si deve evidenziare che sulla questione della indispensabilità della collaborazione prospettata nella fattispecie originaria di cui all’art.16 ter introdotto dall’art.12 del provvedimento in oggetto, come un requisito necessario per la concessione  dei benefici penitenziari, la Corte Costituzionale abbia sottolineato situazioni in cui la condotta collaborativa non era di fatto esigibile e che in tali ipotesi comunque non potevano essere negati i sopracitati benefici. [7] Per tutti questi motivi è stato eliminato il riferimento alla indispensabilità della collaborazione, per cui potranno assumere rilievo anche le dichiarazioni che, seppure non completamente indispensabili, appaiono di notevole importanza riguardo le attività di investigazione su strutture, obbiettivi, finalità e modalità operative delle organizzazioni criminali. Inoltre risulta evidente come, considerata la ratio dell’emendamento presentato dal Senatore Russo e approvato successivamente anche dalla Camera, i requisiti della novità, completezza e importanza delle dichiarazioni del collaboratore debbano essere interpretate alternativamente e non congiuntamente tra di loro, proprio per evitare che possano essere apprezzate solo le condotte collaborative che si pongano come fonte primaria e unica nella vicenda giudiziaria che veda coinvolto il soggetto.[8] Tale argomentazione trova esatta conferma nell’emendamento presentato dal senatore Caruso e finalizzato a precisare ulteriormente la modifica apportata dal senatore Russo.[9] Infatti esso non ha una portata rilevante dal punto di vista sostanziale, salvo il fatto che è parso ai presentatori che la nuova dizione fosse più opportuna, cioè evidenziasse maggiormente come dovesse essere realizzata la congiunzione tra uno dei requisiti (l’intrinseca attendibilità) e gli altri (la novità, la completezza e la notevole importanza) in alternativa fra di loro. Tale proposito, espressamente enunciato dal proponente, viene realizzato attraverso la suddivisione dell’unico periodo relativo al testo dell’art.2 comma 3 della legge n°45/2001, che era stato approvato inizialmente dalla commissione giustizia del Senato.[10] Inoltre, il riferimento alla intrinsecità come parametro di valutazione dell’attendibilità delle dichiarazioni, pur non escludendo da tale verifica di credibilità l’eventuale apporto di elementi di obiettivo riscontro, ben si ricollega al vaglio del verbale illustrativo dei contenuti della collaborazione, il quale dovrebbe assicurare l’effettiva selezione dei collaboratori dal punto di vista qualitativo, prescindendo dall’eventuale già intervenuta acquisizione dei riscontri cosiddetti “estrinseci”.[11]  Per ciò che riguarda il requisito dell’importanza del contributo offerto dal collaboratore bisogna sottolineare un’ulteriore elemento: per la prima volta emerge chiaramente la volontà del legislatore di eliminare, ai fini della proponibilità del programma di protezione, tutte le situazioni connotate da mera potenzialità della collaborazione offerta alla giustizia, limitando tali misure speciali ad ipotesi di collaborazione e pericolo chiaramente conclamate. La normativa attuale compie perciò un notevole miglioramento rispetto alla vecchia disciplina di cui all’art. 11 del d.l. n°8/1991; qui si faceva riferimento all’importanza del contributo offerto per lo sviluppo delle indagini o per il giudizio penale, senza specificare l’oggetto e il merito di tale contributo, favorendo inoltre non solo la collaborazione fornita, ma anche quella in “divenire”.[12] La nuova disciplina si colloca all’interno del “percorso normativo” già adottato dall’art. 2 del decreto interministeriale 24 novembre 1994, n°687; per eliminare il pericolo di concedere le speciali misure di protezione alle situazioni connotate da mera potenzialità della collaborazione offerta alla giustizia, l’art.2 prevedeva come, per evidenziare l’importanza del contributo offerto, la proposta del Procuratore della Repubblica di ammissione al programma di protezione dovesse contenere “ i principali fatti criminosi sui quali il soggetto proposto sta rendendo le dichiarazioni e i motivi per i quali esse sono ritenute attendibili e importanti per le indagini e il giudizio”; inoltre la proposta doveva precisare a quale gruppo criminale appartenesse il soggetto e il ruolo da lui ricoperto al suo interno. Risulta evidente quindi come l’art.2 comma 3 abbia la finalità di promuovere una selezione qualitativa dei collaboratori attraverso una ulteriore “specializzazione” del contributo offerto all’autorità inquirente, cercando altresì di evitare atteggiamenti troppi rigidi il cui rigore si concilia male col momento iniziale delle indagini e rischia di dilatare enormemente i tempi per la concessione delle speciali misure di protezione.[13] Naturalmente l’auspicata finalità legislativa dipenderà in buona sostanza dall’adesione dei pubblici ministeri, giudici, magistrati di sorveglianza allo spirito della nuova normativa, più determinante dell’innalzamento del tasso di prescrittività e dell’iterazione di aggettivi nelle singole disposizioni.[14]

c). Situazione di pericolo e differenziazione degli strumenti di                  protezione.

L’art.2  comma 2 e  comma 4,  l’art.6 comma 4 e comma 5 della legge

n° 45/2001 mostrano chiaramente “l’intento del legislatore di  costruire   una  serie  progressiva di strumenti tutori che vanno dalle ordinarie misure di tutela, alle speciali misure di protezione ed infine allo speciale programma di protezione e di assicurare una maggiore selettività nella utilizzazione di tali strumenti”.[15] Al fine di sottolineare le esigenza di trasparenza nella gestione e nella protezione dei collaboratori, sono stati precisamente indicati i vari tipi di misure di protezione e si è specificato che solo il programma di protezione prevede una forma di assistenza continua e prolungata, mentre le ordinarie misure tutorie consistono in servizi di tutela temporanea per i collaboratori e i conviventi.[16] Perciò si prevede una gradazione delle misure di protezione: misure ordinarie, cui provvede sempre l’autorità di Pubblica Sicurezza ovvero, nel caso di persone detenute, il dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria; misure speciali di protezione da adottarsi, quando risultino inadeguate le prime, dalla Commissione Centrale; il loro contenuto è demandato ad un apposito decreto interministeriale previsto dall’art. 17 bis, ma l’art.6 comma 4 ha cura di specificare che esso può essere rappresentato “dalla predisposizione di accorgimenti tecnici di sicurezza, dall’adozione delle misure necessarie per i trasferimenti in comuni diversi da quelli di residenza…. nonché dal ricorso, nel rispetto delle norme dell’ordinamento penitenziario, a modalità particolari di custodia in istituti”.  Analizzando attentamente questa disposizione, emerge una importantissima novità: infatti il  testo del sostituito art.13 prevedeva che “ lo speciale programma di protezione” potesse comprendere “ le misure necessarie per garantire la riservatezza, secondo le modalità stabilite dal decreto di cui al comma 3 dell’art.10, anche in deroga alle vigenti disposizioni in materia penitenziaria”: risulta quindi evidente la maggiore rigidità del trattamento che con la nuova legge si è voluto riservare ai collaboratori.[17]  Considerando inoltre che la nuova legge ha abrogato espressamente gli artt. 13 bis e 13 ter del decreto legge n°8/1991, è evidente come sia le speciali misure di protezione di cui al nuovo art.13 comma 4 del sopracitato decreto, sia il programma di protezione di cui al nuovo art.13 comma 5, non possano più rappresentare una deroga alle disposizioni penitenziarie e conseguentemente la “chiave” per ottenere benefici di fatto illimitati.

Questo rappresenta il primo significativo aspetto in cui la nuova legge rompe  la  “commistione”,  effettuata  dalla  normativa  precedente, tra

momento premiale e momento tutorio; la protezione deve essere legata esclusivamente alla situazione di pericolo e ,se questa non c’è, è ovvio che non devono essere adottate misure di protezione, mentre l’attenuante per la collaborazione e i benefici premiali hanno una loro  autonoma disciplina che verrà accordata quando ne ricorreranno i presupposti.[18]

Quando risulti l’inadeguatezza sia delle ordinarie misure di tutela, sia delle speciali misure di protezione, la Commissione potrà adottare un programma di protezione il cui contenuto, anch’esso rimesso al decreto interministeriale di cui all’art. 17 bis della presente legge, è in parte predeterminato dall’art.6 comma 5 e comprende, oltre a tutte le speciali misure di protezione, speciali modalità di documentazione e comunicazione al servizio informatico, cambiamento delle generalità, e tutte le misure di assistenza, sia sociale che economica. In sostanza, il programma speciale di protezione viene riservato ai casi in cui neppure le speciali misure di protezione risultino adeguate alla gravità ed attualità del pericolo cui versa il collaboratore, e conseguentemente le misure di assistenza, che analizzeremo in seguito, potranno essere accordate solo nei casi più gravi. La volontà del legislatore è chiara: le tanto criticate e discusse misure volte a favorire il reinserimento sociale  della  persona  protetta  anche da un punto di vista  economico

potranno essere concesse solamente dal programma speciale di protezione, come ultima ed estrema “ratio”.  Perciò    la   possibilità di   

scegliere tra misure speciali e programma speciale non dipende dalla qualità o dalla rilevanza del contributo offerto, ma dalla oggettiva situazione di pericolo, come prevede la formulazione dell’art.2 comma 2 e comma 4.[19] La situazione di pericolo deve sempre essere grave ed attuale, ma anche in questo caso si registrano due innovazioni: in primis, per valutare la gradazione della situazione di pericolo, si terrà conto oltre che dello spessore delle condotte di collaborazione o della rilevanza e qualità delle dichiarazioni rese, anche delle “caratteristiche di reazione del gruppo criminale in relazione al quale la collaborazione o le dichiarazioni sono rese, valutate con specifico riferimento alla forza di intimidazione di cui il gruppo è localmente in grado di valersi”. Tale riferimento pone indubbiamente alcuni aspetti critici: non pare logico infatti ammettere le misure di protezione per un collaboratore solo se l’organizzazione mafiosa di cui egli abbia rivelato struttura e crimini sia operante nel territorio in cui egli risiede.

Si può sostenere che il collaboratore che abbia rivelato quanto a sua conoscenza   su   Cosa   nostra   o   sulla  camorra  non  sia  soggetto  a solo per il fatto di non risiedere in una zona a rischio? [20] In questo caso risulta evidente come una interpretazione rigorosa della norma potrebbe portare a risultati iniqui e ingiustificabili: tutto dipenderà dall’operato e dalla intelligenza dei singoli procuratori della repubblica chiamati a proporre l’attivazione del programma di protezione, e dei membri della commissione titolari del potere di concederla.

In secondo luogo, l’intento del legislatore di selezionare rigorosamente il numero delle collaborazioni opera su un altro settore: l’art.2 comma 5 prevede infatti come le speciali misure di protezioni risultino applicabili alle persone che, a qualunque titolo, convivono stabilmente con il collaboratore, nonché anche a coloro che risultino esposti a grave, attuale e concreto pericolo a causa delle relazioni intrattenute con la persona protetta. Infine viene stabilito il principio secondo cui il solo rapporto di parentela, affinità o coniugio non determini, in difetto di stabile coabitazione, l’applicazione automatica delle misure.   Nonostante i primi rilievi critici sollevati in  relazione a

tale norma[21], altri autorevolissimi esponenti della magistratura hanno accolto favorevolmente l’ingresso di tale disposizione[22]; infatti l’esperienza dei primi anni di applicazione della precedente normativa ha dimostrato come la tendenza fosse quella di applicare automaticamente il programma di protezione ai familiari del collaboratore, sulla base perciò del solo rapporto di parentela e senza un’analisi effettiva della sussistenza della gravità ed attualità del pericolo; come sottolineato dal Procuratore Laudi, non erano rari i casi in cui i parenti del collaboratore prendevano le distanze da tale scelta in modo netto ed esplicito, anche perché appartenenti anch’essi ad organizzazioni criminali, e quindi tale “ estensione automatica” appariva priva di motivazione. Con la nuova disposizione introdotta dall’art. 2 comma 5 si è voluto incidere su questa prassi pericolosa, inducendo perciò i Procuratori della Repubblica a richiedere l’ammissione allo speciale programma di protezione nei confronti dei familiari solo in presenza di reali situazioni di pericolo e senza giudizi presuntivi di tipo assoluto[23].

3. Gli organi titolari del potere di proposta.     

Tale settore viene ridisegnato dall’art.4 della legge n°45/2001, che modifica completamente l’art.11 del decreto legge 15/01/1991,n°8.

Anche in questo caso la normativa compie un passo avanti decisivo, considerato che viene realizzata una specificazione dei soggetti “attori” che consente di superare le difficoltà interpretative del vecchio art.11 del d.l. n°8/1991[24]: così viene stabilito che la proposta di ammissione al programma venga formulata dal Procuratore della Repubblica il cui ufficio procede o ha proceduto per i fatti indicati nelle dichiarazioni, ex art. 4 comma 1; nel caso in cui sul fatto abbia proceduto la Direzione Distrettuale Antimafia la proposta è formulata  dal procuratore distrettuale ovvero, qualora ad essa non sia preposto quest’ultimo, da un suo delegato, ex art.4 comma 1, ultimo periodo; nei casi di indagini collegate ai sensi dell’art. 51 comma 3 c.p.p., la proposta viene formulata da uno degli uffici procedenti d’intesa con gli altri e comunicata al procuratore nazionale antimafia, che risolverà il contrasto tra essi nell’eventuale caso di mancato accordo, ex art.4 comma 2; infine, qualora la situazione abbia ad oggetto delitti commessi per finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine costituzionale, la proposta viene formulata d’intesa tra i procuratori generali presso le corti d’appello interessate, ex art.4 comma 2 ultimo periodo.

La nuova legge ha perciò il pregio di individuare minuziosamente ed esplicitamente gli organi titolari del potere di proposta dell’ammissione alle misure di protezione, con un dato tuttavia critico che va sottolineato. Infatti, con evidente asimmetria rispetto alla disciplina prevista per le indagini collegate per i reati di mafia, per quelle in materia di terrorismo non vi è nessuna previsione circa la possibilità di insorgenza di contrasto tra i procuratori generali interessati, né tanto meno sulla individuazione dello strumento giuridico idoneo alla sua soluzione. Sarebbe stato forse più coerente con il ruolo istituzionale dei procuratori generali stabilire che la proposta fosse loro comunicata e che fosse richiesto il loro intervento attivo solo nel caso di persistenza del contrasto tra diversi uffici del pubblico ministero.[25] Tuttavia nella prassi bisogna sottolineare come si verificheranno pochi casi di contrasto tra i diversi uffici del pubblico ministero, alla luce anche dell’esperienza precedente[26]: si può quindi concludere affermando che il problema prospettato potrà essere risolto dalla professionalità e dalla intelligenza dei procuratori chiamati a “gestire” nei fatti il collaboratore[27].

La nuova linea normativa esprime una scelta precisa effettuata in Commissione giustizia del Senato e volta, in primis, a mantenere i poteri del Procuratore Nazionale Antimafia entro un modulo procedurale che escluda pericoli di interferenza da parte del medesimo nell’esercizio di funzioni normalmente riservate ai singoli procuratori distrettuali[28]; in secondo luogo, la valutazione effettuata in Commissione esprime “il convincimento che la scelta del percorso per conseguire  il  necessario   coordinamento  nel caso  della  proposta  di

ammissione alle speciali misure di protezione nell’ambito di indagini collegate ai sensi dell’art.371 c.p.p., non possa prescindere dalle esigenze sostanziali sottese a tali ipotesi”.[29] In tale ottica occorre un coinvolgimento effettivo degli uffici del pubblico ministero che procedono, poiché essi sono in possesso degli elementi relativi alle caratteristiche del contributo della persona che rende le dichiarazioni: l’intento del legislatore è perciò quello di realizzare una “strategia” unitaria tra i vari uffici del pubblico ministero interessati, volta a sfruttare nel miglior modo possibile le dichiarazioni rese dal collaboratore.[30] In questo contesto, il “coinvolgimento” del Procuratore Nazionale Antimafia nel procedimento per l’ammissione al programma, anche alla luce delle altre norme che analizzeremo in seguito, appare un corollario naturale delle funzioni di coordinamento investigativo e centralizzato dei dati sulla criminalità mafiosa che l’art.70 bis o.g. e l’art.371 bis c.p.p. assegnano al procuratore nazionale. La stessa Direzione Nazionale Antimafia, così come concepita nel nostro ordinamento, assume la fisionomia di organo di coordinamento e di raccolta dati oltreché di supporto tecnico e di risoluzione di contrasti.[31] In un corretto rapporto istituzionale la Procura nazionale antimafia, già destinataria di tutte le dichiarazioni dei soggetti che collaborano a indagini giudiziarie proprio perché unico ufficio a conoscenza del complesso delle dichiarazioni fatte anche a diverse autorità giudiziarie, potrà effettuare una verifica e un controllo, sia pure cartolare, della coerenza e della coincidenza delle stesse e quindi attribuire loro un tasso di attendibilità altrimenti non conseguibile. Né questo può essere visto o appreso come “ indebita intrusione” da parte del Procuratore nazionale sul concreto lavoro investigativo dei magistrati delle singole Direzioni distrettuali giacché è di tutta evidenza che, nel vaglio da operarsi dall’Ufficio Nazionale, non   può   intravedersi   alcuna   sovrapposizione   nelle  indagini   ma      

semmai una omologazione delle procedure e dei sistemi di protezione anche alla stregua del diverso grado di pericolo corso dai soggetti da proteggere.[32]

Importanti e significative sono anche le modifiche riguardanti la posizione del Capo della Polizia: anch’esso è legittimato a formulare la proposta ma deve acquisire il parere del procuratore della repubblica competente, e in caso di indagini collegate, questo  è espresso d’intesa con gli altri procuratori interessati, come si evince dal nuovo art.11, comma 3. Ma la novità più importante riguarda l’eliminazione della possibilità di disporre le misure urgenti, come prevedeva il disposto del vecchio art.11 comma 1; il nuovo art.13, comma 1 prevede infatti che, per i casi di eccezionale urgenza che non consentono la tempestiva deliberazione della commissione, il Capo della Polizia possa solo autorizzare l’autorità di pubblica sicurezza ad avvalersi degli specifici stanziamenti previsti dall’art.17 e destinati alle misure di tutela e protezione.  I poteri contemplati nella legge n°82/1991 assegnavano al Capo della polizia un ruolo in via principale molto pericoloso: egli infatti poteva ricorrere, nei casi di particolare urgenza  di  cui  al  comma 1  dell’art.11,  alle  misure necessarie e poi

provvedere ad informare di ciò il Ministro: la particolare latitudine di tale disposizione configurava una discrezionalità amministrativa dai contorni indefiniti.  Il rischio più grande era  dato dal fatto che i contenuti delle misure di protezione e di assistenza erano determinate unilateralmente e senza la dialettica con gli altri organi. Il Capo della Polizia poteva infatti fare a meno sia del parere del procuratore della repubblica sull’importanza del contributo offerto dal collaboratore, sia della forma di controllo esercitata dalla commissione.[33] Inoltre l’intera costruzione della procedura d’urgenza presentava non pochi aspetti problematici: infatti il Capo della Polizia poteva già disporre in piena autonomia di tutte le misure ordinarie di protezione e pertanto , se si considerava che ai fini della detenzione extracarceraria sussisteva una complessa procedura specifica, l’ipotesi di un programma emergenziale poteva essere riferita esclusivamente agli altri istituti applicabili solo nell’ambito dello speciale programma di protezione, quali l’utilizzo temporaneo di un documento di copertura e il cambiamento delle generalità.   Perciò, veniva evidenziato[34]  come tali

procedimenti richiedevano un’iter procedimentale articolato e complesso, che non consentiva una effettiva attuazione in via d’urgenza.[35]

4. La Commissione Centrale

L’art.3 della nuova legge sui collaboratori di giustizia modifica la composizione ed il procedimento istruttorio della Commissione Centrale, secondo principi di terzietà dei suoi componenti rispetto al mondo delle indagini e delle investigazioni, favorendo “una reale distinzione fra organi del  procedimento penale e organi della protezione”.[36] Infatti il nuovo comma 2 bis del d.l. 15/01/1991, n°8, stabilisce come i componenti della Commissione diversi dal presidente “sono preferibilmente scelti tra coloro che siano in possesso di cognizioni relative alle attuali tendenze della criminalità organizzata, ma che non sono addetti ad uffici che svolgono attività di investigazione, di indagine preliminare sui fatti o procedimenti relativi alla criminalità organizzata di tipo mafioso o terroristico-eversivo”.

Il testo dell’art.3 approvato in prima istanza dal Senato era differente dalla stesura definitiva in quanto si prevedeva che i componenti della Commissione diversi dal presidente non fossero addetti ad uffici che svolgessero continuativamente attività di investigazione sui procedimenti relativi alla criminalità organizzata di tipo mafioso o terroristico- eversivo. La differenza riguarda perciò la soppressione dell’avverbio “ continuativamente” che ha cambiato sostanzialmente il significato della norma e sulla quale si è registrato una discordanza anche in sede di lavori parlamentari. [37] Inoltre l’intento di creare una distinzione reale ed effettiva tra organi giudicanti ed organo amministrativo trova la sua “ norma di chiusura” nel comma 2 octies dell’art.10 sopracitato, secondo cui “ i magistrati componenti della commissione centrale non possono esercitare funzioni giudicanti nei procedimenti cui partecipano a qualsiasi titolo i soggetti nei cui confronti la commissione, con la loro partecipazione, ha deliberato sull’applicazione della misura di protezione”.

Ma quale è l’incidenza reale della nuova normativa? Parte della dottrina ha sottolineato come la nuova formulazione dell’art.10 del decreto sopracitato nasca sotto l’effetto di un intento “punitivo” nei confronti dei magistrati professionalmente più esperti, ma considerati troppo “sensibili” all’esigenza di proteggere coloro che collaborano con la giustizia.[38] Ciò troverebbe conferma sulla base di un’altra disposizione: il novellato art.13 comma 1 stabilisce infatti che, ai fini della proposta di ammissione allo speciale programma di protezione, non sia più necessaria la presenza obbligatoria ad validitatem di almeno uno dei due magistrati, come stabiliva il comma 4 dell’art.1 del decreto interministeriale 24/11/1994, n°687.

In effetti la nuova formulazione dell’art.10 preclude la partecipazione alla commissione dei magistrati addetti  alle procure della Repubblica e degli ufficiali di polizia giudiziaria, mentre il problema interpretativo più arduo si pone per i magistrati della Direzione Nazionale Antimafia. Sulla base della lettura dei commi 2 bis e 2 octies del novellato art.10, se  il sostantivo  procedimento viene legato

al precedente binomio uffici che svolgono, i magistrati della DNA non potrebbero far parte della commissione, in quanto la DNA è ufficio che, pur non essendo titolare di poteri d’indagine diretti, svolge di fatto una cospicua attività nell’ambito dei procedimenti relativi alla criminalità organizzata. Tale argomentazione troverebbe conferma anche nei confronti dei magistrati delle procure generali chiamati a svolgere attività d’indagine solo in seguito ad avocazione, ex artt. 372 comma 1 bis e 412 c.p.p. .

