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UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI PISA
Tesi di Laurea
Massimo
Pennacchi
1 Le linee ispiratrici del
provvedimento.
2 Condizioni di applicabilità delle misure di protezione.
a). Rapporto
tra programma di protezione e fattispecie penali.
b). Requisiti
della condotta collaborativi
c). Situazione di pericolo e differenziazione degli
strumenti di protezione.
3. Gli organi titolari del
potere di proposta.
4. La Commissione Centrale
5. Il Servizio Centrale di
Protezione.
6. Assunzione degli impegni,
revoca e modifica delle speciali misure di protezione.
7. Le misure di
assistenza.
CAPITOLO III
Il trattamento penitenziario.
1 Evoluzione della fattispecie collaborativa alla luce della legislazione del " doppio binario": le scelte della politica penitenziaria contro la criminalità organizzata.
2 Collaborazione con la giustizia e sistema premiale: la scelta di ricompensare le condotte collaborative in sede esecutiva.
3. Rapporto tra
collaborazione con la giustizia e procedimento di sorveglianza.
4 Gli interventi sintomatici
della Corte Costituzionale.
5 I Profili penitenziari
sistematici della legge 13 febbraio 2001.
6 I presupposti per
l'ammissione ai benefici penitenziari.
a). Importanza
del contributo.
b). Il
ravvedimento.
c). Esclusione
della sussistenza di collegamenti con la criminalità organizzata.
d). Espiazione
di un periodo minimo di pena.
7 Le misure alternative alla detenzione per i collaboratori di giustizia: caratteristiche e tipologia.
8 Collaboratori di giustizia
e trattamento carcerario.
9 La disciplina transitoria.
BIBLIOGRAFIA
1. Le linee ispiratrici del provvedimento.
Il nuovo testo normativo si
articola in quattro sezioni: nella prima sono trattati i temi concernenti le
modifiche all’attuale sistema di protezione, nella seconda viene per la prima
volta regolamentato lo status del testimone di giustizia, nella terza le
modifiche al trattamento sanzionatorio e penitenziario dei collaboratori, nella
quarta infine sono trattati i temi relativi al coordinamento normativo e alla
destinazione dei patrimoni dei collaboratori. Il provvedimento è ispirato a tre
idee-guida: la distinzione del momento premiale dal momento tutorio, la
“selezione qualitativa dei collaboratori” e l’assicurazione di una piena
trasparenza nella gestione processuale degli stessi.[1]
La nostra attenzione in questo capitolo verterà sul Capo I della legge,
specificatamente dall’ articolo 1 all’articolo 11 che modifica la disciplina
dettata dal Capo II del D.L. n° 8/1991 intervenendo sulle condizioni di
applicabilità delle misure di protezione, sui contenuti delle misure stesse,
sulle procedure e sulle competenze previste per la loro adozione, nonché sulla
struttura della commissione centrale e del servizio centrale di protezione.
2.
Condizioni di applicabilità
delle misure di protezione.
a). Rapporto tra programma di protezione e fattispecie penali.
Il primo aspetto su cui la
legge incide in maniera significativa riguarda l’ingresso nella protezione:
l’art.2 comma 2 della legge modifica
integralmente l’art.9 del decreto legge 15/01/1991 n°8, delimitando infatti
l’operatività delle speciali misure di protezione e del programma speciale ai
casi di collaborazione che riguardano esclusivamente delitti commessi per
finalità terroristico-eversive e i delitti specificatamente ricompresi
dall’art. 51 comma 3 bis c.p.p.; si tratta sicuramente di una innovazione
significativa, considerato che il vecchio riferimento all’art.380 c.p.p. era
stato fonte di aspre polemiche ed aveva contribuito ad una crescita non più
controllabile del fenomeno collaborativo.[2] Tuttavia anche la nuova disciplina rischia
di suscitare delle critiche [3], considerato come una utilissima
collaborazione possa trovare l’occasione anche in delitti non di stampo mafioso
o comunque non ricompresi dall’art.51 comma 3 bis c.p.p. ; così la norma
esclude da ogni misura speciale di protezione il soggetto che abbia prestato
collaborazione in riferimento ad una pluralità di omicidi commessi in ambito di
criminalità organizzata, ma non di stampo mafioso come accade per i gruppi
criminali emergenti, ovvero il trafficante di sostanze stupefacenti che
tuttavia non risulti inserito in una organizzazione corrispondente alla
previsione di cui all’articolo 74 del DPR n°309/1990. Perciò se la
collaborazione per questi altri reati dovesse esporre il collaboratore a grave
ed attuale pericolo, non si potrà fare altro che ricorrere alle misure
ordinarie di protezione che non comprendono però accorgimenti significativi,
quali il trasferimento in comuni diversi da quelli di residenza e le misure di
assistenza economica.
b). Requisiti della condotta collaborativa
L’art. 2 comma 3 della legge
n°45/2001 riforma ampiamente anche le caratteristiche che la condotta
collaborativa deve avere per poter attivare il programma di protezione. Infatti
con la nuova normativa assumono rilievo le dichiarazioni intrinsecamente
attendibili e che presentino inoltre, carattere di novità o di completezza
ovvero appaiano per altri elementi di notevole importanza “ per lo sviluppo
delle indagini o ai fini del giudizio ovvero per le attività di investigazione
sulle connotazioni strutturali, le dotazioni di armi, esplosivi o beni, le
articolazioni o i collegamenti interni o internazionali delle organizzazioni
criminali di tipo mafioso o terroristico- eversivo o sugli obbiettivi, le
finalità e le modalità operative di dette organizzazioni”.
L’intento del legislatore è
duplice: in primo luogo, si vuole privilegiare la collaborazione funzionale
alla investigazione preventiva, che consenta perciò di accertare le
connotazioni, gli obbiettivi, le dotazioni e i collegamenti delle
organizzazioni mafiose od eversive.[4] Durante l’approvazione del provvedimento
normativo al Senato, si deve però registrare un’importante modifica al testo
originario consistente nella eliminazione del riferimento alla indispensabilità
della collaborazione; [5]
il pericolo- sottolineato dal Senatore Russo- riguardava il fatto che i
requisiti della novità, attendibilità, completezza ed indispensabilità della
collaborazione fossero prefigurati in una formula ecessivamente rigorosa, anche
avuto riguardo alla considerazione che essi sono finalizzati all’ammissione
alle misure o allo speciale programma di protezione, e non ad una loro
attendibilità a fini probatori.[6]
Inoltre bisogna considerare anche le
dichiarazioni che non siano completamente nuove, ma non per questo non
rivestano caratteristiche tali da imporre
comunque la protezione del collaboratore sia per la serietà delle
dichiarazioni, sia perché espongono il soggetto a pericolo di ritorsioni.
Tale argomentazione trova la
conferma anche nel settore
penitenziario, dove si deve evidenziare che sulla questione della
indispensabilità della collaborazione prospettata nella fattispecie originaria
di cui all’art.16 ter introdotto dall’art.12 del provvedimento in oggetto, come
un requisito necessario per la concessione
dei benefici penitenziari, la Corte Costituzionale abbia sottolineato
situazioni in cui la condotta collaborativa non era di fatto esigibile e che in
tali ipotesi comunque non potevano essere negati i sopracitati benefici. [7]
Per tutti questi motivi è stato eliminato il riferimento alla indispensabilità
della collaborazione, per cui potranno assumere rilievo anche le dichiarazioni
che, seppure non completamente indispensabili, appaiono di notevole importanza
riguardo le attività di investigazione su strutture, obbiettivi, finalità e
modalità operative delle organizzazioni criminali. Inoltre risulta evidente
come, considerata la ratio dell’emendamento presentato dal Senatore Russo e
approvato successivamente anche dalla Camera, i requisiti della novità,
completezza e importanza delle dichiarazioni del collaboratore debbano essere
interpretate alternativamente e non congiuntamente tra di loro, proprio per
evitare che possano essere apprezzate solo le condotte collaborative che si
pongano come fonte primaria e unica nella vicenda giudiziaria che veda
coinvolto il soggetto.[8]
Tale argomentazione trova esatta conferma nell’emendamento presentato dal
senatore Caruso e finalizzato a precisare ulteriormente la modifica apportata
dal senatore Russo.[9] Infatti esso
non ha una portata rilevante dal punto di vista sostanziale, salvo il fatto che
è parso ai presentatori che la nuova dizione fosse più opportuna, cioè
evidenziasse maggiormente come dovesse essere realizzata la congiunzione tra
uno dei requisiti (l’intrinseca attendibilità) e gli altri (la novità, la
completezza e la notevole importanza) in alternativa fra di loro. Tale
proposito, espressamente enunciato dal proponente, viene realizzato attraverso
la suddivisione dell’unico periodo relativo al testo dell’art.2 comma 3 della
legge n°45/2001, che era stato approvato inizialmente dalla commissione
giustizia del Senato.[10]
Inoltre, il riferimento alla intrinsecità come parametro di valutazione
dell’attendibilità delle dichiarazioni, pur non escludendo da tale verifica di
credibilità l’eventuale apporto di elementi di obiettivo riscontro, ben si
ricollega al vaglio del verbale illustrativo dei contenuti della
collaborazione, il quale dovrebbe assicurare l’effettiva selezione dei
collaboratori dal punto di vista qualitativo, prescindendo dall’eventuale già
intervenuta acquisizione dei riscontri cosiddetti “estrinseci”.[11] Per ciò che riguarda il requisito
dell’importanza del contributo offerto dal collaboratore bisogna sottolineare
un’ulteriore elemento: per la prima volta emerge chiaramente la volontà del
legislatore di eliminare, ai fini della proponibilità del programma di
protezione, tutte le situazioni connotate da mera potenzialità della
collaborazione offerta alla giustizia, limitando tali misure speciali ad
ipotesi di collaborazione e pericolo chiaramente conclamate. La normativa
attuale compie perciò un notevole miglioramento rispetto alla vecchia
disciplina di cui all’art. 11 del d.l. n°8/1991; qui si faceva riferimento
all’importanza del contributo offerto per lo sviluppo delle indagini o per il
giudizio penale, senza specificare l’oggetto e il merito di tale contributo,
favorendo inoltre non solo la collaborazione fornita, ma anche quella in
“divenire”.[12] La nuova
disciplina si colloca all’interno del “percorso normativo” già adottato
dall’art. 2 del decreto interministeriale 24 novembre 1994, n°687; per eliminare
il pericolo di concedere le speciali misure di protezione alle situazioni
connotate da mera potenzialità della collaborazione offerta alla giustizia,
l’art.2 prevedeva come, per evidenziare l’importanza del contributo offerto, la
proposta del Procuratore della Repubblica di ammissione al programma di
protezione dovesse contenere “ i principali fatti criminosi sui quali il
soggetto proposto sta rendendo le dichiarazioni e i motivi per i quali esse
sono ritenute attendibili e importanti per le indagini e il giudizio”; inoltre
la proposta doveva precisare a quale gruppo criminale appartenesse il soggetto
e il ruolo da lui ricoperto al suo interno. Risulta evidente quindi come
l’art.2 comma 3 abbia la finalità di promuovere una selezione qualitativa dei
collaboratori attraverso una ulteriore “specializzazione” del contributo
offerto all’autorità inquirente, cercando altresì di evitare atteggiamenti
troppi rigidi il cui rigore si concilia male col momento iniziale delle
indagini e rischia di dilatare enormemente i tempi per la concessione delle
speciali misure di protezione.[13]
Naturalmente l’auspicata finalità legislativa dipenderà in buona sostanza
dall’adesione dei pubblici ministeri, giudici, magistrati di sorveglianza allo
spirito della nuova normativa, più determinante dell’innalzamento del tasso di
prescrittività e dell’iterazione di aggettivi nelle singole disposizioni.[14]
c). Situazione di pericolo e differenziazione degli strumenti di protezione.
L’art.2 comma 2 e
comma 4, l’art.6 comma 4 e comma
5 della
legge
n° 45/2001 mostrano
chiaramente “l’intento del legislatore di
costruire una serie
progressiva di strumenti tutori che vanno dalle ordinarie misure di
tutela, alle speciali misure di protezione ed infine allo speciale programma di
protezione e di assicurare una maggiore selettività nella utilizzazione di tali
strumenti”.[15] Al fine di
sottolineare le esigenza di trasparenza nella gestione e nella protezione dei
collaboratori, sono stati precisamente indicati i vari tipi di misure di
protezione e si è specificato che solo il programma di protezione prevede una
forma di assistenza continua e prolungata, mentre le ordinarie misure tutorie
consistono in servizi di tutela temporanea per i collaboratori e i conviventi.[16]
Perciò si prevede una gradazione delle misure di protezione: misure ordinarie,
cui provvede sempre l’autorità di Pubblica Sicurezza ovvero, nel caso di
persone detenute, il dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria; misure
speciali di protezione da adottarsi, quando risultino inadeguate le prime,
dalla Commissione Centrale; il loro contenuto è demandato ad un apposito
decreto interministeriale previsto dall’art. 17 bis, ma l’art.6 comma 4 ha cura
di specificare che esso può essere rappresentato “dalla predisposizione di
accorgimenti tecnici di sicurezza, dall’adozione delle misure necessarie per i
trasferimenti in comuni diversi da quelli di residenza…. nonché dal ricorso, nel
rispetto delle norme dell’ordinamento
penitenziario, a modalità particolari di
custodia in istituti”. Analizzando
attentamente questa disposizione, emerge una importantissima novità: infatti
il testo del sostituito art.13
prevedeva che “ lo speciale programma di protezione” potesse comprendere “ le
misure necessarie per garantire la riservatezza, secondo le modalità stabilite
dal decreto di cui al comma 3 dell’art.10, anche in deroga alle vigenti disposizioni in materia
penitenziaria”: risulta quindi evidente la
maggiore rigidità del trattamento che con la nuova legge si è voluto riservare
ai collaboratori.[17] Considerando inoltre che la nuova legge ha
abrogato espressamente gli artt. 13 bis e 13 ter del decreto legge n°8/1991, è
evidente come sia le speciali misure di protezione di cui al nuovo art.13 comma
4 del sopracitato decreto, sia il programma di protezione di cui al nuovo
art.13 comma 5, non possano più rappresentare una deroga alle disposizioni
penitenziarie e conseguentemente la “chiave” per ottenere benefici di fatto
illimitati.
Questo rappresenta il
primo significativo aspetto in cui la nuova legge rompe la
“commistione”, effettuata dalla
normativa precedente, tra
momento premiale e
momento tutorio; la protezione deve essere legata esclusivamente alla
situazione di pericolo e ,se questa non c’è, è ovvio che non devono essere adottate
misure di protezione, mentre l’attenuante per la collaborazione e i benefici
premiali hanno una loro autonoma
disciplina che verrà accordata quando ne ricorreranno i presupposti.[18]
Quando risulti
l’inadeguatezza sia delle ordinarie misure di tutela, sia delle speciali misure
di protezione, la Commissione potrà adottare un programma di protezione il cui
contenuto, anch’esso rimesso al decreto interministeriale di cui all’art. 17
bis della presente legge, è in parte predeterminato dall’art.6 comma 5 e comprende,
oltre a tutte le speciali misure di protezione, speciali modalità di
documentazione e comunicazione al servizio informatico, cambiamento delle
generalità, e tutte le misure di assistenza, sia sociale che economica. In
sostanza, il programma speciale di protezione viene riservato ai casi in cui
neppure le speciali misure di protezione risultino adeguate alla gravità ed
attualità del pericolo cui versa il collaboratore, e conseguentemente le misure
di assistenza, che analizzeremo in seguito, potranno essere accordate solo nei
casi più gravi. La volontà del legislatore è chiara: le tanto criticate e
discusse misure volte a favorire il reinserimento sociale della
persona protetta anche da un punto di vista economico
potranno essere concesse
solamente dal programma speciale di protezione, come ultima ed estrema
“ratio”. Perciò la
possibilità di
scegliere tra misure
speciali e programma speciale non dipende dalla qualità o dalla rilevanza del
contributo offerto, ma dalla oggettiva situazione di pericolo, come prevede la
formulazione dell’art.2 comma 2 e comma 4.[19]
La situazione di pericolo deve sempre essere grave ed attuale, ma anche in
questo caso si registrano due innovazioni: in primis, per valutare la
gradazione della situazione di pericolo, si terrà conto oltre che dello
spessore delle condotte di collaborazione o della rilevanza e qualità delle
dichiarazioni rese, anche delle “caratteristiche di reazione del gruppo
criminale in relazione al quale la collaborazione o le dichiarazioni sono rese,
valutate con specifico riferimento alla forza di intimidazione di cui il gruppo
è localmente in grado di valersi”. Tale riferimento pone indubbiamente alcuni
aspetti critici: non pare logico infatti ammettere le misure di protezione per
un collaboratore solo se l’organizzazione mafiosa di cui egli abbia rivelato
struttura e crimini sia operante nel territorio in cui egli risiede.
Si può sostenere che il
collaboratore che abbia rivelato quanto a sua conoscenza su
Cosa nostra o
sulla camorra non
sia soggetto a solo per il fatto di non risiedere in
una zona a rischio? [20] In questo
caso risulta evidente come una interpretazione rigorosa della norma potrebbe
portare a risultati iniqui e ingiustificabili: tutto dipenderà dall’operato e
dalla intelligenza dei singoli procuratori della repubblica chiamati a proporre
l’attivazione del programma di protezione, e dei membri della commissione
titolari del potere di concederla.
In secondo luogo, l’intento
del legislatore di selezionare rigorosamente il numero delle collaborazioni
opera su un altro settore: l’art.2 comma 5 prevede infatti come le speciali
misure di protezioni risultino applicabili alle persone che, a qualunque
titolo, convivono stabilmente con il collaboratore, nonché anche a coloro che
risultino esposti a grave, attuale e concreto pericolo a causa delle relazioni
intrattenute con la persona protetta. Infine viene stabilito il principio
secondo cui il solo rapporto di parentela, affinità o coniugio non determini,
in difetto di stabile coabitazione, l’applicazione automatica delle
misure. Nonostante i primi rilievi
critici sollevati in relazione a
tale norma[21],
altri autorevolissimi esponenti della magistratura hanno accolto favorevolmente
l’ingresso di tale disposizione[22];
infatti l’esperienza dei primi anni di applicazione della precedente normativa
ha dimostrato come la tendenza fosse quella di applicare automaticamente il
programma di protezione ai familiari del collaboratore, sulla base perciò del
solo rapporto di parentela e senza un’analisi effettiva della sussistenza della
gravità ed attualità del pericolo; come sottolineato dal Procuratore Laudi, non
erano rari i casi in cui i parenti del collaboratore prendevano le distanze da
tale scelta in modo netto ed esplicito, anche perché appartenenti anch’essi ad
organizzazioni criminali, e quindi tale “ estensione automatica” appariva priva
di motivazione. Con la nuova disposizione introdotta dall’art. 2 comma 5 si è
voluto incidere su questa prassi pericolosa, inducendo perciò i Procuratori
della Repubblica a richiedere l’ammissione allo speciale programma di
protezione nei confronti dei familiari solo in presenza di reali situazioni di
pericolo e senza giudizi presuntivi di tipo assoluto[23].
3. Gli organi titolari del potere di proposta.
Tale settore viene ridisegnato dall’art.4 della legge n°45/2001, che modifica completamente l’art.11 del decreto legge 15/01/1991,n°8.
Anche in questo caso la
normativa compie un passo avanti decisivo, considerato che viene realizzata una
specificazione dei soggetti “attori” che consente di superare le difficoltà
interpretative del vecchio art.11 del d.l. n°8/1991[24]:
così viene stabilito che la proposta di ammissione al programma venga formulata
dal Procuratore della Repubblica il cui ufficio procede o ha proceduto per i
fatti indicati nelle dichiarazioni, ex art. 4 comma 1; nel caso in cui sul
fatto abbia proceduto la Direzione Distrettuale Antimafia la proposta è
formulata dal procuratore distrettuale
ovvero, qualora ad essa non sia preposto quest’ultimo, da un suo delegato, ex
art.4 comma 1, ultimo periodo; nei casi di indagini collegate ai sensi
dell’art. 51 comma 3 c.p.p., la proposta viene formulata da uno degli uffici
procedenti d’intesa con gli altri e comunicata al procuratore nazionale antimafia,
che risolverà il contrasto tra essi nell’eventuale caso di mancato accordo, ex
art.4 comma 2; infine, qualora la situazione abbia ad oggetto delitti commessi
per finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine costituzionale, la
proposta viene formulata d’intesa tra i procuratori generali presso le corti
d’appello interessate, ex art.4 comma 2 ultimo periodo.
La nuova legge ha perciò il
pregio di individuare minuziosamente ed esplicitamente gli organi titolari del
potere di proposta dell’ammissione alle misure di protezione, con un dato
tuttavia critico che va sottolineato. Infatti, con evidente asimmetria rispetto
alla disciplina prevista per le indagini collegate per i reati di mafia, per
quelle in materia di terrorismo non vi è nessuna previsione circa la
possibilità di insorgenza di contrasto tra i procuratori generali interessati,
né tanto meno sulla individuazione dello strumento giuridico idoneo alla sua
soluzione. Sarebbe stato forse più coerente con il ruolo istituzionale dei
procuratori generali stabilire che la proposta fosse loro comunicata e che
fosse richiesto il loro intervento attivo solo nel caso di persistenza del
contrasto tra diversi uffici del pubblico ministero.[25]
Tuttavia nella prassi bisogna sottolineare come si verificheranno pochi casi di
contrasto tra i diversi uffici del pubblico ministero, alla luce anche
dell’esperienza precedente[26]:
si può quindi concludere affermando che il problema prospettato potrà essere
risolto dalla professionalità e dalla intelligenza dei procuratori chiamati a
“gestire” nei fatti il collaboratore[27].
