1Le politiche
e i numeri
3Chi vive dentro
© Associazione Antigone 2017 — Via Monti di Pietralata 16, 00157 Roma — +39 06.4511304 — segreteria@associazioneantigone.it
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LGBT
Recluse tra i reclusi, protette tra i protetti, è ancora questa la realtà?
Elia De Caro
Pur iniziando a formarsi una produzione scientifica sul fenomeno delle persone trans detenute e una maggiore attenzione da parte dei media tale realtà continua a essere trattata quasi come un fenomeno clandestino. Anche lo stesso Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria non ha ancora individuato delle soluzioni univoche alle varie problematiche emerse negli anni, continuando a ondeggiare tra la scelta di diversi sistemi di allocazione che vanno dai reparti dedicati, a volte presso istituti femminili, altre maschili, fino alla collocazione presso le sezioni precauzionali.
Le soluzioni finora individuate hanno tutte dato luogo a distinte e notevoli problematiche, verificandosi quasi sempre una forte difficoltà a far accedere le persone transessuali ai percorsi trattamentali, alle attività di istituto e senza la predisposizione di un adeguato servizio sanitario in relazione alla specificità dei loro bisogni di salute. Alle problematiche comuni alla maggior parte dei detenuti si aggiungono infatti delle criticità dovute al mancato riconoscimento da parte dello stato italiano della transizione in essere da un genere ad un altro. Inoltre, un aspetto rilevante da tenere in considerazione è quello psicologico: spesso il disagio che accompagna lo stato di detenzione delle persone transessuali si manifesta in comportamenti autolesivi che fanno temere per la stessa sopravvivenza della persona. In aggiunta si tende erroneamente a sottovalutare la depressione dovuta all’isolamento che si protrae nel tempo1.
L’Amministrazione penitenziaria ha in questi anni tentato di affrontare tale questione, creando nelle carceri di Belluno, Roma, Napoli e Rimini, delle sezioni dedicate all’interno degli istituti maschili mentre a Firenze vi è una sezione collocata in uno spazio adiacente la sezione femminile, permettendo in questo modo una condivisione totale delle attività e degli spazi collettivi con le donne recluse e garantendo una vigilanza assegnata prevalentemente al personale penitenziario femminile. Nelle altre carceri, invece, le persone transessuali e transgender vengono inserite nei reparti precauzionali insieme ai sex offenders, ai collaboratori di giustizia e agli ex appartenenti alle Forze dell’ordine.
Le attività ricreative e trattamentali delle persone trans all’interno della struttura penitenziaria restano rigidamente separate da quelle degli altri detenuti. Parimenti il regime di separazione crea ostacoli nell'accesso al lavoro.
Tutte le modalità di detenzione oggi applicate risultano inevitabilmente discriminatorie se si considerano gli spazi di movimento, le ore d’aria concesse, l’accesso alla scolarizzazione, alla formazione, alle attività lavorativa, alle attività sportive, etc. Difficile appare anche l’opportunità di poter disporre a livello nazionale di medici specializzati nel settore (ad esempio nel campo dell’endocrinologia) assegnati all’ambito penitenziario dal Servizio Sanitario Nazionale, a cui spetta la tutela della salute in carcere.
Maggiormente negativa risulta essere l’opportunità di accesso a misure e pene alternative alla detenzione: per la maggior parte delle persone transessuali e transgender detenute l’assenza di un tessuto familiare e sociale all’esterno riduce ulteriormente le già scarse possibilità di trovare un’occupazione o comunque una collocazione presso strutture idonee (richiesta per legge). Rare anche le disponibilità nelle case di accoglienza per detenuti e nelle comunità terapeutiche, necessarie per percorsi riabilitativi alternativi alla detenzione.