Se invece il sostantivo procedimento viene collegato ad indagine preliminare, è ammissibile la presenza dei magistrati della DNA, in quanto si tratta di un ufficio che non svolge alcuna indagine preliminare in procedimenti relativi alla criminalità organizzata, anche se attraverso il collegamento ed il coordinamento investigativo si determina l’effetto dell’inserimento di quell’ufficio, anche se a livello conoscitivo e non operativo, nei procedimenti relativi.[39]     

Quanto all’intento punitivo di tale disposizione nei confronti della magistratura, analizzando anche i commi 4 e 5 dell’art.11 del d.l. n°8/1991, possiamo impostare l’argomentazione sotto un’angolatura differente che può evidenziare come tale modifica tenda a recuperare la collegialità e la funzionalità della Commissione e a marcare significativamente la separazione tra protezione e investigazione. Infatti se, in base alle disposizioni sopracitate, la Commissione può richiedere  il parere del PNA e il parere dei procuratori generali, sia quando li ritiene utili (art.11 comma 4), sia quando ritiene che la proposta al programma di protezione doveva essere formulata d’intesa con le altre procure (art.11 comma 5), la tesi che consente la presenza di magistrati della DNA nella Commissione finirebbe per comportare uno strappo al principio di separazione tra protezione ed investigazione ed al principio di terzietà dell’attività della Commissione, che includerebbe al proprio interno soggetti incardinati in uffici i cui pareri dovrebbero essere poi sottoposti al suo stesso esame, sia pure come membro del collegio amministrativo, con la possibilità tutt’altro che infondata di configurare l’attenuazione dell’imparzialità in capo ad un componente e il consequenziale conflitto di interessi.[40] Per ciò che riguarda i commi 4 e 5 dell’art.11, il  sistema  delineato  si  pone  all’interno  del “ quadro normativo” già

prospettato dall’ art. 1 comma 2 e dall’art. 3 del decreto interministeriale n°687/1994 e  “confermato” dalla sentenza della Corte Costituzionale n°420/1995. Così risulta evidente come “il legislatore abbia inteso affidare ad un organismo collegiale centralizzato il processo decisionale di ammissione ai programmi di protezione sia allo scopo di sottrarre agli organi giudiziari compiti estranei alle loro funzioni, sia soprattutto al fine di assicurare omogeneità di criteri ed uniformità di trattamento su tutto il territorio nazionale in ordine all’ammissione e alla determinazione dei contenuti dei programmi medesimi…. Ciò posto, non c’è dubbio che la creazione di detto organismo sia diretta a soddisfare esigenze di razionalizzazione largamente avvertite e rispondenti, sotto alcuni aspetti, anche ad interessi generali di rilievo costituzionale. Ne deriva che i rapporti tra la Commissione centrale e le autorità giudiziarie devono essere inseriti, e quindi svolgersi, in un quadro di cooperazione istituzionale allo scopo comune di una più razionale protezione dei collaboratori di giustizia e quindi, in definitiva, di una più efficace azione contro le organizzazioni criminali”.[41]   Anche le disposizioni delle nuova legge tendono quindi a confermare un sistema in cui la Commissione non si ponga come mero organo “notarile” e non deve perciò stupire o scandalizzare che, se un P.M. titolare di certe indagini sia convocato dinanzi a commissioni parlamentari per offrire il suo contributo di conoscenza su un certo argomento, altrettanto possa essere richiesto ad un Procuratore della Repubblica al fine di fornire informazioni preziose per meglio approntare lo speciale programma di protezione. L’obbiettivo fondamentale e primario consiste nell’elaborazione di programmi di protezione realmente aderenti alla specificità dei singoli casi concreti e una via per migliorare la “ cooperazione istituzionale” auspicata dalla suprema Corte, passa certamente attraverso i contatti diretti tra organo giudiziario ed amministrativo.[42]    Perciò i commi 4 e 5 del nuovo art.11 del d.l. 15/01/1991, n°8 danno concretezza a un ruolo   non meramente passivo della Commissione nel momento della raccolta dei dati necessari alla valutazione sulla fondatezza della richiesta di programma, ed alla individuazione di tutte le circostanze che caratterizzano la vicenda in esame. Per questo la Commissione acquista con la nuova legge poteri istruttori inediti, che possono essere esercitati anche attraverso il Servizio centrale di protezione come prevede il comma 2 quater dell’art.10. Tali poteri vanno dall’acquisizione di informazioni all’autorità di pubblica sicurezza, all’amministrazione penitenziaria o ad altri organi, come prevede il nuovo comma 2 dell’art. 13, all’audizione delle autorità che hanno formulato la proposta o il parere e di altri organi giudiziari, investigativi e di sicurezza, come prevede il nuovo comma 3 dell’art.13.  La stessa esperienza di questi anni ha dimostrato come la Commissione non si sia limitata ad una attività di verifica meramente formale.[43] Nel periodo intercorrente tra il primo gennaio e il trenta novembre 1997 l’organo amministrativo ha tenuto ben 58 riunioni. In tale periodo sono state esaminate 390 proposte di ammissione al programma di protezione e sono stati adottati 128 programmi, mentre in  altri  120  casi il  programma  è  stato  negato.   Sempre nello stesso

periodo sono state espletate 649 verifiche su programmi di protezione in scadenza e la proroga è stata concessa per 335 programmi, mentre altri 99 non sono stati prorogati. I programmi di protezione revocati sono stati 119, 193 le richieste in materia di assistenza economica esaminate, 98 le richieste di estensione del programma di protezione a familiari e congiunti ed infine 152 le richieste di varie genere fra cui, per esempio, quelle relative ad interviste o audizioni. Il punto più significativo su cui vi è stata divergenza con le istanze giudiziarie è stato quello relativo alla valutazione dei casi in cui il collaboratore è rientrato senza autorizzazione nella località d’origine. La Commissione ha infatti ritenuto tale eventualità una grave violazione delle prescrizioni imposte al programma, sintomatica del reinserimento nel circuito criminale e comunque dell’insussistenza di una situazione di grave pericolo.

Merita infine una particolare segnalazione il tema delle “ misure urgenti”: oltre alla modifica riguardante le funzioni del Capo della Polizia[44] , il contenuto di tali misure è stato poi perimetrato quale  “mera forma di tutela rafforzata che non può mai assumere le caratteristiche del programma di protezione”.[45] Tali misure possono essere applicate, in base alla nuova formulazione dell’art.13 comma 1, solo in pendenza di una richiesta alla Commissione di applicare un piano provvisorio di protezione e hanno effetto sino alla pronuncia sul punto della Commissione. Il piano provvisorio non può durare oltre 180 giorni ed è deliberato dall’organo amministrativo senza formalità, in base a una richiesta che si limita ad illustrare lo stato di particolare pericolo e sommariamente i contenuti della collaborazione. La novità importante che viene a colmare una lacuna della disciplina precedente, riguarda la possibilità per il Presidente della Commissione di disporre la prosecuzione del piano provvisorio “ per il tempo strettamente necessario a consentire l’esame della proposta da parte della commissione medesima”. Infatti, in base alla vecchia normativa, decorsi i 180 giorni dalla proposta senza che fosse stato approvato il programma, il dichiarante veniva tenuto in una sorta di limbo, privo della copertura giuridica della protezione seppure protetto in vista                          dell’approvazione in itinere del programma.[46]  Tuttavia bisogna cercare di tracciare una linea di demarcazione tra l’intervento della Commissione, fondato sulla situazione di particolare gravità, e l’intervento del Capo della Polizia, fondato sulla situazione di eccezionale urgenza. Cercando di fornire una prima interpretazione e considerato come in questo caso la disposizione normativa sia poco chiara, si può affermare che il presupposto per l’adozione del piano provvisorio sia una situazione di particolare gravità, che è per sua natura anche urgente, ma non tale da determinare un pericolo imminente. L’eccezionale urgenza che legittima l’intervento del Capo della Polizia si dovrebbe configurare invece ogni qual volta il pericolo attuale per l’incolumità del collaboratore si materializzi prima che la Commissione possa intervenire o addirittura, prima ancora che la richiesta venga inoltrata all’autorità giudiziaria.[47]  

5. Il Servizio Centrale di Protezione.   

La disciplina riguardante tale organismo viene ridisegnata sia dalla legge 45/2001, sia dal decreto ministeriale 26 maggio 1995. Così il Servizio centrale viene designato come centro costituito in rapporto di

ausiliarietà con la Commissione quando svolge compiti istruttori, come stabilito dall’art.10 comma 2 quater del d.l. n°8/1991.[48]   Inoltre fornisce informazioni alla Commissione centrale sulla situazione di particolare gravità fondative della richiesta di ammissione alle misure speciali, come prevede il nuovo art.13 comma 1 che attribuisce anche una particolare funzione consultiva a tale organo allorchè il Presidente della Commissione centrale, dopo l’adozione del piano provvisorio, richiede al Servizio una relazione riguardante l’idoneità dei soggetti a sottostare agli impegni indicati nell’art.12 del d.l. citato.

Perciò esso può essere definito come organismo attuativo, esecutivo e consultivo della Commissione centrale.[49]  Sulla scorta del decreto ministeriale sopracitato, il Servizio centrale si articola in divisioni centrali e nuclei periferici. I nuclei operativi di protezione, strutture dislocate territorialmente nelle aree “di protezione” permettono una più funzionale presenza sul territorio della qualificazione specialistica che deve contraddistinguere l’operatore del Servizio centrale, assicurando una risposta immediata e dinamica alle esigenze che la concreta attuazione dei programmi comporta. In particolare bisogna ricordare che la normativa assegna a detti nuclei solo il compito di assicurare l’attuazione delle misure prettamente assistenziali e di quelle tutorie volte alla mimetizzazione delle persone protette, come il documento di copertura l’alloggio segreto ecc.., mentre sono esclusi i compiti di sicurezza, quali la vigilanza in loco, gli accompagnamenti e le scorte per gli impegni giudiziari ecc.., riservati agli organi di polizia territoriale.[50] Il Servizio rimane sempre incardinato nell’ambito del dipartimento della Pubblica sicurezza, ma la dotazione del personale e dei mezzi dovrà essere stabilita con decreto del Ministro dell’Interno di concerto con il Ministro del Tesoro, del Bilancio e della programmazione economica. La novità più importante è costituita dal fatto che il nuovo Servizio sarà articolato in due sezioni, come stabilito dall’art. 14 comma 1 del d.l. n°8/1991, una per i testimoni di giustizia e una per i collaboratori, ognuna delle quali sarà autonoma e dotata di strutture e persone differenti. Tale strutturazione realizza l’idea di rafforzare la protezione ai testimoni e si adegua alla normativa del 1996 che aveva indicato la strategia del “doppio binario” per la protezione e l’assistenza dei testimoni.[51]   

6. Assunzione degli impegni, revoca e modifica delle speciali                  misure di protezione.                    

L'art.5 modifica l'art.12 del decreto legge n°8/1991, che continua ad attenere al tema degli impegni che il collaboratore deve assumere prima di essere ammesso a fruire delle misure di protezione. La prima modifica di carattere sostanziale è quella indicata nella nuova lettera b) del comma 2 che ora impone al collaboratore di non rifiutare di sottoporsi ad atti processuali e di consentire un effettivo contraddittorio sulle dichiarazioni rese. Tale innovazione, che "riprende" l'inciso soppresso in sede di esame da parte della Commissione  Giustizia  della  Camera  in  relazione  al  vecchio  testo

dell'art.12 del d.l. sopracitato[52],  si colloca all'interno di una visione contrattualistica e trasparente della collaborazione. L'eliminazione del diritto al silenzio va quindi inquadrato all'interno del rapporto di assoluta lealtà del collaborante nei confronti dello Stato e che passa necessariamente attraverso la franca ammissione delle proprie responsabilità; pretendere, ad esempio, da chi si trova in queste condizioni la rinuncia ad avvalersi della facoltà di non rispondere rappresenta lo sviluppo logico di un rapporto istituito fra chi fino a quel momento ha operato nel crimine e ha deciso di mutare rotta: è la dimostrazione, che passa attraverso la disponibilità della verifica del contraddittorio, di una condotta processuale priva di riserve mentali[53],

come succede negli Stati Uniti nel momento in cui il collaboratore sottoscrive il Memorandum of Understanting, in cui si obbliga a rispettare il dovere di testimoniare e di fornire tutte le informazioni richiestegli dagli organi competenti e percependo così che le proprie possibilità di " sopravvivenza" saranno direttamente proporzionali alla capacità di essere o mostrarsi utile.[54]

La finalità di garantire la "genuinità" e la "attendibilità" delle dichiarazioni del collaboratore dovrebbe essere garantita dalla nuova formulazione del comma 2 lettera d) dell'art.12, dove è stata aggiunta la previsione di " non incontrare né contattare alcuna persona dedita al crimine, né, salvo autorizzazione dell'autorità giudiziaria……, alcuna delle persone che collaborano con la giustizia". Va evidenziato come la stesura originaria dell'articolo in oggetto, come licenziato in prima istanza dalla Commissione Giustizia del Senato, non prevedeva nessuna possibilità di deroga, il che poteva tradursi in un'imposizione inumana tenendo conto del fatto che potrebbero esservi collaboratori legati tra loro da un rapporto familiare[55] . La competenza a pronunciarsi su tale materia spetta all'autorità giudiziaria, tenuto del conto del fatto che siamo in una fase in cui non è ancora intervenuto il procedimento di ammissione al programma di protezione e conseguentemente il riferimento a tale organo appare più legittimo rispetto alla possibilità ventilata di una soluzione diversa.[56] 

La reale possibilità di raggiungere la genuinità della collaborazione dipenderà comunque sia dalla capacità del sistema carcerario di garantire " l'isolamento" del collaboratore, problema che è sempre esistito ma che oggi assumerà ancor di più un'importanza centrale e vitale considerato soprattutto come la nuova legge si muove in un'ottica diversa rispetto al passato, secondo una visione intramuraria del sistema di protezione[57], sia della reale applicazione di tale deroga.[58]

Infine l'altro aspetto rilevante e innovativo della normativa è costituito dalla disciplina del trasferimento allo Stato dei beni e del versamento del denaro frutto di attività illecite, come previsto dal comma 2 lettera e). Tale regolamentazione si snoda attraverso tre momenti:

q       L'assunzione dell'impegno, che si traduce nella specificazione di tutti i beni e di ogni utilità, di qualsiasi provenienza, posseduti o controllati: sulla base di tale specificazione potrà essere necessario effettuare  accertamenti  affinché  il  collaboratore  sia   spossessato                                                                                     

     solo di quelli di accertata provenienza illecita.

q       Successivamente all'ammissione alle speciali misure di protezione, il versamento del denaro frutto delle attività illecite.

q       Il sequestro dei beni e delle utilità di accertata provenienza illecita e del denaro versato dal collaboratore.

L'art. 17 bis comma 3 della legge 45/2001 rimette ad appositi regolamenti interministeriali la disciplina delle modalità per il versamento e il trasferimento del denaro, dei beni e delle altre utilità di cui all'impegno assunto dal collaboratore, che dovrà essere coordinata con l'eventuale confisca conseguente al sequestro disposto dall'autorità giudiziaria, nonché la disciplina relativa alle modalità di destinazione del denaro, della vendita e della destinazione dei beni in oggetto. L'art.24 della medesima legge inserisce la previsione che una quota dei beni confiscati al collaboratore sia destinata per l'attuazione delle speciali misure di protezione, mentre in misura alquanto generica viene prevista la possibilità di creare un fondo di solidarietà operante nelle ipotesi in cui il collaboratore non possieda beni sui quali la persona offesa possa rivalersi.

Anche tale nuova fattispecie risponde ad esigenze di trasparenza, considerato come l'obbligo per il collaboratore di indicare i patrimoni illeciti rappresenta la sua presa di distanza dalla criminalità organizzata, scandendo una reale dissociazione del soggetto.[59] Mentre c'è una presunzione invincibile di acquisizione illecita per il denaro frutto di attività illecite, la presunzione di provenienza illecita dei beni posseduti o controllati può essere vinta dalla prova della provenienza lecita, in presenza del quale cadrebbe il presupposto del sequestro previsto dal comma 2 lettera e) e, conseguentemente, la confisca dei beni. Per giungere a tale misura si dovrà fare riferimento, oltre alla condanna del soggetto, anche alla mancanza di una giustificazione della provenienza dei beni predetti e la sussistenza della sproporzione fra reddito dichiarato e attività economica.[60] Anche in merito a tale aspetto, dalla futura regolamentazione e dalla prassi applicativa è lecito attendersi le risposte agli interrogativi e alle perplessità che la nuova legge suscita a un primo esame[61] ; in ultima analisi  va  rilevato 

come la futura creazione di un fondo di solidarietà risponde ad una finalità avvertita dal legislatore e volta ad eliminare una lacuna normativa, in quanto i beni dei mafiosi pentiti potevano già essere confiscati e sequestrati sia nell'ambito dei speciali procedimenti di prevenzione sia nell'ambito di procedimenti penali come indicato dalla legge 31 maggio 1965 n° 575 e dalla legge 7 marzo 1996 n° 109, ma per risarcire le persone danneggiate e offese rimaneva solo la elargizione prevista dalla speciale legge 20 ottobre 1990 n°302.[62]  

Pressoché impercettibili appaiono invece le modifiche apportate alla disciplina della revoca e delle modifiche delle speciali misure di protezione posta dall'art.13 quater del d.l. n°8/1991 che recepisce, con gli adattamenti dovuti alle innovazioni sui presupposti, la disciplina contenuta nell'art.5 del d.m. n°697/1994. Così rimane il principio di gradualità che ispira la modifica o la revoca delle misure: è automatica la revoca nell'ipotesi di inosservanza degli impegni di cui alle lettere b e d dell'art.12 comma 2 del d.l. n°8/1991 analizzati precedentemente, nonché nel caso di commissione di delitti indicativi del reinserimento del soggetto nel circuito criminale. Sono invece suscettibili di valutazione per la modifica o la revoca una serie di comportamenti quali   l'inosservanza  degli  altri   impegni  assunti  ai sensi dell'art.12,

la commissione di reati indicativi del mutamento o della cessazione del pericolo, la rinuncia espressa alle misure, il rifiuto di accettare l'opportunità di lavoro, il ritorno non autorizzato nei luoghi di originaria residenza, ed ogni azione che comporti la divulgazione dell'identità assunta, del luogo di residenza e delle altre misure applicate. Tuttavia la nuova legge non riproduce la disposizione dell'art.5 comma 2 del DM n°6871994, secondo cui prima di procedere alla modifica o alla revoca del programma, la Commissione Centrale doveva disporre l'acquisizione del parere dell'autorità che aveva formulato la proposta o, se ricorrevano le condizioni dell'art.3., del Procuratore NazionaleAntimafia. La soppressione di tale obbligo è stata fortemente criticata e sembra apparire  irragionevole sotto il profilo dell'efficienza dell'azione giudiziaria di contrasto al crimine, in quanto priverebbe la Commissione di dati e notizie fondamentali riguardanti la posizione del collaboratore coinvolto.[63]  

    

 

7. Le misure di assistenza. 

Le misure di assistenza così come ridisegnate dal nuovo art.13 comma 6 del d.l. n°8/1991 si dividono in due tipi: da un lato l'assegno di mantenimento corrisposto nel caso di impossibilità di svolgere attività lavorativa, che tende a identificarsi con quanto necessario per la mera sussistenza fisica dell'individuo e per il soddisfacimento dei suoi primari bisogni quotidiani. In questo caso è logico pensare che tale forma di assistenza rappresenti un puro risvolto, un complemento necessario delle misure di protezione.[64] In secondo luogo, la legge fa riferimento autonomo alle spese per la sistemazione alloggiativa, per i trasferimenti e per l'assistenza medica e legale. Tale distinzione pone seri dubbi, considerato come le spese sopraelencate sono riferite sempre a bisogni primari dell'individuo e rientrano perciò sempre all'interno del concetto di mantenimento e sussistenza fisica.

Il nodo centrale che ha suscitato numerosi casi- scandalo nel passato è rappresentato dal "mercanteggio" delle misure di assistenza che vadano al di là della mera sussistenza fisica dell'individuo e che sono state spesso corrisposte secondo un meccanismo tipicamente sinallagmatico e contrattuale, che ha visto atteggiamenti rivendicativi da parte del collaboratore finalizzato ad ottenere facilitazioni e vantaggi    economici    a    seconda    dell' importanza   delle    proprie

dichiarazioni. In questa ottica le misure di assistenza sono diventate una vera e propria forma di retribuzione per la performance investigativa e processuale del collaboratore.[65] Per rimediare al rischio di tali abusi la legge 45/ 2001 ha cercato di porre dei rimedi: in primo luogo, ai sensi del nuovo art.16 quater del d.l. 8/1991 il soggetto che ha manifestato la volontà di collaborare deve rendere all'autorità inquirente tutte le notizie in suo possesso entro il termine tassativo di 180 giorni dalla suddetta manifestazione di volontà: in questo caso sarà possibile controllare  la veridicità e la genuinità delle dichiarazioni del collaboratore, senza il rischio in futuro di nuove contro-rivelazioni finalizzate unicamente ad ottenere vantaggi e benefici economici consistenti.

In secondo luogo la nuova normativa pone un limite massimo oggettivo entro cui andranno circoscritte le misure di assistenza economica: l'art.13 comma 6 stabilisce infatti che l'assegno di mantenimento  non  possa  superare  un  ammontare  di   cinque   volte 

l'assegno sociale previsto dalla legge 8 agosto 1995, n°335 e che venga modificato annualmente in misura pari alle variazioni dell'indice dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati rilevate dall'ISTAT.[66] La misura dell'assegno può essere integrata solo quando ricorrano particolari circostanze influenti sulle esigenze di mantenimento in stretta connessione con quelle di tutela del collaboratore. La scelta effettuata dal legislatore è stata dettata dal fatto che le esigenze del collaboratore e del suo nucleo familiare possono risultare fortemente variabili e la possibilità dell'integrazione dell'assegno di mantenimento consente di sopperire a esigenze specifiche che nascono in relazione alla particolare situazione del soggetto sottoposto a protezione.[67] Per eliminare il rischio di un  uso distorto di tale integrazione, tuttavia il legislatore ha specificato che tale provvedimento possa essere acquisito dal giudice del dibattimento su richiesta del difensore dei soggetti a cui carico sono utilizzate le dichiarazioni del collaboratore.[68] Tale norma risponde quindi alla finalità di assicurare la trasparenza e il controllo delle spese effettuate per il collaboratore, cercando tuttavia di mantenere le necessarie garanzie di sicurezza che hanno sconsigliato di inserire l'elenco dettagliato del nome dei collaboranti e delle spese erogate all'interno della relazione effettuata dal Ministro dell'Interno prevista dall'art.16 del d.l. n°8/1991,  così come richiesto da una proposta emendativa.[69]

Attraverso il dettato del nuovo art.13 comma 6 e comma 7[70] il legislatore  ha   cercato  di   coniugare   maggiormente   trasparenza   e

sicurezza della collaborazione, anche se uno dei nodi centrali è rappresentato dal reperimento e dall'offerta di una sistemazione lavorativa per il collaboratore e per la sua famiglia. Non può infatti nascondersi che la platea alla quale si rivolgono le misure di protezione è costituita, nella maggioranza dei casi, da persone che per ragioni ambientali e culturali hanno scarsissima propensione ad accettare l'idea del loro reinserimento nel mondo del lavoro, specie ove si tratti di attività non altamente renumerate e comportanti un impegno continuativo e gravoso. L'esperienza degli ultimi anni ha infatti dimostrato il consolidarsi di una mentalità in forza della quale molti dei soggetti interessati si sono sentiti in diritto di continuare a godere a tempo indefinito dei vantaggi economici derivanti dalla collaborazione senza nessuno stimolo al mutamento degli assetti che le misure protettive hanno costituito, con conseguente gravosissimo impegno dello Stato sia in termini finanziari, sia in termini di impiego di risorse materiali ed umane.[71]  Per questi motivi il legislatore ha confermato la scelta già effettuata con la normativa precedente, secondo cui costituisce fatto valutabile ai fini della revoca o della modifica delle misure di protezione, il rifiuto di svolgere attività di lavoro. Rimane perciò necessario affermare il principio che lo Stato,  per ragioni sia di natura finanziaria sia di natura etica, non possa assistere indefinitamente il collaboratore e i propri familiari avendo costoro il dovere di inserirsi nel circuito lavorativo. Il problema maggiore sarà quello di garantire la segretezza e la riservatezza sulla qualità di collaborante, non dovendo trasformarsi l'attività lavorativa in un'occasione che comporti la "scoperta" verso l'esterno di tali requisiti.   La soluzione migliore potrebbe essere rappresentata dalla creazione di società, alla cui costituzione e organizzazione dovrebbe provvedere il Servizio Centrale di protezione, mentre sulla tipologia sociale da adottare potrebbe pensarsi alla società cooperativa che offrirebbe il vantaggio di consentire di svolgere una attività lavorativa, protetta sotto lo schermo della ragione sociale e senza un'esposizione diretta del nominativo dei soci.[72] Anche  in  questo  settore    dovremo 

aspettare l'emanazione del decreto interministeriale previsto dal nuovo art.13 comma 8  e finalizzato a garantire un effettivo reinserimento sociale del collaboratore e del suo nucleo familiare. 

 

 

CAPITOLO III

Il  trattamento penitenziario.

1.       Evoluzione della fattispecie collaborativa alla luce della legislazione del " doppio binario": le scelte della politica penitenziaria contro la criminalità organizzata.