La nuova linea normativa
esprime una scelta precisa effettuata in Commissione giustizia del Senato e
volta, in primis, a mantenere i poteri del Procuratore Nazionale Antimafia
entro un modulo procedurale che escluda pericoli di interferenza da parte del
medesimo nell’esercizio di funzioni normalmente riservate ai singoli
procuratori distrettuali[28];
in secondo luogo, la valutazione effettuata in Commissione esprime “il
convincimento che la scelta del percorso per conseguire il
necessario coordinamento nel caso
della proposta di
ammissione alle speciali
misure di protezione nell’ambito di indagini collegate ai sensi dell’art.371
c.p.p., non possa prescindere dalle esigenze sostanziali sottese a tali ipotesi”.[29]
In tale ottica occorre un coinvolgimento effettivo degli uffici del pubblico
ministero che procedono, poiché essi sono in possesso degli elementi relativi
alle caratteristiche del contributo della persona che rende le dichiarazioni:
l’intento del legislatore è perciò quello di realizzare una “strategia”
unitaria tra i vari uffici del pubblico ministero interessati, volta a
sfruttare nel miglior modo possibile le dichiarazioni rese dal collaboratore.[30]
In questo contesto, il “coinvolgimento” del Procuratore Nazionale Antimafia nel
procedimento per l’ammissione al programma, anche alla luce delle altre norme
che analizzeremo in seguito, appare un corollario naturale delle funzioni di
coordinamento investigativo e centralizzato dei dati sulla criminalità mafiosa
che l’art.70 bis o.g. e l’art.371 bis c.p.p. assegnano al procuratore
nazionale. La stessa Direzione Nazionale Antimafia, così come concepita nel
nostro ordinamento, assume la fisionomia di organo di coordinamento e di
raccolta dati oltreché di supporto tecnico e di risoluzione di contrasti.[31]
In un corretto rapporto istituzionale la Procura nazionale antimafia, già
destinataria di tutte le dichiarazioni dei soggetti che collaborano a indagini
giudiziarie proprio perché unico ufficio a conoscenza del complesso delle
dichiarazioni fatte anche a diverse autorità giudiziarie, potrà effettuare una
verifica e un controllo, sia pure cartolare, della coerenza e della coincidenza
delle stesse e quindi attribuire loro un tasso di attendibilità altrimenti non
conseguibile. Né questo può essere visto o appreso come “ indebita intrusione”
da parte del Procuratore nazionale sul concreto lavoro investigativo dei
magistrati delle singole Direzioni distrettuali giacché è di tutta evidenza
che, nel vaglio da operarsi dall’Ufficio Nazionale, non può
intravedersi alcuna sovrapposizione nelle indagini ma
semmai una omologazione
delle procedure e dei sistemi di protezione anche alla stregua del diverso
grado di pericolo corso dai soggetti da proteggere.[32]
Importanti e significative
sono anche le modifiche riguardanti la posizione del Capo della Polizia:
anch’esso è legittimato a formulare la proposta ma deve acquisire il parere del
procuratore della repubblica competente, e in caso di indagini collegate, questo è espresso d’intesa con gli altri
procuratori interessati, come si evince dal nuovo art.11, comma 3. Ma la novità
più importante riguarda l’eliminazione della possibilità di disporre le misure
urgenti, come prevedeva il disposto del vecchio art.11 comma 1; il nuovo
art.13, comma 1 prevede infatti che, per i casi di eccezionale urgenza che non
consentono la tempestiva deliberazione della commissione, il Capo della Polizia
possa solo autorizzare l’autorità di pubblica sicurezza ad avvalersi degli specifici
stanziamenti previsti dall’art.17 e destinati alle misure di tutela e
protezione. I poteri contemplati nella
legge n°82/1991 assegnavano al Capo della polizia un ruolo in via principale
molto pericoloso: egli infatti poteva ricorrere, nei casi di particolare
urgenza di cui al comma 1
dell’art.11, alle misure necessarie e poi
provvedere ad informare di
ciò il Ministro: la particolare latitudine di tale disposizione configurava una
discrezionalità amministrativa dai contorni indefiniti. Il rischio più grande era dato dal fatto che i contenuti delle misure
di protezione e di assistenza erano determinate unilateralmente e senza la
dialettica con gli altri organi. Il Capo della Polizia poteva infatti fare a
meno sia del parere del procuratore della repubblica sull’importanza del
contributo offerto dal collaboratore, sia della forma di controllo esercitata
dalla commissione.[33]
Inoltre l’intera costruzione della procedura d’urgenza presentava non pochi
aspetti problematici: infatti il Capo della Polizia poteva già disporre in
piena autonomia di tutte le misure ordinarie di protezione e pertanto , se si
considerava che ai fini della detenzione extracarceraria sussisteva una
complessa procedura specifica, l’ipotesi di un programma emergenziale poteva essere
riferita esclusivamente agli altri istituti applicabili solo nell’ambito dello
speciale programma di protezione, quali l’utilizzo temporaneo di un documento
di copertura e il cambiamento delle generalità. Perciò, veniva evidenziato[34] come tali
procedimenti richiedevano
un’iter procedimentale articolato e complesso, che non consentiva una effettiva
attuazione in via d’urgenza.[35]
4. La Commissione Centrale
L’art.3 della nuova legge
sui collaboratori di giustizia modifica la composizione ed il procedimento
istruttorio della Commissione Centrale, secondo principi di terzietà dei suoi
componenti rispetto al mondo delle indagini e delle investigazioni, favorendo
“una reale distinzione fra organi del
procedimento penale e organi della protezione”.[36]
Infatti il nuovo comma 2 bis del d.l. 15/01/1991, n°8, stabilisce come i
componenti della Commissione diversi dal presidente “sono preferibilmente
scelti tra coloro che siano in possesso di cognizioni relative alle attuali
tendenze della criminalità organizzata, ma che non sono addetti ad uffici che
svolgono attività di investigazione, di indagine preliminare sui fatti o
procedimenti relativi alla criminalità organizzata di tipo mafioso o
terroristico-eversivo”.
Il testo dell’art.3
approvato in prima istanza dal Senato era differente dalla stesura definitiva
in quanto si prevedeva che i componenti della Commissione diversi dal
presidente non fossero addetti ad uffici che svolgessero continuativamente
attività di investigazione sui procedimenti relativi alla criminalità
organizzata di tipo mafioso o terroristico- eversivo. La differenza riguarda
perciò la soppressione dell’avverbio “ continuativamente” che ha cambiato
sostanzialmente il significato della norma e sulla quale si è registrato una
discordanza anche in sede di lavori parlamentari. [37]
Inoltre l’intento di creare una distinzione reale ed effettiva tra organi
giudicanti ed organo amministrativo trova la sua “ norma di chiusura” nel comma
2 octies dell’art.10 sopracitato, secondo cui “ i magistrati componenti della
commissione centrale non possono esercitare funzioni giudicanti nei
procedimenti cui partecipano a qualsiasi titolo i soggetti nei cui confronti la
commissione, con la loro partecipazione, ha deliberato sull’applicazione della
misura di protezione”.
Ma quale è l’incidenza reale
della nuova normativa? Parte della dottrina ha sottolineato come la nuova
formulazione dell’art.10 del decreto sopracitato nasca sotto l’effetto di un
intento “punitivo” nei confronti dei magistrati professionalmente più esperti,
ma considerati troppo “sensibili” all’esigenza di proteggere coloro che
collaborano con la giustizia.[38]
Ciò troverebbe conferma sulla base di un’altra disposizione: il novellato
art.13 comma 1 stabilisce infatti che, ai fini della proposta di ammissione allo
speciale programma di protezione, non sia più necessaria la presenza
obbligatoria ad validitatem di almeno
uno dei due magistrati, come stabiliva il comma 4 dell’art.1 del decreto
interministeriale 24/11/1994, n°687.
In effetti la nuova
formulazione dell’art.10 preclude la partecipazione alla commissione dei
magistrati addetti alle procure della
Repubblica e degli ufficiali di polizia giudiziaria, mentre il problema
interpretativo più arduo si pone per i magistrati della Direzione Nazionale
Antimafia. Sulla base della lettura dei commi 2 bis e 2 octies del novellato
art.10, se il sostantivo procedimento
viene legato
al precedente binomio uffici che svolgono, i magistrati della
DNA non potrebbero far parte della commissione, in quanto la DNA è ufficio che,
pur non essendo titolare di poteri d’indagine diretti, svolge di fatto una
cospicua attività nell’ambito dei procedimenti relativi alla criminalità
organizzata. Tale argomentazione troverebbe conferma anche nei confronti dei
magistrati delle procure generali chiamati a svolgere attività d’indagine solo
in seguito ad avocazione, ex artt. 372 comma 1 bis e 412 c.p.p. .
Se invece il sostantivo procedimento viene collegato ad indagine
preliminare, è ammissibile la presenza dei magistrati della DNA, in quanto si
tratta di un ufficio che non svolge alcuna indagine preliminare in procedimenti
relativi alla criminalità organizzata, anche se attraverso il collegamento ed
il coordinamento investigativo si determina l’effetto dell’inserimento di
quell’ufficio, anche se a livello conoscitivo e non operativo, nei procedimenti
relativi.[39]
Quanto all’intento punitivo
di tale disposizione nei confronti della magistratura, analizzando anche i
commi 4 e 5 dell’art.11 del d.l. n°8/1991, possiamo impostare l’argomentazione
sotto un’angolatura differente che può evidenziare come tale modifica tenda a
recuperare la collegialità e la funzionalità della Commissione e a marcare
significativamente la separazione tra protezione e investigazione. Infatti se,
in base alle disposizioni sopracitate, la Commissione può richiedere il parere del PNA e il parere dei
procuratori generali, sia quando li ritiene utili (art.11 comma 4), sia quando
ritiene che la proposta al programma di protezione doveva essere formulata
d’intesa con le altre procure (art.11 comma 5), la tesi che consente la
presenza di magistrati della DNA nella Commissione finirebbe per comportare uno
strappo al principio di separazione tra protezione ed investigazione ed al
principio di terzietà dell’attività della Commissione, che includerebbe al
proprio interno soggetti incardinati in uffici i cui pareri dovrebbero essere
poi sottoposti al suo stesso esame, sia pure come membro del collegio
amministrativo, con la possibilità tutt’altro che infondata di configurare l’attenuazione
dell’imparzialità in capo ad un componente e il consequenziale conflitto di
interessi.[40] Per ciò che
riguarda i commi 4 e 5 dell’art.11, il
sistema delineato si
pone all’interno del “ quadro normativo” già
prospettato dall’ art. 1
comma 2 e dall’art. 3 del decreto interministeriale n°687/1994 e “confermato” dalla sentenza della Corte
Costituzionale n°420/1995. Così risulta evidente come “il legislatore abbia
inteso affidare ad un organismo collegiale centralizzato il processo
decisionale di ammissione ai programmi di protezione sia allo scopo di
sottrarre agli organi giudiziari compiti estranei alle loro funzioni, sia
soprattutto al fine di assicurare omogeneità di criteri ed uniformità di
trattamento su tutto il territorio nazionale in ordine all’ammissione e alla
determinazione dei contenuti dei programmi medesimi…. Ciò posto, non c’è dubbio
che la creazione di detto organismo sia diretta a soddisfare esigenze di
razionalizzazione largamente avvertite e rispondenti, sotto alcuni aspetti, anche
ad interessi generali di rilievo costituzionale. Ne deriva che i rapporti tra
la Commissione centrale e le autorità giudiziarie devono essere inseriti, e
quindi svolgersi, in un quadro di cooperazione istituzionale allo scopo comune
di una più razionale protezione dei collaboratori di giustizia e quindi, in
definitiva, di una più efficace azione contro le organizzazioni criminali”.[41] Anche le disposizioni delle nuova legge
tendono quindi a confermare un sistema in cui la Commissione non si ponga come mero
organo “notarile” e non deve perciò stupire o scandalizzare che, se un P.M.
titolare di certe indagini sia convocato dinanzi a commissioni parlamentari per
offrire il suo contributo di conoscenza su un certo argomento, altrettanto
possa essere richiesto ad un Procuratore della Repubblica al fine di fornire
informazioni preziose per meglio approntare lo speciale programma di
protezione. L’obbiettivo fondamentale e primario consiste nell’elaborazione di
programmi di protezione realmente aderenti alla specificità dei singoli casi
concreti e una via per migliorare la “ cooperazione istituzionale” auspicata
dalla suprema Corte, passa certamente attraverso i contatti diretti tra organo
giudiziario ed amministrativo.[42] Perciò i commi 4 e 5 del nuovo art.11 del
d.l. 15/01/1991, n°8 danno concretezza a un ruolo non meramente passivo della Commissione nel momento della
raccolta dei dati necessari alla valutazione sulla fondatezza della richiesta
di programma, ed alla individuazione di tutte le circostanze che caratterizzano
la vicenda in esame. Per questo la Commissione acquista con la nuova legge
poteri istruttori inediti, che possono essere esercitati anche attraverso il
Servizio centrale di protezione come prevede il comma 2 quater dell’art.10.
Tali poteri vanno dall’acquisizione di informazioni all’autorità di pubblica
sicurezza, all’amministrazione penitenziaria o ad altri organi, come prevede il
nuovo comma 2 dell’art. 13, all’audizione delle autorità che hanno formulato la
proposta o il parere e di altri organi giudiziari, investigativi e di
sicurezza, come prevede il nuovo comma 3 dell’art.13. La stessa esperienza di questi anni ha dimostrato come la
Commissione non si sia limitata ad una attività di verifica meramente formale.[43]
Nel periodo intercorrente tra il primo gennaio e il trenta novembre 1997
l’organo amministrativo ha tenuto ben 58 riunioni. In tale periodo sono state
esaminate 390 proposte di ammissione al programma di protezione e sono stati
adottati 128 programmi, mentre in
altri 120 casi il
programma è stato
negato. Sempre nello stesso
periodo sono state espletate
649 verifiche su programmi di protezione in scadenza e la proroga è stata
concessa per 335 programmi, mentre altri 99 non sono stati prorogati. I
programmi di protezione revocati sono stati 119, 193 le richieste in materia di
assistenza economica esaminate, 98 le richieste di estensione del programma di
protezione a familiari e congiunti ed infine 152 le richieste di varie genere
fra cui, per esempio, quelle relative ad interviste o audizioni. Il punto più
significativo su cui vi è stata divergenza con le istanze giudiziarie è stato
quello relativo alla valutazione dei casi in cui il collaboratore è rientrato
senza autorizzazione nella località d’origine. La Commissione ha infatti
ritenuto tale eventualità una grave violazione delle prescrizioni imposte al
programma, sintomatica del reinserimento nel circuito criminale e comunque
dell’insussistenza di una situazione di grave pericolo.
Merita infine una
particolare segnalazione il tema delle “ misure urgenti”: oltre alla modifica
riguardante le funzioni del Capo della Polizia[44]
, il contenuto di tali misure è stato poi perimetrato quale “mera forma di tutela rafforzata che non può
mai assumere le caratteristiche del programma di protezione”.[45]
Tali misure possono essere applicate, in base alla nuova formulazione
dell’art.13 comma 1, solo in pendenza di una richiesta alla Commissione di
applicare un piano provvisorio di protezione e hanno effetto sino alla
pronuncia sul punto della Commissione. Il piano provvisorio non può durare
oltre 180 giorni ed è deliberato dall’organo amministrativo senza formalità, in
base a una richiesta che si limita ad illustrare lo stato di particolare
pericolo e sommariamente i contenuti della collaborazione. La novità importante
che viene a colmare una lacuna della disciplina precedente, riguarda la
possibilità per il Presidente della Commissione di disporre la prosecuzione del
piano provvisorio “ per il tempo strettamente necessario a consentire l’esame della
proposta da parte della commissione medesima”. Infatti, in base alla vecchia
normativa, decorsi i 180 giorni dalla proposta senza che fosse stato approvato
il programma, il dichiarante veniva tenuto in una sorta di limbo, privo della
copertura giuridica della protezione seppure protetto in vista dell’approvazione in itinere del programma.[46] Tuttavia bisogna cercare di tracciare una
linea di demarcazione tra l’intervento della Commissione, fondato sulla
situazione di particolare gravità, e l’intervento del Capo della Polizia,
fondato sulla situazione di eccezionale urgenza. Cercando di fornire una prima
interpretazione e considerato come in questo caso la disposizione normativa sia
poco chiara, si può affermare che il presupposto per l’adozione del piano
provvisorio sia una situazione di particolare gravità, che è per sua natura
anche urgente, ma non tale da determinare un pericolo imminente. L’eccezionale
urgenza che legittima l’intervento del Capo della Polizia si dovrebbe configurare
invece ogni qual volta il pericolo attuale per l’incolumità del collaboratore
si materializzi prima che la Commissione possa intervenire o addirittura, prima
ancora che la richiesta venga inoltrata all’autorità giudiziaria.[47]
5. Il Servizio Centrale di Protezione.
La disciplina riguardante
tale organismo viene ridisegnata sia dalla legge 45/2001, sia dal decreto
ministeriale 26 maggio 1995. Così il Servizio centrale viene designato come
centro costituito in rapporto di
ausiliarietà con la Commissione
quando svolge compiti istruttori, come stabilito dall’art.10 comma 2 quater del
d.l. n°8/1991.[48] Inoltre fornisce informazioni alla
Commissione centrale sulla situazione di particolare gravità fondative della
richiesta di ammissione alle misure speciali, come prevede il nuovo art.13
comma 1 che attribuisce anche una particolare funzione consultiva a tale organo
allorchè il Presidente della Commissione centrale, dopo l’adozione del piano
provvisorio, richiede al Servizio una relazione riguardante l’idoneità dei
soggetti a sottostare agli impegni indicati nell’art.12 del d.l. citato.
Perciò esso può essere
definito come organismo attuativo, esecutivo e consultivo della Commissione
centrale.[49] Sulla scorta del decreto ministeriale
sopracitato, il Servizio centrale si articola in divisioni centrali e nuclei
periferici. I nuclei operativi di protezione, strutture dislocate
territorialmente nelle aree “di protezione” permettono una più funzionale
presenza sul territorio della qualificazione specialistica che deve
contraddistinguere l’operatore del Servizio centrale, assicurando una risposta
immediata e dinamica alle esigenze che la concreta attuazione dei programmi
comporta. In particolare bisogna ricordare che la normativa assegna a detti
nuclei solo il compito di assicurare l’attuazione delle misure prettamente
assistenziali e di quelle tutorie volte alla mimetizzazione delle persone
protette, come il documento di copertura l’alloggio segreto ecc.., mentre sono
esclusi i compiti di sicurezza, quali la vigilanza in loco, gli accompagnamenti
e le scorte per gli impegni giudiziari ecc.., riservati agli organi di polizia
territoriale.[50] Il Servizio
rimane sempre incardinato nell’ambito del dipartimento della Pubblica
sicurezza, ma la dotazione del personale e dei mezzi dovrà essere stabilita con
decreto del Ministro dell’Interno di concerto con il Ministro del Tesoro, del
Bilancio e della programmazione economica. La novità più importante è
costituita dal fatto che il nuovo Servizio sarà articolato in due sezioni, come
stabilito dall’art. 14 comma 1 del d.l. n°8/1991, una per i testimoni di
giustizia e una per i collaboratori, ognuna delle quali sarà autonoma e dotata
di strutture e persone differenti. Tale strutturazione realizza l’idea di
rafforzare la protezione ai testimoni e si adegua alla normativa del 1996 che
aveva indicato la strategia del “doppio binario” per la protezione e
l’assistenza dei testimoni.[51]
6. Assunzione degli impegni, revoca e modifica delle speciali misure di protezione.
L'art.5 modifica l'art.12
del decreto legge n°8/1991, che continua ad attenere al tema degli impegni che
il collaboratore deve assumere prima di essere ammesso a fruire delle misure di
protezione. La prima modifica di carattere sostanziale è quella indicata nella
nuova lettera b) del comma 2 che ora impone al collaboratore di non rifiutare
di sottoporsi ad atti processuali e di consentire un effettivo contraddittorio
sulle dichiarazioni rese. Tale innovazione, che "riprende" l'inciso
soppresso in sede di esame da parte della Commissione Giustizia della Camera
in relazione al
vecchio testo
dell'art.12 del d.l.
sopracitato[52], si colloca all'interno di una visione
contrattualistica e trasparente della collaborazione. L'eliminazione del
diritto al silenzio va quindi inquadrato all'interno del rapporto di assoluta
lealtà del collaborante nei confronti dello Stato e che passa necessariamente
attraverso la franca ammissione delle proprie responsabilità; pretendere, ad
esempio, da chi si trova in queste condizioni la rinuncia ad avvalersi della
facoltà di non rispondere rappresenta lo sviluppo logico di un rapporto
istituito fra chi fino a quel momento ha operato nel crimine e ha deciso di
mutare rotta: è la dimostrazione, che passa attraverso la disponibilità della
verifica del contraddittorio, di una condotta processuale priva di riserve
mentali[53],
come succede negli Stati
Uniti nel momento in cui il collaboratore sottoscrive il Memorandum of Understanting, in cui si obbliga a rispettare il
dovere di testimoniare e di fornire tutte le informazioni richiestegli dagli
organi competenti e percependo così che le proprie possibilità di "
sopravvivenza" saranno direttamente proporzionali alla capacità di essere
o mostrarsi utile.[54]
La finalità di garantire la
"genuinità" e la "attendibilità" delle dichiarazioni del
collaboratore dovrebbe essere garantita dalla nuova formulazione del comma 2
lettera d) dell'art.12, dove è stata aggiunta la previsione di " non
incontrare né contattare alcuna persona dedita al crimine, né, salvo
autorizzazione dell'autorità giudiziaria……, alcuna delle persone che
collaborano con la giustizia". Va evidenziato come la stesura originaria
dell'articolo in oggetto, come licenziato in prima istanza dalla Commissione Giustizia
del Senato, non prevedeva nessuna possibilità di deroga, il che poteva tradursi
in un'imposizione inumana tenendo conto del fatto che potrebbero esservi
collaboratori legati tra loro da un rapporto familiare[55]
. La competenza a pronunciarsi su tale materia spetta all'autorità giudiziaria,
tenuto del conto del fatto che siamo in una fase in cui non è ancora
intervenuto il procedimento di ammissione al programma di protezione e
conseguentemente il riferimento a tale organo appare più legittimo rispetto
alla possibilità ventilata di una soluzione diversa.[56]
La reale possibilità di
raggiungere la genuinità della collaborazione dipenderà comunque sia dalla
capacità del sistema carcerario di garantire " l'isolamento" del
collaboratore, problema che è sempre esistito ma che oggi assumerà ancor di più
un'importanza centrale e vitale considerato soprattutto come la nuova legge si
muove in un'ottica diversa rispetto al passato, secondo una visione intramuraria del sistema di protezione[57],
sia della reale applicazione di tale deroga.[58]
Infine l'altro aspetto
rilevante e innovativo della normativa è costituito dalla disciplina del
trasferimento allo Stato dei beni e del versamento del denaro frutto di
attività illecite, come previsto dal comma 2 lettera e). Tale regolamentazione
si snoda attraverso tre momenti:
q L'assunzione dell'impegno,
che si traduce nella specificazione di tutti i beni e di ogni utilità, di
qualsiasi provenienza, posseduti o controllati: sulla base di tale
specificazione potrà essere necessario effettuare accertamenti
affinché il collaboratore sia spossessato
solo di quelli di accertata provenienza illecita.
q Successivamente
all'ammissione alle speciali misure di protezione, il versamento del denaro
frutto delle attività illecite.
q Il sequestro dei beni e
delle utilità di accertata provenienza illecita e del denaro versato dal
collaboratore.
L'art. 17 bis comma 3 della
legge 45/2001 rimette ad appositi regolamenti interministeriali la disciplina
delle modalità per il versamento e il trasferimento del denaro, dei beni e
delle altre utilità di cui all'impegno assunto dal collaboratore, che dovrà
essere coordinata con l'eventuale confisca conseguente al sequestro disposto
dall'autorità giudiziaria, nonché la disciplina relativa alle modalità di
destinazione del denaro, della vendita e della destinazione dei beni in
oggetto. L'art.24 della medesima legge inserisce la previsione che una quota
dei beni confiscati al collaboratore sia destinata per l'attuazione delle
speciali misure di protezione, mentre in misura alquanto generica viene
prevista la possibilità di creare un fondo di solidarietà operante nelle
ipotesi in cui il collaboratore non possieda beni sui quali la persona offesa
possa rivalersi.
Anche tale nuova fattispecie
risponde ad esigenze di trasparenza, considerato come l'obbligo per il
collaboratore di indicare i patrimoni illeciti rappresenta la sua presa di
distanza dalla criminalità organizzata, scandendo una reale dissociazione del
soggetto.[59] Mentre c'è
una presunzione invincibile di acquisizione illecita per il denaro frutto di
attività illecite, la presunzione di provenienza illecita dei beni posseduti o
controllati può essere vinta dalla prova della provenienza lecita, in presenza
del quale cadrebbe il presupposto del sequestro previsto dal comma 2 lettera e)
e, conseguentemente, la confisca dei beni. Per giungere a tale misura si dovrà
fare riferimento, oltre alla condanna del soggetto, anche alla mancanza di una
giustificazione della provenienza dei beni predetti e la sussistenza della
sproporzione fra reddito dichiarato e attività economica.[60]
Anche in merito a tale aspetto, dalla futura regolamentazione e dalla prassi
applicativa è lecito attendersi le risposte agli interrogativi e alle
perplessità che la nuova legge suscita a un primo esame[61]
; in ultima analisi va rilevato
come la futura creazione di
un fondo di solidarietà risponde ad una finalità avvertita dal legislatore e
volta ad eliminare una lacuna normativa, in quanto i beni dei mafiosi pentiti
potevano già essere confiscati e sequestrati sia nell'ambito dei speciali
procedimenti di prevenzione sia nell'ambito di procedimenti penali come
indicato dalla legge 31 maggio 1965 n° 575 e dalla legge 7 marzo 1996 n° 109,
ma per risarcire le persone danneggiate e offese rimaneva solo la elargizione
prevista dalla speciale legge 20 ottobre 1990 n°302.[62]
Pressoché impercettibili
appaiono invece le modifiche apportate alla disciplina della revoca e delle
modifiche delle speciali misure di protezione posta dall'art.13 quater del d.l.
n°8/1991 che recepisce, con gli adattamenti dovuti alle innovazioni sui
presupposti, la disciplina contenuta nell'art.5 del d.m. n°697/1994. Così
rimane il principio di gradualità che ispira la modifica o la revoca delle
misure: è automatica la revoca nell'ipotesi di inosservanza degli impegni di
cui alle lettere b e d dell'art.12 comma 2 del d.l. n°8/1991 analizzati
precedentemente, nonché nel caso di commissione di delitti indicativi del
reinserimento del soggetto nel circuito criminale. Sono invece suscettibili di
valutazione per la modifica o la revoca una serie di comportamenti quali l'inosservanza degli altri impegni
assunti ai sensi dell'art.12,
la commissione di reati
indicativi del mutamento o della cessazione del pericolo, la rinuncia espressa
alle misure, il rifiuto di accettare l'opportunità di lavoro, il ritorno non
autorizzato nei luoghi di originaria residenza, ed ogni azione che comporti la
divulgazione dell'identità assunta, del luogo di residenza e delle altre misure
applicate. Tuttavia la nuova legge non riproduce la disposizione dell'art.5
comma 2 del DM n°6871994, secondo cui prima di procedere alla modifica o alla
revoca del programma, la Commissione Centrale doveva disporre l'acquisizione
del parere dell'autorità che aveva formulato la proposta o, se ricorrevano le
condizioni dell'art.3., del Procuratore NazionaleAntimafia. La soppressione di
tale obbligo è stata fortemente criticata e sembra apparire irragionevole sotto il profilo
dell'efficienza dell'azione giudiziaria di contrasto al crimine, in quanto
priverebbe la Commissione di dati e notizie fondamentali riguardanti la
posizione del collaboratore coinvolto.[63]
7. Le misure di assistenza.
Le misure di
assistenza così come ridisegnate dal nuovo art.13 comma 6 del d.l. n°8/1991 si
dividono in due tipi: da un lato l'assegno di mantenimento corrisposto nel caso
di impossibilità di svolgere attività lavorativa, che tende a identificarsi con
quanto necessario per la mera sussistenza fisica dell'individuo e per il
soddisfacimento dei suoi primari bisogni quotidiani. In questo caso è logico
pensare che tale forma di assistenza rappresenti un puro risvolto, un
complemento necessario delle misure di protezione.[64]
In secondo luogo, la legge fa riferimento autonomo alle spese per la
sistemazione alloggiativa, per i trasferimenti e per l'assistenza medica e
legale. Tale distinzione pone seri dubbi, considerato come le spese
sopraelencate sono riferite sempre a bisogni primari dell'individuo e rientrano
perciò sempre all'interno del concetto di mantenimento e sussistenza fisica.