A partire dal 2000, alcune direzioni di istituti in collaborazione con associazioni quali il MIT (Movimento Identità Transessuale) di Bologna e Libellula di Roma, hanno organizzato incontri e seminari indirizzati alla formazione del personale. Nel 2010, sempre in Toscana, fu avanzata un'ulteriore proposta sperimentale: in essa si prevedeva di riunire le persone transessuali e transgender detenute sul territorio nazionale ed Empoli, nell’Istituto di Pozzale – un piccolo carcere a bassa soglia, accogliente e con ampi spazi aperti – che aveva precedentemente ospitato un progetto dedicato alle donne tossicodipendenti. Gli Enti locali si opposero e il Ministero della Giustizia negò l’autorizzazione all’apertura di tale sperimentazione con la motivazione che nel mondo penitenziario non poteva essere ammissibile il riconoscimento di una identità “altra”. Successivamente, a partire dal 2013, il Dap ha posto in essere delle prime iniziative di sensibilizzazione sul tema tra cui una ricerca2 nella quale si legge che: “Sotto i profili securitari, oltre che trattamentali, la vita detentiva assume colori diversi per un ristretto omosessuale rispetto ad un ristretto eterosessuale e, ancor di più, rispetto ad uno transessuale. In tutti questi casi, ben diverse sono le problematiche relativamente alla “conoscenza” del recluso, alla sua interazione con gli altri ristretti, agli aspetti allocativi, gestionali, trattamentali o sanitari, ad esempio. Nel carcere, in questo luogo "senza tempo", vanno declinate l'affettività e la sessualità. Comprendere, qualificare e gestire, per noi operatori, queste due dimensioni è pregnante quanto delicato: la nostra Carta costituente, a chiare lettere, disegna un carcere la cui cifra tenda alla rieducazione e le cui pene non consistano in trattamenti disumani”.
Al momento, secondo gli ultimi dati forniti dal DAP, il Dipartimento Amministrazione Penitenziaria, risalenti al 2015, le persone transessuali recluse in Italia sono circa 40 mentre nel 2013 erano 69, sparse in 10 diverse strutture. Le associazioni LGBT, però, denunciano che il numero è sicuramente maggiore, dato che la cifra diffusa non tiene conto dei travestiti o di coloro che hanno già fatto l’operazione per il cambio di sesso e sono stati destinati ai reparti femminili.3
Sempre dal 2010 è aumentata l'attenzione del DAP al fenomeno ed è stato istituito il gruppo di lavoro PEA n.19 a cui successivamente è seguito nel 2015 il progetto sportello diritti tenuto da MIT, Ora d'aria, Libellula e Consultorio transgenere in collaborazione con Osservatorio ONIG e istituto di ricerca Metafora, progetto che ha svolto attività di sportello e ascolto negli istituti di Milano S. Vittore, di Firenze Sollicciano, Napoli Poggioreale, Belluno oltre al reparto G8 di Rebibbia. Oltre alle attività di sportello con le persone detenute trans sono stati organizzati seminari di formazione col personale sanitario e penitenziario.
“In realtà da quanto emerso dalla nostra attività di sportello, le problematiche sono molteplici e urgenti: un’attesa lunga fino ad un anno per la prescrizione di terapie ormonali, esclusione dalle attività culturali e sportive e ricreative, difficoltà a relazionarsi col mondo esterno”.4 Per quanto attiene alla quotidianità detentiva emerge che le persone transessuali e transgender trascorrano gran parte del loro tempo all’interno della propria sezione, non potendo accedere con la stessa frequenza alle suddette attività. Ciò in quanto il regime di separatezza fa sì che le ore d’aria siano concesse in momenti differenti rispetto agli orari degli altri detenuti, per un tempo in molti casi nettamente inferiore e con forti limitazioni nella fruizione degli spazi pubblici, a causa del principio di “non promiscuità” applicato dagli agenti su ordine del Ministero5.
Altro aspetto delicato è dato dalla circostanza che non tutte le Asl riconoscono le terapie ormonali – in molti casi necessarie – tra i L.E.A. (i livelli essenziali di assistenza per i quali il costo dei farmaci/ormoni viene garantito dalle Asl), ragione per cui in alcune strutture è consentita la somministrazione di ormoni solo se la spesa è sostenuta direttamente dalla persona interessata6. In alcune Regioni (tra cui Toscana, Emilia-Romagna, Lazio) sono stati sottoscritti dei protocolli d’intesa fra Provveditorati regionali dell’Amministrazione penitenziaria, gli Enti locali e gli Uffici dei Garanti dei diritti delle persone private della libertà con l’obiettivo di migliorare le condizioni detentive e garantire il diritto alla salute nelle sezioni transessuali.