Abbiamo già accennato precedentemente[73] al percorso legislativo attuato in relazione al concetto di collaborazione processuale ed alle finalità in esso contenute: in questa sede ci occuperemo specificatamente delle scelte contenute nella legislazione emergenziale del 1991-1992, che ha profondamente inciso nella materia penitenziaria attraverso una mini-riforma le cui peculiarità hanno sovvertito, sotto certi aspetti, la stessa disciplina del trattamento in fase esecutiva; in tale contesto l'utilizzazione della categoria del collaboratore di giustizia ha rappresentato il corollario logico di tale politica penitenziaria da cui bisognerà inevitabilmente partire per comprendere appieno, se e in che modo, la legge 13/02/2001 n°45 possa rappresentare una reale "inversione di tendenza".

In via preliminare le modificazioni operate dal decreto legge 13 maggio 1991 n° 152, convertito con modificazioni nella legge 12 luglio 1991 n°203, e dal decreto legge 8 giugno 1992 n° 306, convertito con modificazioni nella legge 7 agosto 1992 n°306, furono  ritenute necessarie soprattutto in relazione alla riforma operata dalla   legge    663  del   1986,  meglio  nota  come "legge Gozzini", alla quale si rimproverò un eccessivo garantismo ed una ingiustificata tutela della popolazione detenuta, soprattutto di quella parte di essa ancora legata all'organizzazione criminale di appartenenza, e considerata di particolare pericolosità sociale.[74] Fu sottolineata infatti  l'inadeguatezza di una disciplina improntata al recupero sociale di soggetti condannati per fenomeni di delinquenza individuale e occasionale, a realizzare il controllo di criminali appartenenti alle più pericolose organizzazioni criminali, evidenziando inoltre come situazioni tanto eterogenee non potevano essere gestite con gli stessi strumenti normativi, ma era necessario differenziarne il trattamento.[75]  

Attraverso i nuovi referenti legislativi, per pene uguali nella misura, vennero previsti per il condannato termini di recupero diversi sulla base del principio per cui, anche dopo la condanna, la persistente pericolosità dell'autore doveva essere rapportata non solo alla pena irrogata dal giudice, ma anche alla natura del reato commesso, attribuendosi alla stessa pena detentiva, valenza maggiore o minore in rapporto ai diversi casi.[76] Le nuove disposizioni in materia penitenziaria si posero quindi in aperto contrasto con uno dei capisaldi fondamentali della riforma del 1986, che si segnalava per l'abbandono di ogni presunzione legale di pericolosità dei condannati in ordine ai reati commessi. Le esigenze di allarme sociale legate ai presunti pericoli derivanti dall'accentuata flessibilità della pena indussero il legislatore ad emanare la legge n°203 del 1991, il cui contenuto paradigmatico ben può essere rappresentato dall'art.1 che ha introdotto, all'interno dell'ordinamento penitenziario, l'art.4 bis. Il primo comma di tale norma infatti prevede due distinte fasce di reati di particolare gravità i cui autori hanno facoltà di accedere alle misure alternative, ai permessi premio, al lavoro all'esterno soltanto dal momento in cui vengono riscontrate determinate condizioni e verificazioni probatorie. Alla prima fascia, che interessa maggiormente ai fini della nostra indagine, appartengono i condannati per delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dall'art.416 bis c.p. o al fine di agevolare le associazioni mafiose, delitti di associazione a delinquere di stampo mafioso (art.416 bis c.p.), sequestro di persona a scopo di estorsione (art.630 c.p.), associazione a delinquere finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti (art.74 D.P.R. 9 ottobre 1990, n°309). In base al presupposto di una ritenuta e particolare pericolosità sociale desunta o dall'entità delle condanne riportate, o dalla natura dei delitti indicati nel testo normativo,[77] vennero aumentati i limiti minimi di pena espiata richiesti per l'ammissione ai benefici extramurari, concedibili solo nel caso in cui si fossero acquisiti elementi tali da fare escludere l'attualità dei  collegamenti con la criminalità organizzata. Una simile previsione si sostanziava nella richiesta di una probatio diabolica, una prova cioè di tipo negativo consistente nel dimostrare l'estraneità di un collegamento che viceversa si presumeva di fatto esistente.[78] Perciò tale normativa rivelava la consapevole scelta di utilizzare strumentalmente l'oggetto della prova al fine di escludere definitivamente determinate categorie di condannati dalla fruizione dei benefici, abbandonando così nei loro confronti l'idea del trattamento e della risocializzazione. [79]  

Quanto ai condannati per i reati ricompresi nell'ultima parte del primo comma dell' art. 4 bis[80], essi possono accedere ai benefici penitenziari solo se non vi sono elementi tali da far ritenere la sussistenza dei collegamenti con la criminalità organizzata; tale disciplina per quanto rigida, si muove tuttavia all'interno dei principi cardine del nostro ordinamento processuale, dove la prova deve comunque sempre essere di tipo positivo e dove non dovrebbe trovare collocazione una aprioristica presunzione di "assoluta colpevolezza". Come già accennato precedentemente[81], nei confronti del collaboratore ci si è limitati  ad escludere l'operatività degli sbarramenti oggettivi riferiti al quantum di pena  espiata per l'ammissione alla fruizione dei benefici: i profili della condotta collaborativa rilevante solo al fine di non posticipare, rispetto al regime ordinario, i tempi per l'ammissione ad essi, vengono delineati dall'art.58 ter o.p., introdotto appunto dal d.l. 13 maggio 1991, n°252. Dalla reintroduzione dei cd. reati ostativi cui si è aggiunta la previsione di oneri probatori più o meno invertiti, sino alla richiesta di una totale collaborazione quale condizione necessaria per l'ammissione ai benefici risocializzanti, il passo  è  stato  breve,  operato attraverso il d.l. 8 giugno 1992, n°306 e convertito successivamente con modificazioni, nella legge 7 agosto 1992 n°306. Le opzioni di politica criminale rivolte  ad incentivare la collaborazione giudiziaria[82] hanno trovato immediatamente una conferma nella previsione che ha consentito ai detenuti e agli internati di cui alla prima fascia dell'art.4 bis di accedere ai vari benefici penitenziari solo se collaborano con la giustizia ai sensi dell'art.58 ter dell'Ordinamento penitenziario. Attraverso tale provvedimento normativo, pertanto si è operato in maniera completa lo sbilanciamento  a favore di condotte del condannato consumate in ambito extrapenitenziario e assunte a indici valutativi della sua personalità, in sostituzione dei risultati della osservazione e del trattamento in istituto, in sede di concessione delle misure alternative.[83] Il dato centrale della normativa ha riguardato la esclusiva rilevanza attribuita a collegamenti del condannato con la criminalità organizzata e conseguentemente la collaborazione con le autorità investigative non poteva non svolgere un ruolo privilegiato, offrendo di per sé prova dell'avvenuto distacco del soggetto dal gruppo criminale di appartenenza, e quindi della sua affidabilità. Non erano più l'osservazione, il trattamento, la partecipazione all'opera di rieducazione a determinare l'applicazione delle misure risocializzanti, ma l'accertamento della cessata pericolosità perseguito secondo forme probatorie svincolate dai normali canoni processuali e finalizzato a risultati diversi che sostanzialmente prescindevano dalla rieducazione del condannato.[84] Il meccanismo preclusivo originariamente introdotto dal legislatore del 1992 sembrava volere stabilire un assioma: la mancata collaborazione costituiva da sola un indice di pericolosità idoneo a far presumere l'attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata.[85]  La stessa formulazione del comma 1 dell'art.4 bis o.p. e la previsione dell'art.15 comma 2 del d.l. 8 giugno 1992, n°306[86] deponevano a favore di un'equazione le cui espressioni erano, per un verso, la collaborazione giudiziaria e, per l'altro, l'assenza di collegamenti con la criminalità organizzata.[87]

Il punto critico di tale costruzione stava nel suo sbilanciamento eccessivo verso l'idea della funzione generalpreventiva della pena e dell'abbandono conseguente della sua valenza rieducativa: la presunzione assoluta di pericolosità sociale per certe categorie di condannati risultava incontrovertibile anche davanti a eventuali prove di recupero sociale e di rieducazione che non fossero al contempo accompagnati alla collaborazione offerta alla giustizia.[88] 

 

 

2.       Collaborazione con la giustizia e sistema premiale: la scelta di ricompensare le condotte collaborative in sede esecutiva.

La rinuncia all'idea del percorso riabilitativo non si è risolta anche nella consequenziale rinuncia all'impiego degli strumenti tipici della pena risocializzativa, quali la concessione delle misure alternative alla detenzione, ma se ne è sfruttata la valenza promozionale strumentalizzandola agli specifici intenti della nuova politica criminale. Coerentemente con la finalità espressa dalla legge 356/1992 di sfruttare appieno le potenzialità incentivanti della condotta collaborativa, ciò che connota la vigente disciplina dei benefici penitenziari è il suo inscriversi in un progetto di contrasto alla criminalità organizzata che affida la buona riuscita dell'operazione al contributo informativo del soggetto coinvolto.[89]  In una prospettiva utilitaristica, fondata sull'assioma che processo penale e pena detentiva debbano condurre la lotta alla criminalità organizzata, l'ambito esecutivo, all'interno del quale la dimensione reale della pena inflitta mostra la sua concreta entità ed operatività, ben si prestava ad accogliere ambiti di premialità soprattutto una volta abbandonata l'egida  rieducativa    della   pena   e   considerato    come   una   simile

operazione ben difficilmente sarebbe potuta essere condotta sul piano del diritto penale, sia sostanziale che processuale.[90] In questo senso l'introduzione dell'art.13 ter del D.l. 15 gennaio 1991 n°8, da parte del D.l.8 giugno 1992 n°306, non ha rappresentato  "una norma isolata", ma il culmine di una politica criminale in cui, accantonato il percorso riabilitativo del condannato, le variazioni modali della pena detentiva possono ormai essere considerate alla stregua di meri "benefici" per il mero atteggiarsi a semplici vie di uscita dal carcere e funzionali a rompere il vincolo di omertà che lega gli appartenenti alle più pericolose organizzazioni criminali. Così per gli autori dei delitti di cui agli artt. 416 bis, 630 c.p., e 74 D.P.R. 9 ottobre 1990 n°309, le porte del carcere si sono chiuse senza speranza, a meno di una scelta di collaborare con la giustizia ai sensi dell'art.58 ter O.P.; gli sbarramenti costruiti a livello penitenziario, anche attraverso l'introduzione di strumenti di gestione di stampo neutralizzativo come la sospensione delle regole del trattamento previsto dall'art.41 bis comma 2 O.P, hanno costituito il pendant repressivo della prescrizione incentivante rivolta ai condannati per i delitti di cui all'art.4 bis, primo periodo che ha trovato il suo coronamento definitivo nella disposizione dell'art.13 ter della legge n°82 del 1991: riconoscere a  tutti  i  condannati  ammessi  allo  speciale programma di protezione la possibilità di usufruire di benefici e delle misure alternative anche in deroga ai limiti di pena stabiliti dagli artt. 21, 30 ter, 47, 47ter e 50 o.p. , significa "rovesciare" completamente la stessa funzione originaria della fase esecutiva, non più ambito destinato a risocializzare il detenuto attraverso le regole del trattamento, ma luogo di repressione e contestualmente " uscita di sicurezza" per i collaboratori.[91] 

 

 

3. Rapporto tra collaborazione con la giustizia e procedimento di sorveglianza.

Le nuove previsioni sulla collaborazione penitenziaria hanno comportato inevitabilmente notevoli alterazioni nel regime delle cadenze attraverso le quali si svolge l'indagine conoscitiva personologica tipica del procedimento di sorveglianza. Divenendo la collaborazione specifico requisito di ammissione alle misure alternative, la magistratura di sorveglianza ha assistito ad una parziale metamorfosi della propria sfera di cognizione. Infatti alla verifica del percorso riabilitativo compiuto dal condannato e alla prognosi sulle sue possibilità di reinserimento sociale, si è sovrapposto il preliminare accertamento della collaborazione che, quale tipico esempio di giudizio su un "fatto", ha fatto ingresso nell'ambito della giurisdizione rieducativa non senza forzature e disarmonie di ordine sistematico.[92]  

Per renderci conto più specificatamente di questa "anomalia", non resta che analizzare le procedure descritte dall'art.58 ter O.P. e dall'art.13 ter del d.l. n°8/1991. Il concetto di "collaborazione con la giustizia" quale emerge dall'art.58 ter ord.penit. [93] ha una duplice natura sostanziale e processuale: il legislatore infatti sul piano sostanziale definisce le varie condotte di collaborazione e, sul piano processuale, disciplina l'accertamento della sussistenza in concreto delle condotte stesse. Il dato centrale è rappresentato dal fatto che esse

sono strettamente connesse al tema di merito oggetto del processo penale di cognizione, come emerge immediatamente dall'inciso normativo  "anche  dopo  la  condanna",  il  quale  lascia   chiaramente

intendere come tali condotte possano essere poste in essere prima della condanna definitiva, e quindi durante la fase di cognizione (anzi l'espressione normativa sembra sottintendere che la collaborazione debba di regola intervenire proprio nella fase di cognizione). Ma in realtà l'intimo collegamento con la questio facti che costituisce il tema dell'accertamento di merito, deriva dalla natura stessa delle attività di collaborazione che risultano iscindibilmente legate ai fatti oggetto del processo di cognizione.[94] Infatti per quanto riguarda "l'adoperarsi per evitare che l'attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori", si tratta di un'attività che di regola è oggetto dell'accertamento di merito spettante al giudice di cognizione. L'attenuante degli effetti del reato si risolve infatti in un'azione che necessariamente incide sulla modalità della condotta criminosa oggetto dell'accertamento di merito.[95] Altrettanto  connessa  con  il  tema dell'accertamento di merito è l'altra

forma di collaborazione che assume rilevanza sotto il profilo probatorio come contributo all'accertamento dei fatti e alla individuazione  dei  colpevoli,  venendo  in  considerazione  proprio  il

fatto principale oggetto del processo di cognizione. Perciò investendo l'ambito di cognizione del giudice di merito che deve stabilire se e in che modo si sono svolti i fatti ed individuarne gli autori, la collaborazione di natura probatoria dovrebbe avvenire nella sua sede naturale, rappresentata appunto dal processo di cognizione.[96] Alla tradizionale funzione di valutazione della pericolosità sociale del condannato o internato in rapporto alla finalità rieducativa della pena, e di verifica della rispondenza del trattamento sanzionatorio  al principio di umanità della pena, subentra nelle ipotesi previste dagli artt. 4 bis e 58 ter o.p. una inusitata forma di "giudizio sul fatto per risalire all'autore".[97] La stessa verifica che il tribunale di sorveglianza deve compiere sulla sussistenza del requisito della collaborazione ha carattere ricognitivo: la collaborazione "costituisce un semplice dato storico, estraneo perciò al procedimento di sorveglianza, per cui al fine di decidere sulla istanza diretta ad ottenere i benefici, il tribunale non deve saggiare la disponibilità del condannato a collaborare né deve acquisire comportamenti di collaborazione, dovendosi limitare ad accertare se il condannato abbia collaborato o meno con la giustizia e, quindi, a constatare se sussista o meno il requisito che condiziona l'applicabilità del beneficio".[98] Le condotte collaborative sono accertate dal Tribunale di Sorveglianza, assunte le necessarie informazioni e sentito il Pubblico Ministero presso il Giudice competente per i reati in relazioni ai quali si accerta l'eventuale prestazione di collaborazione.

Secondo l'orientamento seguito dal Tribunale di Sorveglianza di Roma,[99] fondato sul dato testuale, nonché sulla necessità di evitare decisioni contrastanti e duplicazioni di giudizi, l'accertamento in esame è sempre di competenza del Tribunale di Sorveglianza, anche quando si tratti di provvedimenti del Magistrato di Sorveglianza, quali la concessione dei permessi premio. In questo caso si aprirebbe una fase incidentale dinanzi al Tribunale di Sorveglianza, per l'accertamento della collaborazione, all'esito della quale gli atti andrebbero restituiti al Magistrato di Sorveglianza per l'eventuale proseguio nel merito. In proposito si osserva che sarebbe incoerente dal punto di vista sistematico, costruire un giudizio incidentale dinanzi ad altro Giudice per di più, in caso di permessi premio, competente anche in sede di gravame.

Il giudizio sul fatto collaborativo ha comportato l'acquisizione obbligatoria da parte della Magistratura di Sorveglianza, di alcuni pareri amministrativi sull'esistenza di collegamenti del condannato con la criminalità organizzata: la Commissione centrale ex art.10 comma  2  del  d.l.  n°8/1991 per i collaboratori di giustizia ammessi a

speciale programma di protezione (art.13 ter comma 1 della legge n°82/1991), e il Comitato provinciale per l'ordine e la sicurezza pubblica competente in relazione al luogo di detenzione del condannato, negli altri casi (art.4 bis, comma 2 ord.penit.), comportano il rischio di allineare le cadenze del procedimento di sorveglianza a quelle tradizionalmente proprie del giudizio di cognizione, e  di rendere il primo tributario di una serie di conoscenze che solo il secondo avrebbe potuto legittimamente acquisire e apprezzare.[100]

Per quanto riguarda più specificatamente l'art.13 ter del d.l. n°8/1991, l'innovazione più cospicua ha riguardato l'inserimento, tra la fase dell'iniziativa e quella della decisione, di un inedito subprocedimento a struttura complessa, imposto dalla peculiare posizione del collaboratore[101]: il giudice di sorveglianza non può decidere se non dopo avere acquisito il parere della Commissione Centrale la quale, a sua volta, a tal fine acquisisce le dovute informazioni dal pubblico ministero presso il giudice competente per i reati in ordine ai quali è stata prestata la collaborazione. Il trattamento penitenziario "premiale" risulta in tal modo sempre sottoposto al filtro dell'organo che  ha deliberato l'ammissione al programma di protezione: il tribunale di sorveglianza perciò verrà a conoscenza solo in via mediata della valutazione della pubblica accusa e la cadenza conoscitiva si effettua addirittura con un doppio passaggio, dall'organo giurisdizionale a quello amministrativo e da quest'ultimo al pubblico ministero. In caso di parere sfavorevole della Commissione centrale, il giudice di sorveglianza potrà pur sempre concedere trattamenti premiali, ma il provvedimento dovrà essere specificatamente motivato. Tale requisito della "motivazione specifica" ha suscitato molte critiche, considerato come l'ordinanza che segna l'epilogo decisorio del rito di cui all'art. 678 c.p.p. deve essere, secondo la regione generale di cui all'art. 125 comma 3 c.p.p., sempre motivata a pena di nullità. Se quindi funzione della motivazione è evidenziare con compiutezza l' iter logico-giuridico seguito dal giudice, il richiamo ad una sua pretesa "specificità" introduce nel sistema un dato quantitativo spurio difficilmente intelleggibile.[102]

Inoltre resta da stabilire quale tipo di controllo la magistratura di sorveglianza possa esercitare nei confronti di persone delle quali arriva a volte ad ignorare perfino la residenza e le nuove generalità. Il rischio maggiore era ed è rappresentato[103] dal fatto che la magistratura di sorveglianza può essere chiamata a giudicare soggetti che, sottratti al circuito penitenziario, non sono mai stati sottoposti ad osservazione e trattamento in modo tale che possa essere indotta a formulare giudizi secondo canoni estranei al processo di sorveglianza, sulla scorta di un unico dato di valutazione costituito dal giudizio espresso dalla Commissione Centrale.[104] Tale parere ha rappresentato un dato "ambiguo" per il Tribunale di Sorveglianza di Roma,[105]in quanto nella maggioranza dei casi in essi non erano espressi giudizi sull'evoluzione personologica del collaboratore, ma soprattutto valutazioni di carattere politico-amministrativo, concernente la possibilità, da parte di uomini e mezzi, di assicurare il controllo del soggetto ammesso al beneficio della misura alternativa.

Risultava pertanto evidente il pericolo che il trattamento penitenziario relativo a questa particolare categoria di collaboratori di giustizia, fosse "subordinato" pesantemente a valutazioni che non fossero di carattere premiale, effettuate dall'organo amministrativo preposto.

4.     Gli interventi sintomatici della Corte Costituzionale.

La Corte Costituzionale, in merito al tema in oggetto, è intervenuta in maniera  significativa con  le sentenze 8 luglio 1993, n°306 e 14 dicembre 1995, n°504.[106]

Con riferimento alla prima sentenza la Suprema Corte, nel  dichiarare l'illegittimità costituzionale del secondo comma dell'art.15 del d.l. n°306/1992 nella parte in cui imponeva la revoca delle misure alternative alla detenzione per i condannati per i delitti indicati nel primo periodo del primo comma dell'art. 4 bis, che non avessero collaborato con la giustizia all'epoca dell'entrata in vigore del d.l. n°306/1992, anche a prescindere dall'accertamento concreto circa la sussistenza di collegamenti con la criminalità organizzata, aveva argomentato che "la mancata collaborazione non può essere assunta a indice di pericolosità sociale, ben potendo essere frutto di incolpevole impossibilità di prestarla, ovvero essere conseguenza di valutazioni che non sarebbero ragionevolmente rimproverabili". La stessa Corte Costituzionale argomentava che "tra le finalità che la Costituzione assegna alla pena non può stabilirsi a priori una gerarchia statica ed assoluta che valga una volta per tutte e in ogni condizione, per cui il legislatore può fare tendenzialmente prevalere l'una o l'altra finalità della pena, ma a patto che nessuna di esse ne risulti obliterata…. Non si può tuttavia non rilevare come la soluzione adottata di inibire l'accesso alle misure alternative alla detenzione ai condannati per determinati gravi reati, abbia comportato una rilevante compressione della finalità rieducativa della pena. Ed infatti la tipizzazione per titoli di reato non appare consona ai principi di proporzione e di individualizzazione della pena che caratterizzano il trattamento penitenziario, mentre appare preoccupante la tendenza alla configurazione normativa di "tipi di autore" per i quali la rieducazione non sarebbe possibile o potrebbe non essere perseguita".

Con la seconda sentenza, nel dichiarare l'illegittimà  costituzionale dell'art. 4 bis primo comma, nella parte in cui prevede che la concessione di ulteriori permessi premio sia negata nei confronti dei condannati che non si trovino nelle condizioni per l'applicazione dell'art.58 ter, anche quando essi ne abbiano già usufruito in passato e non sia accertata la sussistenza di collegamenti attuali con la criminalità organizzata, la Suprema Corte ha sviluppato il ragionamento in termini simmetrici arrivando a inficiare l'equiparazione positiva tra collaborazione prestata e assenza di pericolosità e attribuendo quindi rilievo al momento accertativo della insussistenza di collegamenti con la criminalità organizzata.[107] La Corte ha infatti notato come "la valenza dell'elemento collaborativo abbia subito, per via del suo significato prevalentemente dimostrativo dell'assenza di collegamenti con la criminalità organizzata, una progressiva opera di sgretolamento", e con ciò richiamandosi alla eadem ratio della precedente sentenza.

In entrambi i casi, si assiste perciò ad un "aggiramento" del requisito rigido dell'elemento collaborativo come tipizzato dalla legislazione del 1991-1992, evidenziando come l'automaticità del presupposto vanifichi i programmi e i percorsi rieducativi, con particolare pregiudizio per quei soggetti la cui collaborazione sia incolpevolmente impossibile, e nei confronti di coloro per i quali la rottura con le organizzazioni criminali sia adeguatamente dimostrata.[108]

La Corte di Cassazione, intervenuta nuovamente sulla problematica, ha escluso che la collaborazione possa formare oggetto di una pronuncia meramente dichiarativa, finalizzata esclusivamente al riconoscimento dello status di collaboratore, ma deve essere invece accertata all'interno del procedimento attivato per la concessione dei benefici penitenziari. [109] Perciò appare confermato un ritorno alla logica dell'accertamento caso per caso, indipendente da stereotipi astratti e incontrovertibili: il tentativo di guadagnare qualifiche o attribuzioni di status o di un "salvacondotto" che ponga il condannato al riparo da specifiche e approfondite verifiche, appare ancora una volta sterile.[110] Infatti dal sistema si evince che la collaborazione è elemento della più ampia fattispecie complessa che integra l'insieme delle condizioni richieste per l'ammissione ai benefici extramurari. 

5.     I Profili penitenziari sistematici della legge 13 febbraio 2001. 

Come si colloca la nuova legge sui collaboratori di giustizia all'interno del percorso normativo precedentemente delineato e quali le novità  da essa apportate? L'analisi verterà sulla formulazione dell'art.16 nonies del d.l. n°8/1991, che modifica in modo tangibile la disciplina dei benefici penitenziari sia per le modalità di "accesso" ad essi, sia per la loro tipologia.