Il nodo centrale
che ha suscitato numerosi casi- scandalo nel passato è rappresentato dal
"mercanteggio" delle misure di assistenza che vadano al di là della
mera sussistenza fisica dell'individuo e che sono state spesso corrisposte
secondo un meccanismo tipicamente sinallagmatico e contrattuale, che ha visto
atteggiamenti rivendicativi da parte del collaboratore finalizzato ad ottenere
facilitazioni e vantaggi
economici a seconda
dell' importanza delle proprie
dichiarazioni.
In questa ottica le misure di assistenza sono diventate una vera e propria
forma di retribuzione per la performance investigativa
e processuale del collaboratore.[65]
Per rimediare al rischio di tali abusi la legge 45/ 2001 ha cercato di porre
dei rimedi: in primo luogo, ai sensi del nuovo art.16 quater del d.l. 8/1991 il
soggetto che ha manifestato la volontà di collaborare deve rendere all'autorità
inquirente tutte le notizie in suo possesso entro il termine tassativo di 180
giorni dalla suddetta manifestazione di volontà: in questo caso sarà possibile
controllare la veridicità e la genuinità
delle dichiarazioni del collaboratore, senza il rischio in futuro di nuove
contro-rivelazioni finalizzate unicamente ad ottenere vantaggi e benefici
economici consistenti.
In secondo luogo
la nuova normativa pone un limite massimo oggettivo entro cui andranno
circoscritte le misure di assistenza economica: l'art.13 comma 6 stabilisce
infatti che l'assegno di mantenimento
non possa superare
un ammontare di
cinque volte
l'assegno
sociale previsto dalla legge 8 agosto 1995, n°335 e che venga modificato
annualmente in misura pari alle variazioni dell'indice dei prezzi al consumo
per le famiglie di operai e impiegati rilevate dall'ISTAT.[66]
La misura dell'assegno può essere integrata solo quando ricorrano particolari
circostanze influenti sulle esigenze di mantenimento in stretta connessione con
quelle di tutela del collaboratore. La scelta effettuata dal legislatore è
stata dettata dal fatto che le esigenze del collaboratore e del suo nucleo
familiare possono risultare fortemente variabili e la possibilità
dell'integrazione dell'assegno di mantenimento consente di sopperire a esigenze
specifiche che nascono in relazione alla particolare situazione del soggetto
sottoposto a protezione.[67]
Per eliminare il rischio di un uso
distorto di tale integrazione, tuttavia il legislatore ha specificato che tale
provvedimento possa essere acquisito dal giudice del dibattimento su richiesta
del difensore dei soggetti a cui carico sono utilizzate le dichiarazioni del
collaboratore.[68] Tale norma
risponde quindi alla finalità di assicurare la trasparenza e il controllo delle
spese effettuate per il collaboratore, cercando tuttavia di mantenere le
necessarie garanzie di sicurezza che hanno sconsigliato di inserire l'elenco
dettagliato del nome dei collaboranti e delle spese erogate all'interno della
relazione effettuata dal Ministro dell'Interno prevista dall'art.16 del d.l.
n°8/1991, così come richiesto da una
proposta emendativa.[69]
Attraverso il
dettato del nuovo art.13 comma 6 e comma 7[70]
il legislatore ha cercato
di coniugare maggiormente trasparenza e
sicurezza della
collaborazione, anche se uno dei nodi centrali è rappresentato dal reperimento
e dall'offerta di una sistemazione lavorativa per il collaboratore e per la sua
famiglia. Non può infatti nascondersi che la platea alla quale si rivolgono le
misure di protezione è costituita, nella maggioranza dei casi, da persone che
per ragioni ambientali e culturali hanno scarsissima propensione ad accettare
l'idea del loro reinserimento nel mondo del lavoro, specie ove si tratti di
attività non altamente renumerate e comportanti un impegno continuativo e
gravoso. L'esperienza degli ultimi anni ha infatti dimostrato il consolidarsi
di una mentalità in forza della quale molti dei soggetti interessati si sono
sentiti in diritto di continuare a godere a tempo indefinito dei vantaggi
economici derivanti dalla collaborazione senza nessuno stimolo al mutamento
degli assetti che le misure protettive hanno costituito, con conseguente
gravosissimo impegno dello Stato sia in termini finanziari, sia in termini di impiego
di risorse materiali ed umane.[71] Per questi motivi il legislatore ha
confermato la scelta già effettuata con la normativa precedente, secondo cui
costituisce fatto valutabile ai fini della revoca o della modifica delle misure
di protezione, il rifiuto di svolgere attività di lavoro. Rimane perciò
necessario affermare il principio che lo Stato, per ragioni sia di natura finanziaria sia di natura etica, non
possa assistere indefinitamente il collaboratore e i propri familiari avendo
costoro il dovere di inserirsi nel circuito lavorativo. Il problema maggiore
sarà quello di garantire la segretezza e la riservatezza sulla qualità di
collaborante, non dovendo trasformarsi l'attività lavorativa in un'occasione
che comporti la "scoperta" verso l'esterno di tali requisiti. La soluzione migliore potrebbe essere
rappresentata dalla creazione di società, alla cui costituzione e
organizzazione dovrebbe provvedere il Servizio Centrale di protezione, mentre
sulla tipologia sociale da adottare potrebbe pensarsi alla società cooperativa
che offrirebbe il vantaggio di consentire di svolgere una attività lavorativa,
protetta sotto lo schermo della ragione sociale e senza un'esposizione diretta
del nominativo dei soci.[72]
Anche in questo settore dovremo
aspettare l'emanazione
del decreto interministeriale previsto dal nuovo art.13 comma 8 e finalizzato a garantire un effettivo
reinserimento sociale del collaboratore e del suo nucleo familiare.
CAPITOLO III
Il trattamento penitenziario.
1.
Evoluzione della fattispecie
collaborativa alla luce della legislazione del " doppio binario": le
scelte della politica penitenziaria contro la criminalità organizzata.
Abbiamo già accennato
precedentemente[73] al percorso legislativo attuato in
relazione al concetto di collaborazione processuale ed alle finalità in esso
contenute: in questa sede ci occuperemo specificatamente delle scelte contenute
nella legislazione emergenziale del 1991-1992, che ha profondamente inciso
nella materia penitenziaria attraverso una mini-riforma le cui peculiarità
hanno sovvertito, sotto certi aspetti, la stessa disciplina del trattamento in
fase esecutiva; in tale contesto l'utilizzazione della categoria del
collaboratore di giustizia ha rappresentato il corollario logico di tale
politica penitenziaria da cui bisognerà inevitabilmente partire per comprendere
appieno, se e in che modo, la legge 13/02/2001 n°45 possa rappresentare una
reale "inversione di tendenza".
In via preliminare le
modificazioni operate dal decreto legge 13 maggio 1991 n° 152, convertito con
modificazioni nella legge 12 luglio 1991 n°203, e dal decreto legge 8 giugno
1992 n° 306, convertito con modificazioni nella legge 7 agosto 1992 n°306,
furono ritenute necessarie soprattutto
in relazione alla riforma operata dalla
legge n° 663
del 1986, meglio
nota come "legge
Gozzini", alla quale si rimproverò un eccessivo garantismo ed una
ingiustificata tutela della popolazione detenuta, soprattutto di quella parte
di essa ancora legata all'organizzazione criminale di appartenenza, e
considerata di particolare pericolosità sociale.[74]
Fu sottolineata infatti l'inadeguatezza
di una disciplina improntata al recupero sociale di soggetti condannati per
fenomeni di delinquenza individuale e occasionale, a realizzare il controllo di
criminali appartenenti alle più pericolose organizzazioni criminali,
evidenziando inoltre come situazioni tanto eterogenee non potevano essere
gestite con gli stessi strumenti normativi, ma era necessario differenziarne il
trattamento.[75]
Attraverso i nuovi referenti
legislativi, per pene uguali nella misura, vennero previsti per il condannato
termini di recupero diversi sulla base del principio per cui, anche dopo la
condanna, la persistente pericolosità dell'autore doveva essere rapportata non
solo alla pena irrogata dal giudice, ma anche alla natura del reato commesso,
attribuendosi alla stessa pena detentiva, valenza maggiore o minore in rapporto
ai diversi casi.[76] Le nuove
disposizioni in materia penitenziaria si posero quindi in aperto contrasto con
uno dei capisaldi fondamentali della riforma del 1986, che si segnalava per
l'abbandono di ogni presunzione legale di pericolosità dei condannati in ordine
ai reati commessi. Le esigenze di allarme sociale legate ai presunti pericoli
derivanti dall'accentuata flessibilità della pena indussero il legislatore ad
emanare la legge n°203 del 1991, il cui contenuto paradigmatico ben può essere
rappresentato dall'art.1 che ha introdotto, all'interno dell'ordinamento
penitenziario, l'art.4 bis. Il primo comma di tale norma infatti prevede due
distinte fasce di reati di particolare gravità i cui autori hanno facoltà di
accedere alle misure alternative, ai permessi premio, al lavoro all'esterno
soltanto dal momento in cui vengono riscontrate determinate condizioni e
verificazioni probatorie. Alla prima fascia, che interessa maggiormente ai fini
della nostra indagine, appartengono i condannati per delitti commessi
avvalendosi delle condizioni previste dall'art.416 bis c.p. o al fine di
agevolare le associazioni mafiose, delitti di associazione a delinquere di
stampo mafioso (art.416 bis c.p.), sequestro di persona a scopo di estorsione
(art.630 c.p.), associazione a delinquere finalizzata al traffico illecito di
sostanze stupefacenti (art.74 D.P.R. 9 ottobre 1990, n°309). In base al
presupposto di una ritenuta e particolare pericolosità sociale desunta o
dall'entità delle condanne riportate, o dalla natura dei delitti indicati nel
testo normativo,[77] vennero
aumentati i limiti minimi di pena espiata richiesti per l'ammissione ai benefici
extramurari, concedibili solo nel
caso in cui si fossero acquisiti elementi tali da fare escludere l'attualità
dei collegamenti con la criminalità
organizzata. Una simile previsione si sostanziava nella richiesta di una probatio diabolica, una prova cioè di
tipo negativo consistente nel dimostrare l'estraneità di un collegamento che
viceversa si presumeva di fatto esistente.[78]
Perciò tale normativa rivelava la consapevole scelta di utilizzare
strumentalmente l'oggetto della prova al fine di escludere definitivamente
determinate categorie di condannati dalla fruizione dei benefici, abbandonando
così nei loro confronti l'idea del trattamento e della risocializzazione. [79]
Quanto ai condannati per i
reati ricompresi nell'ultima parte del primo comma dell' art. 4 bis[80],
essi possono accedere ai benefici penitenziari solo se non vi sono elementi
tali da far ritenere la sussistenza dei collegamenti con la criminalità
organizzata; tale disciplina per quanto rigida, si muove tuttavia all'interno
dei principi cardine del nostro ordinamento processuale, dove la prova deve
comunque sempre essere di tipo positivo e dove non dovrebbe trovare
collocazione una aprioristica presunzione di "assoluta colpevolezza".
Come già accennato precedentemente[81],
nei confronti del collaboratore ci si è limitati ad escludere l'operatività degli sbarramenti oggettivi riferiti
al quantum di pena espiata per
l'ammissione alla fruizione dei benefici: i profili della condotta
collaborativa rilevante solo al fine di non posticipare, rispetto al regime
ordinario, i tempi per l'ammissione ad essi, vengono delineati dall'art.58 ter
o.p., introdotto appunto dal d.l. 13 maggio 1991, n°252. Dalla reintroduzione
dei cd. reati ostativi cui si è aggiunta la previsione di oneri probatori più o
meno invertiti, sino alla richiesta di una totale collaborazione quale
condizione necessaria per l'ammissione ai benefici risocializzanti, il
passo è stato breve, operato attraverso il d.l. 8 giugno 1992,
n°306 e convertito successivamente con modificazioni, nella legge 7 agosto 1992
n°306. Le opzioni di politica criminale rivolte ad incentivare la collaborazione giudiziaria[82]
hanno trovato immediatamente una conferma nella previsione che ha consentito ai
detenuti e agli internati di cui alla prima fascia dell'art.4 bis di accedere
ai vari benefici penitenziari solo se collaborano con la giustizia ai sensi
dell'art.58 ter dell'Ordinamento penitenziario. Attraverso tale provvedimento
normativo, pertanto si è operato in maniera completa lo sbilanciamento a favore di condotte del condannato
consumate in ambito extrapenitenziario e assunte a indici valutativi della sua
personalità, in sostituzione dei risultati della osservazione e del trattamento
in istituto, in sede di concessione delle misure alternative.[83]
Il dato centrale della normativa ha riguardato la esclusiva rilevanza
attribuita a collegamenti del condannato con la criminalità organizzata e
conseguentemente la collaborazione con le autorità investigative non poteva non
svolgere un ruolo privilegiato, offrendo di per sé prova dell'avvenuto distacco
del soggetto dal gruppo criminale di appartenenza, e quindi della sua
affidabilità. Non erano più l'osservazione, il trattamento, la partecipazione
all'opera di rieducazione a determinare l'applicazione delle misure
risocializzanti, ma l'accertamento della cessata pericolosità perseguito
secondo forme probatorie svincolate dai normali canoni processuali e
finalizzato a risultati diversi che sostanzialmente prescindevano dalla
rieducazione del condannato.[84]
Il meccanismo preclusivo originariamente introdotto dal legislatore del 1992
sembrava volere stabilire un assioma: la mancata collaborazione costituiva da
sola un indice di pericolosità idoneo a far presumere l'attualità dei
collegamenti con la criminalità organizzata.[85] La stessa formulazione del comma 1
dell'art.4 bis o.p. e la previsione dell'art.15 comma 2 del d.l. 8 giugno 1992,
n°306[86]
deponevano a favore di un'equazione le cui espressioni erano, per un verso, la
collaborazione giudiziaria e, per l'altro, l'assenza di collegamenti con la
criminalità organizzata.[87]
Il punto critico di tale
costruzione stava nel suo sbilanciamento eccessivo verso l'idea della funzione
generalpreventiva della pena e dell'abbandono conseguente della sua valenza
rieducativa: la presunzione assoluta di pericolosità sociale per certe
categorie di condannati risultava incontrovertibile anche davanti a eventuali
prove di recupero sociale e di rieducazione che non fossero al contempo
accompagnati alla collaborazione offerta alla giustizia.[88]
2.
Collaborazione con la
giustizia e sistema premiale: la scelta di ricompensare le condotte
collaborative in sede esecutiva.
La rinuncia all'idea del
percorso riabilitativo non si è risolta anche nella consequenziale rinuncia
all'impiego degli strumenti tipici della pena risocializzativa, quali la
concessione delle misure alternative alla detenzione, ma se ne è sfruttata la
valenza promozionale strumentalizzandola agli specifici intenti della nuova
politica criminale. Coerentemente con la finalità espressa dalla legge 356/1992
di sfruttare appieno le potenzialità incentivanti della condotta collaborativa,
ciò che connota la vigente disciplina dei benefici penitenziari è il suo
inscriversi in un progetto di contrasto alla criminalità organizzata che affida
la buona riuscita dell'operazione al contributo informativo del soggetto
coinvolto.[89] In una prospettiva utilitaristica, fondata
sull'assioma che processo penale e pena detentiva debbano condurre la lotta
alla criminalità organizzata, l'ambito esecutivo, all'interno del quale la
dimensione reale della pena inflitta mostra la sua concreta entità ed
operatività, ben si prestava ad accogliere ambiti di premialità soprattutto una
volta abbandonata l'egida rieducativa della
pena e considerato come una simile
operazione ben difficilmente
sarebbe potuta essere condotta sul piano del diritto penale, sia sostanziale
che processuale.[90] In questo
senso l'introduzione dell'art.13 ter del D.l. 15 gennaio 1991 n°8, da parte del
D.l.8 giugno 1992 n°306, non ha rappresentato
"una norma isolata", ma il culmine di una politica criminale
in cui, accantonato il percorso riabilitativo del condannato, le variazioni
modali della pena detentiva possono ormai essere considerate alla stregua di
meri "benefici" per il mero atteggiarsi a semplici vie di uscita dal
carcere e funzionali a rompere il vincolo di omertà che lega gli appartenenti
alle più pericolose organizzazioni criminali. Così per gli autori dei delitti
di cui agli artt. 416 bis, 630 c.p., e 74 D.P.R. 9 ottobre 1990 n°309, le porte
del carcere si sono chiuse senza speranza, a meno di una scelta di collaborare
con la giustizia ai sensi dell'art.58 ter O.P.; gli sbarramenti costruiti a
livello penitenziario, anche attraverso l'introduzione di strumenti di gestione
di stampo neutralizzativo come la sospensione delle regole del trattamento
previsto dall'art.41 bis comma 2 O.P, hanno costituito il pendant repressivo della prescrizione incentivante rivolta ai
condannati per i delitti di cui all'art.4 bis, primo periodo che ha trovato il
suo coronamento definitivo nella disposizione dell'art.13 ter della legge n°82
del 1991: riconoscere a tutti i
condannati ammessi allo
speciale programma di protezione la possibilità di usufruire di benefici
e delle misure alternative anche in deroga ai limiti di pena stabiliti dagli
artt. 21, 30 ter, 47, 47ter e 50 o.p. , significa "rovesciare"
completamente la stessa funzione originaria della fase esecutiva, non più
ambito destinato a risocializzare il detenuto attraverso le regole del
trattamento, ma luogo di repressione e contestualmente " uscita di
sicurezza" per i collaboratori.[91]
3. Rapporto tra collaborazione con la giustizia e procedimento di
sorveglianza.
Le nuove previsioni sulla
collaborazione penitenziaria hanno comportato inevitabilmente notevoli
alterazioni nel regime delle cadenze attraverso le quali si svolge l'indagine
conoscitiva personologica tipica del procedimento di sorveglianza. Divenendo la
collaborazione specifico requisito di ammissione alle misure alternative, la
magistratura di sorveglianza ha assistito ad una parziale metamorfosi della
propria sfera di cognizione. Infatti alla verifica del percorso riabilitativo
compiuto dal condannato e alla prognosi sulle sue possibilità di reinserimento
sociale, si è sovrapposto il preliminare accertamento della collaborazione che,
quale tipico esempio di giudizio su un "fatto", ha fatto ingresso
nell'ambito della giurisdizione rieducativa non senza forzature e disarmonie di
ordine sistematico.[92]
Per renderci conto più
specificatamente di questa "anomalia", non resta che analizzare le
procedure descritte dall'art.58 ter O.P. e dall'art.13 ter del d.l. n°8/1991.
Il concetto di "collaborazione con la giustizia" quale emerge
dall'art.58 ter ord.penit. [93]
ha una duplice natura sostanziale e processuale: il legislatore infatti sul
piano sostanziale definisce le varie condotte di collaborazione e, sul piano
processuale, disciplina l'accertamento della sussistenza in concreto delle
condotte stesse. Il dato centrale è rappresentato dal fatto che esse
sono strettamente connesse
al tema di merito oggetto del processo penale di cognizione, come emerge
immediatamente dall'inciso normativo
"anche dopo la
condanna", il quale
lascia chiaramente
intendere come tali condotte
possano essere poste in essere prima della condanna definitiva, e quindi
durante la fase di cognizione (anzi l'espressione normativa sembra
sottintendere che la collaborazione debba di regola intervenire proprio nella
fase di cognizione). Ma in realtà l'intimo collegamento con la questio facti che costituisce il tema
dell'accertamento di merito, deriva dalla natura stessa delle attività di
collaborazione che risultano iscindibilmente legate ai fatti oggetto del
processo di cognizione.[94]
Infatti per quanto riguarda "l'adoperarsi per evitare che l'attività
delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori", si tratta di un'attività
che di regola è oggetto dell'accertamento di merito spettante al giudice di
cognizione. L'attenuante degli effetti del reato si risolve infatti in
un'azione che necessariamente incide sulla modalità della condotta criminosa
oggetto dell'accertamento di merito.[95]
Altrettanto connessa con
il tema dell'accertamento di
merito è l'altra
forma di collaborazione che
assume rilevanza sotto il profilo probatorio come contributo all'accertamento
dei fatti e alla individuazione
dei colpevoli, venendo
in considerazione proprio
il
fatto principale oggetto del
processo di cognizione. Perciò investendo l'ambito di cognizione del giudice di
merito che deve stabilire se e in che modo si sono svolti i fatti ed
individuarne gli autori, la collaborazione di natura probatoria dovrebbe
avvenire nella sua sede naturale, rappresentata appunto dal processo di
cognizione.[96] Alla
tradizionale funzione di valutazione della pericolosità sociale del condannato
o internato in rapporto alla finalità rieducativa della pena, e di verifica
della rispondenza del trattamento sanzionatorio al principio di umanità della pena, subentra nelle ipotesi
previste dagli artt. 4 bis e 58 ter o.p. una inusitata forma di "giudizio
sul fatto per risalire all'autore".[97]
La stessa verifica che il tribunale di sorveglianza deve compiere sulla
sussistenza del requisito della collaborazione ha carattere ricognitivo: la
collaborazione "costituisce un semplice dato storico, estraneo perciò al
procedimento di sorveglianza, per cui al fine di decidere sulla istanza diretta
ad ottenere i benefici, il tribunale non deve saggiare la disponibilità del
condannato a collaborare né deve acquisire comportamenti di collaborazione,
dovendosi limitare ad accertare se il condannato abbia collaborato o meno con
la giustizia e, quindi, a constatare se sussista o meno il requisito che
condiziona l'applicabilità del beneficio".[98]
Le condotte collaborative sono accertate dal Tribunale di Sorveglianza, assunte
le necessarie informazioni e sentito il Pubblico Ministero presso il Giudice
competente per i reati in relazioni ai quali si accerta l'eventuale prestazione
di collaborazione.