Nel 2016 il DAP ha istituito un tavolo di lavoro con le Associazioni sopra menzionate e si è tenuto un incontro a Rebibbia presso il reparto G8 a cui hanno partecipato funzionari del Ministero della Giustizia e del DAP. In tale occasione si sono evidenziati alcuni dei risultati raggiunti con lo sportello diritti-trans ed enucleate alcune delle maggiori difficoltà riscontrate da questo tipo di detenuti, mostrando come sia possibile superarle individuando i tratti comuni presenti nei diversi istituti. Si sono evidenziate le difficoltà di reinserimento lavorativo, di costruzione di percorsi di risocializzazione/riabilitazione, di tutela della salute, di costruzione e gestione dei rapporti con i servizi territoriali. Sono emerse le proposte di istituire sezioni dedicate alle persone trans detenute da distribuirsi sul territorio nazionale pensando a tre istituti siti rispettivamente nel nord Italia, nel centro Italia e al sud. Relativamente a tale percorso l’Associazione Antigone ritiene importante effettuare un lavoro di screening delle legislazioni regionali al fine di individuare quelle regioni che diano la maggiore copertura sanitaria alle esigenze delle persone transessuali ovvero che prevedano l’inserimento delle terapie ormonali, del supporto psicologico nella fase della transizione e delle visite specialistiche endocrinologiche tra i LEA, o che prevedano che tali cure vengano fornite in regime di esenzione alle persone detenute. Oltre alla sussistenza di avanzate legislazioni regionali l’individuazione degli ambiti territoriali dovrà anche tener conto della presenza o meno nei territori interessati di associazioni che tutelino i diritti di delle persone trans detenuti e che possano collaborare con l’amministrazione penitenziaria al fine di individuare percorsi di riabilitazione e di reinserimento lavorativo. Appaiono pregevoli alcune delle prime soluzioni proposte dal Dap di attenuare in alcuni casi la separazione di tale categoria di detenuti da altre potendosi prevedere momenti in cui si fruisca congiuntamente di attività trattamentali, lavorative o di altro genere, riducendo i momenti di separazione dal resto della popolazione carceraria solo per il pernottamento, consentendo così maggiori possibilità di integrazione.
Tali proposte però, ad oggi, non sono state realizzate e la situazione delle persone transessuali detenute continua a essere drammatica, queste persone rischiano un ulteriore condanna dentro la condanna: all’isolamento, alla perdita di contatto relazionale non solo col mondo esterno ma anche con quello costituito dagli altri detenuti. Se fuori dal carcere queste persone vivono una condizione difficile, la loro vita all’interno di un penitenziario diventa pressoché impossibile: diventa una lotta per la sopravvivenza. Un dato su tutti dovrebbe allarmare e far riflettere: ogni anno nelle carceri italiane una persona transessuale su quattro si suicida o commette atti di autolesionismo7 Anche per i detenuti gay si segnalano esperimenti di sezioni separate a Gorizia e Napoli Poggioreale (sezione Salerno) soluzione che ha dato adito a diverse critiche: “Creare nei penitenziari sezioni apposite per i gay, per tutelarli da eventuali aggressioni omofobe può significare escluderli dai percorsi trattamentali, negando loro diritti riconosciuti agli altri detenuti,” ha spiegato Mauro Palma, Garante nazionale per le persone private della libertà. “Sebbene l’obiettivo sia tenerli al riparo da omofobia e violenze - ha spiegato il Garante - in questo modo i detenuti vengono però esclusi dalle attività di rieducazione e dalla vita detentiva quotidiana, creando di fatto una situazione di isolamento ingiustificata, quando invece la protezione da garantire agli omosessuali detenuti che la richiedono espressamente non deve minimamente diminuire la loro partecipazione alla vita detentiva quotidiana e ai percorsi trattamentali”.8 “È come fossero al 41bis,” ha specificato Susanna Marietti, coordinatrice nazionale di Antigone9. Se da un lato tale misura d’emergenza, in mancanza di soluzioni alternative, appare tutelare persone in grave difficoltà, va osservato che spesso tale collocazione porta i detenuti a scontare la pena in condizioni più dure di quelle ordinarie. Nel caso di Gorizia, per esempio, a causa della carenza cronica di personale, ai detenuti dell’area riservata a detenuti gay verrebbe negata la possibilità di partecipare alle attività di rieducazione. Altre volte, addirittura, i detenuti omosessuali sono costretti a rimanere in celle di isolamento giorno e notte. Nel corso del 2016 ho condotto personalmente una visita alla casa circondariale di Rimini dove è sita una sezione apposita ove erano detenute due persone per le quali non è prevista alcuna attività trattamentale tranne quella di pilates, condotta da una volontaria ogni due settimane. Le due detenute sono isolate da tutti gli altri detenuti e non partecipano ad alcun percorso rieducativo, gli è inibito il lavoro e la scuola e vi sono limitazioni anche per ricevere i trucchi in cella, sebbene vivano in tale regime di separazione. Mi ha molto colpito la frase di una delle detenute : “Io sono qui per scontare una pena, non per ricordarmi ogni giorno che prima ero un uomo” affermazione che ci fa interrogare profondamente sul senso della pena e del reinserimento sociale negato a queste persone.
© Maggio 2017