In primo luogo, l'area dei benefici penitenziari è più restrittiva della disciplina precedente, in quanto riguarda soltanto i soggetti condannati

per delitti commessi per finalità di terrorismo o di eversione dell'ordinamento costituzionale o per uno dei delitti di cui all'art.51 comma  3  bis  codice  di  procedura  penale,  mentre  per  tutti gli altri 

collaboratori di giustizia si applicherà la disciplina ordinaria prevista dall'art. 4 bis, senza la possibilità di poter concedere misure alternative alla detenzione in deroga alle disposizioni dell'ordinamento penitenziario.

In secondo luogo, una delle innovazioni più rilevanti è data dal venir meno della distinzione tra collaboratori di giustizia ammessi a speciale programma di protezione, per i quali l'ammissione alle misure alternative alla detenzione poteva avvenire anche in deroga alle disposizioni dell'ordinamento penitenziario, e collaboratori di giustizia che non usufruivano di tale provvedimento amministrativo e nei confronti  dei  quali  si  applicava il regime ordinario previsto dall'art.4

bis dell'ordinamento penitenziario. Infatti come già rilevato precedentemente[111], con la vecchia normativa era la Pubblica Amministrazione, nelle vesti della Commissione Centrale,  a gestire la

collaborazione decidendo l'ammissione al programma speciale di protezione sulla base di una valutazione di idoneità delle misure di protezione  più  adeguate alla tutela dell'incolumità del dichiarante, ma

fondata su criteri di valutazione eterogenei rispetto a quelli normalmente in considerazione per la concessione dei benefici penitenziari. Con la nuova normativa si assiste infatti ad un'unica tipologia  dei  benefici penitenziari applicabili ad ogni collaboratore di

giustizia, mentre l'unica distinzione ancora presente riguarda la competenza per la loro adozione che, nei confronti dei collaboranti ammessi a speciale programma di protezione, rimane affidata alla magistratura di sorveglianza di Roma come confermato dall'art.16 nonies comma 8.[112]

 In terzo luogo, l'altra novità incide direttamente sull'aspetto procedurale  dell'ammissione alle misure alternative alla detenzione per i collaboratori ammessi a speciale programma di protezione, poiché ai fini della loro adozione viene eliminato l'obbligo da parte del magistrato di sorveglianza di acquisire il parere della Commissione Centrale. L'esperienza di dieci anni di applicazione della vecchia normativa da parte della Magistratura di sorveglianza di Roma[113] ha evidenziato  il  carattere  marginale  svolto  da  questo provvedimento,

espresso sempre con un semplice fonogramma e contenente unicamente la decisione adottata dall'organo amministrativo, ma priva di qualsiasi motivazione al riguardo, ponendo conseguentemente i magistrati  di  sorveglianza di fronte al compito estremamente difficile

di motivare un parere caratterizzato dalla mancanza di un contenuto determinante. Con la nuova previsione dell'art.16 nonies comma 1, è stato eliminato tale passaggio, dando direttamente rilevanza al parere o alla proposta di organi giurisdizionali immediatamente operativi quali i Procuratori Generali presso le Corti d'Appello interessate e il Procuratore Nazionale Antimafia che potranno in prima istanza conoscere e valutare l'importanza e il ruolo svolto dal collaborante all'interno  dell'organizzazione  criminale  di  appartenenza. Inoltre per

consentire una analisi complessiva e approfondita da parte dei giudici di sorveglianza, la proposta e il parere dovranno essere molto dettagliati[114], come disposto dall'aart.16 nonies commi 2 e 3, in quanto dovranno contenere  la valutazione della condotta e della pericolosità sociale del soggetto, precisare se questi si sia mai rifiutato di sottoporsi a interrogatorio, esame o ad altro atto di indagine nel corso dei procedimenti penali in cui ha prestato la sua collaborazione, nonché ogni altro elemento rilevante ai fini dell'accertamento del ravvedimento anche con riferimento all'attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata o eversiva. Viene inoltre prevista la possibilità da parte del tribunale o del magistrato di sorveglianza di richiedere la copia del verbale illustrativo dei contenuti della collaborazione e, nel caso di collaboratore ammesso a speciali misure di protezione, il relativo provvedimento di applicazione.

6.     I presupposti per l'ammissione ai benefici penitenziari.

Il primo presupposto per l'ammissione alle misure extramurarie ha carattere processuale: come disposto dall'art.16 nonies comma 4, i provvedimenti che derogano ai limiti di pena possono essere adottati soltanto se, entro il termine di centottanta giorni dal momento in cui il soggetto ha manifestato la volontà di collaborare, è stato redatto il verbale illustrativo dei contenuti della collaborazione di cui all'art.16 quater. Il verbale illustrativo dei contenuti della collaborazione rappresenta il fulcro della nuova normativa, e sostituisce il verbale delle dichiarazioni preliminari alla collaborazione, di cui all'art. 2 comma 2 del decreto ministeriale 24 novembre 1994, n°687. Attraverso l'introduzione di questo nuovo istituto[115], il proposito perseguito dal legislatore è quello di far sì che l'ambito delle conoscenze delle quali è portatore il soggetto che effettua la scelta collaborativa sia cristallizzato in tempi brevi e rigorosamente determinati così da evitare le tanto criticate dichiarazioni "a rate" e conseguentemente il rischio di atteggiamenti ricattatori da parte del soggetto. La redazione del predetto verbale  rappresenta non solo la conditio sine qua non per l'accesso ai benefici penitenziari, ma anche per la concessione delle speciali misure di protezione (art.16 quater) e delle circostanze attenuanti (art.16 quinquies) che il codice penale e le disposizioni speciali prevedono in materia di collaborazione.[116] 

Il verbale illustrativo dei contenuti della collaborazione pone interrogativi processuali importantissimi, strettamente processuali, quali ad esempio l'individuazione precisa dei soggetti chiamati a redigere tale atto, la sua forma, l'analisi specifica dei suoi contenuti, il regime della inutilizzabilità, per i quali si rinvia alle fonti citate.

Altro aspetto fondamentale e innovativo della legge riguarda la posizione del soggetto che abbia prestato la collaborazione dopo la sentenza di condanna, se i fatti per i quali è intervenuta la condanna sono diversi rispetto a quelli per i quali è stata prestata la collaborazione. In questo caso infatti per poter usufruire dei benefici penitenziari è necessario un ulteriore requisito, consistente nell'emanazione della sentenza di primo grado concernente i fatti oggetto della collaborazione che ne confermi i requisiti. Si tratta di un principio di cautela, per cui il legislatore richiede ora che la natura della collaborazione venga verificata non una volta per tutte, ma ogni volta e in sede propria, cioè nel procedimento per il reato per il quale vi è stata la collaborazione.[117]  

Una volta che si siano verificati tutti i presupposti analizzati precedentemente, il Tribunale o il Magistrato di sorveglianza dovranno verificare l'esistenza di quattro requisiti centrali riguardanti direttamente la persona del collaboratore.

a). Importanza del contributo.

Il nodo centrale è rappresentato dalla finalità con cui vengono concesse le misure alternative alla detenzione nei confronti dei collaboratori di giustizia ammessi a speciale programma di protezione: dovrà tenersi conto esclusivamente della valutazione della personalità del soggetto, nel senso che occorre pervenire a un giudizio prognostico favorevole circa le prospettive di rieducazione del reo, oppure dovranno avere ingresso anche altre valutazioni relative appunto al valore della collaborazione resa? Ed ancora, le misure alternative hanno una funzione esclusivamente premiale, o sono necessarie per salvaguardare la tutela dell'incolumità di soggetti che saranno sicuramente esposti ad un rischio maggiore allorquando il loro contributo sia qualitativamente e quantitativamente importante? Per rispondere a tali interrogativi si dovrà inevitabilmente partire dalla vecchia normativa e in particolare dalla sua applicazione concreta, in quanto il dato testuale relativo all'art.13 ter è troppo generico[118] e lascia ampio spazio all'interpretazione degli organi giudiziari. Tale analisi è più che mai attuale, considerato come anche con la nuova normativa sarà sempre possibile, seppure con presupposti diversi, concedere benefici in deroga.  Anticipando una analisi che riprenderemo successivamente[119], la deroga alle norme dell'ordinamento penitenziario è stato sempre interpretato dal Tribunale di Sorveglianza di Roma non come un complesso di norme contro sistema, una oasi giuridica per il collaboratore, ma come una possibilità, pur in assenza dei presupposti sostanziali e in alcuni casi di quelli di ammissibilità[120], di valutare il merito, cioè di poter effettuare positivamente una valutazione di affidabilità esterna del soggetto che fosse compatibile con la struttura della misura. In altre parole, la deroga è stata sempre interpretata come la possibilità di concedere misure extramurarie esistenti anche sulla base di presupposti diversi, ma non altre misure che potrebbero essere "create" allorquando non si dovesse tenere conto del dato centrale che deve rimanere intangibile e relativo alla possibilità di formulare un giudizio prognistico favorevole relativo alla rieducazione del soggetto. Risulta evidente come ogni altro elemento deve essere funzionale ad esso e consentire unicamente di corroborarlo, e quindi anche la valutazione dell'importanza del contributo non potrà essere valutata come un requisito completamente autonomo. Esemplificazione concreta di tale analisi è l'ordinanza n° 3998/2001 emessa dal Tribunale di Sorveglianza di Roma nei confronti di un collaboratore di giustizia[121], con la quale veniva concessa la misura della detenzione domiciliare. Ai fini di valutare in modo approfondito la natura della collaborazione prestata, il Tribunale aveva chiesto una relazione alla Procura della Repubblica di Catanzaro- Direzione Distrettuale Antimafia- che aveva risposto in data sei marzo 2001. Tale relazione evidenziava la novità, l'eccezionale rilevanza e soprattutto il disinteresse, in quanto il collaboratore in oggetto si trovava in stato di libertà quando iniziò a collaborare nella seconda metà del 1996, della collaborazione prestata, che ha " consentito di inquadrare un contesto criminale gravissimo mai esplorato in precedenza con preziose indicazioni sulle guerre di mafia succedutesi nel territorio lamentino dal 1982 al 1995, e sui responsabili del duplice omicidio del Sovrintendente… e di sua moglie che hanno trovato puntuali conferme". Il Procuratore distrettuale di Catanzaro concludeva che i contenuti della collaborazione, in considerazione del numero e della qualità dei personaggi coinvolti, appartenenti ai vertici della 'ndrangheta a livello regionale, " fa ritenere irreversibile la scelta collaborativa compiuta e definitiva la dissociazione dall'ambiente criminale di provenienza" e lo stesso Tribunale di Sorveglianza di Roma accoglieva l'istanza di detenzione domiciliare argomentando come " gli elementi emersi a favore del collaboratore sia per il contenuto e la qualità dell'apporto di elevato spessore offerto all'Autorità giudiziaria su gravissimi fatti di mafia, sia per la condotta coeva e successiva alla collaborazione ispirata a costante segno di lealtà e correttezza verso le istituzioni, rappresentano il segno inequivocabile di un processo di rieducazione e di riscatto sociale solidamente ancorati, tali da rendere improbabili, oltre che non auspicabili, fenomeni di regressione".

Altro aspetto legato all'importanza del contributo è rappresentato dal fatto se tale requisito possa condizionare il Tribunale sul tipo di misura alternativa da adottare, per evitare di esporre il collaboratore che fornisce dichiarazioni importantissime di fronte al rischio reale per la propria incolumità.[122]  In merito a tale aspetto l'orientamento della Corte di Cassazione è sempre stato costante: "In tema di affidamento in prova al servizio sociale dei collaboratori di giustizia ammessi allo speciale programma di protezione….. il Tribunale di Sorveglianza non ha alcuna competenza a procedere a valutazione circa l'eventuale sussistenza di pericoli che la concessione del beneficio potrebbe comportare per l'incolumità personale del richiedente, trattandosi di apprezzamento demandato per legge alla sola autorità amministrativa".[123]  Con tale sentenza si è voluto quindi ribadire il carattere eminentemente premiale delle misure alternative alla detenzione, principio che viene confermato anche dalla considerazione che tra le misure che possono essere concesse anche in deroga alle disposizioni vigenti, c'erano e ci sono alcune che non hanno nessuna funzione tutoria come i permessi premio.  Tuttavia  tale

principio è stato in parte "intorpidito" da una sentenza della Corte di Cassazione[124]  che aveva affermato come " dall'interpretazione letterale,  logica  e  sistematica  delle  norme  contenute nel capo II del

D.l. n°8/1991, si evince che anche il familiare ricompreso nel programma di protezione di cui è titolare il collaboratore possa usufruire, al pari di quest'ultimo, delle previste deroghe alla normativa penitenziaria". In questo caso risultava chiaro l'orientamento "tutorio" della sentenza, in quanto la premialità per il familiare non collaborante non esiste, si tratta di una "premialità indiretta", per cui la finalità era unicamente quella di tutela dell'incolumità dei parenti del collaboratore.

Attraverso la legge 45/2001 si è voluto ribadire, nonostante la citata sentenza, il carattere premiale dei benefici penitenziari nei confronti dei collaboratori[125] e tale giudizio emerge direttamente dai nuovi referenti legislativi che "esaltano" il profilo qualitativo del momento collaborativo:  in  primo  luogo, la "premialità indiretta" per i familiari

viene esclusa dall'art.16 nonies comma 1 del d.l. n°8/1991 che stabilisce infatti come la concessione dei benefici penitenziari in deroga possa avvenire solo nei confronti dei condannati per la serie di reati visti precedentemene, ma soprattutto l'aspetto premiale della collaborazione viene distinto nettamente dall'aspetto tutorio dalla stessa previsione dell'art.16 nonies comma 4, relativo al periodo  di pena che il soggetto deve in ogni caso espiare e che analizzeremo più avanti.

b). Il ravvedimento.

Il ravvedimento rappresenta il presupposto soggettivo tipico della liberazione condizionale, introdotto con la legge 25 novembre 1962 n°1354, che ha sostituito il precedente riferimento alle "prove costanti di buona condotta" introdotto precedentemente dal codice penale.

Tale requisito attiene non all'aspetto esteriore della condotta, ma ad una evoluzione positiva del carattere e delle abitudini di vita effettivamente operatasi nel detenuto[126] : infatti il concetto di ravvedimento, letto anche "per differenza" alla luce degli altri requisiti tipici soggettivi delle altre misure del trattamento progressivo, non può identificarsi né sulla prognosi di non recidiva, quale richiesto dagli artt. 164 e 169 c.p. in tema di sospensione condizionale della pena e di perdono giudiziale, né sul giudizio di "contribuzione alla rieducazione del reo", quale richiesto dall'art. 47 O.P per l'affidamento in prova, né sul dato dei progressi compiuti durante il trattamento, come previsto dall'art.50 O.P. per il regime della semilibertà. Il ravvedimento è infatti un concetto più pregnante e incisivo, che indica un mutamento profondo e sensibile della personalità del soggetto, tale da indurre un diverso modo di sentire e agire in armonia con i principi accolti dal consorzio civile.[127] La stessa Corte di Cassazione[128] ha definito il ravvedimento come "il risultato di una costante e progressiva buona condotta, dimostrativa del processo interiore di accettazione della espiazione come mezzo di riscatto morale dal delitto". Per questi motivi non è sufficiente un mero adattamento alle regole carcerarie, spesso calcolato per accattivarsi le simpatie del personale di custodia, ma comportamenti positivi e sintomatici che "tendano a recuperare i valori morali dell'uomo"[129], quali le buone relazioni intrattenute con i compagni di prigionia ma soprattutto la volontà di reinserimento dimostrata con attività di lavoro e di studio, e l'interesse dimostrato per i valori spirituali e religiosi.[130]

Perciò non basta la mera volontarietà del comportamento, essendo necessario quasi un "ripudio" dell'impresa criminosa che esprima  il "riscatto morale" enunciato dalla Corte di Cassazione.

IL ravvedimento, a livello penitenziario, può rappresentare il "corollario logico" della condotta dissociativa espressa sintomaticamente, a livello sostanziale, dall'art.4 del d.l. n° 15/12/ 1979 n°625, convertito nella legge 6/2/1980 n°15, che in tema di delitti commessi per finalità di terrorismo e eversione dell'ordine democratico, introduceva una circostanza attenuante nei confronti di chi, "dissociandosi dagli altri si adopera per evitare che l'attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori, ovvero aiuti concretamente l'autorità di polizia o l'autorità giudiziaria nella raccolte di prove decisive per l'individuazione o la cattura dei colpevoli".

Infatti in questo caso l'attenuazione della responsabilità si prospetta in conseguenza non solo del compimento di una attività antagonistica diametralmente opposta rispetto a quella tenuta per il compimento del reato, ma anche del distacco completo dai complici, espressione di una vera e propria "scelta di campo", di una rottura col passato, in altri termini di un pentimento civile.[131]

La collaborazione con la giustizia, espressa a livello penitenziario dall'art.58 ter, prescindeva dal dato del ravvedimento, considerato come il testo dell'articolo citato è corrispondente a quello espresso dall'art.4 della legge 6/2/1980, eccetto per la mancanza della condotta dissociativa quale elemento tipico della fattispecie. La legge 45/2001 sembra invece introdurre questo requisito del "pentimento civile" con un dato problematico che va sottolineato: infatti il ravvedimento diventa il presupposto soggettivo non solo per la concessione della liberazione condizionale, ma anche dei permessi premio e della detenzione domiciliare. Perciò il requisito centrale della misura che si delinea come "fase terminale del trattamento progressivo risocializzativo"[132], viene assunto a presupposto base anche di misure extramurarie che dovrebbero rappresentare solo gli strumenti di realizzazione di tale fase, che deve essere quindi ancora completata.        

 

c). Esclusione della sussistenza di collegamenti con la criminalità organizzata.

Questo tipo di giudizio è sicuramente ricollegato ad un determinato contesto storico: è evidente che nel momento stesso in cui il soggetto decide di collaborare, rompe con l'associazione criminale di appartenenza e la quota di pericolosità connessa alla sua "attitudine" ad essere associato con altri esponenti della criminalità organizzata viene meno.[133] Tuttavia rimane aperta la questione del dato personologico individuale, del tipo di evoluzione personale che riguarda il soggetto coinvolto: in un momento storico successivo alla collaborazione, nessuno può escludere a priori che il soggetto possa essere nuovamente reinserito in altra organizzazione criminale, e di tale evenienza lo stesso legislatore ha tenuto conto richiedendo come la prova richiesta debba essere comunque di tipo positivo.[134]      

d). Espiazione di un periodo minimo di pena.

Si tratta probabilmente della innovazione più rilevante in materia di benefici penitenziari, in quanto viene stabilito come il collaboratore debba in ogni caso espiare un periodo minimo di pena, consistente in un quarto di essa ovvero dieci anni nel caso di condanna all'ergastolo.

La disposizione dell'art.16 nonies comma 4 rappresenta il dato normativo centrale che distingue il momento premiale dal momento tutorio,  intendendo  tracciare  così  un  netto  confine  tra protezione e

premialità e far discendere i vari benefici dalle condotte collaborative tenute e non dalla intervenuta ammissione o meno del collaboratore alle misure speciali di protezione.[135] Per questo motivo, il presupposto per godere del trattamento di favore è sempre rappresentato dalla "condotta di collaborazione tenuta" e non dal sistema tutorio applicato al soggetto. Nel sistema precedente appariva irragionevole l'assegnazione a struttura extrapenitenziaria prima del "pentimento", e cioè in una fase anteriore alla verifica della potenzialità e della serietà delle intenzioni del collaboratore.[136] Era necessario far precedere la concessione del beneficio da un periodo di "osservazione", in cui poter applicare effettivamente le normali regole del Trattamento penitenziario per valutare la serietà e la portata della " evoluzione personologica" del collaboratore. Per questi motivi, la legge 45/2001 delinea un sistema diametralmente diverso rispetto alla legislazione previgente, un sistema intramurario attuato sia dopo l'emanazione della sentenza definitiva, attraverso la previsione dell'art.16 nonies[137], sia in sede di giudizio attraverso l'abrogazione del comma 4 dell'art.13 e dell'art.13 bis del d.l. n°8/1991, che consentivano una custodia "extracarceraria" basata unicamente su parametri di tipo tutorio.

 

 

 

 

7.     Le misure alternative alla detenzione per i collaboratori di giustizia: caratteristiche e tipologia.

Con la nuova legge 45/2001 si assiste ad una riduzione notevole delle misure alternative alla detenzione concedibili in deroga ai limiti di pena ordinari, in quanto l'art.16 nonies fa riferimento unicamente alla liberazione condizionale e alla detenzione domiciliare.

L'esclusione più rilevante riguarda l'affidamento in prova al servizio sociale, beneficio che tra l'altro presentava anche nella legislazione precedente problemi di compatibilità con lo status di collaboratore di giustizia.[138] Tale misura infatti è stata raramente concessa dal Tribunale di Sorveglianza di Roma per due motivi fondamentali: il primo è ricollegato alla struttura stessa di tale misura, in quanto l'impianto fondamentale del beneficio si sostanzia nell'affidare al Servizio Sociale il controllo ed il sostegno del condannato in ambiente libero, cosa in realtà concretamente inattuabile per i collaboratori a causa delle necessità collegate alla loro sicurezza che impongono, quali  misure  minime,  la  segretezza  del  domicilio,  l'esclusione    di 

contatti suscettibili di rivelare all'esterno la condizione di collaboratore di giustizia e la drastica riduzione del numero delle persone a conoscenza delle modalità di vita di chi è sottoposto a programma di protezione.[139] Gli stessi rapporti col Servizio Sociale sarebbero privi di significato: i contatti del collaboratore con esso sarebbero poco proponibili in un luogo frequentato da altri soggetti condannati e i repentini e continui spostamenti sul territorio del collaboratore non consentirebbero quella continuità necessaria perché l'opera di tale organo possa avere una efficacia rieducativo-trattamentale. Perciò concedere un affidamento in prova al servizio sociale con una presenza marginale e limitata dello stesso servizio sociale, significherebbe in realtà concedere una misura completamente diversa da quella prevista dall'art. 47 dell'ordinamento penitenziario.

Ma la ragione principale per la quale l'affidamento in prova al servizio sociale è stato escluso nei confronti dei collaboranti riguarda il merito della concedibilità delle misure premiali: come abbiamo già visto nel paragrafo precedente, la "deroga" alle disposizioni dell'ordinamento penitenziario di cui all'art.13 ter è stata sempre interpretata dal Tribunale di Sorveglianza di Roma non come un complesso di norme "contro sistema", ma come possibilità, anche in assenza dei presupposti di ammissibilità e di quelli sostanziali, di effettuare sempre e comunque una valutazione di affidabilità che doveva essere compatibile con la struttura stessa della misura concedibile: nel caso di valutazione di affidabilità assoluta ed incondizionata sarebbe stato possibile concedere l'affidamento in prova che si caratterizza infatti per l'estrema libertà  consentita al soggetto beneficiario, mentre nel caso di valutazione di affidabilità "relativa e parziale", la misura da applicare si configura nella detenzione domiciliare che permette un maggiore controllo del soggetto e consente di perseguire gradualmente il reinserimento sociale. Risultava chiaro come, nei confronti di delinquenti primari condannati a pene detentive perpetue o molto lunghe quali sono i collaboratori di giustizia ammessi allo speciale programma di protezione, era impossibile effettuare un giudizio di affidabilità incondizionata dopo il decorso di un periodo breve di pena espiata, non potendosi inoltre assumere la "quasi certezza" di un danno grave per la collettività.