Secondo l'orientamento
seguito dal Tribunale di Sorveglianza di Roma,[99]
fondato sul dato testuale, nonché sulla necessità di evitare decisioni
contrastanti e duplicazioni di giudizi, l'accertamento in esame è sempre di
competenza del Tribunale di Sorveglianza, anche quando si tratti di
provvedimenti del Magistrato di Sorveglianza, quali la concessione dei permessi
premio. In questo caso si aprirebbe una fase incidentale dinanzi al Tribunale
di Sorveglianza, per l'accertamento della collaborazione, all'esito della quale
gli atti andrebbero restituiti al Magistrato di Sorveglianza per l'eventuale
proseguio nel merito. In proposito si osserva che sarebbe incoerente dal punto
di vista sistematico, costruire un giudizio incidentale dinanzi ad altro
Giudice per di più, in caso di permessi premio, competente anche in sede di
gravame.
Il giudizio sul fatto collaborativo ha comportato
l'acquisizione obbligatoria da parte della Magistratura di Sorveglianza, di
alcuni pareri amministrativi sull'esistenza di collegamenti del condannato con
la criminalità organizzata: la Commissione centrale ex art.10 comma 2
del d.l. n°8/1991 per i collaboratori di giustizia
ammessi a
speciale programma di
protezione (art.13 ter comma 1 della legge n°82/1991), e il Comitato
provinciale per l'ordine e la sicurezza pubblica competente in relazione al
luogo di detenzione del condannato, negli altri casi (art.4 bis, comma 2
ord.penit.), comportano il rischio di allineare le cadenze del procedimento di
sorveglianza a quelle tradizionalmente proprie del giudizio di cognizione,
e di rendere il primo tributario di una
serie di conoscenze che solo il secondo avrebbe potuto legittimamente acquisire
e apprezzare.[100]
Per quanto riguarda più
specificatamente l'art.13 ter del d.l. n°8/1991, l'innovazione più cospicua ha
riguardato l'inserimento, tra la fase dell'iniziativa e quella della decisione,
di un inedito subprocedimento a struttura
complessa, imposto dalla peculiare posizione del collaboratore[101]:
il giudice di sorveglianza non può decidere se non dopo avere acquisito il
parere della Commissione Centrale la quale, a sua volta, a tal fine acquisisce
le dovute informazioni dal pubblico ministero presso il giudice competente per
i reati in ordine ai quali è stata prestata la collaborazione. Il trattamento
penitenziario "premiale" risulta in tal modo sempre sottoposto al
filtro dell'organo che ha deliberato
l'ammissione al programma di protezione: il tribunale di sorveglianza perciò
verrà a conoscenza solo in via mediata della valutazione della pubblica accusa
e la cadenza conoscitiva si effettua addirittura con un doppio passaggio,
dall'organo giurisdizionale a quello amministrativo e da quest'ultimo al
pubblico ministero. In caso di parere sfavorevole della Commissione centrale,
il giudice di sorveglianza potrà pur sempre concedere trattamenti premiali, ma
il provvedimento dovrà essere specificatamente motivato. Tale requisito della
"motivazione specifica" ha suscitato molte critiche, considerato come
l'ordinanza che segna l'epilogo decisorio del rito di cui all'art. 678 c.p.p.
deve essere, secondo la regione generale di cui all'art. 125 comma 3 c.p.p.,
sempre motivata a pena di nullità. Se quindi funzione della motivazione è
evidenziare con compiutezza l' iter
logico-giuridico seguito dal giudice, il richiamo ad una sua pretesa
"specificità" introduce nel sistema un dato quantitativo spurio
difficilmente intelleggibile.[102]
Inoltre resta da stabilire
quale tipo di controllo la magistratura di sorveglianza possa esercitare nei
confronti di persone delle quali arriva a volte ad ignorare perfino la
residenza e le nuove generalità. Il rischio maggiore era ed è rappresentato[103]
dal fatto che la magistratura di sorveglianza può essere chiamata a giudicare
soggetti che, sottratti al circuito penitenziario, non sono mai stati sottoposti
ad osservazione e trattamento in modo tale che possa essere indotta a formulare
giudizi secondo canoni estranei al processo di sorveglianza, sulla scorta di un
unico dato di valutazione costituito dal giudizio espresso dalla Commissione
Centrale.[104] Tale
parere ha rappresentato un dato "ambiguo" per il Tribunale di
Sorveglianza di Roma,[105]in
quanto nella maggioranza dei casi in essi non erano espressi giudizi
sull'evoluzione personologica del
collaboratore, ma soprattutto valutazioni di carattere politico-amministrativo,
concernente la possibilità, da parte di uomini e mezzi, di assicurare il
controllo del soggetto ammesso al beneficio della misura alternativa.
Risultava pertanto evidente
il pericolo che il trattamento penitenziario relativo a questa particolare
categoria di collaboratori di giustizia, fosse "subordinato"
pesantemente a valutazioni che non fossero di carattere premiale, effettuate
dall'organo amministrativo preposto.
4. Gli interventi sintomatici della Corte Costituzionale.
La Corte Costituzionale, in
merito al tema in oggetto, è intervenuta in maniera significativa con le
sentenze 8 luglio 1993, n°306 e 14 dicembre 1995, n°504.[106]
Con riferimento alla prima
sentenza la Suprema Corte, nel
dichiarare l'illegittimità costituzionale del secondo comma dell'art.15
del d.l. n°306/1992 nella parte in cui imponeva la revoca delle misure
alternative alla detenzione per i condannati per i delitti indicati nel primo
periodo del primo comma dell'art. 4 bis, che non avessero collaborato con la
giustizia all'epoca dell'entrata in vigore del d.l. n°306/1992, anche a
prescindere dall'accertamento concreto circa la sussistenza di collegamenti con
la criminalità organizzata, aveva argomentato che "la mancata
collaborazione non può essere assunta a indice di pericolosità sociale, ben
potendo essere frutto di incolpevole impossibilità di prestarla, ovvero essere
conseguenza di valutazioni che non sarebbero ragionevolmente
rimproverabili". La stessa Corte Costituzionale argomentava che "tra
le finalità che la Costituzione assegna alla pena non può stabilirsi a priori
una gerarchia statica ed assoluta che valga una volta per tutte e in ogni
condizione, per cui il legislatore può fare tendenzialmente prevalere l'una o
l'altra finalità della pena, ma a patto che nessuna di esse ne risulti
obliterata…. Non si può tuttavia non rilevare come la soluzione adottata di
inibire l'accesso alle misure alternative alla detenzione ai condannati per
determinati gravi reati, abbia comportato una rilevante compressione della
finalità rieducativa della pena. Ed infatti la tipizzazione per titoli di reato
non appare consona ai principi di proporzione e di individualizzazione della
pena che caratterizzano il trattamento penitenziario, mentre appare
preoccupante la tendenza alla configurazione normativa di "tipi di
autore" per i quali la rieducazione non sarebbe possibile o potrebbe non
essere perseguita".
Con la seconda sentenza, nel
dichiarare l'illegittimà costituzionale
dell'art. 4 bis primo comma, nella parte in cui prevede che la concessione di
ulteriori permessi premio sia negata nei confronti dei condannati che non si
trovino nelle condizioni per l'applicazione dell'art.58 ter, anche quando essi
ne abbiano già usufruito in passato e non sia accertata la sussistenza di
collegamenti attuali con la criminalità organizzata, la Suprema Corte ha
sviluppato il ragionamento in termini simmetrici arrivando a inficiare
l'equiparazione positiva tra collaborazione prestata e assenza di pericolosità
e attribuendo quindi rilievo al momento accertativo della insussistenza di
collegamenti con la criminalità organizzata.[107]
La Corte ha infatti notato come "la valenza dell'elemento collaborativo
abbia subito, per via del suo significato prevalentemente dimostrativo
dell'assenza di collegamenti con la criminalità organizzata, una progressiva
opera di sgretolamento", e con ciò richiamandosi alla eadem ratio della precedente sentenza.
In entrambi i casi, si
assiste perciò ad un "aggiramento" del requisito rigido dell'elemento
collaborativo come tipizzato dalla legislazione del 1991-1992, evidenziando
come l'automaticità del presupposto vanifichi i programmi e i percorsi
rieducativi, con particolare pregiudizio per quei soggetti la cui
collaborazione sia incolpevolmente impossibile, e nei confronti di coloro per i
quali la rottura con le organizzazioni criminali sia adeguatamente dimostrata.[108]
La Corte di Cassazione,
intervenuta nuovamente sulla problematica, ha escluso che la collaborazione
possa formare oggetto di una pronuncia meramente dichiarativa, finalizzata
esclusivamente al riconoscimento dello status
di collaboratore, ma deve essere invece accertata all'interno del
procedimento attivato per la concessione dei benefici penitenziari. [109]
Perciò appare confermato un ritorno alla logica dell'accertamento caso per
caso, indipendente da stereotipi astratti e incontrovertibili: il tentativo di
guadagnare qualifiche o attribuzioni di status
o di un "salvacondotto" che ponga il condannato al riparo da
specifiche e approfondite verifiche, appare ancora una volta sterile.[110]
Infatti dal sistema si evince che la collaborazione è elemento della più ampia
fattispecie complessa che integra l'insieme delle condizioni richieste per
l'ammissione ai benefici extramurari.
5. I Profili penitenziari sistematici della legge 13 febbraio 2001.
Come si colloca la nuova
legge sui collaboratori di giustizia all'interno del percorso normativo
precedentemente delineato e quali le novità
da essa apportate? L'analisi verterà sulla formulazione dell'art.16
nonies del d.l. n°8/1991, che modifica in modo tangibile la disciplina dei
benefici penitenziari sia per le modalità di "accesso" ad essi, sia
per la loro tipologia.
In primo luogo, l'area dei
benefici penitenziari è più restrittiva della disciplina precedente, in quanto
riguarda soltanto i soggetti condannati
per delitti commessi per
finalità di terrorismo o di eversione dell'ordinamento costituzionale o per uno
dei delitti di cui all'art.51 comma
3 bis codice di procedura
penale, mentre per
tutti gli altri
collaboratori di giustizia
si applicherà la disciplina ordinaria prevista dall'art. 4 bis, senza la
possibilità di poter concedere misure alternative alla detenzione in deroga
alle disposizioni dell'ordinamento penitenziario.
In secondo luogo, una delle
innovazioni più rilevanti è data dal venir meno della distinzione tra
collaboratori di giustizia ammessi a speciale programma di protezione, per i
quali l'ammissione alle misure alternative alla detenzione poteva avvenire
anche in deroga alle disposizioni dell'ordinamento penitenziario, e
collaboratori di giustizia che non usufruivano di tale provvedimento
amministrativo e nei confronti dei quali
si applicava il regime ordinario
previsto dall'art.4
bis dell'ordinamento
penitenziario. Infatti come già rilevato precedentemente[111],
con la vecchia normativa era la Pubblica Amministrazione, nelle vesti della
Commissione Centrale, a gestire la
collaborazione decidendo
l'ammissione al programma speciale di protezione sulla base di una valutazione
di idoneità delle misure di protezione
più adeguate alla tutela
dell'incolumità del dichiarante, ma
fondata su criteri di
valutazione eterogenei rispetto a quelli normalmente in considerazione per la
concessione dei benefici penitenziari. Con la nuova normativa si assiste
infatti ad un'unica tipologia dei
benefici penitenziari applicabili ad ogni collaboratore di
giustizia, mentre l'unica
distinzione ancora presente riguarda la competenza per la loro adozione che,
nei confronti dei collaboranti ammessi a speciale programma di protezione,
rimane affidata alla magistratura di sorveglianza di Roma come confermato
dall'art.16 nonies comma 8.[112]
In terzo luogo, l'altra novità incide direttamente sull'aspetto
procedurale dell'ammissione alle misure
alternative alla detenzione per i collaboratori ammessi a speciale programma di
protezione, poiché ai fini della loro adozione viene eliminato l'obbligo da
parte del magistrato di sorveglianza di acquisire il parere della Commissione
Centrale. L'esperienza di dieci anni di applicazione della vecchia normativa da
parte della Magistratura di sorveglianza di Roma[113]
ha evidenziato il carattere
marginale svolto
da questo provvedimento,
espresso sempre con un
semplice fonogramma e contenente unicamente la decisione adottata dall'organo
amministrativo, ma priva di qualsiasi motivazione al riguardo, ponendo
conseguentemente i magistrati di sorveglianza di fronte al compito
estremamente difficile
di motivare un parere
caratterizzato dalla mancanza di un contenuto determinante. Con la nuova
previsione dell'art.16 nonies comma 1, è stato eliminato tale passaggio, dando direttamente rilevanza
al parere o alla proposta di organi giurisdizionali immediatamente operativi
quali i Procuratori Generali presso le Corti d'Appello interessate e il
Procuratore Nazionale Antimafia che potranno in prima istanza conoscere e
valutare l'importanza e il ruolo svolto dal collaborante all'interno dell'organizzazione criminale
di appartenenza. Inoltre per
consentire una analisi
complessiva e approfondita da parte dei giudici di sorveglianza, la proposta e
il parere dovranno essere molto dettagliati[114],
come disposto dall'aart.16 nonies commi 2 e 3, in quanto dovranno
contenere la valutazione della condotta
e della pericolosità sociale del soggetto, precisare se questi si sia mai
rifiutato di sottoporsi a interrogatorio, esame o ad altro atto di indagine nel
corso dei procedimenti penali in cui ha prestato la sua collaborazione, nonché
ogni altro elemento rilevante ai fini dell'accertamento del ravvedimento anche
con riferimento all'attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata o
eversiva. Viene inoltre prevista la possibilità da parte del tribunale o del
magistrato di sorveglianza di richiedere la copia del verbale illustrativo dei
contenuti della collaborazione e, nel caso di collaboratore ammesso a speciali
misure di protezione, il relativo provvedimento di applicazione.
6. I presupposti per l'ammissione ai benefici penitenziari.
Il primo presupposto per
l'ammissione alle misure extramurarie ha carattere processuale: come disposto
dall'art.16 nonies comma 4, i provvedimenti che derogano ai limiti di pena
possono essere adottati soltanto se, entro il termine di centottanta giorni dal
momento in cui il soggetto ha manifestato la volontà di collaborare, è stato redatto
il verbale illustrativo dei contenuti della collaborazione di cui all'art.16
quater. Il verbale illustrativo dei contenuti della collaborazione rappresenta
il fulcro della nuova normativa, e sostituisce il verbale delle dichiarazioni
preliminari alla collaborazione, di cui all'art. 2 comma 2 del decreto
ministeriale 24 novembre 1994, n°687. Attraverso l'introduzione di questo nuovo
istituto[115], il
proposito perseguito dal legislatore è quello di far sì che l'ambito delle
conoscenze delle quali è portatore il soggetto che effettua la scelta
collaborativa sia cristallizzato in tempi brevi e rigorosamente determinati
così da evitare le tanto criticate dichiarazioni "a rate" e
conseguentemente il rischio di atteggiamenti ricattatori da parte del soggetto. La redazione del predetto
verbale rappresenta non solo la conditio sine qua non per l'accesso ai
benefici penitenziari, ma anche per la concessione delle speciali misure di
protezione (art.16 quater) e delle circostanze attenuanti (art.16 quinquies)
che il codice penale e le disposizioni speciali prevedono in materia di
collaborazione.[116]
Il verbale illustrativo dei
contenuti della collaborazione pone interrogativi processuali importantissimi,
strettamente processuali, quali ad esempio l'individuazione precisa dei
soggetti chiamati a redigere tale atto, la sua forma, l'analisi specifica dei
suoi contenuti, il regime della inutilizzabilità, per i quali si rinvia alle
fonti citate.
Altro aspetto fondamentale e
innovativo della legge riguarda la posizione del soggetto che abbia prestato la
collaborazione dopo la sentenza di condanna, se i fatti per i quali è
intervenuta la condanna sono diversi rispetto a quelli per i quali è stata
prestata la collaborazione. In questo caso infatti per poter usufruire dei
benefici penitenziari è necessario un ulteriore requisito, consistente
nell'emanazione della sentenza di primo grado concernente i fatti oggetto della
collaborazione che ne confermi i requisiti. Si tratta di un principio di
cautela, per cui il legislatore richiede ora che la natura della collaborazione
venga verificata non una volta per tutte, ma ogni volta e in sede propria, cioè
nel procedimento per il reato per il quale vi è stata la collaborazione.[117]
Una volta che si siano
verificati tutti i presupposti analizzati precedentemente, il Tribunale o il
Magistrato di sorveglianza dovranno verificare l'esistenza di quattro requisiti
centrali riguardanti direttamente la persona del collaboratore.
a). Importanza del contributo.
Il nodo centrale è
rappresentato dalla finalità con cui vengono concesse le misure alternative
alla detenzione nei confronti dei collaboratori di giustizia ammessi a speciale
programma di protezione: dovrà tenersi conto esclusivamente della valutazione
della personalità del soggetto, nel senso che occorre pervenire a un giudizio
prognostico favorevole circa le prospettive di rieducazione del reo, oppure
dovranno avere ingresso anche altre valutazioni relative appunto al valore
della collaborazione resa? Ed ancora, le misure alternative hanno una funzione
esclusivamente premiale, o sono
necessarie per salvaguardare la tutela dell'incolumità di soggetti che saranno
sicuramente esposti ad un rischio maggiore allorquando il loro contributo sia
qualitativamente e quantitativamente importante? Per rispondere a tali
interrogativi si dovrà inevitabilmente partire dalla vecchia normativa e in
particolare dalla sua applicazione concreta, in quanto il dato testuale
relativo all'art.13 ter è troppo generico[118]
e lascia ampio spazio all'interpretazione degli organi giudiziari. Tale analisi
è più che mai attuale, considerato come anche con la nuova normativa sarà
sempre possibile, seppure con presupposti diversi, concedere benefici in
deroga. Anticipando una analisi che riprenderemo
successivamente[119],
la deroga alle norme dell'ordinamento penitenziario è stato sempre interpretato
dal Tribunale di Sorveglianza di Roma non come un complesso di norme contro sistema, una oasi giuridica per il collaboratore, ma come una possibilità, pur
in assenza dei presupposti sostanziali e in alcuni casi di quelli di
ammissibilità[120], di
valutare il merito, cioè di poter effettuare positivamente una valutazione di
affidabilità esterna del soggetto che fosse compatibile con la struttura della
misura. In altre parole, la deroga è stata sempre interpretata come la
possibilità di concedere misure extramurarie esistenti anche sulla base di
presupposti diversi, ma non altre misure che potrebbero essere
"create" allorquando non si dovesse tenere conto del dato centrale
che deve rimanere intangibile e relativo alla possibilità di formulare un
giudizio prognistico favorevole relativo alla rieducazione del soggetto.
Risulta evidente come ogni altro elemento deve essere funzionale ad esso e
consentire unicamente di corroborarlo, e quindi anche la valutazione
dell'importanza del contributo non potrà essere valutata come un requisito
completamente autonomo. Esemplificazione concreta di tale analisi è l'ordinanza
n° 3998/2001 emessa dal Tribunale di Sorveglianza di Roma nei confronti di un
collaboratore di giustizia[121],
con la quale veniva concessa la misura della detenzione domiciliare. Ai fini di
valutare in modo approfondito la natura della collaborazione prestata, il
Tribunale aveva chiesto una relazione alla Procura della Repubblica di
Catanzaro- Direzione Distrettuale Antimafia- che aveva risposto in data sei
marzo 2001. Tale relazione evidenziava la novità, l'eccezionale rilevanza e
soprattutto il disinteresse, in quanto il collaboratore in oggetto si trovava
in stato di libertà quando iniziò a collaborare nella seconda metà del 1996,
della collaborazione prestata, che ha "
consentito di inquadrare un contesto criminale gravissimo mai esplorato in
precedenza con preziose indicazioni sulle guerre di mafia succedutesi nel
territorio lamentino dal 1982 al 1995, e sui responsabili del duplice omicidio
del Sovrintendente… e di sua moglie che hanno trovato puntuali conferme". Il
Procuratore distrettuale di Catanzaro concludeva che i contenuti della
collaborazione, in considerazione del numero e della qualità dei personaggi
coinvolti, appartenenti ai vertici della 'ndrangheta a livello regionale, " fa ritenere irreversibile la scelta
collaborativa compiuta e definitiva la dissociazione dall'ambiente criminale di
provenienza" e lo stesso Tribunale di Sorveglianza di Roma accoglieva
l'istanza di detenzione domiciliare argomentando come " gli elementi
emersi a favore del collaboratore sia per il contenuto e la qualità
dell'apporto di elevato spessore offerto all'Autorità giudiziaria su gravissimi
fatti di mafia, sia per la condotta coeva e successiva alla collaborazione
ispirata a costante segno di lealtà e correttezza verso le istituzioni,
rappresentano il segno inequivocabile di un processo di rieducazione e di
riscatto sociale solidamente ancorati, tali da rendere improbabili, oltre che
non auspicabili, fenomeni di regressione".
Altro aspetto legato
all'importanza del contributo è rappresentato dal fatto se tale requisito possa
condizionare il Tribunale sul tipo di misura alternativa da adottare, per
evitare di esporre il collaboratore che fornisce dichiarazioni importantissime
di fronte al rischio reale per la propria incolumità.[122] In merito a tale aspetto l'orientamento
della Corte di Cassazione è sempre stato costante: "In tema di affidamento
in prova al servizio sociale dei collaboratori di giustizia ammessi allo
speciale programma di protezione….. il Tribunale di Sorveglianza non ha alcuna
competenza a procedere a valutazione circa l'eventuale sussistenza di pericoli
che la concessione del beneficio potrebbe comportare per l'incolumità personale
del richiedente, trattandosi di apprezzamento demandato per legge alla sola
autorità amministrativa".[123] Con tale sentenza si è voluto quindi
ribadire il carattere eminentemente premiale delle misure alternative alla detenzione,
principio che viene confermato anche dalla considerazione che tra le misure che
possono essere concesse anche in deroga alle disposizioni vigenti, c'erano e ci
sono alcune che non hanno nessuna funzione tutoria come i permessi premio. Tuttavia
tale
principio è stato in parte
"intorpidito" da una sentenza della Corte di Cassazione[124] che aveva affermato come "
dall'interpretazione letterale,
logica e sistematica
delle norme contenute nel capo II del
D.l. n°8/1991, si evince che
anche il familiare ricompreso nel programma di protezione di cui è titolare il
collaboratore possa usufruire, al pari di quest'ultimo, delle previste deroghe
alla normativa penitenziaria". In questo caso risultava chiaro
l'orientamento "tutorio" della sentenza, in quanto la premialità per
il familiare non collaborante non esiste, si tratta di una "premialità
indiretta", per cui la finalità era unicamente quella di tutela
dell'incolumità dei parenti del collaboratore.
Attraverso la legge 45/2001
si è voluto ribadire, nonostante la citata sentenza, il carattere premiale dei
benefici penitenziari nei confronti dei collaboratori[125]
e tale giudizio emerge direttamente dai nuovi referenti legislativi che
"esaltano" il profilo qualitativo del momento collaborativo: in
primo luogo, la "premialità
indiretta" per i familiari
viene esclusa dall'art.16
nonies comma 1 del d.l. n°8/1991 che stabilisce infatti come la concessione dei
benefici penitenziari in deroga possa avvenire solo nei confronti dei
condannati per la serie di reati visti precedentemene, ma soprattutto l'aspetto
premiale della collaborazione viene distinto nettamente dall'aspetto tutorio
dalla stessa previsione dell'art.16 nonies comma 4, relativo al periodo di pena che il soggetto deve in ogni caso
espiare e che analizzeremo più avanti.
b). Il ravvedimento.
Il ravvedimento rappresenta
il presupposto soggettivo tipico della liberazione condizionale, introdotto con
la legge 25 novembre 1962 n°1354, che ha sostituito il precedente riferimento
alle "prove costanti di buona condotta" introdotto precedentemente
dal codice penale.
Tale requisito attiene non
all'aspetto esteriore della condotta, ma ad una evoluzione positiva del
carattere e delle abitudini di vita effettivamente operatasi nel detenuto[126]
: infatti il concetto di ravvedimento, letto anche "per differenza"
alla luce degli altri requisiti tipici soggettivi delle altre misure del
trattamento progressivo, non può identificarsi né sulla prognosi di non
recidiva, quale richiesto dagli artt. 164 e 169 c.p. in tema di sospensione
condizionale della pena e di perdono giudiziale, né sul giudizio di
"contribuzione alla rieducazione del reo", quale richiesto dall'art.