Esiste perciò soprattutto in questa materia, il principio di  gradualità delle misure extramurarie concedibili che deve in ogni caso essere rispettato, e  questo è stato l'orientamento costante della Magistratura di Sorveglianza di Roma testimoniato da numerose ordinanze emesse.[140] Per questo motivo la misura della detenzione domiciliare appare più compatibile con lo status di collaboratore di giustizia e con le esigenze di difesa della collettività.[141]  Tale beneficio assume caratteristiche molto peculiari, in ragione della particolare categoria di soggetti cui viene applicata.[142] Infatti dal punto di vista strutturale, le prescrizioni imposte al collaboratore diventano sempre più ampie in base alla considerazione che si tratta di misure molto lunghe e si deve permettere gradualmente al soggetto di svolgere una vita normale e di reinserirsi nella società, in conformità di quanto disposto dal programma di protezione. Ad esempio, nel caso di richiesta di svolgere attività lavorativa da parte di collaboratori di giustizia sottoposti alla misura della detenzione domiciliare, il Tribunale di Sorveglianza di Roma richiede una relazione al Servizio Centrale di Protezione relativa al tipo di  attività che dovrà svolgersi, alla natura della collaborazione e al comportamento tenuto dal soggetto, e in caso favorevole, "allenterà" le prescrizioni originariamente imposte. Perciò come   ampiezza  della misura,   la   detenzione   domiciliare  tende  ad

avvicinarsi molto all'affidamento in prova, anche se le differenze rimangono evidenti, in quanto non c'è l'intervento del servizio sociale e soprattutto non è previsto nessun giudizio finale sulla validità della prova.   Anche  nel  caso  di  questa   misura  il  dato  centrale   rimane comunque quello di poter formulare una valutazione di affidabilità sterna del collaboratore, minore di quello richiesto per la concessione dell'affidamento in prova, ma sempre esistente.[143] 

L'altro tipo di misura premiale prevista è la liberazione condizionale che rappresenta una novità assoluta nei confronti dei collaboratori di giustizia ammessi a speciale programma di protezione, in quanto l'art.13 ter comma 1, tra i benefici penitenziari concedibili ad essi, faceva riferimento unicamente a quelli previsti dal Capo VI della Legge 26 luglio 1975, n°354. La liberazione condizionale, collocata all'interno del quadro generale delle misure alternative alla detenzione previste dall'Ordinamento Penitenziario e dirette a realizzare progressivamente le diverse fasi del trattamento rieducativo e risocializzativo, si configura idealmente come "momento finale del disegno di recupero del condannato alla società civile".[144]  Infatti per le caratteristiche indicate dall'art.176 del codice penale ed in primis il requisito centrale del ravvedimento[145], il modello costituito normativamente si configura come fase terminale del trattamento progressivo risocializzato, che si fonda su una concezione special preventivo-rieducativa della pena, secondo la quale alle progressive acquisizioni di comportamenti socialmente adeguati da parte del detenuto devono corrispondere conquiste di sempre maggiori spazi di libertà, finché, una volta raggiunto un sufficiente grado di risocializzazione, il condannato può essere ammesso a verificare in ambiente completamente extracarcerario i risultati del trattamento.[146] Pertanto è come elemento del trattamento penitenziario individualizzato per le pene medio lunghe che la liberazione condizionale può esprimere più pienamente e con maggiore autonomia operativa le proprie potenzialità operative: tale istituto perciò può essere ben delineato nei confronti dei collaboratori di giustizia, il cui status risulta più "sensibile" al principio di gradualità delle misure alternative alla detenzione e in cui gli istituti del permesso premio e della detenzione domiciliare costituiscono strumenti tipici del trattamento progressivo, finalizzati a saggiare la affidabilità "esterna" del collaboratore e, conseguentemente, preparatori, alla liberazione. 

8.     Collaboratori di giustizia e trattamento carcerario.

Le problematiche connesse alla gestione carceraria dei collaboratori di giustizia possono essere ricondotte a due tipologie: la prima riguarda la necessità di assicurare la "genuinità" delle dichiarazioni rese da tali soggetti, impedendo soprattutto i contatti tra essi e altri detenuti, in particolar modo collaboratori di giustizia, in quanto non va dimenticato come  lo stesso collaboratore non sia indifferente alla ricostruzione che i giudici faranno dei fatti processuali.[147] L'esperienza giuridica ha dimostrato infatti come la prima preoccupazione di tali soggetti è stata quella di non perdere il credito e la fiducia guadagnati verso gli organi giudiziari, cercando di evitare contraddizioni tra il proprio racconto, le versioni degli altri collaboratori e le prove in possesso dei magistrati. In tale contesto, il funzionamento di "Radio Carcere" può consentire ai detenuti interessati di apprendere molto presto se qualcuno sta collaborando, con quale magistrato, e quale sia la "portata" delle nuove rivelazioni.

Per questi motivi la legge 45/2001 ha predisposto un meccanismo di "isolamento assoluto" del collaboratore di giustizia, e finalizzato a impedire il verificarsi di condotte anche solo astrattamente leggibili come condotte di concertazione delle dichiarazioni, o come preparazione delle stesse,[148] espresso dal novellato art. 13 comma 14 del d.l. n°8/91, che prevede due tipi di divieti fino alla redazione del verbale illustrativo dei contenuti della collaborazione[149]: il divieto di effettuare i colloqui investigativi e divieto di avere corrispondenza epistolare, telegrafica e telefonica, nonché di incontrare altre persone che collaborano con la giustizia, salvo autorizzazione dell'autorità giudiziaria per finalità connesse ad esigenze di protezione ovvero quando ricorrano gravi esigenze relative alla vita familiare.

In merito a tale disposizione vanno sottolineati due aspetti: il primo è relativo all'istituto dei colloqui investigativi come disciplinato dall'art.18 bis della legge 26 luglio 1975 n°354. Infatti in sede parlamentare[150]  è stato evidenziato come consentire i colloqui investigativi mentre si sta redigendo il verbale illustrativo dei contenuti della collaborazione, potrebbe creare un elemento di "turbativa" nei confronti del collaboratore che deve essere lasciato libero da eventuali influenze esterne e da suggerimenti che potrebbero venire, anche strumentalmente,[151] da parte di chi accede ai colloqui investigativi. Inoltre è stato introdotta un'ulteriore novità, in base alla considerazione che l'istituto disciplinato dall'art.18 bis dell'Ordinamento Penitenziario spesso rimane avvolto "nel buio più profondo"[152], poiché le parti e soprattutto l'indagato o l'imputato non possono mai venire a conoscenza del fatto che il collaboratore abbia avuto un colloquio con un agente della Polizia Giudiziaria appartenente alla Direzione Distrettuale Antimafia. Per questi motivi, l'art.16 quater comma 5 ha introdotto, tra gli obblighi imposti al collaboratore e relativi alla redazione del verbale illustrativo dei contenuti della collaborazione, anche quello di riferire di eventuali colloqui investigativi intervenuti, la cui eventuale inottemperanza comporterebbe sicuramente una ricaduta sul piano processuale, relativa all'attendibilità del dichiarante.

Il secondo tipo di divieto, previsto simultaneamente per quanto concerne gli incontri del collaboratore di giustizia come obbligo in negativo al momento della sottoscrizione delle speciali misure di protezione, la cui eventuale inottemperanza costituisce un fatto valutabile ai fini della revoca o della modifica di esse,[153] è impeditivo di qualsiasi tipo di corrispondenza e di contatti del collaboratore, salvo le deroghe espressamente enunciate nel testo. Per questo ne è stato sottolineato l'eccessivo rigore che rischia di introdurre un regime ancora più duro di quello previsto dall'art.41 bis dell'Ordinamento Penitenziario, tanto più insopportabile per il collaboratore perché si applicherà ad una fase che è notoriamente quella più carica di preoccupazioni per il soggetto coinvolto e per i propri familiari.[154] Perciò se ne auspica una interpretazione diversa, più conforme al principio di umanità della pena sancito dall'art.27 comma 3 della Costituzione e recepito dalla Convenzione europea per la prevenzione dei trattamenti inumani adottata a Strasburgo il 26 novembre 1997,   per cui  tali divieti non dovrebbero riguardare la corrispondenza e gli incontri con i familiari.[155]

Il secondo tipo di problematica riguarda la necessità di garantire le normali esigenze di sicurezza nei confronti dei collaboratori di giustizia all'interno della struttura carceraria. In relazione a tale aspetto la nuova normativa risulta abbastanza scarna, poiché l'art.13 comma 13 del d.l. n°8/1991 prevede genericamente come debba essere l'Amministrazione Penitenziaria a provvedere ad assegnare i collaboratori  ad   istituti   o   sezioni   che  garantiscano  le  specifiche

esigenze di sicurezza e riservatezza, anche in vista della formulazione del verbale illustrativo dei contenuti della collaborazione, mentre la disciplina più specifica viene demandata ad apposito decreto interministeriale da emanarsi successivamente, previsto dall'art.17 bis comma 2 avente ad oggetto i presupposti e le modalità di applicazione del trattamento penitenziario.

Bisogna rilevare come le misure adottate dall'Amministrazione Penitenziaria nei confronti dei collaboratori di giustizia sono state di due tipi: prima dell'emanazione del decreto interministeriale 24 novembre  1994 n°687, tali misure sono consistite nell'assegnazione di

tale categoria di soggetti a sezioni detentive destinate in via esclusiva al contenimento di collaboratori di giustizia e disciplinate in modo tale da evitare pericolo provenienti dalle sezioni detentive ordinarie o dall'esterno.[156] In assenze di specifiche classificazioni di legge, il comune denominatore delle assegnazioni nelle dette sezioni è stato il pericolo derivante dalla collaborazione offerta ,e pertanto nel tempo queste assegnazioni hanno riguardato collaboratori per qualsiasi tipo di reato, ammessi o non ammessi a programma di protezione o a misure urgenti del Capo della Polizia. In base alla considerazione che il pericolo derivante dalla collaborazione permaneva anche nel caso di una sua eventuale cessazione o "ritrattazione", è stata mantenuta l'assegnazione nelle anzidette sezioni anche dei soggetti che avevano "dismesso" la propria condotta collaborativa.

L'articolo 7 del decreto interministeriale n°687/1994 ha individuato invece tre particolari circuiti penitenziari, sulla considerazione della necessità di una separazione più "specifica" dal resto della popolazione detenuta dai soggetti che si apprestavano a collaborare e che erano ammessi allo speciale programma di protezione, i quali erano ulteriormente suddivisi all'interno della rete delle sezioni carcerarie così create, in virtù delle diverse "fasi" della condotta collaborativa.[157] Il sistema delineato si preoccupava perciò di garantire che la detenzione avvenisse con modalità tali da assicurare, da un lato, la sicurezza del detenuto e, dall'altro, una contestuale presenza nella medesima struttura carceraria, di detenuti la cui posizione fosse nettamente differenziata, pur nella cornice comune di un intento già manifestato di disponibilità a collaborare.[158]

La nuova normativa, da adottarsi col precitato decreto interministeriale, dovrà "ripartire" dal dato dei circuiti carcerari differenziati[159], soprattutto in base alla constatazione che i nuovi referenti normativi delineano un sistema generale intramurario, attuato sia con la previsione del nuovo art.16 nonies comma 4 del d.l. n°8/1991 in tema di benefici penitenziari[160], sia attraverso la disposizione dell'art.6 della legge 45/2001 che, riscrivendo completamente l'art.13 del d.l. n°8/1991, ne abroga di fatto il quarto comma[161], sia attraverso l'art.7 della legge sopracitata che ne abroga l'art.13 bis.[162]

Pertanto oggi non sarà più possibile per il collaboratore di giustizia fuoriuscire dal circuito carcerario in presenza di esigenze di tutela della propria incolumità, e conseguentemente la detenzione extracarceraria sarà consentita unicamente e esclusivamente nel caso di concessione di benefici penitenziari o di revoca della custodia cautelare, entrambi tra l'altro basati su presupposti molto più rigorosi rispetto alla legislazione precedente.

 

 

9.     La disciplina transitoria.

Il problema dettato dalla nuova normativa riguarda quale la sia la disciplina da applicare ai condannati nei confronti dei quali, al momento della modifica legislativa, ricorrevano i presupposti di ammissibilità previsti dalla Legge n°82/1991, vale a dire la titolarità del programma di protezione, considerato che la nuova normativa è senz'altro più restrittiva rispetto a quella precedente.

Su questo aspetto, la dottrina e la giurisprudenza sono divise: da un lato si ritiene che il principio sancito dall'articolo 25 secondo comma della Costituzione, si riferisca soltanto alle leggi penali sostanziali, tra cui  non  si  possono  includere  le norme che disciplinano l'esecuzione

della pena e le misure alternative alla detenzione, mentre dall'altro lato si afferma che il precetto costituzionale debba riferirsi a tutte le norme che,  prescindendo  dalla  fase nella quale vengono applicate, incidono sull'entità e sulle modalità esecutive della pena detentiva. Risulta evidente come l'adesione al primo o al secondo di questi indirizzi conduca a diverse risposte, dovendosi, nel primo caso, applicare il principio secondo cui "tempus regit actum" , e nel secondo quello disciplinato dall'articolo 2 del codice penale.

Nell'affrontare la problematica, il Tribunale di Sorveglianza di Roma ha cercato di giungere ad una interpretazione della legge che fosse conforme agli indirizzi costituzionali ed al generale principio di ragionevolezza, risolvendo perciò la questione alla luce del principio di "non regressione incolpevole del trattamento penitenziario", sancito dalla Corte Costituzionale con la sentenza 30 dicembre 1997, n°445.[163] Infatti con tale decisione, che si "allinea" a quelle precedentemente prese nelle sentenze 306/1993 e 504/1995, analizzate precedentemente, la Suprema Corte  ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 4 bis, primo comma O.P. nella parte in cui non prevede  che  il  beneficio  della  semilibertà possa essere concesso nei

confronti dei condannati che, prima della data di entrata in vigore dell'art.15, primo comma del d.l. 8 giugno 1992 n°306, avessero raggiunto  un  grado  di  rieducazione adeguato al beneficio richiesto e

per i quali non fosse stata accertata la sussistenza di collegamenti attuali con la criminalità organizzata.

I parametri applicati sono sempre gli stessi delle precedenti sentenze:

a)     contrasto con l'art.3 della Costituzione poiché, rispetto ai condannati che avevano già ottenuto la misura pur non collaborando, per il solo fatto che il relativo provvedimento di concessione era stato adottato prima dell'entrata in vigore della norma impugnata, si sarebbero discriminati ingiustificatamente coloro i quali,  meritevoli della concessione del beneficio alla data dell'entrata in vigore dell'art.15 primo comma del d.l. n°306/1992, per mere ragioni contingenti non avevano ancora ottenuto alcuna decisione da parte del Tribunale di Sorveglianza.

b)    contrasto con l'art.27, terzo comma, della Costituzione, in quanto la negazione del trattamento extramurario rispetto al quale il condannato fosse risultato già adeguatamente risocializzato, avrebbe assunto connotazioni essenzialmente ablative dell'aspettativa dello specifico strumento rieducativo.[164] 

Proprio con riferimento al principio di carattere generale espresso dalla Corte Costituzionale, il Tribunale di Sorveglianza di Roma[165] ha rilevato come "l'aspettativa in ordine al trattamento sanzionatorio, inteso nella sua più ampia accezione comprensiva delle modalità esecutive della pena, maturi in relazione alla normativa vigente al momento del quale vengono poste in essere proprio le condotte che sono il presupposto di quel trattamento (il reato, ma anche la condotta collaborativa indispensabile per l'ammissibilità dei benefici in deroga alla norma ordinaria)".  Di conseguenza, l'organo giudiziario ha ritenuto applicabile l'art.25, secondo comma della Costituzione, anche alle norme che vanno a incidere sulle modalità esecutive della pena, disciplinando la "problematica"  con i principi contenuti nell'art.2, terzo comma del codice penale, e applicando perciò l'art.13 ter della legge n°82/1991 anche ai condannati che, al momento della modifica legislativa, erano titolari del programma di protezione.

Tuttavia, nonostante tale interpretazione dell'organo giudiziario romano, va evidenziato come l'aver conferito il "crisma della sacralità costituzionale" al diritto alla salvaguardia della "progressione trattamentale" ha consentito al giudice delle leggi di permanere nella sua posizione di statica rinuncia di fronte alle molteplici eccezioni sollevate dai giudici a quibus in merito all'art.4 bis O.P. sotto il profilo concernente l'art.25 secondo comma della Costituzione.[166]

Infatti in entrambe le sentenze citate, la Consulta si è limitata a serbare un rigoroso silenzio o a dichiarare assorbito il profilo in questione: nella sentenza 306/1993, la Corte ha rilevato come le ordinanze di rimessione non contenessero i riferimenti idonei a precisare quale fosse la legge applicabile nei confronti dei condannati del relativo processo a quibus, rilevando pertanto come una simile valutazione rischiasse di essere astratta.[167] La sentenza 504/95 si è disinteressata  in toto della problematica, mentre la sentenza 445/97 ha optato per l'assorbimento della questione.

Da ultimo, la Corte è tornata a pronunciarsi sullo strumento dei permessi premio con la sentenza n°137 del 1999, stabilendo come non possa negarsene la concessione a coloro che, già prima dell'entrata in vigore della disciplina restrittiva, avessero maturato le condizioni per l'accesso a tale beneficio, a prescindere dalla circostanza che ne avessero precedentemente fruito. Anche in questo caso, la Consulta non ha affrontato il profilo relativo alla violazione dell'art.25 secondo comma della Costituzione, anche perché il giudice a quo ha omesso di sollevarne l'eccezione.

Pertanto dalla disamina delle pronunce sull'art.4 bis O.P., emerge la settorialità che connota il richiamo esclusivo al parametro desumibile dall'art.27 terzo comma della Costituzione: la Consulta infatti, pur tenendo ferma la medesima tesi argomentativa, sarà costretta a pronunciarsi, caso per caso, su tutte le identiche questioni sollevate in merito alle restanti opzioni trattamentali.[168]

Tuttavia, la stessa fascia di persone a cui si rivolge il dettato del comma 1 dell'art.25 della legge 45/2001, che regola l'applicazione delle disposizioni transitorie, individuati in coloro che hanno solamente manifestato una mera volontà di collaborare, delimita sia il requisito minimo di applicabilità delle nuove disposizioni legislative, sia il limite massimo al di là del quale la norma non può più trovare applicazione.[169] In questa fascia possono perciò iscriversi tre categorie di persone:

a)     quelle che abbiano solo manifestato una mera volontà di collaborare, ma non abbiano ancora iniziato a farlo.

b)    quelle la cui collaborazione sia in corso, ma che non godano di alcuna misura di protezione.

c)     quelle la cui collaborazione sia in corso e che godano di misure urgenti di protezioni, in attesa della definizione di un programma speciale di protezione.

Il problema più rilevante riguarderà il collaboratore di giustizia, già ammesso definitivamente a speciale programma di protezione, ma nei cui confronti non sia intervenuta la sentenza definitiva di condanna.[170]

Infine, merita particolare attenzione l'interpretazione del terzo comma dell'art.25, che fa specifico riferimento alle "condotte di collaborazione", a differenza del primo comma che, come già detto, prende in considerazione solo "le persone che hanno già manifestato la volontà di collaborare". Infatti il terzo comma prevede una disposizione di favore per coloro i quali, alla data di entrata in vigore della nuova legge, abbiano già tenuto delle condotte di collaborazione con riferimento a reati diversi da quelli di cui all'art. 51 comma 3 bis c.p.p. , ma comunque rientranti tra quelli indicati nell'art.380 c.p.p. . Essa consente l'applicabilità ai collaboratori suddetti delle disposizioni di cui ai commi 1 e 2.

La spiegazione della diversa previsione sta probabilmente nel fatto che, secondo le disposizioni della nuova legge, la collaborazione riferita a reati diversi da quelli indicati dall'art.9 comma 2 del d.l. n°8/1991, non consente l'applicazione delle misure di protezione e dei benefici sanzionatori a coloro i quali la prestano.

Perciò la nuova previsione legislativa ha voluto salvaguardare la posizione dei soggetti che, avendo iniziato a collaborare prima dell'entrata in vigore di essa, avevano fatto affidamento sulle misure di protezione e sui benefici sanzionatori previsti dalla precedente disciplina.[171] Proprio perché ha introdotto una eccezione alla disposizione dell'art.9 comma 2, la norma transitoria ha espressamente e più rigorosamente previsto che in questo caso non sia sufficiente la semplice manifestazione di volontà, ritenendosi perciò necessario che la collaborazione si sia già concretizzata in dichiarazioni o in altre condotte.

 

    CONSIDERAZIONI FINALI

 

 

L'esperienza applicativa dell'art. 13 ter del decreto legge 15/01/1991 n°8, convertito con modificazioni nella Legge 15 marzo 1991 n°82, non ha evidenziato un malfunzionamento del sistema penitenziario adottato nei confronti dei collaboratori di giustizia ammessi a speciale programma di protezione. Infatti il Tribunale di Sorveglianza di Roma, in rarissimi casi ha dovuto revocare le misure concesse perché il soggetto è tornato a delinquere, e questo dato si spiega soprattutto in base all'interpretazione che l'organo giudiziario ha dato di tale norma.

Come analizzato precedentemente, infatti la valutazione "sull'affidabilità esterna" del collaboratore, effettuato in base ai rapporti provenienti dal Servizio Centrale di Protezione e dal Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria, ha rappresentato il parametro fondamentale relativo sia all'an che al quomodo della concessione delle misure extracarcerarie.

La legge 13 febbraio 2001 n°45, è intervenuta sul rapporto collaborazione-beneficio , impedendo infatti che la concessione dei secondi potesse essere diretta conseguenza della condotta collaborativa.

Lo stesso Tribunale di Sorveglianza di Roma, nella maggior parte dei casi, ha dovuto giudicare di soggetti  provenienti da ambienti extracarcerari: la normativa precedente prevedeva infatti come il collaboratore, che si trovasse a qualsiasi titolo in stato detentivo, potesse immediatamente fuoriuscire dal circuito carcerario in presenza di concrete esigenze di tutela della propria incolumità.

Come evidenziato dal Consiglio Superiore della Magistratura,[172] la stessa custodia extracarceraria appariva una forma di anticipata premialità, anche per la prassi ricorrente di richiedere più spesso, all'inizio della collaborazione, l'intervento immediato del Capo della Polizia, sotto forma di richiesta di misure urgenti, che finiva inevitabilmente per condizionare la successiva decisione della Commissione Centrale, che si trovava quasi a "ratificare" uno stato di fatto già esistente.

La nuova normativa ha "scisso" il rapporto automatico che si era venuto ad instaurare tra momento premiale e momento tutorio, anche su un aspetto molto importante  connesso ai  benefici penitenziari. Infatti l'ammissione del collaboratore ai benefici penitenziari in deroga alle disposizioni dell'Ordinamento Penitenziario, era condizionato alla permanenza  della   sua   sottoposizione   allo  speciale  programma  di

protezione, con la conseguenza che spesso se ne è determinato il diniego nei confronti di colui che a quel programma non fosse più sottoposto, solo per il venir meno della situazione di pericolo.[173]  Nonostante che la Corte di Cassazione[174] avesse già stabilito che la revoca del beneficio penitenziario potesse basarsi solo in base a fatti ascrivibili ad una condotta dimostrativa della infondatezza del giudizio di adeguatezza della misura concessa, incompatibili con il mantenimento della stessa e fondata sull'evoluzione della personalità del soggetto, la legge 45/2001 ha evitato anche in questo caso il pericolo di sovrapposizione tra momento premiale e momento tutorio.

Infatti la concessione dei benefici penitenziari in deroga non richiede più, quale conditio sine qua non, la sottoposizione a speciale programma di protezione, per cui in caso di revoca l'unico dato valutativo sarà quello comportamentale.

 

L'ultima considerazione riguarda il fatto che la nuova gestione dei collaboratori di giustizia dovrà inevitabilmente rapportarsi alla "offerta" di uomini e mezzi che lo Stato sarà in grado di predisporre.[175]   Un compito molto importante sarà sempre svolto dal Servizio Centrale di Protezione, chiamato ad attuare gli speciali programmi di protezione: nei circa dieci anni di applicazione della normativa precedente, tale Organo, pur trovandosi ad operare in condizioni difficili, è riuscito a garantire una assistenza complessivamente adeguata ai collaboratori.[176] Proprio nell'ottica di migliorare sempre di più il servizio offerto, ci si chiede se non sia necessaria una maggiore professionalità "specifica" da parte del personale preposto ad assicurare l'assistenza di tali soggetti, esigenza già avvertita da molti anni negli Stati Uniti dove è stata creata una Agenzia Federale Autonoma, la Witness Security, in cui operano dei funzionari che non provengono dagli organismi di polizia, ma sono automaticamente reclutati attraverso una rigorosa selezione, volta a verificarne l'attitudine e l'idoneità caratteriale al compito che devono svolgere. Tali funzionari intervengono nella fase iniziale della collaborazione, dovendo anzitutto rendere ben chiaro al soggetto le conseguenze della propria scelta e le implicazioni che essa comporta per lui e per la propria famiglia. Essi devono poi valutare l'idoneità del collaboratore ad affrontare il cambiamento,  resistendo alle inevitabili crisi di rigetto e la capacità di superare la comprensibile paura di essere rintracciati e soppressi dalle organizzazioni criminali. Se questi funzionari ritengono che i soggetti non siano idonei all'accesso al programma di protezione, lo comunicano alla autorità competente che ne deve prendere atto.   