47 O.P per l'affidamento in prova, né sul dato dei progressi compiuti durante
il trattamento, come previsto dall'art.50 O.P. per il regime della semilibertà.
Il ravvedimento è infatti un concetto più pregnante e incisivo, che indica un
mutamento profondo e sensibile della personalità del soggetto, tale da indurre
un diverso modo di sentire e agire in armonia con i principi accolti dal
consorzio civile.[127]
La stessa Corte di Cassazione[128]
ha definito il ravvedimento come "il risultato di una costante e
progressiva buona condotta, dimostrativa del processo interiore di accettazione
della espiazione come mezzo di riscatto morale dal delitto". Per questi
motivi non è sufficiente un mero adattamento alle regole carcerarie, spesso
calcolato per accattivarsi le simpatie del personale di custodia, ma
comportamenti positivi e sintomatici che "tendano a recuperare i valori morali
dell'uomo"[129],
quali le buone relazioni intrattenute con i compagni di prigionia ma
soprattutto la volontà di reinserimento dimostrata con attività di lavoro e di
studio, e l'interesse dimostrato per i valori spirituali e religiosi.[130]
Perciò non basta la mera
volontarietà del comportamento, essendo necessario quasi un "ripudio"
dell'impresa criminosa che esprima il
"riscatto morale" enunciato dalla Corte di Cassazione.
IL ravvedimento, a livello
penitenziario, può rappresentare il "corollario logico" della
condotta dissociativa espressa sintomaticamente, a livello sostanziale,
dall'art.4 del d.l. n° 15/12/ 1979 n°625, convertito nella legge 6/2/1980 n°15,
che in tema di delitti commessi per finalità di terrorismo e eversione
dell'ordine democratico, introduceva una circostanza attenuante nei confronti
di chi, "dissociandosi dagli altri si adopera per evitare che l'attività
delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori, ovvero aiuti concretamente
l'autorità di polizia o l'autorità giudiziaria nella raccolte di prove decisive
per l'individuazione o la cattura dei colpevoli".
Infatti in questo caso
l'attenuazione della responsabilità si prospetta in conseguenza non solo del
compimento di una attività antagonistica diametralmente opposta rispetto a
quella tenuta per il compimento del reato, ma anche del distacco completo dai
complici, espressione di una vera e propria "scelta di campo", di una
rottura col passato, in altri termini di un pentimento civile.[131]
La collaborazione con la
giustizia, espressa a livello penitenziario dall'art.58 ter, prescindeva dal
dato del ravvedimento, considerato come il testo dell'articolo citato è
corrispondente a quello espresso dall'art.4 della legge 6/2/1980, eccetto per
la mancanza della condotta dissociativa quale elemento tipico della
fattispecie. La legge 45/2001 sembra invece introdurre questo requisito del
"pentimento civile" con un dato problematico che va sottolineato:
infatti il ravvedimento diventa il presupposto soggettivo non solo per la
concessione della liberazione condizionale, ma anche dei permessi premio e
della detenzione domiciliare. Perciò il requisito centrale della misura che si
delinea come "fase terminale del trattamento progressivo
risocializzativo"[132],
viene assunto a presupposto base anche di misure extramurarie che dovrebbero
rappresentare solo gli strumenti di realizzazione di tale fase, che deve essere
quindi ancora completata.
c). Esclusione della sussistenza di collegamenti con la criminalità
organizzata.
Questo tipo di giudizio è
sicuramente ricollegato ad un determinato contesto storico: è evidente che nel
momento stesso in cui il soggetto decide di collaborare, rompe con l'associazione criminale di appartenenza e la quota di
pericolosità connessa alla sua "attitudine" ad essere associato con
altri esponenti della criminalità organizzata viene meno.[133]
Tuttavia rimane aperta la questione del dato personologico individuale, del tipo di evoluzione personale che
riguarda il soggetto coinvolto: in un momento storico successivo alla
collaborazione, nessuno può escludere a priori che il soggetto possa essere
nuovamente reinserito in altra organizzazione criminale, e di tale evenienza lo
stesso legislatore ha tenuto conto richiedendo come la prova richiesta debba
essere comunque di tipo positivo.[134]
d). Espiazione di un periodo minimo di pena.
Si tratta probabilmente
della innovazione più rilevante in materia di benefici penitenziari, in quanto
viene stabilito come il collaboratore debba in ogni caso espiare un periodo
minimo di pena, consistente in un quarto di essa ovvero dieci anni nel caso di
condanna all'ergastolo.
La disposizione dell'art.16
nonies comma 4 rappresenta il dato normativo centrale che distingue il momento
premiale dal momento tutorio,
intendendo tracciare così
un netto confine
tra protezione e
premialità e far discendere
i vari benefici dalle condotte collaborative tenute e non dalla intervenuta
ammissione o meno del collaboratore alle misure speciali di protezione.[135]
Per questo motivo, il presupposto per godere del trattamento di favore è sempre
rappresentato dalla "condotta di collaborazione tenuta" e non dal
sistema tutorio applicato al soggetto. Nel sistema precedente appariva
irragionevole l'assegnazione a struttura extrapenitenziaria
prima del "pentimento", e cioè in una fase anteriore alla verifica
della potenzialità e della serietà delle intenzioni del collaboratore.[136]
Era necessario far precedere la concessione del beneficio da un periodo di
"osservazione", in cui poter applicare effettivamente le normali
regole del Trattamento penitenziario per valutare la serietà e la portata della
" evoluzione personologica" del collaboratore. Per questi motivi, la
legge 45/2001 delinea un sistema diametralmente diverso rispetto alla
legislazione previgente, un sistema
intramurario attuato sia dopo l'emanazione della sentenza definitiva,
attraverso la previsione dell'art.16 nonies[137],
sia in sede di giudizio attraverso l'abrogazione del comma 4 dell'art.13 e
dell'art.13 bis del d.l. n°8/1991, che consentivano una custodia "extracarceraria"
basata unicamente su parametri di tipo tutorio.
7. Le misure alternative alla detenzione per i collaboratori di giustizia:
caratteristiche e tipologia.
Con la nuova legge 45/2001
si assiste ad una riduzione notevole delle misure alternative alla detenzione
concedibili in deroga ai limiti di pena ordinari, in quanto l'art.16 nonies fa
riferimento unicamente alla liberazione condizionale e alla detenzione
domiciliare.
L'esclusione più rilevante
riguarda l'affidamento in prova al servizio sociale, beneficio che tra l'altro
presentava anche nella legislazione precedente problemi di compatibilità con lo status di
collaboratore di giustizia.[138]
Tale misura infatti è stata raramente concessa dal Tribunale di Sorveglianza di
Roma per due motivi fondamentali: il primo è ricollegato alla struttura stessa
di tale misura, in quanto l'impianto fondamentale del beneficio si sostanzia
nell'affidare al Servizio Sociale il controllo ed il sostegno del condannato in
ambiente libero, cosa in realtà concretamente inattuabile per i collaboratori a
causa delle necessità collegate alla loro sicurezza che impongono, quali misure
minime, la segretezza
del domicilio, l'esclusione di
contatti suscettibili di
rivelare all'esterno la condizione di collaboratore di giustizia e la drastica
riduzione del numero delle persone a conoscenza delle modalità di vita di chi è
sottoposto a programma di protezione.[139]
Gli stessi rapporti col Servizio Sociale sarebbero privi di significato: i
contatti del collaboratore con esso sarebbero poco proponibili in un luogo
frequentato da altri soggetti condannati e i repentini e continui spostamenti
sul territorio del collaboratore non consentirebbero quella continuità
necessaria perché l'opera di tale organo possa avere una efficacia rieducativo-trattamentale.
Perciò concedere un affidamento in prova al servizio sociale con una presenza
marginale e limitata dello stesso servizio sociale, significherebbe in realtà
concedere una misura completamente diversa da quella prevista dall'art. 47 dell'ordinamento
penitenziario.
Ma la ragione principale per
la quale l'affidamento in prova al servizio sociale è stato escluso nei
confronti dei collaboranti riguarda il merito
della concedibilità delle misure premiali: come abbiamo già visto nel
paragrafo precedente, la "deroga" alle disposizioni dell'ordinamento
penitenziario di cui all'art.13 ter è stata sempre interpretata dal Tribunale
di Sorveglianza di Roma non come un complesso di norme "contro
sistema", ma come possibilità, anche in assenza dei presupposti di
ammissibilità e di quelli sostanziali, di effettuare sempre e comunque una valutazione di affidabilità che doveva essere
compatibile con la struttura stessa della misura concedibile: nel caso di
valutazione di affidabilità assoluta ed incondizionata sarebbe stato possibile
concedere l'affidamento in prova che si caratterizza infatti per l'estrema
libertà consentita al soggetto
beneficiario, mentre nel caso di valutazione di affidabilità "relativa e parziale",
la misura da applicare si configura nella detenzione domiciliare che permette
un maggiore controllo del soggetto e consente di perseguire gradualmente il
reinserimento sociale. Risultava chiaro come, nei confronti di delinquenti primari condannati a pene
detentive perpetue o molto lunghe quali sono i collaboratori di giustizia
ammessi allo speciale programma di protezione, era impossibile effettuare un
giudizio di affidabilità incondizionata dopo il decorso di un periodo breve di
pena espiata, non potendosi inoltre assumere la "quasi certezza" di
un danno grave per la collettività.
Esiste perciò soprattutto in
questa materia, il principio di gradualità delle misure extramurarie
concedibili che deve in ogni caso essere rispettato, e questo è stato l'orientamento costante della
Magistratura di Sorveglianza di Roma testimoniato da numerose ordinanze emesse.[140]
Per questo motivo la misura della detenzione domiciliare appare più compatibile
con lo status di collaboratore di
giustizia e con le esigenze di difesa della collettività.[141] Tale beneficio assume caratteristiche molto
peculiari, in ragione della particolare categoria di soggetti cui viene
applicata.[142] Infatti
dal punto di vista strutturale, le prescrizioni imposte al collaboratore
diventano sempre più ampie in base alla considerazione che si tratta di misure
molto lunghe e si deve permettere gradualmente al soggetto di svolgere una vita
normale e di reinserirsi nella società, in conformità di quanto disposto dal
programma di protezione. Ad esempio, nel caso di richiesta di svolgere attività
lavorativa da parte di collaboratori di giustizia sottoposti alla misura della
detenzione domiciliare, il Tribunale di Sorveglianza di Roma richiede una
relazione al Servizio Centrale di Protezione relativa al tipo di attività che dovrà svolgersi, alla natura
della collaborazione e al comportamento tenuto dal soggetto, e in caso
favorevole, "allenterà" le prescrizioni originariamente imposte.
Perciò come ampiezza della misura, la detenzione domiciliare tende ad
avvicinarsi molto
all'affidamento in prova, anche se le differenze rimangono evidenti, in quanto
non c'è l'intervento del servizio sociale e soprattutto non è previsto nessun
giudizio finale sulla validità della prova.
Anche nel caso
di questa misura
il dato centrale
rimane comunque quello di poter formulare una valutazione di
affidabilità sterna del collaboratore, minore di quello richiesto per la
concessione dell'affidamento in prova, ma sempre esistente.[143]
L'altro tipo di misura
premiale prevista è la liberazione condizionale che rappresenta una novità
assoluta nei confronti dei collaboratori di giustizia ammessi a speciale
programma di protezione, in quanto l'art.13 ter comma 1, tra i benefici
penitenziari concedibili ad essi, faceva riferimento unicamente a quelli
previsti dal Capo VI della Legge 26 luglio 1975, n°354. La liberazione
condizionale, collocata all'interno del quadro generale delle misure
alternative alla detenzione previste dall'Ordinamento Penitenziario e dirette a
realizzare progressivamente le diverse fasi del trattamento rieducativo e
risocializzativo, si configura idealmente come "momento finale del disegno
di recupero del condannato alla società civile".[144] Infatti per le caratteristiche indicate
dall'art.176 del codice penale ed in
primis il requisito centrale del ravvedimento[145],
il modello costituito normativamente si configura come fase terminale del
trattamento progressivo risocializzato, che si fonda su una concezione special
preventivo-rieducativa della pena, secondo la quale alle progressive
acquisizioni di comportamenti socialmente adeguati da parte del detenuto devono
corrispondere conquiste di sempre maggiori spazi di libertà, finché, una volta
raggiunto un sufficiente grado di risocializzazione, il condannato può essere
ammesso a verificare in ambiente completamente extracarcerario i risultati del
trattamento.[146] Pertanto è
come elemento del trattamento penitenziario individualizzato per le pene medio
lunghe che la liberazione condizionale può esprimere più pienamente e con
maggiore autonomia operativa le proprie potenzialità operative: tale istituto
perciò può essere ben delineato nei confronti dei collaboratori di giustizia,
il cui status risulta più
"sensibile" al principio di gradualità delle misure alternative alla
detenzione e in cui gli istituti del permesso premio e della detenzione
domiciliare costituiscono strumenti tipici del trattamento progressivo,
finalizzati a saggiare la affidabilità "esterna" del collaboratore e,
conseguentemente, preparatori, alla liberazione.
8. Collaboratori di giustizia e trattamento carcerario.
Le problematiche connesse
alla gestione carceraria dei collaboratori di giustizia possono essere
ricondotte a due tipologie: la prima riguarda la necessità di assicurare la
"genuinità" delle dichiarazioni rese da tali soggetti, impedendo
soprattutto i contatti tra essi e altri detenuti, in particolar modo
collaboratori di giustizia, in quanto non va dimenticato come lo stesso collaboratore non sia indifferente
alla ricostruzione che i giudici faranno dei fatti processuali.[147]
L'esperienza giuridica ha dimostrato infatti come la prima preoccupazione di
tali soggetti è stata quella di non perdere il credito e la fiducia guadagnati
verso gli organi giudiziari, cercando di evitare contraddizioni tra il proprio
racconto, le versioni degli altri collaboratori e le prove in possesso dei
magistrati. In tale contesto, il funzionamento di "Radio Carcere" può
consentire ai detenuti interessati di apprendere molto presto se qualcuno sta
collaborando, con quale magistrato, e quale sia la "portata" delle
nuove rivelazioni.
Per questi motivi la legge
45/2001 ha predisposto un meccanismo di "isolamento assoluto" del
collaboratore di giustizia, e finalizzato a impedire il verificarsi di condotte
anche solo astrattamente leggibili come condotte di concertazione delle
dichiarazioni, o come preparazione delle stesse,[148]
espresso dal novellato art. 13 comma 14 del d.l. n°8/91, che prevede due tipi
di divieti fino alla redazione del verbale illustrativo dei contenuti della
collaborazione[149]:
il divieto di effettuare i colloqui investigativi e divieto di avere
corrispondenza epistolare, telegrafica e telefonica, nonché di incontrare altre
persone che collaborano con la giustizia, salvo autorizzazione dell'autorità
giudiziaria per finalità connesse ad esigenze di protezione ovvero quando
ricorrano gravi esigenze relative alla vita familiare.
In merito a tale
disposizione vanno sottolineati due aspetti: il primo è relativo all'istituto
dei colloqui investigativi come disciplinato dall'art.18 bis della legge 26
luglio 1975 n°354. Infatti in sede parlamentare[150] è stato evidenziato come consentire i
colloqui investigativi mentre si sta redigendo il verbale illustrativo dei
contenuti della collaborazione, potrebbe creare un elemento di
"turbativa" nei confronti del collaboratore che deve essere lasciato
libero da eventuali influenze esterne e da suggerimenti che potrebbero venire,
anche strumentalmente,[151]
da parte di chi accede ai colloqui investigativi. Inoltre è stato introdotta
un'ulteriore novità, in base alla considerazione che l'istituto disciplinato
dall'art.18 bis dell'Ordinamento Penitenziario spesso rimane avvolto "nel
buio più profondo"[152],
poiché le parti e soprattutto l'indagato o l'imputato non possono mai venire a
conoscenza del fatto che il collaboratore abbia avuto un colloquio con un
agente della Polizia Giudiziaria appartenente alla Direzione Distrettuale
Antimafia. Per questi motivi, l'art.16 quater comma 5 ha introdotto, tra gli
obblighi imposti al collaboratore e relativi alla redazione del verbale illustrativo
dei contenuti della collaborazione, anche quello di riferire di eventuali
colloqui investigativi intervenuti, la cui eventuale inottemperanza
comporterebbe sicuramente una ricaduta sul
piano processuale, relativa all'attendibilità del dichiarante.
Il secondo tipo di divieto,
previsto simultaneamente per quanto concerne gli incontri del collaboratore di
giustizia come obbligo in negativo al
momento della sottoscrizione delle speciali misure di protezione, la cui
eventuale inottemperanza costituisce un fatto valutabile ai fini della revoca o
della modifica di esse,[153]
è impeditivo di qualsiasi tipo di corrispondenza e di contatti del
collaboratore, salvo le deroghe espressamente enunciate nel testo. Per questo
ne è stato sottolineato l'eccessivo rigore che rischia di introdurre un regime
ancora più duro di quello previsto dall'art.41 bis dell'Ordinamento
Penitenziario, tanto più insopportabile per il collaboratore perché si
applicherà ad una fase che è notoriamente quella più carica di preoccupazioni per
il soggetto coinvolto e per i propri familiari.[154]
Perciò se ne auspica una interpretazione diversa, più conforme al principio di umanità della pena sancito dall'art.27
comma 3 della Costituzione e recepito dalla Convenzione europea per la
prevenzione dei trattamenti inumani adottata a Strasburgo il 26 novembre
1997, per cui tali divieti non dovrebbero riguardare la
corrispondenza e gli incontri con i familiari.[155]
Il secondo tipo di
problematica riguarda la necessità di garantire le normali esigenze di sicurezza
nei confronti dei collaboratori di giustizia all'interno della struttura
carceraria. In relazione a tale aspetto la nuova normativa risulta abbastanza
scarna, poiché l'art.13 comma 13 del d.l. n°8/1991 prevede genericamente come
debba essere l'Amministrazione Penitenziaria a provvedere ad assegnare i
collaboratori ad istituti
o sezioni che
garantiscano le specifiche
esigenze di sicurezza e
riservatezza, anche in vista della formulazione del verbale illustrativo dei
contenuti della collaborazione, mentre la disciplina più specifica viene
demandata ad apposito decreto interministeriale da emanarsi successivamente,
previsto dall'art.17 bis comma 2 avente ad oggetto i presupposti e le modalità
di applicazione del trattamento penitenziario.
Bisogna rilevare come le
misure adottate dall'Amministrazione Penitenziaria nei confronti dei
collaboratori di giustizia sono state di due tipi: prima dell'emanazione del
decreto interministeriale 24 novembre
1994 n°687, tali misure sono consistite nell'assegnazione di
tale categoria di soggetti a
sezioni detentive destinate in via esclusiva al contenimento di collaboratori
di giustizia e disciplinate in modo tale da evitare pericolo provenienti dalle
sezioni detentive ordinarie o dall'esterno.[156]
In assenze di specifiche classificazioni di legge, il comune denominatore delle
assegnazioni nelle dette sezioni è stato il pericolo derivante dalla
collaborazione offerta ,e pertanto nel tempo queste assegnazioni hanno
riguardato collaboratori per qualsiasi tipo di reato, ammessi o non ammessi a
programma di protezione o a misure urgenti del Capo della Polizia. In base alla
considerazione che il pericolo derivante dalla collaborazione permaneva anche
nel caso di una sua eventuale cessazione o "ritrattazione", è stata
mantenuta l'assegnazione nelle anzidette sezioni anche dei soggetti che avevano
"dismesso" la propria condotta collaborativa.
L'articolo 7 del decreto
interministeriale n°687/1994 ha individuato invece tre particolari circuiti
penitenziari, sulla considerazione della necessità di una separazione più
"specifica" dal resto della popolazione detenuta dai soggetti che si
apprestavano a collaborare e che erano ammessi allo speciale programma di
protezione, i quali erano ulteriormente suddivisi all'interno della rete delle
sezioni carcerarie così create, in virtù delle diverse "fasi" della
condotta collaborativa.[157]
Il sistema delineato si preoccupava perciò di garantire che la detenzione
avvenisse con modalità tali da assicurare, da un lato, la sicurezza del detenuto
e, dall'altro, una contestuale presenza nella medesima struttura carceraria, di
detenuti la cui posizione fosse nettamente differenziata, pur nella cornice
comune di un intento già manifestato di disponibilità a collaborare.[158]
La nuova normativa, da adottarsi
col precitato decreto interministeriale, dovrà "ripartire" dal dato
dei circuiti carcerari differenziati[159],
soprattutto in base alla constatazione che i nuovi referenti normativi
delineano un sistema generale intramurario,
attuato sia con la previsione del nuovo art.16 nonies comma 4 del d.l. n°8/1991
in tema di benefici penitenziari[160],
sia attraverso la disposizione dell'art.6 della legge 45/2001 che, riscrivendo
completamente l'art.13 del d.l. n°8/1991, ne abroga di fatto il quarto comma[161],
sia attraverso l'art.7 della legge sopracitata che ne abroga l'art.13 bis.[162]
Pertanto oggi non sarà più
possibile per il collaboratore di giustizia fuoriuscire dal circuito carcerario
in presenza di esigenze di tutela della propria incolumità, e conseguentemente la
detenzione extracarceraria sarà consentita unicamente e esclusivamente nel caso
di concessione di benefici penitenziari o di revoca della custodia cautelare,
entrambi tra l'altro basati su presupposti molto più rigorosi rispetto alla
legislazione precedente.
9. La disciplina transitoria.
Il problema dettato dalla
nuova normativa riguarda quale la sia la disciplina da applicare ai condannati
nei confronti dei quali, al momento della modifica legislativa, ricorrevano i
presupposti di ammissibilità previsti dalla Legge n°82/1991, vale a dire la
titolarità del programma di protezione, considerato che la nuova normativa è
senz'altro più restrittiva rispetto a quella precedente.
Su questo aspetto, la
dottrina e la giurisprudenza sono divise: da un lato si ritiene che il
principio sancito dall'articolo 25 secondo comma della Costituzione, si
riferisca soltanto alle leggi penali sostanziali, tra cui non
si possono includere
le norme che disciplinano l'esecuzione
della pena e le misure
alternative alla detenzione, mentre dall'altro lato si afferma che il precetto
costituzionale debba riferirsi a tutte le norme che, prescindendo dalla fase nella quale vengono applicate, incidono
sull'entità e sulle modalità esecutive della pena detentiva. Risulta evidente
come l'adesione al primo o al secondo di questi indirizzi conduca a diverse
risposte, dovendosi, nel primo caso, applicare il principio secondo cui "tempus regit actum" , e nel secondo
quello disciplinato dall'articolo 2 del codice penale.
Nell'affrontare la
problematica, il Tribunale di Sorveglianza di Roma ha cercato di giungere ad
una interpretazione della legge che fosse conforme agli indirizzi
costituzionali ed al generale principio di ragionevolezza, risolvendo perciò la
questione alla luce del principio di "non regressione incolpevole del
trattamento penitenziario", sancito dalla Corte Costituzionale con la
sentenza 30 dicembre 1997, n°445.[163]
Infatti con tale decisione, che si "allinea" a quelle precedentemente
prese nelle sentenze 306/1993 e 504/1995, analizzate precedentemente, la
Suprema Corte ha dichiarato
l'illegittimità costituzionale dell'art. 4 bis, primo comma O.P. nella parte in
cui non prevede che il
beneficio della semilibertà possa essere concesso nei
confronti dei condannati
che, prima della data di entrata in vigore dell'art.15, primo comma del d.l. 8
giugno 1992 n°306, avessero raggiunto
un grado di
rieducazione adeguato al beneficio richiesto e
per i quali non fosse stata
accertata la sussistenza di collegamenti attuali con la criminalità
organizzata.
I parametri applicati sono
sempre gli stessi delle precedenti sentenze:
a)
contrasto
con l'art.3 della Costituzione poiché, rispetto ai condannati che avevano già
ottenuto la misura pur non collaborando, per il solo fatto che il relativo
provvedimento di concessione era stato adottato prima dell'entrata in vigore
della norma impugnata, si sarebbero discriminati ingiustificatamente coloro i
quali, meritevoli della concessione del
beneficio alla data dell'entrata in vigore dell'art.15 primo comma del d.l.
n°306/1992, per mere ragioni contingenti non avevano ancora ottenuto alcuna
decisione da parte del Tribunale di Sorveglianza.
b)
contrasto
con l'art.27, terzo comma, della Costituzione, in quanto la negazione del
trattamento extramurario rispetto al quale il condannato fosse risultato già
adeguatamente risocializzato, avrebbe assunto connotazioni essenzialmente
ablative dell'aspettativa dello specifico strumento rieducativo.[164]
Proprio con riferimento al
principio di carattere generale espresso dalla Corte Costituzionale, il
Tribunale di Sorveglianza di Roma[165]
ha rilevato come "l'aspettativa in ordine al trattamento sanzionatorio,
inteso nella sua più ampia accezione comprensiva delle modalità esecutive della
pena, maturi in relazione alla normativa vigente al momento del quale vengono
poste in essere proprio le condotte che sono il presupposto di quel trattamento
(il reato, ma anche la condotta collaborativa indispensabile per
l'ammissibilità dei benefici in deroga alla norma ordinaria)". Di conseguenza, l'organo giudiziario ha
ritenuto applicabile l'art.25, secondo comma della Costituzione, anche alle
norme che vanno a incidere sulle modalità esecutive della pena, disciplinando
la "problematica" con i
principi contenuti nell'art.2, terzo comma del codice penale, e applicando
perciò l'art.13 ter della legge n°82/1991 anche ai condannati che, al momento
della modifica legislativa, erano titolari del programma di protezione.
Tuttavia, nonostante tale
interpretazione dell'organo giudiziario romano, va evidenziato come l'aver
conferito il "crisma della sacralità costituzionale" al diritto alla
salvaguardia della "progressione trattamentale" ha consentito al
giudice delle leggi di permanere nella sua posizione di statica rinuncia di
fronte alle molteplici eccezioni sollevate dai giudici a quibus in merito all'art.4 bis O.P. sotto il profilo concernente
l'art.25 secondo comma della Costituzione.[166]
Infatti in entrambe le
sentenze citate, la Consulta si è limitata a serbare un rigoroso silenzio o a
dichiarare assorbito il profilo in questione: nella sentenza 306/1993, la Corte
ha rilevato come le ordinanze di rimessione non contenessero i riferimenti
idonei a precisare quale fosse la legge applicabile nei confronti dei
condannati del relativo processo a quibus,
rilevando pertanto come una simile valutazione rischiasse di essere astratta.[167]
La sentenza 504/95 si è disinteressata
in toto della problematica, mentre la sentenza 445/97 ha optato per
l'assorbimento della questione.
Da ultimo, la Corte è tornata
a pronunciarsi sullo strumento dei permessi premio con la sentenza n°137 del
1999, stabilendo come non possa negarsene la concessione a coloro che, già
prima dell'entrata in vigore della disciplina restrittiva, avessero maturato le
condizioni per l'accesso a tale beneficio, a prescindere dalla circostanza che
ne avessero precedentemente fruito. Anche in questo caso, la Consulta non ha
affrontato il profilo relativo alla violazione dell'art.25 secondo comma della
Costituzione, anche perché il giudice a
quo ha omesso di sollevarne l'eccezione.
Pertanto dalla disamina
delle pronunce sull'art.4 bis O.P., emerge la settorialità che connota il
richiamo esclusivo al parametro desumibile dall'art.27 terzo comma della
Costituzione: la Consulta infatti, pur tenendo ferma la medesima tesi
argomentativa, sarà costretta a pronunciarsi, caso per caso, su tutte le
identiche questioni sollevate in merito alle restanti opzioni trattamentali.[168]
Tuttavia, la stessa fascia
di persone a cui si rivolge il dettato del comma 1 dell'art.25 della legge
45/2001, che regola l'applicazione delle disposizioni transitorie, individuati
in coloro che hanno solamente manifestato una mera volontà di collaborare,
delimita sia il requisito minimo di applicabilità delle nuove disposizioni legislative,
sia il limite massimo al di là del quale la norma non può più trovare
applicazione.[169] In questa
fascia possono perciò iscriversi tre categorie di persone:
a)
quelle
che abbiano solo manifestato una mera volontà di collaborare, ma non abbiano
ancora iniziato a farlo.
b)
quelle
la cui collaborazione sia in corso, ma che non godano di alcuna misura di
protezione.
c)
quelle
la cui collaborazione sia in corso e che godano di misure urgenti di
protezioni, in attesa della definizione di un programma speciale di protezione.
Il problema più rilevante
riguarderà il collaboratore di giustizia, già ammesso definitivamente a
speciale programma di protezione, ma nei cui confronti non sia intervenuta la
sentenza definitiva di condanna.[170]
Infine, merita particolare
attenzione l'interpretazione del terzo comma dell'art.25, che fa specifico
riferimento alle "condotte di collaborazione", a differenza del primo
comma che, come già detto, prende in considerazione solo "le persone che
hanno già manifestato la volontà di collaborare". Infatti il terzo comma
prevede una disposizione di favore per coloro i quali, alla data di entrata in
vigore della nuova legge, abbiano già tenuto delle condotte di collaborazione
con riferimento a reati diversi da quelli di cui all'art. 51 comma 3 bis c.p.p.
, ma comunque rientranti tra quelli indicati nell'art.380 c.p.p. . Essa
consente l'applicabilità ai collaboratori suddetti delle disposizioni di cui ai
commi 1 e 2.
La spiegazione della diversa
previsione sta probabilmente nel fatto che, secondo le disposizioni della nuova
legge, la collaborazione riferita a reati diversi da quelli indicati dall'art.9
comma 2 del d.l. n°8/1991, non consente l'applicazione delle misure di
protezione e dei benefici sanzionatori a coloro i quali la prestano.
Perciò la nuova previsione
legislativa ha voluto salvaguardare la posizione dei soggetti che, avendo
iniziato a collaborare prima dell'entrata in vigore di essa, avevano fatto
affidamento sulle misure di protezione e sui benefici sanzionatori previsti
dalla precedente disciplina.[171]
Proprio perché ha introdotto una eccezione alla disposizione dell'art.9 comma
2, la norma transitoria ha espressamente e più rigorosamente previsto che in
questo caso non sia sufficiente la semplice manifestazione di volontà,
ritenendosi perciò necessario che la collaborazione si sia già concretizzata in
dichiarazioni o in altre condotte.
CONSIDERAZIONI FINALI
L'esperienza applicativa
dell'art. 13 ter del decreto legge 15/01/1991 n°8, convertito con modificazioni
nella Legge 15 marzo 1991 n°82, non ha evidenziato un malfunzionamento del
sistema penitenziario adottato nei confronti dei collaboratori di giustizia
ammessi a speciale programma di protezione. Infatti il Tribunale di
Sorveglianza di Roma, in rarissimi casi ha dovuto revocare le misure concesse
perché il soggetto è tornato a delinquere, e questo dato si spiega soprattutto
in base all'interpretazione che l'organo giudiziario ha dato di tale norma.
Come analizzato
precedentemente, infatti la valutazione "sull'affidabilità esterna"
del collaboratore, effettuato in base ai rapporti provenienti dal Servizio
Centrale di Protezione e dal Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria,
ha rappresentato il parametro fondamentale relativo sia all'an che al quomodo della concessione delle misure extracarcerarie.
La legge 13 febbraio 2001
n°45, è intervenuta sul rapporto collaborazione-beneficio , impedendo infatti
che la concessione dei secondi potesse essere diretta conseguenza della
condotta collaborativa.
Lo stesso Tribunale di
Sorveglianza di Roma, nella maggior parte dei casi, ha dovuto giudicare di
soggetti provenienti da ambienti
extracarcerari: la normativa precedente prevedeva infatti come il
collaboratore, che si trovasse a qualsiasi titolo in stato detentivo, potesse
immediatamente fuoriuscire dal circuito carcerario in presenza di concrete
esigenze di tutela della propria incolumità.
Come evidenziato dal
Consiglio Superiore della Magistratura,[172]
la stessa custodia extracarceraria appariva una forma di anticipata premialità,
anche per la prassi ricorrente di richiedere più spesso, all'inizio della
collaborazione, l'intervento immediato del Capo della Polizia, sotto forma di
richiesta di misure urgenti, che finiva inevitabilmente per condizionare la
successiva decisione della Commissione Centrale, che si trovava quasi a
"ratificare" uno stato di fatto già esistente.
La nuova normativa ha
"scisso" il rapporto automatico che si era venuto ad instaurare tra
momento premiale e momento tutorio, anche su un aspetto molto importante connesso ai
benefici penitenziari. Infatti l'ammissione del collaboratore ai
benefici penitenziari in deroga alle disposizioni dell'Ordinamento
Penitenziario, era condizionato alla permanenza della sua sottoposizione allo speciale programma
di
protezione, con la
conseguenza che spesso se ne è determinato il diniego nei confronti di colui
che a quel programma non fosse più sottoposto, solo per il venir meno della
situazione di pericolo.[173] Nonostante che la Corte di Cassazione[174]
avesse già stabilito che la revoca del beneficio penitenziario potesse basarsi
solo in base a fatti ascrivibili ad una condotta dimostrativa della
infondatezza del giudizio di adeguatezza della misura concessa, incompatibili
con il mantenimento della stessa e fondata sull'evoluzione della personalità
del soggetto, la legge 45/2001 ha evitato anche in questo caso il pericolo di
sovrapposizione tra momento premiale e momento tutorio.
Infatti la concessione dei
benefici penitenziari in deroga non richiede più, quale conditio sine qua non, la sottoposizione a speciale programma di
protezione, per cui in caso di revoca l'unico dato valutativo sarà quello
comportamentale.
L'ultima considerazione
riguarda il fatto che la nuova gestione dei collaboratori di giustizia dovrà
inevitabilmente rapportarsi alla "offerta" di uomini e mezzi che lo
Stato sarà in grado di predisporre.[175] Un compito molto importante sarà sempre
svolto dal Servizio Centrale di Protezione, chiamato ad attuare gli speciali
programmi di protezione: nei circa dieci anni di applicazione della normativa
precedente, tale Organo, pur trovandosi ad operare in condizioni difficili, è
riuscito a garantire una assistenza complessivamente adeguata ai collaboratori.[176]
Proprio nell'ottica di migliorare sempre di più il servizio offerto, ci si
chiede se non sia necessaria una maggiore professionalità "specifica"
da parte del personale preposto ad assicurare l'assistenza di tali soggetti,
esigenza già avvertita da molti anni negli Stati Uniti dove è stata creata una
Agenzia Federale Autonoma, la Witness
Security, in cui operano dei funzionari che non provengono dagli organismi
di polizia, ma sono automaticamente reclutati attraverso una rigorosa
selezione, volta a verificarne l'attitudine e l'idoneità caratteriale al
compito che devono svolgere. Tali funzionari intervengono nella fase iniziale
della collaborazione, dovendo anzitutto rendere ben chiaro al soggetto le
conseguenze della propria scelta e le implicazioni che essa comporta per lui e
per la propria famiglia. Essi devono poi valutare l'idoneità del collaboratore
ad affrontare il cambiamento,
resistendo alle inevitabili crisi di rigetto e la capacità di superare
la comprensibile paura di essere rintracciati e soppressi dalle organizzazioni
criminali. Se questi funzionari ritengono che i soggetti non siano idonei
all'accesso al programma di protezione, lo comunicano alla autorità competente
che ne deve prendere atto.
Già in sede parlamentare è
stato evidenziato come sarebbe utile e
interessante verificare la praticabilità anche nell'ordinamento giuridico
italiano dell'impiego di una siffatta agenzia[177],
che consentirebbe in una materia molto delicata come la gestione dei
collaboratori di giustizia, di conferire maggiore funzionalità e efficienza.
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www. parlamento.it da cui ho estratto la Relazione
al disegno di legge n°2207, successivamente approvato con modificazioni nella
Legge 13 febbraio 2001, n°45.
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[1] Così si esprime la
relazione al Disegno di legge n° 2207 presentato dal Governo nel marzo 1997 ed
approvato inizialmente dal Senato il 30 marzo 2000.
[3] Spataro A, Per i collaboratori di giustizia legge
scoraggia-collaborazioni, in Diritto
e giustizia, numero 9, 10 marzo 2001,pp.78-79.
[4] A tale scopo si riferisce
esplicitamente sia la relazione al d.d.l. 2207, stabilendo inoltre come solo
“una collaborazione indispensabile anche ai fini preventivi permetta l’accesso
allo speciale programma di protezione e non alle semplici misure speciali”, sia
l’intervento del relatore Follieri alla 177a seduta della Commissione Giustizia del Senato in data 23
settembre 1997.
[5] Si tratta dell’emendamento
all’art.2 comma 3 proposto dai Senatori Russo, Calvi, Fassone, Bonfietti,
Bertoni, De Guidi.
[6] Intervento del Senatore
Russo alla 195a seduta della Commissione Giustizia del Senato in
data 5 novembre 1997.
[7] Intervento del Senatore
Bertoni alla 195a seduta della Commissione Giustizia del Senato in
data 5 novembre 1997. Il riferimento riguarda le sentenze n°357/1994 e
n°68/1995 della Suprema Corte.
[8] Spataro A, Per i collaboratori di giustizia legge
scoraggia collaborazioni, op. cit., pag.9: l’autore sottolinea però come,
con riferimento all’oggetto dell’importanza delle dichiarazioni, vi sia un’ingiustificata
esclusione delle associazioni finalizzate al narcotraffico, ex art. 74 DPR
309/1990 che pure rientrano nella serie di reati indicati dall’art.51, comma 3
bis c.p.p. e conseguentemente nella competenza delle direzioni distrettuali
antimafia.
[9] Si tratta dell’emendamento
presentato direttamente all’assemblea senatoria in data 28 marzo 2000,
approvato definitivamente nella stessa data e non modificato dalla Camera dei
Deputati. Esso riscrive formalmente il testo dell’art. 9 comma 3 del d.l. n°8/1991.
[10] Il testo originario
dell’articolo stabiliva che “ Ai fini dell’applicazione ….. che presentano
carattere di attendibilità e inoltre per la loro novità o completezza o per
altri elementi appaiono di notevole importanza..”; il nuovo testo stabilisce che “ Ai fini…La collaborazione e le
dichiarazioni predette devono avere caratteristiche di intrinseca
attendibilità. Devono altresì avere
carattere di novità o di completezza
o per altri elementi devono apparire
di notevole importanza…”.
[11] Roberti F, Nella netta distinzione tra premio e tutela
un contributo al superamento delle distorsioni, in Guida al diritto, n°11, 24 marzo 2001, pag.46.
[12] Cfr. Cap.I, paragrafo 6,
pag.25.
[13] Il riferimento ha ad
oggetto l’emendamento non approvato e presentato dai senatori Pera, Centaro,
Greco, Scopelliti, Cirami e volto ad inserire nell’art.2 comma 3 “il
riferimento a fatti specifici o riscontri obiettivi” che confermino
l’attendibilità delle dichiarazioni del collaboratore.
[14] Bernasconi A, Nei nuovi limiti ai benefici penitenziari
non c’è svolta contro le distorsioni, op. cit., pag.129.
[15] Così si esprime il Relatore
Follieri al d.d.l. n° 2207, durante la 177a seduta della Commissione
Giustizia del Senato, in data 23 settembre 1997.
[16] Questa è la descrizione
fornita dalla Relazione al d.d.l. n° 2207.
[17] Maddalena M, Sulle misure di protezione Commissione
arbitro unico, in Guida al Diritto, n°11, 24 marzo 2001, pp.53-54.
[18] In questi termini si
esprime il senatore Russo durante la 807a seduta dell’assemblea del
Senato della Repubblica, in data 23 marzo 2000.
[19] Cfr intervento già citato
del senatore Russo: “ Anche per le misure di protezione si innova in maniera
molto significativa, perché se ne fa una gradazione in rapporto alla gravità
del pericolo: misure ordinarie quando è possibile, misure speciali di
protezione quando sono necessarie ,e infine un programma speciale di protezione
nei casi più gravi, legato non al tipo di collaborazione ma alla gravità
[20] Spataro A, Per i collaboratori di giustizia legge
scoraggia collaborazioni, op.cit., pp.79-80.
[21] Si fa sempre riferimento a
Spataro, op.cit., pag.78, secondo cui la distinzione tra
conviventi con il collaboratore, categoria per la quale l’estensione del
programma non sembra richiedere ulteriori condizioni, e tutti gli altri
soggetti per i quali l’estensione è subordinata all’esistenza di grave e
attuale pericolo, pone i parenti non conviventi in una posizione deteriore,
atteso che anche per questi ultimi la situazione di pericolo nasce spesso dal
mero rapporto di parentela. In realtà, conclude Spataro, le scelte della
commissione non dovrebbero essere collegate alla previsione di categorie
astratte, ma a situazioni concrete, come si prevede per coloro che
intrattengano relazioni con i testimoni di giustizia, come prevede l’art. 16
bis comma 3.
[22] Si fa riferimento
all’intervista rilasciatami dal Procuratore Aggiunto della Repubblica di
Torino, Dott. Laudi Maurizio, in data 13 giugno 2001.
[23] Secondo il giudizio del
Procuratore Laudi, perciò tale norma non costituisce una “ probatio diabolica”
a carico della magistratura inquirente, in quanto non sarà difficile per i
procuratori della repubblica motivare la loro proposta di ammissione al
programma di protezione solo in presenza di situazioni “patologiche”.
[24] Cfr. Capitolo I, paragrafo
7, pp.30-31.
[25] Roberti F, Nella netta distinzione tra premio e tutela
un contributo al superamento delle distorsioni, op.cit., pag.48.
[26] Questo è il giudizio del
Procuratore Laudi, il quale sottolinea inoltre come, con particolare riferimento
all’esperienza torinese, il programma di protezione è stato sempre richiesto
per soggetti appartenenti alla criminalità organizzata e cercando comunque
l’intesa tra i vari uffici del pubblico ministero “destinatari” delle
dichiarazioni del collaboratore.
[27] Tuttavia si deve comunque
ricordare l’analisi di Roberti F, Nella
netta distinzione tra premio e tutela un contributo al superamento delle
distorsioni, op.cit., pag.48, dove, dall’analisi letterale della
disposizione, emerge la disparità rispetto alle situazioni “mafiose”, dove il
ruolo del procuratore nazionale antimafia viene ricondotto ai poteri di
coordinamento e risoluzione dei contrasti, non previsto per le situazioni
relative ai delitti commessi per finalità di terrorismo e di eversione.
[28] Questa è la finalità
espressa in commissione giustizia del Senato in data 22 aprile 1998 dalla
senatrice Salvato, finalizzato a illustrare le ragioni dell’emendamento
relativo al testo dell’art.4 comma 2 che costituirà la base di partenza della
discussione parlamentare.
[29] Intervento del senatore
Fassone in commissione giustizia del Senato in data 22 aprile 1998.
[30] Questa scelta legislativa ha portato a rifiutare l’emendamento
proposto dai senatori Russo e Calvi, volta a prevedere che la proposta di
ammissione alle speciali misure di protezione fosse formulata dagli uffici
procedenti e solo comunicata alle altre procure affinché potessero esprimere un
parere obbligatorio, ma non vincolante. L’intenzione di tale emendamento era,
come enunciato dal senatore Russo, di “prescindere dall’esigenza dell’intesa ed
eliminare al tempo stesso il potere condizionante del procuratore nazionale
antimafia nel caso in cui l’intesa tra gli uffici procedenti non fosse
raggiunta”.
[31] Non è questa la sede giusta
per analizzare la figura e le competenze del PNA, considerata la “direzione
oggettiva” di tale lavoro. In questo contesto non possono essere però
sottaciuti i rapporti tra il PNA e lo speciale programma di protezione, che
investono anche la Commissione Centrale, come si evince dalla formulazione del
nuovo art.11 commi 4 e 5 che analizzeremo nel paragrafo successivo.
Così circa il potere attribuito al PNA di
risolvere l’eventuale contrasto tra i procuratori riguardo l’ammissione al
programma di protezione, nonostante le critiche di Spataro A, op. cit., pp.78-79, secondo cui poiché “ la Procura Nazionale non è titolare di poteri
di indagine, a cui va collegata direttamente la proposta di ammissione al
programma di protezione” ne consegue come “ il potere conferitole appare espressione
di una funzione di controllo gerarchico, non prevista dalla legge”, tale
funzione è stata quasi “ suggerita” da Tinebra G, Giordano P, Un sereno confronto può servire a migliorare
il regolamento sui collaboratori di giustizia, in Guida al Diritto, n°2, 14/01/1995, pag.10, dove viene precisato
come “ un parere del PNA può avere una qualche giustificazione allorché vi sia
un contrasto di valutazioni tra diversi uffici del pubblico ministero che
procedano a indagini collegate. Solo in tal caso si spiegherebbe il ricorso a
un organo terzo capace di dirimere i contrasti, funzione che peraltro è
prevista dalla legge”.
[32] Ionta F, Un provvedimento che rischia di attenuare
l’efficacia dell’intervento giudiziario, in Guida al Diritto, n°2, 14/01/1995,
pag.32.
[33] Bernasconi A, La collaborazione processuale, op.cit., pag.205.
[34] D’Amico S, Il collaboratore della giustizia, op.cit., pp.96
e ss.
[35] Va rticordato come, anche
in questo caso, l’art.4 del Decreto interministeriale n°687/1994, introduceva
una regolamentazione ed una specializzazzione rigorosa di tale potere: il Capo
della Polizia doveva infatti acquisire sia una dettagliata segnalazione delle
autorità competenti per la proposta, che doveva evidenziare “l’importanza del
contributo, gli elementi concernenti i pericolo per l’incolumità, i motivi dai
quali derivano il pericolo stesso, la sua gravità e la sua attualità, e le
ragioni per le quali le misure adottate o fatte adottare non erano ritenute
idonee”, sia il parere del procuratore nazionale antimafia, sia le attestazioni
indicate dall’art.12 del predetto regolamento. Inoltre veniva stabilito il
principio della temporaneità di tale provvedimento, il quale perdeva efficaccia
se decorsi novanta giorni la commissione non avesse deliberato il programma di
protezione, secondo la procedura ordinaria.
[36] Questa è la finalità
enunciata dalla Relazione al d.d.l. 2207 anche se, come vedremo tra poco, in
sede di approvazione alla Camera dei Deputati, le modifiche alla stesura
originale dell’art.3 sono state rilevanti.
[37] L’emendamento al citato
art.3 è stato presentato dall’onorevole Carmelo Carrara proprio per “creare un
necessario confine tra gli ambiti di intervento degli organi della
investigazione e di quelli giudicanti, dovendosi riflettere tale necessaria
separazione proprio sulla composizione della Commissione Centrale”.
Tale finalità è stata evidenziata anche
dall’on. Simeone che ha aggiunto come “ la modifica prospettata si rendesse
utile e necessaria per evitare il possibile configurarsi di conflitti di
interessi tra i componenti della commissione”. In senso critico, sia il
relatore del d.d.l. 2207 alla Camera dei Deputati, on. Bonito che ha
sottolineato come tale modifica “ rischia di limitare fortemente la platea dei
soggetti legittimati a comporre la Commissione, nonché a ridurne il profilo
qualitativo professionale”, sia del rappresentante del Governo, il
sottosegretario al Ministero degli Interni Brutti Massimo per il quale la
modifica apportata " avrà per effetto di privare la Commissione di fondamentali
professionalità e qualità dei suoi componenti”.
[38] Maddalena M, Sulle misure di protezione Commissione
arbitro unico, op.cit., pag.52.
[39] Giordano F, Tinebra G, La Commissione Centrale, composizione e
poteri istruttori, in Diritto Penale
e Processo, n°5, maggio 2001, pp.563-
565. Va rilevato come se la volontà del legislatore dovesse essere ricondotta
alla prima interpretazione, secondo Roberti F, Nella netta distinzione tra premio e tutela un contributo al
superamento delle distorsioni, op.cit., pag.47, tale scelta potrebbe
ricollegarsi ai “ nuovi e pregnanti poteri consultivi conferiti al procuratore
nazionale antimafia e ai procuratori generali dalla nuova disciplina prevista
dagli artt. 11, 16 octies e 16 nonies del d.l. n°8/1991.