Già in sede parlamentare è stato evidenziato come sarebbe  utile e interessante verificare la praticabilità anche nell'ordinamento giuridico italiano dell'impiego di una siffatta agenzia[177], che consentirebbe in una materia molto delicata come la gestione dei collaboratori di giustizia, di conferire maggiore funzionalità e efficienza.

 

 

 

BIBLIOGRAFIA

 

ALFONSO R., Collaboratori di giustizia: rompicapo in Procura ai soggetti a cui applicare il regime transitorio, in Guida al Diritto-Il sole 24 ore, 16 giugno 2001, n°23, pag.10.

ALFONSO R., Sorte dubbia per chi ha già riferito ai magistrati, in  Guida al Diritto-Il sole 24 ore, 24 marzo 2001, n°11, pag.71.

ALFONSO R., ROBERTI F., Pentiti: norme poco chiare favoriscono equivoci e applicazioni arbitrarie, in Diritto e Giustizia, 7 luglio 2001, n°26, pag.46.

ALMA M., Sanzioni, difesa e regime transitorio in Diritto Penale e processo, Maggio 2001, n°5, pag.571.

ARGAN L., L'art.4 bis O.P.-Il sistema e gli interventi della Corte Costituzionale: Relazione tenuta alla settimana di tirocinio riservato agli uditori giudiziari nominati con D.M. 12 gennaio 1999, inedito.

BARONE G., Liberazione condizionale, in Digesto delle discipline penalistiche, Torino 1992, Volume VII, pag.410.

BERNASCONI A., I sistemi di protezione per i collaboratori di giustizia nella prospettiva premiale dell'ordinamento italiano e nell'esperienza statunitense, in A.A.V.V., Criminalità organizzata e politiche penitenziarie, Edizioni Raffaello Cortina, Milano 1994, pag.139.

BERNASCONI A., Indissolubile il collegamento tra collaborazione con la giustizia e benefici penitenziari, in Cassazione Penale, 1997, Volume III, pag.3570.

BERNASCONI A., La collaborazione processuale. Incentivi di protezione e strumenti di garanzia a confronto con l'esperienza statunitense, Edizioni Giuffrè, Milano 1995.

BERNASCONI A., Le immunità occulte. Fase dell'esecuzione penale ed ideologia premiale tra razionalizzazione e garantismo, in Politica del Diritto, Giugno 1997, n°2, pag.193.

BERNASCONI A., Nei nuovi limiti ai benefici penitenziari non c'è svolta contro le distorsioni, in Guida al Diritto-Il Sole 24 ore, 15 marzo 1997, n°10, pag.128.

BORGNA P., LAUDI M., RUSSO V., SALUZZO F., Relazione, in A.A.V.V., La sicurezza dei testimoni nei processi di criminalità organizzata, Atti dell'omonimo convegno nazionale a cura dell'Associazione Nazionale Magistrati, sezione Piemonte-Valle d'Aosta, Torino 1988, pag.21.

CAMPOSARAGNA L., La collaborazione con la giustizia in fase esecutiva, in Diritto Penale e Processo, 1997,  Volume II, n°10, pag.1214.

CANEPA M., MERLO S., Manuale di Diritto Penitenziario, Edizioni Giuffrè, V Edizione, Genova 1999.

CASELLI G.C., INGROIA A., Normativa premiale e strumenti di protezione per i collaboratori di giustizia: tra inerzia legislativa e soluzioni d'emergenza, in A.A.V.V. Processo penale e criminalità organizzata, a cura di GREVI V., Edizioni Laterza, Bari 1993, pag.205.

CESARIS L., Sulla valutazione del "sicuro ravvedimento" ai fini della liberazione condizionale, in Rivista Italiana di Diritto e Procedura Penale, 1979, pag.291.

 

CIRIGNOTTA S., Il trattamento penitenziario e la custodia in istituti o sezioni "separati": Relazione tenuta durante l'incontro di studio sul tema "I collaboratori di giustizia" organizzato dal Consiglio Superiore della Magistratura a Frascati dal 23 al 25 febbraio 1995, inedito.

COLLA G., Verso l'esclusione di un regime assistenziale: la ricerca di un lavoro, l'organizzazione del Servizio Centrale di Protezione e il cambiamento delle generalità: Relazione tenuta durante l'incontro di studio sul tema "i collaboratori di giustizia" organizzato dal Consiglio Superiore della Magistratura a Frascati dal 23 al 25 febbraio 1995, in Documenti Giustizia, 1995, Volume I, n°3, pag.293.

COMUCCI P., Lo sviluppo delle politiche penitenziarie dall'ordinamento del 1975 ai provvedimenti per la lotta alla criminalità organizzata, in A.A. V.V. Criminalità organizzata e politiche penitenziarie, Edizioni Raffaello Cortina, Milano 1994, pag.1.

CORBI F., L'esecuzione nel processo penale, Torino 1992.

CORDERO F., Contratto penale e giustizia amministrativa nella filosofia del processo, in A.A.V.V. Criminalità organizzata e politiche penitenziarie, Edizioni Giuffrè, Milano 1987, pag.113.

D'AMBROSIO L., Collaboratori di giustizia. Breve analisi della disciplina vigente e appunti per una sua possibile riforma, in Documenti Giustizia, 1995, Volume I, n°3, pag.315.

D'AMBROSIO L., Nuovo e contestato regolamento sulla protezione dei collaboratori di giustizia, in Diritto Penale e Processo, 1995, Volume I, n°5, pag.626.

D'AMICO S., Considerazioni sulla normativa a tutela dei collaboratori di giustizia, Roma 1992.

D'AMICO S., Il collaboratore della giustizia, Edizioni Laurus Robuffo, Roma 1995.

DEL RE M., La disciplina della liberazione condizionale tra logica sanzionatoria e logica del trattamento, in Rivista Italiana di Diritto e Procedura Penale, 1978, pag.541.

DELEHAYE E., Collaboratori di giustizia e misure alternative alla detenzione: problemi applicativi ed uniformità interpretative, in Documenti Giustizia, 1995, Volume I, n°5, pag.729.  

DELLA CASA F., Estensibile all'entourage del collaboratore la normativa premiale sull'illimitato accesso ai benefici penitenziari?, in Cassazione Penale, 1997, Volume III. pag.3582.

DI CHIARA G., Commento all'art.13 del Decreto legge 8/6/1992, n°306, in Legislazione Penale 1993, pag.165.

DOMINIONI O., Verso l'obbligo di "collaborare", in Legislazione Penale, 1983, pag.604.

FALZONE F., Brevi note in tema di legittimità costituzionale della pericolosità presunta, in Giurisprudenza Costituzionale, 1972,  Volume II, pag.1205.

FIANDACA G.- MUSCO M., Delitti contro la Personalità dello Stato, Milano 1995.

FIORIO C., Sempre nuove questioni di diritto penitenziario: la "collaborazione" come presupposto per i benefici, in Giurisprudenza Costituzionale, 1993, Volume II, pag.2505.

FLORA G., La liberazione condizionale: quale futuro?, in Indice Penale, 1989, pag.353.

GALGANI B., Riflessioni sul regime intertemporale nella disciplina dell'esecuzione: legge Simeone e ordini di carcerazione, in Cassazione Penale, 2000, Volume I, pag.104.

GIORDANO F.P., Dalla costruzione del progetto pentiti un buon esempio per il pacchetto sicurezza, in Guida al Diritto-Il sole 24 ore, 10 febbraio 2001, n°5, pag.5.

GIORDANO F.P., Il verbale illustrativo a garanzia del rapporto, in Guida al Diritto-Il Sole 24 ore, 24 marzo 2001, n°11, pag.56.

GIORDANO F.P., Profili premiali della risposta punitiva dello Stato, in Cassazione Penale, 1997, Volume I, pag.916.

GIORDANO F.P., TINEBRA G., Il regime di protezione, in Diritto Penale e Processo, Maggio 2001, n°5, pag.560.

GIORDANO F.P., TINEBRA G., Un sereno confronto può servire a migliorare il regolamento sui collaboratori di giustizia, in Guida al Diritto-Il sole 24 ore, 14 gennaio 1995, n°2, pag.10.

GIOSTRA G., Il procedimento di sorveglianza nel sistema processuale penale, Milano 1983.

GUAZZALOCA B., Differenziazione esecutiva e Legislazione d'emergenza in materia penitenziaria, in Dei Delitti e delle Pene, 1992, n°3, pag.123.

IONTA F., Un provvedimento che rischia di attenuare l'efficacia dell'intervento giudiziario, in Guida al Diritto-Il sole 24 ore, 14 gennaio 1995, n°2, pag.31.

IOVINO F.P.C., Legge penitenziaria e lotta alla criminalità organizzata, in Cassazione Penale, 1992, Volume I, pag.438.

IOVINO F.P.C., Osservazioni sulla recente riforma dell'Ordinamento Penitenziario, in Cassazione Penale, 1993, Volume II, pag.1257.

LAUDATI A., Servizio di protezione: verso un obbiettivo di qualità, in Guida al Diritto-Il sole 24 ore, 24 marzo 2001, n°11, pag.74.

LAUDI M., Commento agli artt.1-11 del D.M. 24/11/1994 n°687, in Legislazione Penale 1995, pag.184.

LAUDI M., Imputati pentiti (sistema di protezione), in Digesto delle discipline penalistiche, Volume VI, Torino 1992, pag.272.

LAUDI M., Pentitismo e dissociazione, in Dizionario di Diritto e Procedura Penale, Milano 1986, pag.784.

MADDALENA M., Sulle misure di protezione Commissione arbitro unico, in Guida al Diritto-Il sole 24 ore, 24 marzo 2001, n°11, pag.52.

MANCUSO P., MELILLO G., Osservazioni sul nuovo regolamento per il programma di protezione dei collaboratori di giustizia, in Cassazione Penale, 1995, Volume I, pag.250.

MANZIONE D., Commento agli artt. 9-18 del Decreto legge 15/01/1991 n°8, in Legislazione Penale 1992, pag.676.

MARINI L., Un nodo cruciale e trascurato: la "gestione del pentito" in Questioni Giustizia, 1986, n° 3, pag.705.

MARTELLI C., Brevi osservazioni sul d.l. 8 giugno 1992, n°306 contenente misure di contrasto alla criminalità mafiosa, in Documenti Giustizia, 1992, Volume I, n°6, pag.613.

MARTINI A., Commento all'art.15 del Decreto legge 8 giugno 1992, n° 306, in Legislazione Penale, 1993, pag.186.

MELLINI M., Il giudice e il pentito, Edizioni Sugarco, Milano 1986.

MOSCONI G., La controriforma carceraria, in Dei Delitti e delle Pene, 1991, Volume II, pag.143.

MUSCO E., La premialità nel diritto penale, in A.A.V.V., La legislazione premiale, Edizioni Giuffrè, Milano 1987, pag.115.

NATOLI G., Problematiche concernenti il sistema di protezione dei collaboratori di giustizia, in Diritto e Giustizia, 15 settembre 2001, n°31, pag.10.

PADOVANI T., Il traffico delle indulgenze, "Premio" e "Corrispettivo" nella dinamica della punibilità, in Rivista Italiana di Diritto e Procedura Penale, 1986, pag.398.

PADOVANI T., La soave inquisizione, osservazione e rilievi a proposito delle nuove ipotesi di "ravvedimento", in Rivista Italiana di Diritto e Procedura Penale, 1981, pag.529.

PONTI G., Corte Costituzionale e presunzione di pericolosità, in Rivista Italiana di Diritto e Procedura Penale, 1986, pag.467.

PRESTIPINO S., Nuovi condizionamenti e limiti per i benefici penitenziari a condannati pericolosi, in Giustizia Penale, 1993, Parte II, pag.252.

PRESUTTI A., Alternative al carcere, regime delle preclusioni e sistema della pena costituzionale, in A.A.V.V. Criminalità organizzata e politiche penitenziarie, Edizioni Raffaello Cortina,  Milano 1994, pag.59.

ROBERTI F., Nella netta distinzione tra premio e tutela un contributo al superamento delle distorsioni, in Guida al Diritto-Il sole 24 ore, 24 marzo 2001, n°11, pag.45.

SAMMARCO A., La collaborazione con la giustizia in fase esecutiva, in Rivista Italiana di Diritto e Procedura Penale, 1994, Fascicolo III, pag.871.

SPAGNOLO G., L'associazione di tipo mafioso, Edizioni Cedam, IV Edizione, Bari 1993.

SPATARO A., Per i collaboratori di giustizia legge scoraggia collaborazioni, in Diritto e Giustizia,10 marzo 2001, n°9, pag.9.

TUZZOLINO M., Delle relazioni pericolose intercorrenti tra Pubblico Ministero ed il collaboratore di giustizia, in Rivista Penale, Febbraio 2001, n°2, pag.130.

VIGNA P.L., Decreto 24/11/1994, n°687. Note per l'audizione da parte della Commissione Parlamentare Antimafia, inedito.

VIGNA P.L., La gestione giudiziaria del pentito: problemi deontologici, tecnici e psicologici, in A.A.V.V. Chiamata in correità e psicologia del pentitismo nel nuovo codice di procedura penale, Padova 1992, pag.133.

 

 

SITI WEB consultati:

www. parlamento.it  da cui ho estratto la Relazione al disegno di legge n°2207, successivamente approvato con modificazioni nella Legge 13 febbraio 2001, n°45.

 

News | Perché nasce Antigone TOSCANA | Documenti | Iniziative | Links



[1] Così si esprime la relazione al Disegno di legge n° 2207 presentato dal Governo nel marzo 1997 ed approvato inizialmente dal Senato il 30 marzo 2000.

 

[2] Sul punto in questione, vd. Cap.I, paragrafo 4, pp.17-18 e paragrafo 9, pp.39-40.

[3] Spataro A, Per i collaboratori di giustizia legge scoraggia-collaborazioni, in Diritto e giustizia, numero 9, 10 marzo 2001,pp.78-79.

[4] A tale scopo si riferisce esplicitamente sia la relazione al d.d.l. 2207, stabilendo inoltre come solo “una collaborazione indispensabile anche ai fini preventivi permetta l’accesso allo speciale programma di protezione e non alle semplici misure speciali”, sia l’intervento del relatore Follieri alla 177a seduta della  Commissione Giustizia del Senato in data 23 settembre 1997. 

[5] Si tratta dell’emendamento all’art.2 comma 3 proposto dai Senatori Russo, Calvi, Fassone, Bonfietti, Bertoni, De Guidi.

[6] Intervento del Senatore Russo alla 195a seduta della Commissione Giustizia del Senato in data 5 novembre 1997.

[7] Intervento del Senatore Bertoni alla 195a seduta della Commissione Giustizia del Senato in data 5 novembre 1997. Il riferimento riguarda le sentenze n°357/1994 e n°68/1995 della Suprema Corte. 

[8] Spataro A, Per i collaboratori di giustizia legge scoraggia collaborazioni, op. cit., pag.9: l’autore sottolinea però come, con riferimento all’oggetto dell’importanza delle dichiarazioni, vi sia un’ingiustificata esclusione delle associazioni finalizzate al narcotraffico, ex art. 74 DPR 309/1990 che pure rientrano nella serie di reati indicati dall’art.51, comma 3 bis c.p.p. e conseguentemente nella competenza delle direzioni distrettuali antimafia.

[9] Si tratta dell’emendamento presentato direttamente all’assemblea senatoria in data 28 marzo 2000, approvato definitivamente nella stessa data e non modificato dalla Camera dei Deputati. Esso riscrive formalmente il testo dell’art. 9 comma 3 del d.l. n°8/1991.

[10] Il testo originario dell’articolo stabiliva che “ Ai fini dell’applicazione ….. che presentano carattere di attendibilità e inoltre per la loro novità o completezza o per altri elementi appaiono di notevole importanza..”;  il nuovo testo stabilisce che “ Ai fini…La collaborazione e le dichiarazioni predette devono avere caratteristiche di intrinseca attendibilità. Devono altresì avere carattere di novità o di completezza o per altri elementi devono apparire di notevole importanza…”.

[11] Roberti F, Nella netta distinzione tra premio e tutela un contributo al superamento delle distorsioni, in Guida al diritto, n°11, 24 marzo 2001, pag.46. 

[12] Cfr. Cap.I, paragrafo 6, pag.25.

[13] Il riferimento ha ad oggetto l’emendamento non approvato e presentato dai senatori Pera, Centaro, Greco, Scopelliti, Cirami e volto ad inserire nell’art.2 comma 3 “il riferimento a fatti specifici o riscontri obiettivi” che confermino l’attendibilità delle dichiarazioni del collaboratore. 

[14] Bernasconi A, Nei nuovi limiti ai benefici penitenziari non c’è svolta contro le distorsioni, op. cit., pag.129.

[15] Così si esprime il Relatore Follieri al d.d.l. n° 2207, durante la 177a seduta della Commissione Giustizia del Senato, in data 23 settembre 1997.

[16] Questa è la descrizione fornita dalla Relazione al d.d.l. n° 2207.

[17] Maddalena M, Sulle misure di protezione Commissione arbitro unico, in Guida al Diritto, n°11, 24 marzo 2001, pp.53-54.

[18] In questi termini si esprime il senatore Russo durante la 807a seduta dell’assemblea del Senato della Repubblica, in data 23 marzo 2000.

[19] Cfr intervento già citato del senatore Russo: “ Anche per le misure di protezione si innova in maniera molto significativa, perché se ne fa una gradazione in rapporto alla gravità del pericolo: misure ordinarie quando è possibile, misure speciali di protezione quando sono necessarie ,e infine un programma speciale di protezione nei casi più gravi, legato non al tipo di collaborazione ma alla gravità

[20] Spataro A, Per i collaboratori di giustizia legge scoraggia collaborazioni, op.cit., pp.79-80.

[21] Si fa sempre riferimento a Spataro, op.cit., pag.78, secondo cui la distinzione tra conviventi con il collaboratore, categoria per la quale l’estensione del programma non sembra richiedere ulteriori condizioni, e tutti gli altri soggetti per i quali l’estensione è subordinata all’esistenza di grave e attuale pericolo, pone i parenti non conviventi in una posizione deteriore, atteso che anche per questi ultimi la situazione di pericolo nasce spesso dal mero rapporto di parentela. In realtà, conclude Spataro, le scelte della commissione non dovrebbero essere collegate alla previsione di categorie astratte, ma a situazioni concrete, come si prevede per coloro che intrattengano relazioni con i testimoni di giustizia, come prevede l’art. 16 bis comma 3.  

[22] Si fa riferimento all’intervista rilasciatami dal Procuratore Aggiunto della Repubblica di Torino, Dott. Laudi Maurizio, in data 13 giugno 2001. 

[23] Secondo il giudizio del Procuratore Laudi, perciò tale norma non costituisce una “ probatio diabolica” a carico della magistratura inquirente, in quanto non sarà difficile per i procuratori della repubblica motivare la loro proposta di ammissione al programma di protezione solo in presenza di situazioni “patologiche”. 

[24] Cfr. Capitolo I, paragrafo 7, pp.30-31.

[25] Roberti F, Nella netta distinzione tra premio e tutela un contributo al superamento delle distorsioni, op.cit., pag.48. 

 

[26] Questo è il giudizio del Procuratore Laudi, il quale sottolinea inoltre come, con particolare riferimento all’esperienza torinese, il programma di protezione è stato sempre richiesto per soggetti appartenenti alla criminalità organizzata e cercando comunque l’intesa tra i vari uffici del pubblico ministero “destinatari” delle dichiarazioni del collaboratore.

[27] Tuttavia si deve comunque ricordare l’analisi di Roberti F, Nella netta distinzione tra premio e tutela un contributo al superamento delle distorsioni, op.cit., pag.48, dove, dall’analisi letterale della disposizione, emerge la disparità rispetto alle situazioni “mafiose”, dove il ruolo del procuratore nazionale antimafia viene ricondotto ai poteri di coordinamento e risoluzione dei contrasti, non previsto per le situazioni relative ai delitti commessi per finalità di terrorismo e di eversione.

[28] Questa è la finalità espressa in commissione giustizia del Senato in data 22 aprile 1998 dalla senatrice Salvato, finalizzato a illustrare le ragioni dell’emendamento relativo al testo dell’art.4 comma 2 che costituirà la base di partenza della discussione parlamentare.

[29] Intervento del senatore Fassone in commissione giustizia del Senato in data 22 aprile 1998.

[30]  Questa scelta legislativa ha portato a rifiutare l’emendamento proposto dai senatori Russo e Calvi, volta a prevedere che la proposta di ammissione alle speciali misure di protezione fosse formulata dagli uffici procedenti e solo comunicata alle altre procure affinché potessero esprimere un parere obbligatorio, ma non vincolante. L’intenzione di tale emendamento era, come enunciato dal senatore Russo, di “prescindere dall’esigenza dell’intesa ed eliminare al tempo stesso il potere condizionante del procuratore nazionale antimafia nel caso in cui l’intesa tra gli uffici procedenti non fosse raggiunta”.  

[31] Non è questa la sede giusta per analizzare la figura e le competenze del PNA, considerata la “direzione oggettiva” di tale lavoro. In questo contesto non possono essere però sottaciuti i rapporti tra il PNA e lo speciale programma di protezione, che investono anche la Commissione Centrale, come si evince dalla formulazione del nuovo art.11 commi 4 e 5 che analizzeremo nel paragrafo successivo.

Così circa il potere attribuito al PNA di risolvere l’eventuale contrasto tra i procuratori riguardo l’ammissione al programma di protezione, nonostante le critiche di Spataro A, op. cit., pp.78-79, secondo cui poiché “ la Procura Nazionale non è titolare di poteri di indagine, a cui va collegata direttamente la proposta di ammissione al programma di protezione” ne consegue come “ il potere conferitole appare espressione di una funzione di controllo gerarchico, non prevista dalla legge”, tale funzione è stata quasi “ suggerita” da Tinebra G, Giordano P, Un sereno confronto può servire a migliorare il regolamento sui collaboratori di giustizia, in Guida al Diritto, n°2, 14/01/1995, pag.10, dove viene precisato come “ un parere del PNA può avere una qualche giustificazione allorché vi sia un contrasto di valutazioni tra diversi uffici del pubblico ministero che procedano a indagini collegate. Solo in tal caso si spiegherebbe il ricorso a un organo terzo capace di dirimere i contrasti, funzione che peraltro è prevista dalla legge”.     

[32] Ionta F, Un provvedimento che rischia di attenuare l’efficacia dell’intervento giudiziario, in Guida al Diritto, n°2, 14/01/1995, pag.32.

[33] Bernasconi A, La collaborazione processuale, op.cit., pag.205.

[34] D’Amico S, Il collaboratore della giustizia, op.cit., pp.96 e ss.

[35] Va rticordato come, anche in questo caso, l’art.4 del Decreto interministeriale n°687/1994, introduceva una regolamentazione ed una specializzazzione rigorosa di tale potere: il Capo della Polizia doveva infatti acquisire sia una dettagliata segnalazione delle autorità competenti per la proposta, che doveva evidenziare “l’importanza del contributo, gli elementi concernenti i pericolo per l’incolumità, i motivi dai quali derivano il pericolo stesso, la sua gravità e la sua attualità, e le ragioni per le quali le misure adottate o fatte adottare non erano ritenute idonee”, sia il parere del procuratore nazionale antimafia, sia le attestazioni indicate dall’art.12 del predetto regolamento. Inoltre veniva stabilito il principio della temporaneità di tale provvedimento, il quale perdeva efficaccia se decorsi novanta giorni la commissione non avesse deliberato il programma di protezione, secondo la procedura ordinaria.   

[36] Questa è la finalità enunciata dalla Relazione al d.d.l. 2207 anche se, come vedremo tra poco, in sede di approvazione alla Camera dei Deputati, le modifiche alla stesura originale dell’art.3 sono state rilevanti.

[37] L’emendamento al citato art.3 è stato presentato dall’onorevole Carmelo Carrara proprio per “creare un necessario confine tra gli ambiti di intervento degli organi della investigazione e di quelli giudicanti, dovendosi riflettere tale necessaria separazione proprio sulla composizione della Commissione Centrale”.