[40] Giordano F, Tinebra G, La Commissione Centrale, composizione e
poteri istruttori, op.cit, pag.564. Inoltre, sottolineano gli stessi
autori, tale conflitto non potrebbe essere risolto con la semplice astensione,
poiché il numero delle decisioni sarebbe tale da registrare una sistematica
astensione del componente togato della Commissione.
[41] Questa è in estrema sintesi
un estratto della motivazione con cui la suprema Corte ha rigettato la
questione di costituzionalità degli art.1,3,4,5, del regolamento sopracitato
per violazione degli art.13,101,104,108 e 112 della Costituzione.
Anche oggi la sentenza della suprema Corte è
molto importante, considerato come i commi 4 e 5 dell’art.4 della legge
n°45/2001 si limitano a recuperare il testo dell’ art. 1 comma 3 e dell’art.3
del decreto sopracitato per i quali era stata appunto chiesto l’annullamento,
in quanto si riteneva ledessero la sfera di attribuzioni e di poteri riservati
all’autorità giudiziaria, a favore dell’autorità amministrativa. Sul punto,
cfr. Melillo G., Mancuso P., Osservazioni
sul nuovo regolamento per il programma di protezione dei collaboratori di
giustizia, in Cassazione Penale,
1995, pp.250-258.
[42] Laudi M, Commento all’art.1 del DM 24/11/1994, n°687,
in Legislaz. Penale 1995, pag.186. Analoga posizione è stata
assunta dalla Direzione Nazionale Antimafia con una nota inviata ai procuratori
distrettuali in data 17 febbraio 1995
e da Ionta F, op. citata, pag. 32.
[43] La testimonianza proviene
direttamente dal Presidente della Commissione centrale, Sottosegretario Sinisi,
chiamato dal Senato della Repubblica in data 2 dicembre 1997 a relazionare
l’attività della Commissione e i rapporti tra essa e gli organismi giudiziari.
[44] Vd. retro, paragrafo 3, pag.63.
[45] In tale senso si esprime la
Relazione al dd.l n°2207.
[46] Giordano F, Tinebra G, La Commissione, op.cit., pp.565-566.
[47] Questo è il giudizio
fornito da Roberti F. e Alfonso R.,
sostituti procuratori della Direzione Distrettuale Antimafia, ai quali è stato
affidato il compito di elaborare un’analisi critico-interpretativa della legge.
Tale studio è stato approvato dal Procuratore Nazionale Antimafia Pier Luigi
Vigna e trasmesso successivamente a tutte le direzioni distrettuali antimafia;
un suo estratto è stato pubblicato su Diritto
e giustizia, n°26, 7 luglio 2001, pp.46- 51, Pentiti: norme poco chiare favoriscono equivoci e applicazioni
arbitrarie.
[48] Lo stesso Sottosegretario
Sinisi nella relazione tenuta al Senato, ha sottolineato la grande funzione
svolta dal Servizio centrale in relazione alla istruttoria tecnica svolta sulle
proposte di ammissione.
[49] Cfr. Giordano F, Tinebra
G., Il Servizio centrale di protezione, in
Diritto Penale e Processo, n°5, maggio 2001, pp. 567-568.
[50] Il dottor Cirillo,
direttore del Servizio centrale di protezione, chiamato in data 26 novembre
1997 ad illustrare l’attività svolta, ha sottolineato come “i compiti che a
tale servizio incombono attengono a forme di assistenza per risolvere i
quotidiani problemi della gestione pratica della vita dei collaboranti e delle
loro famiglie”. Sotto questo profilo segnala “i notevoli progressi raggiunti
sia per quanto riguarda l’adempimento dell’obbligo scolastico dei bambini
appartenenti ai nuclei familiari coinvolti nei programmi di protezione, sia i
costi dell’assistenza sanitaria, il cui livello è stato notevolmente abbattuto
attraverso la sostituzione del ricorso alle prestazioni private con
l’assistenza erogata dal servizio sanitario nazionale”.
[51] Si fa riferimento alla
raccomandazione n°25 adottata dal Consiglio dell’Unione europea il 20 dicembre
1996, all’interno del documento “Prevenzione e controllo della criminalità
organizzata- Strategia dell’Unione europea per l’inizio del nuovo millennio” e
pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale delle
Comunità europee, n° C 124 del 3 maggio 2000. Essa recita inoltre come “
sarà approntata una proposta di strumento sulla posizione e la protezione dei
testimoni e delle persone che sono o sono state membri di un’organizzazione
criminale e che sono disposte a collaborare con la giustizia ….. La proposta
dovrebbe vagliare tra l’altro la possibilità di prevedere una riduzione della
pena per l’imputato che fornisca una collaborazione determinante e dovrebbe
essere apprestato, alla luce anche dell’esperienza maturata con l’Europol, un
accordo tipo dell’UE da utilizzare su base bilatereale”. Su tale importante
raccomandazione, cfr. Laudati A, Servizio
di protezione: verso un obbiettivo di qualità, op.cit., pagg.74-76.
[52] La versione originaria del
vecchio art.12 prevedeva infatti l'ulteriore obbligo di " rendere le
dichiarazioni e compiere le attività e gli atti in relazione ai quali il
programma è stato adottato".
[53] Tale è la finalità espressa
nella Relazione al d.d.l. n° 2213 che in gran parte è stato "
trasfuso" nel d.d.l. n° 2207, successivamente approvato nella legge
n°45/2001. In quel disegno normativo si faceva
solo riferimento all'obbligo " di essere presenti nel dibattimento,
al momento di rendere l'esame chiesto nei loro confronti ai sensi dell'art.210
c.p.p., senza potersi avvalere della facoltà di non rispondere.
[54] Bernasconi A, La collaborazione processuale, op.cit., pagg.166-167.
[55] Si fa riferimento
all'emendamento presentato dal Senatore Russo all'assemblea senatoria in data
28 marzo 2000 e contestualmente approvato.
[56] Il riferimento, come si
evince dai lavori senatoriali del 28 marzo 2000, riguardava infatti una
possibile competenza della Commissione Centrale.
[57] Su tale punto torneremo più
avanti, nel Cap.III dove si tratterà il tema del trattamento penitenziario del
collaboratore.
[58] Cfr., ad esempio,
l'intervento del Senatore Centaro in data 28 marzo 2000:"L'eccezione ad
una regola di blindatura assoluta del collaboratore deve riguardare casi
straordinari che attengono alla vita familiare, come ad esempio la morte o una
gravissima malattia di un prossimo congiunto anch'esso collaboratore;
diversamente, introduciamo un'eccezione pericolosa nell'ambito del sistema che
prevede, ai fini di una genuinità, attraverso la mancanza di contatti con
l'esterno, la possibilità di trasmettere ed anche di ricevere notizie con un
linguaggio criptato".
[59] Giordano F, Dalla costruzione del progetto pentiti un
buon esempio per il pacchetto sicurezza, in Guida al Diritto,10 febbraio
2001, n°5, pag.5.
[60] Giordano F, Tinebra G, Assunzione degli impegni, in Diritto Penale e processo,n°5,Maggio
2001, pag.568.
[61] Secondo il giudizio del
Procuratore Laudi M, tale nuovo obbligo rappresenta un'aspetto fortemente
disincentivante della collaborazione considerato come nella maggioranza dei
casi, essendo di fronte a soggetti che non hanno mai svolto nessuna attività
lavorativa lecita, ogni loro bene posseduto è frutto di proventi
"criminali", compresi anche quelli di prima necessità come la
macchina o soprattutto la casa dove il soggetto vive con i propri familiari. Il
sequestro di tali beni può porre il collaboratore di fronte ad una scelta
estremamente difficile e delicata. Per Spataro A, Per i collaboratori di giustizia legge scoraggia collaborazioni,
op.cit.,pag.79, l'obbligo di
sequestro sarà difficilmente realizzabile proprio per le formule troppo
generiche adottate dal legislatore (quando un bene intestato a terzi è
riconducibile a controllo del collaboratore?) e che potrebbe rivelarsi iniquo
nei confronti di congiunti titolari di beni acquisiti legalmente.
[62] " Per rispondere alle
polemiche circa un preteso lassismo dello Stato nei confronti delle persone
danneggiate e offese è stato deciso un ampliamento della piattaforma del
confiscabile e conseguentemente una speciale destinazione di tali beni nei
confronti di essi". Così si esprime la Relazione al d.d.l. n° 2207.
[63] Così si esprimono sia
Maddalena M, Sulle misure di protezione
Commissione arbitro unico, op.cit., pag.55, sia Roberti F, Alfonso R, Pentiti:
norme poco chiare favoriscono equivoci e applicazioni arbitrarie,op.cit., pag.48.
[64] In questo senso si
esprimono sia Bernasconi A, La
collaborazione processuale, op.cit., pag. 217, sia D'Amico S, Il
collaboratore della giustizia, op.cit., pag.68.
[65] Il presidente della
Commissione Centrale, Sottosegretario Sinisi, durante il proprio intervento
alla Commissione Giustizia del Senato in data 26 maggio 1998, ha sottolineato
come " le misure di assistenza inerenti ai programmi di protezione non
possono e non debbono avere in alcun modo finalità risarcitorie o retributive ma sono finalizzate unicamente a
garantire il mantenimento dei soggetti interessati". Inoltre ha richiamato
l'attenzione sul fatto che, salvo i casi limite, l'importo dell'assegno di
mantenimento è stato pari alla somma di un milione e trecentomilalire per il
capofamiglia più un'integrazione di trecentomilalire per ogni componente del
nucleo familiare.
[66] Il riferimento all'assegno
sociale è stato introdotto in
Commissione Giustizia del Senato per correggere un aspetto contraddittorio del
testo originario che prevedeva un meccanismo di adeguamento annuale
dell'importo dell'assegno di mantenimento senza individuare peraltro l'importo
base al quale riferire il predetto meccanismo di adeguamento automatico.
Secondo infatti la dizione originaria della norma, " La misura
dell'assegno di mantenimento e delle integrazioni è definita annualmente dalla
Commissione centrale tenuto conto delle variazioni dell'indice dei prezzi al
consumo per le famiglie di operai ed impiegate rilevate dall'ISTAT".
[67] In questo senso si
esprimono sia il Relatore del d.d.l. n° 2207 alla Commissione Giustizia del
Senato, Senatore Follieri, sia il Senatore Russo durante il proprio intervento
in detta sede in data 2 giugno 1998.
[68] La possibilità di un abuso
della integrazione dell'assegno di mantenimento è stata avvertita alla luce del
fatto che le spese concernenti la sistemazione alloggiativa, i trasferimenti,
l'assistenza sanitaria e quella legale sono considerate separatamente dal
predetto assegno e conseguentemente, come rilevato dalla Senatrice Scopelliti,
" non si riesce ad individuare esigenze particolari che possono
giustificare detta integrazione".
132 Così si esprime il
Sottosegretario al Ministero dell'Interno, Brutti Massimo, sottolineando come
tale previsione possa permettere di controllare, indirettamente e in sede
processuale, le spese effettuate per la protezione del collaboratore. In senso critico, Spataro A, Per i collaboratori di giustizia legge
scoraggia collaborazioni, op.cit.,pag.79: " le esigenze di trasparenza
potevano essere assicurate mediante l'attestazione della sottoposizione allo
speciale programma di protezione senza pregiudicare la segretezza sul tipo di
attività economica o lavorativa intrapresa dal collaboratore o dai suoi familiari
all'interno del programma stesso".
133 Con la nuova legge viene
specificato ulteriormente il contenuto della Relazione del Ministro
dell'Interno che deve indicare, oltre al numero complessivo dei soggetti
sottoposti a programma di protezione e le corrispettive spese, anche
l'ammontare delle integrazioni dell'assegno di mantenimento e le esigenze che
le hanno motivate.
[71] Colla G, Verso l'esclusione di un regime
assistenziale: la ricerca di un lavoro, l'organizzazione del Servizio centrale
di protezione e il cambiamento delle generalità, Relazione tenuta durante
l'incontro di studio sul tema "I collaboratori di giustizia" svoltosi
a Frascati dal 23 al 25 febbraio 1995 e organizzato dal Consiglio Superiore
della Magistratura, in Doc. Giustizia, 1995,
n°3, pag.293.
[72] Questa è la soluzione
migliore secondo Colla G, op.cit., il
quale fa esplicito riferimento al lavoro espletato da dei gruppi di detenuti
nel carcere di Milano Opera per conto di una società di servizi, la Lombardia
Informatica, che gestisce il controllo della spesa farmaceutica per conto della
regione Lombardia. La predetta azienda si è accollata l'onere di fornire
l'hardware e formare i detenuti per affidare loro l'attività di registrazione
elettronica dei dati relativi al controllo della spesa farmaceutica. Ma anche
al di fuori dell'ambiente carcerario, la stessa società si è dichiarata
disponibile al reinserimento sociale dei soggetti all'atto della scarcerazione
o della ammissione alle misure alternative alla detenzione. Tale ipotesi- sottolinea
Colla G.- assume un particolare interesse per il settore dei collaboratori di
giustizia e potrebbe essere studiata la possibilità di un intervento
collaborativo orientato verso i cd.pentiti.
[73] Vd. Cap. I, paragrafo 8,
pag.35.
[74] Guazzaloca B, Differenziazione esecutiva e Legislazione
d'emergenza in materia penitenziaria, in Dei Delitti e delle Pene, Vol. III,1992, pag.124.
[75] Comucci P, Lo sviluppo delle politiche penitenziarie, in
A.A.V.V., Criminalità organizzata e
politiche penitenziarie, Milano, 1994, pag. 34.
[76] Iovino C, Legge penitenziaria e lotta alla criminalità
organizzata, in Cassazione Penale, 1992,
pag. 438.
[77] Iovino C, Legge penitenziaria e lotta alla criminalità
organizzata, op. cit., pag. 441.
[78] Buona parte della dottrina
aveva sottolineato l'iniquità di una simile previsione: vd. ad es., Canepa M,
Merlo S, Manuale di diritto
penitenziario, Genova 1999, pp. 403-404; Fiorio C, Sempre nuove questioni di diritto penitenziario: la collaborazione come
presupposto per i benefici, in Giur.
Cost., 1993, pag.2506; Prestipino S, Nuovi
condizionamenti e limiti per i benefici penitenziari a condannati pericolosi, in
Giust. Pen., 1993, II, pag.252. Con
particolare riferimento al concetto di pericolosità sociale presunta, vd.
Falzone F, Brevi note in tema di
legittimità costituzionale della pericolosità presunta, in Giur. Cost., 1972, pag.1205 e Ponti G, Corte costituzionale e presunzione di
pericolosità, in Riv. It. dir. e
proc. pen., 1986, pag. 467.
[79] Mosconi G, La controriforma carceraria, in Dei Delitti e delle Pene, 1991, Volume
II, pag. 146. Egli sottolinea inoltre come "il sistema probatorio in
questo caso, lungi dall'essere precostituito come necessario e legittimo al
fine dell'accertamento della verità e della difesa del richiedente, viene
snaturato come mezzo di discriminazione e di indurimento della misura
afflittiva".
[80] Ricordiamo come il decreto
legge 24 novembre 2000 n°341, convertito con modificazioni nella legge 19
gennaio 2001 n°4, ha ricompreso all'interno di tale fascia anche i detenuti o
internati di cui all'art.416 del Codice Penale
realizzato allo scopo di commettere i delitti previsti dal Libro II,
Titolo XII, Capo III, Sezione I, e dagli artt. 609 bis, quater , quinquies e
octies del Codice Penale.
[81] Cfr. Cap. I, paragrafo 8,
pag.37.
[82] Come già espresso con la
nota n°55, pag.36, l'intento di sfruttare appieno le potenzialità incentivanti
di agevolazioni raccordate ad atteggiamenti collaborativi rappresenta la
finalità espressamente enunciata dalla relazione al disegno di legge n.S/328 di
conversione del d.l. 8 giugno 1992, n°306.
[83] Presutti A, Alternative al carcere e regime delle
preclusioni, op.cit., pag. 65.
[84] Iovino F, Osservazioni sulla recente riforma
dell'ordinamento penitenziario, op.cit., pag.1257.
[85] Bernasconi A, Indissolubile il legame tra collaborazione
con la giustizia e benefici penitenziari, in Cass. Pen., 1997, pp. 3575-3576.
[86] Tale disposizione stabiliva
che, nei confronti dei detenuti o internati per taluno dei delitti
indicati nel primo periodo del comma 1
dell'art.4 bis che fruissero, dalla data di entrata in vigore del decreto
stesso, di un beneficio penitenziario,
tale misura deve essere revocata qualora tali soggetti non si trovino nelle
condizioni previste dall'art.58 ter o.p. .
[87] Cfr. anche Martini A, Commento all'art.15 del D.l. 8 giugno 1992,
n°306, in Legisl. Penale, 1993,
pp. 186-195 : " la formulazione del testo normativo porta ad affermare che
il legislatore abbia inteso formulare una vera e propria presunzione di
inopportunità della concessione delle misure alternative in base alla
pericolosità soggettiva di talune categorie i detenuti, fondato esclusivamente
sulla natura del reato commesso….. Solo l'atteggiamento di collaborazione piena
e rilevante consente, a giudizio del legislatore, di affermare che il soggetto
si è posto in una posizione di netto antagonismo rispetto all'organizzazione di
originaria affiliazione, non presentando più quegli specifici profili di
pericolosità individuale connessi ai suoi legami con essa".
[88] Guazzaloca B, Differenziazione esecutiva e legislazione
d'emergenza in materia penitenziaria, op.cit., pag.149.
[89] Presutti A, Alternative al carcere e regime delle
preclusioni, op.cit., pag.83.
[90] Bernasconi A, Le immunità occulte. Fase dell'esecuzione
penale ed ideologia premiale tra razionalizzazione e garantismo, in Politica del diritto, n°2, giugno 1997.
L'autore rileva infatti come il diritto penale sostanziale non poteva essere
piegato totalmente a fini premiali, sia perché il parco di fattispecie per le
quali si voleva incentivare il fenomeno della collaborazione era molto più
ampio di quello astrattamente circoscrivibile al concetto di criminalità
organizzata, sia perché la controindicazione più rilevante si presentava,
all'epoca del dibattito sull'estensibilità dei benefici premiali alla
criminalità comune, sul piano della legittimazione del sistema: troppi infatti
erano i rischi insiti nella codificazione di ipotesi di non punibilità o di
attenuanti generali da riconoscere e applicare poi nel pubblico processo. Del resto,
nemmeno i riti speciali del nuovo processo penale si prestavano a questa
strategia. L'applicazione della pena su richiesta delle parti aveva un raggio
d'azione troppo ristretto, come il giudizio abbreviato. La riduzione della pena
di un terzo rappresentava un incentivo, soprattutto per i reati più gravi, non
molto appetibile e la stessa decisione della Corte Costituzionale di escludere
l'ergastolo dal perimetro di applicabilità del rito, con la sentenza n°176 del
1991, ha contribuito a marginalizzarne la praticabilità.
[91] Bernasconi A, La collaborazione processuale, op.cit., pag.112.
Ma cfr. anche Iovino C, Osservazioni
sulla recente riforma dell'ordinamento penitenziario, op.cit., pagg. 1267-
1268.: " I benefici penitenziari, finalizzati alla rieducazione del
condannato, sono trasformati in tal modo in istituti premiali applicabili in
funzione della collaborazione prestata e senza alcuna implicazione di ordine
psicologico. Quale che sia il fine per cui si collabora, vendetta o personale
vantaggio, non interessa: il premio è in funzione dato alle indagini e del
pericolo che si corre".
[92] Camporasagna L, Collaborazione con la giustizia in fase
esecutiva, in Diritto Penale e
Processo, 1997, n°10, pag.1216. Cfr. anche Bernasconi A, La collaborazione processuale, op.cit., pag.
127, in cui l'autore sottolinea come oggetto peculiare del procedimento di
sorveglianza non è più l'individuo, ma il fatto, cioè se vi sia stata o meno
collaborazione.
[93] Sono considerate persone
che collaborano con la giustizia "coloro, che anche dopo la condanna, si
sono adoperati per evitare che l'attività delittuosa sia portata a conseguenze
ulteriori ovvero hanno aiutato concretamente l'autorità di polizia o l'autorità
giudiziaria nella raccolta di elementi decisivi per la ricostruzione dei fatti
e per l'individuazione dei fatti o la cattura degli autori dei reati".
[94] Sammarco A, La collaborazione con la giustizia nella
legge penitenziaria, in Riv. It. Dir.
e Proc. Pen., 1994, pag.873.
[95] Del resto, come già visto
nel Cap. I, una condotta del tutto corrispondente a quella considerata, è
espressamente qualificata come circostanza attenuante dall'art.62, n°6 c.p., e
non vi è dubbio che l'accertamento relativo alle circostanze del reato rientri
nella sfera tipica di cognizione del giudice di merito.
[96] Sammarco A, La collaborazione con la giustizia nella
legge penitenziaria, op.cit., pag. 875.
[97] Corbi C, L'esecuzione nel
processo penale, Torino 1992, pag.356. Cfr anche Giostra G, Il procedimento di sorveglianza nel sistema
processuale penale, Milano 1983, pag.153: " Il procedimento di
sorveglianza è un modello processuale di giudizio sull'uomo in esecuzione della
pena: ogni estensione della sua normativa ad un tipo di giudizio in cui la
persona assume un ruolo secondario risulta sempre inconferente, dando luogo a
vistosi fenomeni di rigetto".
[98] Così, la Sezione I della
Corte di Cassazione, 20 settembre 1993, in Cassazione
Penale, 1994 con nota di Ruga, pag
2783. Analogamente, Sez. I, 13 maggio 1994, in Cassazione Penale, 1995 con nota di Solinas, pag.2687: "La collaborazione con la giustizia
costituisce un semplice dato storico, estraneo al procedimento di
sorveglianza".
[99] Argan L, L'art. 4 bis o.p.- Il sistema e gli
interventi della Corte Costituzionale, Relazione tenuta alla settimana di
tirocinio riservato agli uditori giudiziari nominati con D. M. 12/01/1999, inedito.
[100] Bernasconi A, La collaborazione processuale, op.it., pag.
127. Inoltre, dopo le sentenze della Corte Costituzionale n°357 del 27 luglio
1994 e n°68 del 22 febbraio 1995, per stabilire l'irrilevanza o l'impossibilità
della collaborazione, il tribunale di sorveglianza dovrà inevitabilmente
acquisire la sentenza di condanna dal competente giudice di cognizione e quindi
a valutare un elemento difficilmente "sondabile" con gli strumenti
tipici a disposizione del suo statuto di sapere.
164
Di Chiara G, Commento all'art.13 de D.l.
8/6/1992 n°306, in Legislazione Penale 1993, pag. 171.
[102] Di Chiara G, Commento all'art. 13 del D.l. 8/6/1992
n°306, op.cit., pagg.171-172. L'autore evidenzia infatti come "la
norma tradisca la preoccupazione latente che anche in tale ipotesi possa farsi
ricorso a formule pigre che
ricalchino, con qualche poco utile impreziosimento, la generale ed astratta
statuizione di legge".
[103] Nonostante l'abrogazione
dell'art.13 ter e la nuova disciplina introdotta dalla legge 13 febbraio 2001
n°45, tuttavia la vecchia normativa continua ad essere ancora applicata dal
Tribunale di Sorveglianza di Roma, come spiegheremo nei successivi paragrafi.
[104] Iovino C, Osservazioni sulla recente riforma
dell'ordinamento penitenziario, op.cit., pag.1267. Cfr anche Caselli G. C,
Ingroia A, Normativa premiale e strumenti
di protezione per i collaboratori di giustizia: tra inerzia legislativa e
soluzioni d'emergenza, in AA.VV., Processo
penale e criminalità organizzata, a cura di Grevi V, Bari 1993, pag. 217:
"Solo i collaboratori ammessi al programma speciale di protezione possono
usufruire dei benefici penitenziari previsti dall'art.13 ter del d.l. n°8/1991.
Tale limitazione introduce però un'ingiustificata sperequazione tra
collaboratore e collaboratore; poiché infatti la decisione di ammettere al
programma speciale viene assunta sulla base di un giudizio di idoneità delle misure di protezione più adeguate alla
tutela dell'incolumità del dichiarante, l'applicabilità delle misure
alternative alla detenzione finisce per derivare da una decisione (l'ammissione
al programma di protezione) fondata su criteri di valutazione del tutto
eterogenei rispetto a quelli normalmente in considerazione per la concessione
dei benefici penitenziari". Opinione analoga viene espressa da Bernasconi
A, Le immunità occulte, op.cit., pag.