Tale finalità è stata evidenziata anche dall’on. Simeone che ha aggiunto come “ la modifica prospettata si rendesse utile e necessaria per evitare il possibile configurarsi di conflitti di interessi tra i componenti della commissione”. In senso critico, sia il relatore del d.d.l. 2207 alla Camera dei Deputati, on. Bonito che ha sottolineato come tale modifica “ rischia di limitare fortemente la platea dei soggetti legittimati a comporre la Commissione, nonché a ridurne il profilo qualitativo professionale”, sia del rappresentante del Governo, il sottosegretario al Ministero degli Interni Brutti Massimo per il quale la modifica apportata " avrà per effetto di privare la Commissione di fondamentali professionalità e qualità dei suoi componenti”.  

 

[38] Maddalena M, Sulle misure di protezione Commissione arbitro unico, op.cit., pag.52.

[39] Giordano F, Tinebra G, La Commissione Centrale, composizione e poteri istruttori, in Diritto Penale e Processo, n°5, maggio 2001, pp.563- 565. Va rilevato come se la volontà del legislatore dovesse essere ricondotta alla prima interpretazione, secondo Roberti F, Nella netta distinzione tra premio e tutela un contributo al superamento delle distorsioni, op.cit., pag.47, tale scelta potrebbe ricollegarsi ai “ nuovi e pregnanti poteri consultivi conferiti al procuratore nazionale antimafia e ai procuratori generali dalla nuova disciplina prevista dagli artt. 11, 16 octies e 16 nonies del d.l. n°8/1991.

[40] Giordano F, Tinebra G, La Commissione Centrale, composizione e poteri istruttori, op.cit, pag.564. Inoltre, sottolineano gli stessi autori, tale conflitto non potrebbe essere risolto con la semplice astensione, poiché il numero delle decisioni sarebbe tale da registrare una sistematica astensione del componente togato della Commissione.  

[41] Questa è in estrema sintesi un estratto della motivazione con cui la suprema Corte ha rigettato la questione di costituzionalità degli art.1,3,4,5, del regolamento sopracitato per violazione degli art.13,101,104,108 e 112 della Costituzione.

Anche oggi la sentenza della suprema Corte è molto importante, considerato come i commi 4 e 5 dell’art.4 della legge n°45/2001 si limitano a recuperare il testo dell’ art. 1 comma 3 e dell’art.3 del decreto sopracitato per i quali era stata appunto chiesto l’annullamento, in quanto si riteneva ledessero la sfera di attribuzioni e di poteri riservati all’autorità giudiziaria, a favore dell’autorità amministrativa. Sul punto, cfr. Melillo G., Mancuso P., Osservazioni sul nuovo regolamento per il programma di protezione dei collaboratori di giustizia, in Cassazione Penale, 1995, pp.250-258.    

[42] Laudi M, Commento all’art.1 del DM 24/11/1994, n°687, in Legislaz. Penale 1995, pag.186. Analoga posizione è stata assunta dalla Direzione Nazionale Antimafia con una nota inviata ai procuratori distrettuali in data 17 febbraio 1995

e da Ionta F, op. citata, pag. 32.    

[43] La testimonianza proviene direttamente dal Presidente della Commissione centrale, Sottosegretario Sinisi, chiamato dal Senato della Repubblica in data 2 dicembre 1997 a relazionare l’attività della Commissione e i rapporti tra essa e gli organismi giudiziari.

[44] Vd. retro, paragrafo 3, pag.63.

[45] In tale senso si esprime la Relazione al dd.l n°2207.

[46] Giordano F, Tinebra G, La Commissione, op.cit., pp.565-566.

[47] Questo è il giudizio fornito da Roberti F. e  Alfonso R., sostituti procuratori della Direzione Distrettuale Antimafia, ai quali è stato affidato il compito di elaborare un’analisi critico-interpretativa della legge. Tale studio è stato approvato dal Procuratore Nazionale Antimafia Pier Luigi Vigna e trasmesso successivamente a tutte le direzioni distrettuali antimafia; un suo estratto è stato pubblicato su Diritto e giustizia, n°26, 7 luglio 2001, pp.46- 51, Pentiti: norme poco chiare favoriscono equivoci e applicazioni arbitrarie.     

[48] Lo stesso Sottosegretario Sinisi nella relazione tenuta al Senato, ha sottolineato la grande funzione svolta dal Servizio centrale in relazione alla istruttoria tecnica svolta sulle proposte di ammissione.  

[49] Cfr. Giordano F, Tinebra G., Il Servizio centrale di protezione, in Diritto Penale e Processo, n°5, maggio 2001, pp. 567-568.

[50] Il dottor Cirillo, direttore del Servizio centrale di protezione, chiamato in data 26 novembre 1997 ad illustrare l’attività svolta, ha sottolineato come “i compiti che a tale servizio incombono attengono a forme di assistenza per risolvere i quotidiani problemi della gestione pratica della vita dei collaboranti e delle loro famiglie”. Sotto questo profilo segnala “i notevoli progressi raggiunti sia per quanto riguarda l’adempimento dell’obbligo scolastico dei bambini appartenenti ai nuclei familiari coinvolti nei programmi di protezione, sia i costi dell’assistenza sanitaria, il cui livello è stato notevolmente abbattuto attraverso la sostituzione del ricorso alle prestazioni private con l’assistenza erogata dal servizio sanitario nazionale”.     

[51] Si fa riferimento alla raccomandazione n°25 adottata dal Consiglio dell’Unione europea il 20 dicembre 1996, all’interno del documento “Prevenzione e controllo della criminalità organizzata- Strategia dell’Unione europea per l’inizio del nuovo millennio” e pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale delle Comunità europee, n° C 124 del 3 maggio 2000. Essa recita inoltre come “ sarà approntata una proposta di strumento sulla posizione e la protezione dei testimoni e delle persone che sono o sono state membri di un’organizzazione criminale e che sono disposte a collaborare con la giustizia ….. La proposta dovrebbe vagliare tra l’altro la possibilità di prevedere una riduzione della pena per l’imputato che fornisca una collaborazione determinante e dovrebbe essere apprestato, alla luce anche dell’esperienza maturata con l’Europol, un accordo tipo dell’UE da utilizzare su base bilatereale”. Su tale importante raccomandazione, cfr. Laudati A, Servizio di protezione: verso un obbiettivo di qualità, op.cit., pagg.74-76.  

[52] La versione originaria del vecchio art.12 prevedeva infatti l'ulteriore obbligo di " rendere le dichiarazioni e compiere le attività e gli atti in relazione ai quali il programma è stato adottato".  

[53] Tale è la finalità espressa nella Relazione al d.d.l. n° 2213 che in gran parte è stato " trasfuso" nel d.d.l. n° 2207, successivamente approvato nella legge n°45/2001. In quel disegno normativo si faceva  solo riferimento all'obbligo " di essere presenti nel dibattimento, al momento di rendere l'esame chiesto nei loro confronti ai sensi dell'art.210 c.p.p., senza potersi avvalere della facoltà di non rispondere.    

[54] Bernasconi A, La collaborazione processuale, op.cit., pagg.166-167.

[55] Si fa riferimento all'emendamento presentato dal Senatore Russo all'assemblea senatoria in data 28 marzo 2000 e contestualmente approvato.

[56] Il riferimento, come si evince dai lavori senatoriali del 28 marzo 2000, riguardava infatti una possibile competenza della Commissione Centrale.

[57] Su tale punto torneremo più avanti, nel Cap.III dove si tratterà il tema del trattamento penitenziario del collaboratore.

[58] Cfr., ad esempio, l'intervento del Senatore Centaro in data 28 marzo 2000:"L'eccezione ad una regola di blindatura assoluta del collaboratore deve riguardare casi straordinari che attengono alla vita familiare, come ad esempio la morte o una gravissima malattia di un prossimo congiunto anch'esso collaboratore; diversamente, introduciamo un'eccezione pericolosa nell'ambito del sistema che prevede, ai fini di una genuinità, attraverso la mancanza di contatti con l'esterno, la possibilità di trasmettere ed anche di ricevere notizie con un linguaggio criptato". 

[59] Giordano F, Dalla costruzione del progetto pentiti un buon esempio per il pacchetto sicurezza, in Guida al Diritto,10 febbraio 2001, n°5, pag.5.

[60] Giordano F, Tinebra G, Assunzione degli impegni, in Diritto Penale e processo,n°5,Maggio 2001, pag.568.

[61] Secondo il giudizio del Procuratore Laudi M, tale nuovo obbligo rappresenta un'aspetto fortemente disincentivante della collaborazione considerato come nella maggioranza dei casi, essendo di fronte a soggetti che non hanno mai svolto nessuna attività lavorativa lecita, ogni loro bene posseduto è frutto di proventi "criminali", compresi anche quelli di prima necessità come la macchina o soprattutto la casa dove il soggetto vive con i propri familiari. Il sequestro di tali beni può porre il collaboratore di fronte ad una scelta estremamente difficile e delicata. Per Spataro A, Per i collaboratori di giustizia legge scoraggia collaborazioni, op.cit.,pag.79, l'obbligo di sequestro sarà difficilmente realizzabile proprio per le formule troppo generiche adottate dal legislatore (quando un bene intestato a terzi è riconducibile a controllo del collaboratore?) e che potrebbe rivelarsi iniquo nei confronti di congiunti titolari di beni acquisiti legalmente.  

 

[62] " Per rispondere alle polemiche circa un preteso lassismo dello Stato nei confronti delle persone danneggiate e offese è stato deciso un ampliamento della piattaforma del confiscabile e conseguentemente una speciale destinazione di tali beni nei confronti di essi". Così si esprime la Relazione al d.d.l. n° 2207.

[63] Così si esprimono sia Maddalena M, Sulle misure di protezione Commissione arbitro unico, op.cit., pag.55, sia Roberti F, Alfonso R, Pentiti: norme poco chiare favoriscono equivoci e applicazioni arbitrarie,op.cit., pag.48.

[64] In questo senso si esprimono sia Bernasconi A, La collaborazione processuale, op.cit., pag. 217, sia D'Amico S, Il collaboratore della giustizia, op.cit., pag.68.

[65] Il presidente della Commissione Centrale, Sottosegretario Sinisi, durante il proprio intervento alla Commissione Giustizia del Senato in data 26 maggio 1998, ha sottolineato come " le misure di assistenza inerenti ai programmi di protezione non possono e non debbono avere in alcun modo finalità risarcitorie o  retributive ma sono finalizzate unicamente a garantire il mantenimento dei soggetti interessati". Inoltre ha richiamato l'attenzione sul fatto che, salvo i casi limite, l'importo dell'assegno di mantenimento è stato pari alla somma di un milione e trecentomilalire per il capofamiglia più un'integrazione di trecentomilalire per ogni componente del nucleo familiare.  

[66] Il riferimento all'assegno sociale è stato introdotto  in Commissione Giustizia del Senato per correggere un aspetto contraddittorio del testo originario che prevedeva un meccanismo di adeguamento annuale dell'importo dell'assegno di mantenimento senza individuare peraltro l'importo base al quale riferire il predetto meccanismo di adeguamento automatico. Secondo infatti la dizione originaria della norma, " La misura dell'assegno di mantenimento e delle integrazioni è definita annualmente dalla Commissione centrale tenuto conto delle variazioni dell'indice dei prezzi al consumo per le famiglie di operai ed impiegate rilevate dall'ISTAT".

[67] In questo senso si esprimono sia il Relatore del d.d.l. n° 2207 alla Commissione Giustizia del Senato, Senatore Follieri, sia il Senatore Russo durante il proprio intervento in detta sede in data 2 giugno 1998.

[68] La possibilità di un abuso della integrazione dell'assegno di mantenimento è stata avvertita alla luce del fatto che le spese concernenti la sistemazione alloggiativa, i trasferimenti, l'assistenza sanitaria e quella legale sono considerate separatamente dal predetto assegno e conseguentemente, come rilevato dalla Senatrice Scopelliti, " non si riesce ad individuare esigenze particolari che possono giustificare detta integrazione".

132 Così si esprime il Sottosegretario al Ministero dell'Interno, Brutti Massimo, sottolineando come tale previsione possa permettere di controllare, indirettamente e in sede processuale, le spese effettuate per la protezione del collaboratore.  In senso critico, Spataro A, Per i collaboratori di giustizia legge scoraggia collaborazioni, op.cit.,pag.79: " le esigenze di trasparenza potevano essere assicurate mediante l'attestazione della sottoposizione allo speciale programma di protezione senza pregiudicare la segretezza sul tipo di attività economica o lavorativa intrapresa dal collaboratore o dai suoi familiari all'interno del programma stesso".

133 Con la nuova legge viene specificato ulteriormente il contenuto della Relazione del Ministro dell'Interno che deve indicare, oltre al numero complessivo dei soggetti sottoposti a programma di protezione e le corrispettive spese, anche l'ammontare delle integrazioni dell'assegno di mantenimento e le esigenze che le hanno motivate.

 

[71] Colla G, Verso l'esclusione di un regime assistenziale: la ricerca di un lavoro, l'organizzazione del Servizio centrale di protezione e il cambiamento delle generalità, Relazione tenuta durante l'incontro di studio sul tema "I collaboratori di giustizia" svoltosi a Frascati dal 23 al 25 febbraio 1995 e organizzato dal Consiglio Superiore della Magistratura, in Doc. Giustizia, 1995, n°3, pag.293.  

[72] Questa è la soluzione migliore secondo Colla G, op.cit., il quale fa esplicito riferimento al lavoro espletato da dei gruppi di detenuti nel carcere di Milano Opera per conto di una società di servizi, la Lombardia Informatica, che gestisce il controllo della spesa farmaceutica per conto della regione Lombardia. La predetta azienda si è accollata l'onere di fornire l'hardware e formare i detenuti per affidare loro l'attività di registrazione elettronica dei dati relativi al controllo della spesa farmaceutica. Ma anche al di fuori dell'ambiente carcerario, la stessa società si è dichiarata disponibile al reinserimento sociale dei soggetti all'atto della scarcerazione o della ammissione alle misure alternative alla detenzione. Tale ipotesi- sottolinea Colla G.- assume un particolare interesse per il settore dei collaboratori di giustizia e potrebbe essere studiata la possibilità di un intervento collaborativo orientato verso i cd.pentiti.    

[73] Vd. Cap. I, paragrafo 8, pag.35.

[74] Guazzaloca B, Differenziazione esecutiva e Legislazione d'emergenza in materia penitenziaria, in Dei Delitti e delle Pene, Vol. III,1992, pag.124.

[75] Comucci P, Lo sviluppo delle politiche penitenziarie, in A.A.V.V., Criminalità organizzata e politiche penitenziarie, Milano, 1994, pag. 34.

[76] Iovino C, Legge penitenziaria e lotta alla criminalità organizzata, in Cassazione Penale, 1992, pag. 438.

[77] Iovino C, Legge penitenziaria e lotta alla criminalità organizzata, op. cit.,  pag. 441.

[78] Buona parte della dottrina aveva sottolineato l'iniquità di una simile previsione: vd. ad es., Canepa M, Merlo S, Manuale di diritto penitenziario, Genova 1999, pp. 403-404; Fiorio C, Sempre nuove questioni di diritto penitenziario: la collaborazione come presupposto per i benefici, in Giur. Cost., 1993, pag.2506; Prestipino S, Nuovi condizionamenti e limiti per i benefici penitenziari a condannati pericolosi, in Giust. Pen., 1993, II, pag.252. Con particolare riferimento al concetto di pericolosità sociale presunta, vd. Falzone F, Brevi note in tema di legittimità costituzionale della pericolosità presunta, in Giur. Cost., 1972, pag.1205 e Ponti G, Corte costituzionale e presunzione di pericolosità, in Riv. It. dir. e proc. pen., 1986, pag. 467.     

[79] Mosconi G, La controriforma carceraria, in Dei Delitti e delle Pene, 1991, Volume II, pag. 146. Egli sottolinea inoltre come "il sistema probatorio in questo caso, lungi dall'essere precostituito come necessario e legittimo al fine dell'accertamento della verità e della difesa del richiedente, viene snaturato come mezzo di discriminazione e di indurimento della misura afflittiva".

[80] Ricordiamo come il decreto legge 24 novembre 2000 n°341, convertito con modificazioni nella legge 19 gennaio 2001 n°4, ha ricompreso all'interno di tale fascia anche i detenuti o internati di cui all'art.416 del Codice Penale  realizzato allo scopo di commettere i delitti previsti dal Libro II, Titolo XII, Capo III, Sezione I, e dagli artt. 609 bis, quater , quinquies e octies del Codice Penale.

[81] Cfr. Cap. I, paragrafo 8, pag.37.

[82] Come già espresso con la nota n°55, pag.36, l'intento di sfruttare appieno le potenzialità incentivanti di agevolazioni raccordate ad atteggiamenti collaborativi rappresenta la finalità espressamente enunciata dalla relazione al disegno di legge n.S/328 di conversione del d.l. 8 giugno 1992, n°306.

[83] Presutti A, Alternative al carcere e regime delle preclusioni, op.cit., pag. 65.

[84] Iovino F, Osservazioni sulla recente riforma dell'ordinamento penitenziario, op.cit., pag.1257.

[85] Bernasconi A, Indissolubile il legame tra collaborazione con la giustizia e benefici penitenziari, in Cass. Pen., 1997, pp. 3575-3576.

[86] Tale disposizione stabiliva che, nei confronti dei detenuti o internati per taluno dei delitti indicati  nel primo periodo del comma 1 dell'art.4 bis che fruissero, dalla data di entrata in vigore del decreto stesso, di un  beneficio penitenziario, tale misura deve essere revocata qualora tali soggetti non si trovino nelle condizioni previste dall'art.58 ter o.p. .

[87] Cfr. anche Martini A, Commento all'art.15 del D.l. 8 giugno 1992, n°306, in Legisl. Penale, 1993, pp. 186-195 : " la formulazione del testo normativo porta ad affermare che il legislatore abbia inteso formulare una vera e propria presunzione di inopportunità della concessione delle misure alternative in base alla pericolosità soggettiva di talune categorie i detenuti, fondato esclusivamente sulla natura del reato commesso….. Solo l'atteggiamento di collaborazione piena e rilevante consente, a giudizio del legislatore, di affermare che il soggetto si è posto in una posizione di netto antagonismo rispetto all'organizzazione di originaria affiliazione, non presentando più quegli specifici profili di pericolosità individuale connessi ai suoi legami con essa".

[88] Guazzaloca B, Differenziazione esecutiva e legislazione d'emergenza in materia penitenziaria, op.cit., pag.149.

[89] Presutti A, Alternative al carcere e regime delle preclusioni, op.cit., pag.83.

[90] Bernasconi A, Le immunità occulte. Fase dell'esecuzione penale ed ideologia premiale tra razionalizzazione e garantismo, in Politica del diritto, n°2, giugno 1997. L'autore rileva infatti come il diritto penale sostanziale non poteva essere piegato totalmente a fini premiali, sia perché il parco di fattispecie per le quali si voleva incentivare il fenomeno della collaborazione era molto più ampio di quello astrattamente circoscrivibile al concetto di criminalità organizzata, sia perché la controindicazione più rilevante si presentava, all'epoca del dibattito sull'estensibilità dei benefici premiali alla criminalità comune, sul piano della legittimazione del sistema: troppi infatti erano i rischi insiti nella codificazione di ipotesi di non punibilità o di attenuanti generali da riconoscere e applicare poi nel pubblico processo. Del resto, nemmeno i riti speciali del nuovo processo penale si prestavano a questa strategia. L'applicazione della pena su richiesta delle parti aveva un raggio d'azione troppo ristretto, come il giudizio abbreviato. La riduzione della pena di un terzo rappresentava un incentivo, soprattutto per i reati più gravi, non molto appetibile e la stessa decisione della Corte Costituzionale di escludere l'ergastolo dal perimetro di applicabilità del rito, con la sentenza n°176 del 1991, ha contribuito a marginalizzarne la praticabilità.   

[91] Bernasconi A, La collaborazione processuale, op.cit., pag.112. Ma cfr. anche Iovino C, Osservazioni sulla recente riforma dell'ordinamento penitenziario, op.cit., pagg. 1267- 1268.: " I benefici penitenziari, finalizzati alla rieducazione del condannato, sono trasformati in tal modo in istituti premiali applicabili in funzione della collaborazione prestata e senza alcuna implicazione di ordine psicologico. Quale che sia il fine per cui si collabora, vendetta o personale vantaggio, non interessa: il premio è in funzione dato alle indagini e del pericolo che si corre".

 

[92] Camporasagna L, Collaborazione con la giustizia in fase esecutiva, in Diritto Penale e Processo, 1997, n°10, pag.1216. Cfr. anche Bernasconi A, La collaborazione processuale, op.cit., pag. 127, in cui l'autore sottolinea come oggetto peculiare del procedimento di sorveglianza non è più l'individuo, ma il fatto, cioè se vi sia stata o meno collaborazione.

[93] Sono considerate persone che collaborano con la giustizia "coloro, che anche dopo la condanna, si sono adoperati per evitare che l'attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori ovvero hanno aiutato concretamente l'autorità di polizia o l'autorità giudiziaria nella raccolta di elementi decisivi per la ricostruzione dei fatti e per l'individuazione dei fatti o la cattura degli autori dei reati".

[94] Sammarco A, La collaborazione con la giustizia nella legge penitenziaria, in Riv. It. Dir. e Proc. Pen., 1994, pag.873.

[95] Del resto, come già visto nel Cap. I, una condotta del tutto corrispondente a quella considerata, è espressamente qualificata come circostanza attenuante dall'art.62, n°6 c.p., e non vi è dubbio che l'accertamento relativo alle circostanze del reato rientri nella sfera tipica di cognizione del giudice di merito.

[96] Sammarco A, La collaborazione con la giustizia nella legge penitenziaria, op.cit., pag. 875.

[97]  Corbi C, L'esecuzione nel processo penale, Torino 1992, pag.356. Cfr anche Giostra G, Il procedimento di sorveglianza nel sistema processuale penale, Milano 1983, pag.153: " Il procedimento di sorveglianza è un modello processuale di giudizio sull'uomo in esecuzione della pena: ogni estensione della sua normativa ad un tipo di giudizio in cui la persona assume un ruolo secondario risulta sempre inconferente, dando luogo a vistosi fenomeni di rigetto". 

[98] Così, la Sezione I della Corte di Cassazione, 20 settembre 1993, in Cassazione Penale, 1994 con nota di Ruga, pag 2783. Analogamente, Sez. I, 13 maggio 1994, in Cassazione Penale, 1995 con nota di Solinas, pag.2687: "La collaborazione con la giustizia costituisce un semplice dato storico, estraneo al procedimento di sorveglianza".

[99] Argan L, L'art. 4 bis o.p.- Il sistema e gli interventi della Corte Costituzionale, Relazione tenuta alla settimana di tirocinio riservato agli uditori giudiziari nominati con D. M. 12/01/1999, inedito.

[100] Bernasconi A, La collaborazione processuale, op.it., pag. 127. Inoltre, dopo le sentenze della Corte Costituzionale n°357 del 27 luglio 1994 e n°68 del 22 febbraio 1995, per stabilire l'irrilevanza o l'impossibilità della collaborazione, il tribunale di sorveglianza dovrà inevitabilmente acquisire la sentenza di condanna dal competente giudice di cognizione e quindi a valutare un elemento difficilmente "sondabile" con gli strumenti tipici a disposizione del suo statuto di sapere.  

164 Di Chiara G, Commento all'art.13 de D.l. 8/6/1992 n°306, in Legislazione Penale 1993, pag. 171.

 

 

 

 

 

[102] Di Chiara G, Commento all'art. 13 del D.l. 8/6/1992 n°306, op.cit., pagg.171-172. L'autore evidenzia infatti come "la norma tradisca la preoccupazione latente che anche in tale ipotesi possa farsi ricorso a formule pigre che ricalchino, con qualche poco utile impreziosimento, la generale ed astratta statuizione di legge". 

[103] Nonostante l'abrogazione dell'art.13 ter e la nuova disciplina introdotta dalla legge 13 febbraio 2001 n°45, tuttavia la vecchia normativa continua ad essere ancora applicata dal Tribunale di Sorveglianza di Roma, come spiegheremo nei successivi paragrafi.

[104] Iovino C, Osservazioni sulla recente riforma dell'ordinamento penitenziario, op.cit., pag.1267. Cfr anche Caselli G. C, Ingroia A, Normativa premiale e strumenti di protezione per i collaboratori di giustizia: tra inerzia legislativa e soluzioni d'emergenza, in AA.VV., Processo penale e criminalità organizzata, a cura di Grevi V, Bari 1993, pag. 217: "Solo i collaboratori ammessi al programma speciale di protezione possono usufruire dei benefici penitenziari previsti dall'art.13 ter del d.l. n°8/1991. Tale limitazione introduce però un'ingiustificata sperequazione tra collaboratore e collaboratore; poiché infatti la decisione di ammettere al programma speciale viene assunta sulla base di un  giudizio di idoneità delle misure di protezione più adeguate alla tutela dell'incolumità del dichiarante, l'applicabilità delle misure alternative alla detenzione finisce per derivare da una decisione (l'ammissione al programma di protezione) fondata su criteri di valutazione del tutto eterogenei rispetto a quelli normalmente in considerazione per la concessione dei benefici penitenziari". Opinione analoga viene espressa da Bernasconi A, Le immunità occulte, op.cit., pag. 198: " La decisione di ammettere il collaboratore al programma di protezione costituisce una patente di affidabilità del medesimo che il tribunale di sorveglianza deve tenere in debito conto; in tal modo la discrezionalità dell'organo amministrativo si atteggia a presupposto della decisione giurisdizionale".

[105] Questo è il giudizio del Dottor Argan L, Magistrato di Sorveglianza presso il Tribunale di Roma, nell'"intervista" rilasciatami in data 14 settembre 2001.

[106] Cfr. Foro Italiano 1996, parte I, pag. 481 e Giustizia Penale 1996, parte I, pag.99.

[107] Bernasconi A, Indissolubile il legame tra collaborazione con la giustizia e benefici penitenziari, op.cit., pag.3576.

[108] Fiorio C, Sempre nuove questioni di diritto penitenziario: la "collaborazione come presupposto per i benefici",op.cit., pp.2507-2508.

[109] Cassazione Penale, Sezione I, 13 febbraio 1997 in Cassazione penale 1997, pag.3570, con commento di Bernasconi A, Indissolubile il legame tra collaborazione con la giustizia e benefici penitenziari, op. cit. .

[110] Bernasconi A, Indissolubile il collegamento tra collaborazione con la giustizia e benefici penitenziari, op.cit., pp.3577-3578.

[111] Vd. nota 167 relativa al paragrafo 3 del presente Capitolo, pag.111.

[112] Naturalmente si fa riferimento alla competenza del tribunale di sorveglianza per la concessione delle misure alternative alla detenzione, ed alla competenza del magistrato di sorveglianza per la concessione dei permessi premio.

[113] Tale esperienza è stata ricostruita in base all'intervista rilasciatami in data 14 settembre 2001 dal dottor Argan L, Magistrato del Tribunale di Sorveglianza di Roma.

[114] L'art.13 ter del d.l. n° 8/1991 faceva solo riferimento alle "informazioni dal Pubblico Ministero presso il giudice competente per i reati in ordine ai quali è stata prestata la collaborazione" che dovevano essere acquisite dalla Commissione Centrale.

[115] Cfr. Alma M, Il verbale illustrativo dei contenuti della collaborazione, in Diritto Penale e Processo,n°5, 2001, pag. 571: "Trattasi di un atto che non ha precedente regolamentazione nel sistema processuale e i cui contenuti e modalità di formazione, sulla base del testo normativo, appaiono a dir poco incerti".

[116] Per quanto riguarda il contenuto, il predetto verbale deve contenere tutte le notizie in possesso del dichiarante utili alla ricostruzione dei fatti e alle circostanze su cui il soggetto è interrogato, nonché degli altri fatti di maggiore gravità e allarme sociale di cui è a conoscenza, nonché le informazioni necessarie per l'individuazione e la cattura dei loro autori e l'individuazione e il sequestro del denaro, dei beni e di ogni altra utilità di cui dispone la persona che rende le dichiarazioni. La struttura delle dichiarazioni è quindi duplice: il collaborare deve dire tutto ciò che sa sulle circostanze sulle quali è interrogato e inoltre fornire le informazioni sugli autori dei fatti di maggiore gravità, per l'individuazione e la cattura degli stessi e dei beni di chiara provenienza illecita. Inoltre il collaboratore deve attestare di non essere in possesso di "notizie e informazioni processualmente utilizzabili su altri fatti o situazioni non connessi o collegabili a quelli riferiti" e riferire sugli eventuali colloqui investigativi subiti". Come rilevato da Giordano P, Il verbale illustrativo a garanzia del rapporto, in Guida al Diritto, 24 marzo 2001, n°11, pag.56: "Il verbale illustrativo svolge perciò anche una funzione documentativa sui rapporti istituzionali tenuti dal collaboratore prima della cristallizzazione del suo apporto conoscitivo". 

[117] Giordano P, Il verbale illustrativo a garanzia del rapporto, op.cit., pag.59.

[118] Affermare che si possono concedere misure extramurarie in deroga alle disposizioni dell'ordinamento penitenziario,  potrebbe anche significare rovesciare completamente l'intero sistema e concederle quindi in deroga a ogni presupposto sia di natura sostanziale, sia di natura personologica e quindi indipendenti da ogni valutazione legata al comportamento del soggetto.

[119] Vd. paragrafo successivo relativo alla tipologia delle misure alternative alla detenzione nei confronti del collaboratore di giustizia.

[120] Il riferimento è alla misura della detenzione domiciliare prima dell'introduzione del primo comma bis dell'art.47 ter.

[121] Per ovvi motivi di riservatezza in una materia molto "delicata", ogni ordinanza citata in questo lavoro non farà menzione del nome del collaboratore di giustizia.

[122] Risulta evidente che più rilevanti qualitativamente e quantitativamente siano le dichiarazioni del collaboratore, maggiore sarà il rischio per l'incolumità propria e dei propri familiari, anche perché in questi casi il ruolo del soggetto all'interno dell'organizzazione criminale era di primissimo piano.

[123] Cass. Pen., sezione I, 12 aprile 1994. Sul caso in questione, la Corte aveva ritenuto viziata, ai sensi dell'art.606 comma 1 lettera a) c.p.p., l'ordinanza del tribunale di sorveglianza di Roma che aveva rigettato la richiesta di affidamento in prova al servizio sociale nei confronti di un collaboratore di giustizia, sull'assunto che la suddetta misura alternativa avrebbe potuto vanificare le esigenze di riservatezza e di incolumità personale del richiedente, alla cui salvaguardia il programma di protezione era finalizzato.

Il principio espresso dalla Suprema Corte è stato ripetutamente affermato in altre sentenze: vd. Sez. I, 31/5/1995 n°2266; 5/12/1995 n°1820; 14/02/1997 n°995.

[124] Il riferimento è alla sentenza della Cassazione Penale, Sezione I, 4 ottobre 1996, con cui tra l'altro la Suprema Corte ha sconfessato una sua precedente pronuncia nella quale aveva interloquito sulla stessa questione; il riferimento è alla Sezione I, 25 febbraio 1994 n° 1347. Sul punto in questione, vd. Della Casa F, Estensibile all'entourage del collaboratore la normativa premiale sull'illimitato accesso ai benefici penitenziari?, in Cassazione Penale 1997, pagg. 3582-3590.

[125] Tale è il giudizio del dottor Argan L, nell'intervista a me rilasciatami e già riportata precedentemente.

[126] Cesaris L, Sulla valutazione del sicuro ravvedimento ai fini della liberazione condizionale, in Riv. It. Dir. e Proc. Pen. 1979, pag.294.

[127] Del Re M, La disciplina della liberazione condizionale tra logica sanzionatoria e logica del trattamento, in Riv. It. Dir. e Proc. Pen. 1978, pag. 553.

[128] Cassazione Penale, I Sezione, 15 ottobre 1976.

[129] Cassazione Penale, Sezione I, 12 dicembre 1975, sentenza richiamata da Cesaris L, Sulla valutazione del sicuro ravvedimento ai fini della liberazione condizionale, op.cit., pag.303.

[130] Barone G, Liberazione condizionale, in Digesto delle discipline penalistiche, Volume VII, pag. 415.

[131] Padovani T, La soave inquisizione, in Riv. It. Dir. e Proc. Pen. 1981, pp.532-537: "Mentre al ladro che sta eseguendo un furto si prospetta semplicemente l'opportunità di non sottrarre la cosa, o di non impossessarsene, al terrorista si chiede di rinunciare a essere tale".

[132] Flora G, La liberazione condizionale: quale futuro? in Indice Penale, 1989, pag.356.

[133] Secondo il giudizio del dottor Argan L, " quale è il dato storico che ci possa dire di più che il soggetto ha interrotto i collegamenti con l'ambiente criminale di appartenenza, se non quello collaborativo? Risulta evidente che richiedere una indagine di questo tipo nel momento stesso in cui il soggetto stesso collabora, rappresenta un dato ovvio. 

[134] Attraverso la legge 45/2001 si rileva un abbandono della probatio diabolica, la prova negativa della "acquisizione di elementi tali da fare escludere l'attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata".  

[135] In questi termini si esprime la Relazione al Disegno di legge n°2207, successivamente convertito nella legge 45/2001.

[136] Giordano P, Profili premiali della risposta punitiva dell Stato, Relazione all'incontro di studi sul tema "Funzione ed effettività della pena" organizzato dal C.S.M. a Frascati dal 13 al 15 giugno 1996, in Cass. Penale, 1997, pag. 923.

[137] L'assemblea senatoria ha modificato il testo originario della legge in oggetto su un punto importante: il d.d.l originario n°2207 prevedeva infatti come i provvedimenti  derogatori dei limiti di pena potessero essere concessi dopo l'espiazione del periodo di pena quantificato precedentemente, qualora non ricorressero "situazioni specifiche ed eccezionali". La formulazione di questa "clausola in bianco" avrebbe comportato il rischio di mantenere nell'ordinamento una forma di "immunità" per il collaboratore di giustizia, oltre a vanificare tutte le innovazioni della nuova legge. Sul punto, vd. Bernasconi A, Nei nuovi limiti ai benefici penitenziari non c'è svolta contro le distorsioni, op.cit., pag.129.

[138] Nonostante che, come rilevato precedentemente, la legge 45/2001 abbia eliminato la "discriminante" della sottoposizione allo speciale programma di protezione per la concessione dei benefici penitenziari, l'analisi condotta in tale paragrafo riguarderà la categoria dei collaboratori sottoposti ad esso, anche perché il nuovo provvedimento normativo "nasce" per porre rimedi a dei fenomeni degenerativi che si erano sviluppati all'interno di tale categoria.

[139] Delehaye E, Collaboratori di giustizia e misure alternative alla detenzione: problemi applicativi e uniformità interpretative, op.cit., pagg. 742-743.

[140] Con ordinanza emessa in data 12 giugno 2001 n° 3723/2001 il Tribunale di Sorveglianza di Roma ha rigettato la domanda di affidamento in prova al servizio sociale e confermato l'istanza di detenzione domiciliare nei confronti di un collaboratore di giustizia condannato a una pena residua ancora da scontare di circa due anni di reclusione. Il Tribunale osservava come" il collaboratore ha spontaneamente intrapreso la strada dell'affrancazione da logiche ed ambienti criminali, dimostrando affidabilità e disponibilità, come risulta dal parere emesso in data 5 marzo 2001 dalla Procura Distrettuale Antimafia presso il Tribunale di Bari… Il comportamento tenuto è stato sostanzialmente regolare, salvo un episodio risalente al gennaio del 1999, quando il soggetto è stato protagonista di un episodio di intolleranza nei riguardi di un operatore penitenziario, riportando un'ammonizione….. Occorre quindi confermare nei suoi confronti l'applicazione della detenzione domiciliare e rigettare la domanda di affidamento in prova, allo scopo di convalidare nel tempo la sua affidabilità in regime esterno e proseguire quindi la strada del reinserimento nel tessuto sociale in ambienti lontani da quelli nei quali ha consumato i reati per cui ha subito condanne definitive".

Con ordinanza emessa in data 6 giugno 2001 n° 3597/2001, il Tribunale di Sorveglianza di Roma ha rigettato la domanda di affidamento in prova nei confronti di un collaboratore di giustizia condanno a pena detentiva di undici anni e sette mesi di reclusione. Nonostante il rilevantissimo apporto collaborativo fornito e confermato dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Catania con nota inviata al Tribunale di Sorveglianza in data 21 febbraio 2001 (il collaboratore ha fornito nuovissimi elementi di conoscenza su trenta omicidi avvenuti nell'ambito di una faida mafiosa nella provincia di Siracusa), "in considerazione delle numerose condanne e delle pendenze giudiziarie anche per plurimi omicidi, si ritiene la misura dell'affidamento in prova misura troppo ampia in relazione alle finalità proprie dell'istituto di reinserimento sociale e di prevenzione speciale".         

[141] L'esperienza applicativa del Tribunale di Sorveglianza di Roma testimonia infatti come la misura della detenzione domiciliare è stata quella più largamente concessa nei confronti dei collaboratori, mentre l'affidamento in prova è stato ammesso in pochissimi casi.

[142] Bisogna ricordare come la detenzione domiciliare, prima dell'introduzione del comma 1 bis dell'art.47 ter ord. penit., veniva concessa in deroga anche ai presupposti sostanziali, in quanto la previsione che tale misura potesse essere concessa anche quando un soggetto avesse raggiunto un grado di affidabilità esterna compatibile con la struttura di tale beneficio, non era prevista dall'originario art. 47 ter.

[143] Con ordinanza del 13 giugno 2001, n°3079/2001, il Tribunale di Sorveglianza di Roma ha rigettato la domanda di detenzione domiciliare presentata da un collaboratore di giustizia condannato a trent'anni di reclusione. L'organo giudiziario rilevava infatti come" non risulta possibile formulare, allo stato, una prognosi favorevole circa l'idoneità del condannato ad essere ammesso ad una misura alternativa alla detenzione; a questa conclusione il Collegio è pervenuto tenendo conto della gravità dei reati commessi e perché non è stato ancora portato a conclusione un approfondito processo di revisione critica rispetto alle pregresse scelte devianti. Inoltre il collaboratore a tutt'oggi non ha fruito di permessi premio cosicché non è stato ancora possibile sperimentarne l'affidabilità esterna attraverso tale importantissimo strumento trattamentale, tenuto anche conto del principio di gradualità nell'ammissione ai benefici penitenziari. Risulta necessario pertanto far proseguire l'osservazione per un ulteriore e congruo periodo per poter valutare i progressi trattamentali compiuti dal condannato e la sua cessata pericolosità sociale".

In senso positivo, invece l'ordinanza n°3856/2001 emessa in data 6 giugno 2001,  con cui il Tribunale di Sorveglianza di Roma ha preferito accogliere l'istanza di detenzione domiciliare rispetto a quella di affidamento in prova, nei confronti di un collaboratore di giustizia con pena residua da scontare di un anno di reclusione. Tenuto conto dei progressi trattamentali del soggetto e delle positive informazioni del Servizio Centrale di Protezione, "è possibile formulare un positivo giudizio sulla evoluzione della personalità del richiedente tale da fare ritenere avviato un processo di revisione critica del passato e di abbandono dei disvalori che sono stati all'origine dei crimini commessi. Pertanto, considerata anche l'entità della pena ancora da espiare, si reputa la detenzione domiciliare misura idonea, nel caso di specie, ad evitare che il collaboratore ponga in essere altri reati o fugga".       

[144] Barone G, Liberazione Condizionale, op.cit., pag. 414.

[145] Vd. retro, pag.129.

[146] Flora G, La Liberazione condizionale: quale futuro?, op.cit., pag. 356.

[147] Marini L, Un nodo cruciale e trascurato: "la gestione dei pentiti", op.cit., pp.705-706.

[148] Questa è la finalità espressa nella Relazione al d.d.l. n°2207.

[149] Il referente temporale della redazione del verbale illustrativo dei contenuti della collaborazione è dettato dalla considerazione che la composizione di tale atto "cristallizza" definitivamente le dichiarazioni del collaboratore, poiché eventuali nuove rivelazioni rese dopo tale termine non potranno essere valutate a fini probatori contro le persone diverse dal dichiarante, salvo i casi di irreperibilità, come stabilito dall'art.16 quater comma 9.  

[150] Intervento del Senatore Cirami alla 810a seduta del Senato della Repubblica in data 28 marzo 2000.

[151] Va rilevato come una proposta emendativa respinta dall'Assemblea Senatoria, era addirittura finalizzata ad abrogare l'istituto dei colloqui investigativi. Il riferimento è all'emendamento proposto dai Senatori Cirami, Centaro, Pera, Scopelliti e Greco.

[152] Questa è l'espressione e l'analisi effettuata dal Relatore al d.d.l. n°2207, Senatore Luigi Follieri, alla 812a seduta dell'Assemblea Senatoria in data 29 marzo 2000.

[153] Vd. retro, capitolo II, pag.80.

[154] Spataro A, Per i collaboratori di giustizia legge scoraggia collaborazioni, op.cit., pag.79 e Maddalena M, Sulle misure di protezione Commissione arbitro unico, op.cit., pag.54. 

[155] Lo stesso Spataro A, op.cit., pag.54, sottolinea come sarebbe forse stato meglio prevedere la possibilità di colloqui con i familiari, salvo il potere di vietarli per specifiche ragioni di sospetto.

[156] Cirignotta S, Il trattamento penitenziario e la custodia in istituti o sezioni "separati", relazione tenuta durante l'incontro di studio sul tema "I collaboratori di giustizia" organizzato dal Consiglio Superiore della Magistratura a Frascati dal 23 al 25 febbraio 1995, inedito.

[157] Il primo circuito penitenziario delineato riguardava infatti i soggetti nei cui confronti era stata formulata la proposta di ammissione allo speciale programma di protezione, o per i quali fosse già stato definito; il secondo riguardava i soggetti che avevano già reso le dichiarazioni preliminari alla collaborazione, sempre che fosse stata proposta l'ammissione al programma di protezione; il terzo riguardava i soggetti nei cui confronti il Procuratore della Repubblica si apprestava a raccogliere il verbale delle dichiarazioni preliminari alla collaborazione. 

[158] Laudi M, Commento all'articolo 7 del D.M. 24/11/1994, in Legislazione Penale 1995, pag. 198.

[159] La Relazione al d.d.l. n°2207  specifica come le disposizioni del provvedimento tende a "recuperare e amplificare le previsioni sui circuiti carcerari differenziati indicati nel decreto interministeriale n°687/1994", attraverso la possibilità per il collaboratore "di essere custodito secondo modalità meno rigorose dell'ordinario da definirsi  col decreto ministeriale previsto dal nuovo art. 17 bis comma 2". 

[160] Il riferimento è relativo al periodo di pena che obbligatoriamente ogni collaboratore di giustizia dovrà espiare per essere ammesso ai benefici penitenziari.

[161] La disposizione citata prevedeva infatti la possibilità che, per gravi ed urgenti motivi di sicurezza, il Procuratore della Repubblica potesse autorizzare la Polizia Giudiziaria a custodire le persone arrestate, fermate o sottoposte alla custodia cautelare, in locali diversi dal carcere per il tempo necessario alla definizione del programma di protezione. 

[162] Tale disposizione consentiva che, per gravi e urgenti motivi di sicurezza, il Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte d'Appello nel cui distretto si trovava l'istituto penitenziario potesse autorizzare, su richiesta del Capo della Polizia, che le persone detenute per espiazione della pena o internate per l'esecuzione di una misura di sicurezza fossero custoditi in luoghi diversi dal carcere per il tempo necessario alla definizione del programma di protezione.    

[163] Vd. Foro Italiano 1998, pp. 2731-2735.

[164] La Corte Costituzionale conclude infatti come "l'innovazione legislativa che vieta la concessione di misure alternative alla detenzione finisce quindi per atteggiarsi alla stregua di un meccanismo a connotazioni sostanzialmente ablative, riproducendo così quei caratteri di revoca non fondata sulla condotta colpevole del condannato che questa Corte ha già censurato".

[165] L'interpretazione uniforme del Tribunale di Sorveglianza è espresso, a titolo esemplificativo, dalla ordinanza n°3862/2001 emessa in data 12 giugno 2001. 

 

 

[166] Galgani B, Riflessioni sul regime intertemporale nella disciplina dell'esecuzione: legge Simeone e ordini di carcerazione, in Cassazione Penale, 2000, pag.114.

[167] La Consulta rilevava però come ciò non significasse che "la revoca di una misura che ha comportato una sostanziale modificazione nel grado di privazione della libertà possa considerarsi fenomeno privo di rilievo sotto il profilo costituzionale". La stessa Corte ha più volte riconosciuto, anche in materie non soggette al principio di irretroattività quale quella dei diritti patrimoniali, che "la vanificazione con legge successiva di un diritto positivamente riconosciuto da una legge precedente non può sottrarsi al necessario scrutinio di ragionevolezza".  

[168] Galgani B, Riflessioni sul regime intertemporale nella disciplina dell'esecuzione: legge Simeone e ordini di carcerazione, op.cit., pag.116.La stessa autrice sottolinea però l'opportunità di prospettare una sorta di complementarietà tra il parametro della rieducazione ex art.27 comma 3 Cost. e il principio di non regressione imposto dall'art.25 comma 2 Cost., come canone idoneo ad impedire eventuali e disparitari trattamenti peggiorativi del condannato.

[169] Alfonso R, Collaboratori di giustizia: rompicapo in Procura sui soggetti a cui applicare il regime transitorio, in Guida al Diritto, n°23, 16 giugno 2001, pag.10.

[170] Secondo Alfonso R, Sorte dubbia per chi ha già riferito ai magistrati, in Guida al Diritto, n°11, 24 marzo 2001, pp.71-72, bisogna distinguere tra il soggetto che abbia definitivamente completato la sua collaborazione, e quello che debba rendere dichiarazioni su fatti da lui conosciuti: nel primo caso, si dovrà applicare la disciplina precedente, considerato come il procedimento di ammissione del collaboratore al programma di protezione si è concluso ed è rimasta accertata l'esistenza di tutte le condizioni previste dalla precedente disciplina. Né può seriamente immaginarsi che i pubblici ministeri vadano a risentire, entro 180 giorni dall'entrata in vigore della legge 45/2001, diverse centinaia di collaboratori per redigere il verbale illustrativo dei contenuti della collaborazione, già da anni esauritasi.

Il secondo caso può assimilarsi invece a quello previsto dall'art.16 quater comma 7, laddove è stabilito che le speciali misure di protezione, se già concesse, debbano essere revocate, qualora entro il termine di 180 giorni, la persona cui esse si riferiscono non renda le dichiarazioni previste nei commi 1, 2 e 4 del medesimo articolo, e queste non siano documentate nel verbale illustrativo dei contenuti della collaborazione.     

[171] Alfonso R, Collaboratori di giustizia: rompicapo in Procura sui soggetti a cui applicare il regime transitorio, op.cit., pag.11.

[172] Il riferimento è alla Relazione effettuata dal Consigliere Gioacchino Natoli alla Decima Commissione del Consiglio Superiore della Magistratura, Problematiche concernenti il sistema di protezione dei collaboratori di giustizia, di cui un estratto è pubblicato su Diritto e Giustizia,n°31, 15 settembre 2001, pp. 10-22.

[173] La considerazione è sempre espressa dal Consigliere Gioacchino Natoli, op.cit., pag.21.

[174] Sezione I, 11 marzo 1999, n°2067, con cui la Corte di Cassazione aveva annullato l'ordinanza emessa dal Tribunale di Sorveglianza di Bologna, che aveva revocato la misura della detenzione domiciliare nei confronti di un collaboratore di giustizia, al quale era stato revocato il programma speciale di protezione anche se non per fatto colpevole del soggetto.  

[175] Bernasconi A, Le immunità occulte, op.cit., pag.199, rileva come in passato l'offerta di collaborazione con gli apparati investigativi abbia superato la "domanda", generando perciò una crisi sul versante dell'economia delle risorse.

[176] Tali considerazioni sono sempre svolte dal Consigliere Gioacchino Natoli, op.cit., pag.13.

[177] Il riferimento è all'intervento dell'Onorevole Elio Veltri alla prima seduta della  Commissione Giustizia della Camera dei Deputati, in data 25 maggio 2000.