198: " La decisione di ammettere il collaboratore al programma di
protezione costituisce una patente di affidabilità
del medesimo che il tribunale di sorveglianza deve tenere in debito conto; in
tal modo la discrezionalità dell'organo amministrativo si atteggia a
presupposto della decisione giurisdizionale".
[105] Questo è il giudizio del
Dottor Argan L, Magistrato di Sorveglianza presso il Tribunale di Roma,
nell'"intervista" rilasciatami in data 14 settembre 2001.
[106] Cfr. Foro Italiano 1996, parte I, pag. 481 e Giustizia Penale 1996, parte I, pag.99.
[107] Bernasconi A, Indissolubile il legame tra collaborazione
con la giustizia e benefici penitenziari, op.cit., pag.3576.
[108] Fiorio C, Sempre nuove questioni di diritto
penitenziario: la "collaborazione come presupposto per i
benefici",op.cit., pp.2507-2508.
[109] Cassazione Penale, Sezione
I, 13 febbraio 1997 in Cassazione penale 1997,
pag.3570, con commento di Bernasconi A, Indissolubile
il legame tra collaborazione con la giustizia e benefici penitenziari, op. cit.
.
[110] Bernasconi A, Indissolubile il collegamento tra
collaborazione con la giustizia e benefici penitenziari, op.cit., pp.3577-3578.
[111] Vd. nota 167 relativa al
paragrafo 3 del presente Capitolo, pag.111.
[112] Naturalmente si fa
riferimento alla competenza del tribunale di sorveglianza per la concessione
delle misure alternative alla detenzione, ed alla competenza del magistrato di
sorveglianza per la concessione dei permessi premio.
[113] Tale esperienza è stata
ricostruita in base all'intervista rilasciatami in data 14 settembre 2001 dal
dottor Argan L, Magistrato del Tribunale di Sorveglianza di Roma.
[114] L'art.13 ter del d.l. n°
8/1991 faceva solo riferimento alle "informazioni dal Pubblico Ministero
presso il giudice competente per i reati in ordine ai quali è stata prestata la
collaborazione" che dovevano essere acquisite dalla Commissione Centrale.
[115] Cfr. Alma M, Il verbale illustrativo dei contenuti della
collaborazione, in Diritto Penale e
Processo,n°5, 2001, pag. 571:
"Trattasi di un atto che non ha precedente regolamentazione nel sistema
processuale e i cui contenuti e modalità di formazione, sulla base del testo
normativo, appaiono a dir poco incerti".
[116] Per quanto riguarda il
contenuto, il predetto verbale deve contenere tutte le notizie in possesso del
dichiarante utili alla ricostruzione dei fatti e alle circostanze su cui il
soggetto è interrogato, nonché degli altri fatti di maggiore gravità e allarme
sociale di cui è a conoscenza, nonché le informazioni necessarie per
l'individuazione e la cattura dei loro autori e l'individuazione e il sequestro
del denaro, dei beni e di ogni altra utilità di cui dispone la persona che
rende le dichiarazioni. La struttura delle dichiarazioni è quindi duplice: il
collaborare deve dire tutto ciò che sa sulle circostanze sulle quali è
interrogato e inoltre fornire le informazioni sugli autori dei fatti di
maggiore gravità, per l'individuazione e la cattura degli stessi e dei beni di
chiara provenienza illecita. Inoltre il collaboratore deve attestare di non
essere in possesso di "notizie e informazioni processualmente utilizzabili
su altri fatti o situazioni non connessi o collegabili a quelli riferiti"
e riferire sugli eventuali colloqui investigativi subiti". Come rilevato
da Giordano P, Il verbale illustrativo a
garanzia del rapporto, in Guida al
Diritto, 24 marzo 2001, n°11, pag.56: "Il verbale illustrativo svolge
perciò anche una funzione documentativa sui rapporti istituzionali tenuti dal
collaboratore prima della cristallizzazione del suo apporto
conoscitivo".
[117] Giordano P, Il verbale illustrativo a garanzia del
rapporto, op.cit., pag.59.
[118] Affermare che si possono
concedere misure extramurarie in deroga alle disposizioni dell'ordinamento
penitenziario, potrebbe anche
significare rovesciare completamente l'intero sistema e concederle quindi in
deroga a ogni presupposto sia di natura sostanziale, sia di natura
personologica e quindi indipendenti da ogni valutazione legata al comportamento
del soggetto.
[119] Vd. paragrafo successivo
relativo alla tipologia delle misure alternative alla detenzione nei confronti
del collaboratore di giustizia.
[120] Il riferimento è alla
misura della detenzione domiciliare prima dell'introduzione del primo comma bis
dell'art.47 ter.
[121] Per ovvi motivi di
riservatezza in una materia molto "delicata", ogni ordinanza citata
in questo lavoro non farà menzione del nome del collaboratore di giustizia.
[122] Risulta evidente che più
rilevanti qualitativamente e quantitativamente siano le dichiarazioni del
collaboratore, maggiore sarà il rischio per l'incolumità propria e dei propri
familiari, anche perché in questi casi il ruolo del soggetto all'interno
dell'organizzazione criminale era di primissimo piano.
[123] Cass. Pen., sezione I, 12
aprile 1994. Sul caso in questione, la Corte aveva ritenuto viziata, ai sensi
dell'art.606 comma 1 lettera a) c.p.p., l'ordinanza del tribunale di
sorveglianza di Roma che aveva rigettato la richiesta di affidamento in prova
al servizio sociale nei confronti di un collaboratore di giustizia,
sull'assunto che la suddetta misura alternativa avrebbe potuto vanificare le
esigenze di riservatezza e di incolumità personale del richiedente, alla cui
salvaguardia il programma di protezione era finalizzato.
Il principio espresso dalla Suprema Corte è
stato ripetutamente affermato in altre sentenze: vd. Sez. I, 31/5/1995 n°2266;
5/12/1995 n°1820; 14/02/1997 n°995.
[124] Il riferimento è alla
sentenza della Cassazione Penale, Sezione I, 4 ottobre 1996, con cui tra
l'altro la Suprema Corte ha sconfessato una sua precedente pronuncia nella
quale aveva interloquito sulla stessa questione; il riferimento è alla Sezione
I, 25 febbraio 1994 n° 1347. Sul punto in questione, vd. Della Casa F, Estensibile all'entourage del collaboratore
la normativa premiale sull'illimitato accesso ai benefici penitenziari?, in
Cassazione Penale 1997, pagg.
3582-3590.
[125] Tale è il giudizio del
dottor Argan L, nell'intervista a me rilasciatami e già riportata
precedentemente.
[126] Cesaris L, Sulla valutazione del sicuro ravvedimento ai
fini della liberazione condizionale, in Riv.
It. Dir. e Proc. Pen. 1979, pag.294.
[127] Del Re M, La disciplina della liberazione condizionale
tra logica sanzionatoria e logica del trattamento, in Riv. It. Dir. e Proc. Pen. 1978, pag. 553.
[128] Cassazione Penale, I
Sezione, 15 ottobre 1976.
[129] Cassazione Penale, Sezione
I, 12 dicembre 1975, sentenza richiamata da Cesaris L, Sulla valutazione del sicuro ravvedimento ai fini della liberazione
condizionale, op.cit., pag.303.
[130] Barone G, Liberazione condizionale, in Digesto delle discipline penalistiche, Volume
VII, pag. 415.
[131] Padovani T, La soave inquisizione, in Riv. It. Dir. e Proc. Pen. 1981,
pp.532-537: "Mentre al ladro che sta eseguendo un furto si prospetta
semplicemente l'opportunità di non sottrarre la cosa, o di non impossessarsene,
al terrorista si chiede di rinunciare a essere tale".
[132] Flora G, La liberazione condizionale: quale futuro? in
Indice Penale, 1989, pag.356.
[133] Secondo il giudizio del
dottor Argan L, " quale è il dato storico che ci possa dire di più che il
soggetto ha interrotto i collegamenti con l'ambiente criminale di appartenenza,
se non quello collaborativo? Risulta evidente che richiedere una indagine di
questo tipo nel momento stesso in cui il soggetto stesso collabora, rappresenta
un dato ovvio.
[134] Attraverso la legge 45/2001
si rileva un abbandono della probatio
diabolica, la prova negativa della "acquisizione di elementi tali da
fare escludere l'attualità dei collegamenti con la criminalità
organizzata".
[135] In questi termini si
esprime la Relazione al Disegno di legge n°2207, successivamente convertito
nella legge 45/2001.
[136] Giordano P, Profili premiali della risposta punitiva
dell Stato, Relazione all'incontro di studi sul tema "Funzione ed
effettività della pena" organizzato dal C.S.M. a Frascati dal 13 al 15
giugno 1996, in Cass. Penale, 1997,
pag. 923.
[137] L'assemblea senatoria ha
modificato il testo originario della legge in oggetto su un punto importante:
il d.d.l originario n°2207 prevedeva infatti come i provvedimenti derogatori dei limiti di pena potessero
essere concessi dopo l'espiazione del periodo di pena quantificato
precedentemente, qualora non ricorressero "situazioni specifiche ed
eccezionali". La formulazione di questa "clausola in bianco"
avrebbe comportato il rischio di mantenere nell'ordinamento una forma di
"immunità" per il collaboratore di giustizia, oltre a vanificare
tutte le innovazioni della nuova legge. Sul punto, vd. Bernasconi A, Nei nuovi limiti ai benefici penitenziari
non c'è svolta contro le distorsioni, op.cit., pag.129.
[138] Nonostante che, come
rilevato precedentemente, la legge 45/2001 abbia eliminato la
"discriminante" della sottoposizione allo speciale programma di
protezione per la concessione dei benefici penitenziari, l'analisi condotta in
tale paragrafo riguarderà la categoria dei collaboratori sottoposti ad esso,
anche perché il nuovo provvedimento normativo "nasce" per porre
rimedi a dei fenomeni degenerativi che si erano sviluppati all'interno di tale
categoria.
[139] Delehaye E, Collaboratori di giustizia e misure
alternative alla detenzione: problemi applicativi e uniformità interpretative,
op.cit., pagg. 742-743.
[140] Con ordinanza emessa in
data 12 giugno 2001 n° 3723/2001 il Tribunale di Sorveglianza di Roma ha
rigettato la domanda di affidamento in prova al servizio sociale e confermato
l'istanza di detenzione domiciliare nei confronti di un collaboratore di
giustizia condannato a una pena residua ancora da scontare di circa due anni di
reclusione. Il Tribunale osservava come" il collaboratore ha
spontaneamente intrapreso la strada dell'affrancazione da logiche ed ambienti
criminali, dimostrando affidabilità e disponibilità, come risulta dal parere
emesso in data 5 marzo 2001 dalla Procura Distrettuale Antimafia presso il
Tribunale di Bari… Il comportamento tenuto è stato sostanzialmente regolare,
salvo un episodio risalente al gennaio del 1999, quando il soggetto è stato
protagonista di un episodio di intolleranza nei riguardi di un operatore
penitenziario, riportando un'ammonizione….. Occorre quindi confermare nei suoi
confronti l'applicazione della detenzione domiciliare e rigettare la domanda di
affidamento in prova, allo scopo di convalidare nel tempo la sua affidabilità in regime esterno e proseguire quindi la strada
del reinserimento nel tessuto sociale in ambienti lontani da quelli nei quali
ha consumato i reati per cui ha subito condanne definitive".
Con ordinanza emessa in data 6 giugno 2001 n°
3597/2001, il Tribunale di Sorveglianza di Roma ha rigettato la domanda di
affidamento in prova nei confronti di un collaboratore di giustizia condanno a
pena detentiva di undici anni e sette mesi di reclusione. Nonostante il
rilevantissimo apporto collaborativo fornito e confermato dalla Procura della
Repubblica presso il Tribunale di Catania con nota inviata al Tribunale di
Sorveglianza in data 21 febbraio 2001 (il collaboratore ha fornito nuovissimi
elementi di conoscenza su trenta omicidi avvenuti nell'ambito di una faida
mafiosa nella provincia di Siracusa), "in considerazione delle numerose
condanne e delle pendenze giudiziarie anche per plurimi omicidi, si ritiene la
misura dell'affidamento in prova misura troppo
ampia in relazione alle finalità proprie dell'istituto di reinserimento
sociale e di prevenzione speciale".
[141] L'esperienza applicativa
del Tribunale di Sorveglianza di Roma testimonia infatti come la misura della
detenzione domiciliare è stata quella più largamente concessa nei confronti dei
collaboratori, mentre l'affidamento in prova è stato ammesso in pochissimi
casi.
[142] Bisogna ricordare come la
detenzione domiciliare, prima dell'introduzione del comma 1 bis dell'art.47 ter
ord. penit., veniva concessa in deroga anche ai presupposti sostanziali, in
quanto la previsione che tale misura potesse essere concessa anche quando un
soggetto avesse raggiunto un grado di affidabilità esterna compatibile con la
struttura di tale beneficio, non era prevista dall'originario art. 47 ter.
[143] Con ordinanza del 13 giugno
2001, n°3079/2001, il Tribunale di Sorveglianza di Roma ha rigettato la domanda
di detenzione domiciliare presentata da un collaboratore di giustizia
condannato a trent'anni di reclusione. L'organo giudiziario rilevava infatti come"
non risulta possibile formulare, allo stato, una prognosi favorevole circa
l'idoneità del condannato ad essere ammesso ad una misura alternativa alla
detenzione; a questa conclusione il Collegio è pervenuto tenendo conto della
gravità dei reati commessi e perché non è stato ancora portato a conclusione un
approfondito processo di revisione critica rispetto alle pregresse scelte
devianti. Inoltre il collaboratore a tutt'oggi non ha fruito di permessi premio
cosicché non è stato ancora possibile sperimentarne l'affidabilità esterna
attraverso tale importantissimo strumento trattamentale, tenuto anche conto del
principio di gradualità nell'ammissione ai benefici penitenziari. Risulta
necessario pertanto far proseguire l'osservazione per un ulteriore e congruo
periodo per poter valutare i progressi trattamentali compiuti dal condannato e
la sua cessata pericolosità sociale".
In senso positivo, invece l'ordinanza
n°3856/2001 emessa in data 6 giugno 2001,
con cui il Tribunale di Sorveglianza di Roma ha preferito accogliere
l'istanza di detenzione domiciliare rispetto a quella di affidamento in prova,
nei confronti di un collaboratore di giustizia con pena residua da scontare di
un anno di reclusione. Tenuto conto dei progressi trattamentali del soggetto e
delle positive informazioni del Servizio Centrale di Protezione, "è
possibile formulare un positivo giudizio sulla evoluzione della personalità del
richiedente tale da fare ritenere avviato un processo di revisione critica del
passato e di abbandono dei disvalori che sono stati all'origine dei crimini
commessi. Pertanto, considerata anche l'entità della pena ancora da espiare, si
reputa la detenzione domiciliare misura idonea, nel caso di specie, ad evitare
che il collaboratore ponga in essere altri reati o fugga".
[144] Barone G, Liberazione Condizionale, op.cit., pag.
414.
[145] Vd. retro, pag.129.
[146] Flora G, La Liberazione condizionale: quale futuro?,
op.cit., pag. 356.
[147] Marini L, Un nodo cruciale e trascurato: "la
gestione dei pentiti", op.cit., pp.705-706.
[148] Questa è la finalità
espressa nella Relazione al d.d.l. n°2207.
[149] Il referente temporale
della redazione del verbale illustrativo dei contenuti della collaborazione è
dettato dalla considerazione che la composizione di tale atto
"cristallizza" definitivamente le dichiarazioni del collaboratore,
poiché eventuali nuove rivelazioni rese dopo tale termine non potranno essere
valutate a fini probatori contro le persone diverse dal dichiarante, salvo i
casi di irreperibilità, come stabilito dall'art.16 quater comma 9.
[150] Intervento del Senatore
Cirami alla 810a seduta del Senato della Repubblica in data 28 marzo
2000.
[151] Va rilevato come una
proposta emendativa respinta dall'Assemblea Senatoria, era addirittura
finalizzata ad abrogare l'istituto dei colloqui investigativi. Il riferimento è
all'emendamento proposto dai Senatori Cirami, Centaro, Pera, Scopelliti e
Greco.
[152] Questa è l'espressione e
l'analisi effettuata dal Relatore al d.d.l. n°2207, Senatore Luigi Follieri,
alla 812a seduta dell'Assemblea Senatoria in data 29 marzo 2000.
[153] Vd. retro, capitolo II, pag.80.
[154] Spataro A, Per i collaboratori di giustizia legge
scoraggia collaborazioni, op.cit., pag.79 e Maddalena M, Sulle misure di protezione Commissione
arbitro unico, op.cit., pag.54.
[155] Lo stesso Spataro A, op.cit., pag.54, sottolinea come sarebbe
forse stato meglio prevedere la possibilità di colloqui con i familiari, salvo
il potere di vietarli per specifiche ragioni di sospetto.
[156] Cirignotta S, Il trattamento penitenziario e la custodia
in istituti o sezioni "separati", relazione tenuta durante
l'incontro di studio sul tema "I collaboratori di giustizia"
organizzato dal Consiglio Superiore della Magistratura a Frascati dal 23 al 25
febbraio 1995, inedito.
[157] Il primo circuito
penitenziario delineato riguardava infatti i soggetti nei cui confronti era
stata formulata la proposta di ammissione allo speciale programma di
protezione, o per i quali fosse già stato definito; il secondo riguardava i
soggetti che avevano già reso le dichiarazioni preliminari alla collaborazione,
sempre che fosse stata proposta l'ammissione al programma di protezione; il
terzo riguardava i soggetti nei cui confronti il Procuratore della Repubblica
si apprestava a raccogliere il verbale delle dichiarazioni preliminari alla collaborazione.
[158] Laudi M, Commento all'articolo 7 del D.M. 24/11/1994,
in Legislazione Penale 1995, pag.
198.
[159] La Relazione al d.d.l.
n°2207 specifica come le disposizioni
del provvedimento tende a "recuperare e amplificare le previsioni sui
circuiti carcerari differenziati indicati nel decreto interministeriale
n°687/1994", attraverso la possibilità per il collaboratore "di
essere custodito secondo modalità meno rigorose dell'ordinario da
definirsi col decreto ministeriale
previsto dal nuovo art. 17 bis comma 2".
[160] Il riferimento è relativo
al periodo di pena che obbligatoriamente ogni collaboratore di giustizia dovrà
espiare per essere ammesso ai benefici penitenziari.
[161] La disposizione citata
prevedeva infatti la possibilità che, per gravi ed urgenti motivi di sicurezza,
il Procuratore della Repubblica potesse autorizzare la Polizia Giudiziaria a
custodire le persone arrestate, fermate o sottoposte alla custodia cautelare,
in locali diversi dal carcere per il tempo necessario alla definizione del programma
di protezione.
[162] Tale disposizione
consentiva che, per gravi e urgenti motivi di sicurezza, il Procuratore
Generale della Repubblica presso la Corte d'Appello nel cui distretto si
trovava l'istituto penitenziario potesse autorizzare, su richiesta del Capo
della Polizia, che le persone detenute per espiazione della pena o internate
per l'esecuzione di una misura di sicurezza fossero custoditi in luoghi diversi
dal carcere per il tempo necessario alla definizione del programma di
protezione.
[163] Vd. Foro Italiano 1998, pp. 2731-2735.
[164] La Corte Costituzionale
conclude infatti come "l'innovazione legislativa che vieta la concessione
di misure alternative alla detenzione finisce quindi per atteggiarsi alla
stregua di un meccanismo a connotazioni sostanzialmente ablative, riproducendo
così quei caratteri di revoca non fondata sulla condotta colpevole del
condannato che questa Corte ha già censurato".
[165] L'interpretazione uniforme
del Tribunale di Sorveglianza è espresso, a titolo esemplificativo, dalla
ordinanza n°3862/2001 emessa in data 12 giugno 2001.
[166] Galgani B, Riflessioni sul regime intertemporale nella
disciplina dell'esecuzione: legge Simeone e ordini di carcerazione, in Cassazione Penale, 2000, pag.114.
[167] La Consulta rilevava però
come ciò non significasse che "la revoca di una misura che ha comportato
una sostanziale modificazione nel grado di privazione della libertà possa
considerarsi fenomeno privo di rilievo sotto il profilo costituzionale".
La stessa Corte ha più volte riconosciuto, anche in materie non soggette al
principio di irretroattività quale quella dei diritti patrimoniali, che
"la vanificazione con legge successiva di un diritto positivamente
riconosciuto da una legge precedente non può sottrarsi al necessario scrutinio
di ragionevolezza".
[168] Galgani B, Riflessioni sul regime intertemporale nella
disciplina dell'esecuzione: legge Simeone e ordini di carcerazione, op.cit., pag.116.La
stessa autrice sottolinea però l'opportunità di prospettare una sorta di
complementarietà tra il parametro della rieducazione ex art.27 comma 3 Cost. e
il principio di non regressione imposto dall'art.25 comma 2 Cost., come canone
idoneo ad impedire eventuali e disparitari trattamenti peggiorativi del
condannato.
[169] Alfonso R, Collaboratori di giustizia: rompicapo in
Procura sui soggetti a cui applicare il regime transitorio, in Guida al Diritto, n°23, 16 giugno 2001,
pag.10.
[170] Secondo Alfonso R, Sorte dubbia per chi ha già riferito ai
magistrati, in Guida al Diritto, n°11,
24 marzo 2001, pp.71-72, bisogna distinguere tra il soggetto che abbia
definitivamente completato la sua collaborazione, e quello che debba rendere
dichiarazioni su fatti da lui conosciuti: nel primo caso, si dovrà applicare la
disciplina precedente, considerato come il procedimento di ammissione del
collaboratore al programma di protezione si è concluso ed è rimasta accertata
l'esistenza di tutte le condizioni previste dalla precedente disciplina. Né può
seriamente immaginarsi che i pubblici ministeri vadano a risentire, entro 180 giorni
dall'entrata in vigore della legge 45/2001, diverse centinaia di collaboratori
per redigere il verbale illustrativo dei contenuti della collaborazione, già da
anni esauritasi.
Il secondo caso può assimilarsi invece a
quello previsto dall'art.16 quater comma 7, laddove è stabilito che le speciali
misure di protezione, se già concesse, debbano essere revocate, qualora entro
il termine di 180 giorni, la persona cui esse si riferiscono non renda le
dichiarazioni previste nei commi 1, 2 e 4 del medesimo articolo, e queste non
siano documentate nel verbale illustrativo dei contenuti della
collaborazione.
[171] Alfonso R, Collaboratori di giustizia: rompicapo in
Procura sui soggetti a cui applicare il regime transitorio, op.cit., pag.11.
[172] Il riferimento è alla
Relazione effettuata dal Consigliere Gioacchino Natoli alla Decima Commissione
del Consiglio Superiore della Magistratura, Problematiche
concernenti il sistema di protezione dei collaboratori di giustizia, di cui
un estratto è pubblicato su Diritto e
Giustizia,n°31, 15 settembre 2001, pp. 10-22.
[173] La considerazione è sempre
espressa dal Consigliere Gioacchino Natoli, op.cit.,
pag.21.
[174] Sezione I, 11 marzo 1999,
n°2067, con cui la Corte di Cassazione aveva annullato l'ordinanza emessa dal
Tribunale di Sorveglianza di Bologna, che aveva revocato la misura della
detenzione domiciliare nei confronti di un collaboratore di giustizia, al quale
era stato revocato il programma speciale di protezione anche se non per fatto
colpevole del soggetto.
[175] Bernasconi A, Le immunità occulte, op.cit., pag.199,
rileva come in passato l'offerta di collaborazione con gli apparati
investigativi abbia superato la "domanda", generando perciò una crisi
sul versante dell'economia delle risorse.
[176] Tali considerazioni sono
sempre svolte dal Consigliere Gioacchino Natoli, op.cit., pag.13.
[177] Il riferimento è
all'intervento dell'Onorevole Elio Veltri alla prima seduta della Commissione Giustizia della Camera dei
Deputati, in data 25 maggio 2000.