1Le politiche
e i numeri
3Chi vive dentro
© Associazione Antigone 2017 — Via Monti di Pietralata 16, 00157 Roma — +39 06.4511304 — segreteria@associazioneantigone.it
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Diritto al lavoro
Il lavoro per i detenuti è un obbligo, un diritto o un privilegio? Ed in che misura si tratta di “vero” lavoro?
Simona Materia
Il lavoro in carcere dovrebbe avere la funzione di promuovere la reintegrazione sociale. Il ruolo fondamentale del lavoro, sancito dall’art.1 della Costituzione italiana, viene ribadito, con riferimento ai detenuti, dall’art.27 comma 3, dove si prevede come finalità della pena quella di attuare la rieducazione del condannato, in vista del suo rientro nella società. Tra gli strumenti attraverso i quali viene perseguito questo obiettivo figura anche il lavoro, che dà modo ai detenuti di allargare le proprie competenze professionali, così da avere più chances di inserirsi nel mondo del lavoro una volta liberi, limitando il rischio di recidiva. L’apporto fondamentale del lavoro nella vita dell’individuo recluso ha trovato ulteriore specificazione nella Legge 354/1975 sull’ordinamento penitenziario, che parla di diritto-dovere al lavoro retribuito e privo di carattere afflittivo (art. 20 comma 2), da garantire al maggior numero di detenuti con condanna definitiva (art. 20 comma 3), con modalità di svolgimento il più possibile analoghe a quelle utilizzate all’esterno del carcere (art. 20 comma 5), in modo da renderlo realmente funzionale al reinserimento.
La legge sull’ordinamento penitenziario fissa, inoltre, criteri operativi funzionali alla distribuzione tra i detenuti dei posti di lavoro retribuito disponibili negli istituti: attraverso la creazione di graduatorie (art. 20 commi 6 e 8) sulla base dell’anzianità di disoccupazione maturata durante la detenzione, dei carichi familiari, delle esperienze pregresse e delle professionalità dei detenuti.
il detenuto ha modo
di provvedere
al sostentamento proprio e della famiglia
Attraverso l’attività lavorativa retribuita il detenuto ha modo di provvedere al sostentamento proprio e della famiglia, di acquisire competenze e di aumentare la fiducia nelle proprie capacità, obiettivi importanti che dovrebbero aiutarlo a cambiare stile di vita dopo la detenzione.
Osservando i dati ministeriali, cercheremo di capire se concretamente il lavoro in carcere rispecchia quanto disposto dal legislatore.
Quanti detenuti lavorano nelle carceri italiane? Una serie storica (1991-2016) del Ministero di Grazia e Giustizia mostra che negli ultimi 25 anni i detenuti lavoranti sono scesi dal 34,46% del 1991 al 29,73% nel 2016.
detenuti lavoranti
54.653
presenti
16.251
lavoranti (29,7%)
31 Dicembre
2016
detenuti presenti
‘91
‘94
‘07
‘12
70000
66.528
60000
50000
54.616
40000
39.005
30000
31.053
20000
10000
10.700
11.491
12.021
13.278
0
‘91
‘92
‘93
‘94
‘95
‘96
‘97
‘98
‘99
‘00
‘01
‘02
‘03
‘04
‘05
‘06
‘07
‘08
‘09
‘10
‘11
‘12
‘13
‘14
‘15
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detenuti lavoranti
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presenti
16.251
lavoranti (29,7%)
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detenuti presenti
‘91
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‘07
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66.528
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54.616
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detenuti lavoranti
detenuti presenti
31 Dicembre 2016
16.251
lavoranti (29,7%)
54.653
presenti
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31.053
13.278
11.491
10.700
12.021
Fonte: DAP
Scarica i dati
Questa diminuzione della percentuale di detenuti lavoranti è stata accompagnata da un incremento del numero dei detenuti, che da 31.053 del 1991 sono arrivati a 54.653 nel 2016, per cui i posti di lavoro in carcere non sono aumentati in modo proporzionale, determinando un calo di posizioni lavorative retribuite. A partire dalla rilevazione del 1992, secondo la quale i detenuti lavoranti erano il 23.28% della popolazione penitenziaria, la percentuale di detenuti lavoranti è stabilmente scesa al di sotto del 30%. Negli anni a seguire, questa soglia è stata raggiunta nuovamente solo nel 2006, in concomitanza della diminuzione della popolazione detenuta determinata dall’indulto, anno in cui i posti di lavoro sono stati spartiti tra 39.005 detenuti, decisamente meno degli anni precedenti, e i lavoranti sono stati il 30.82%.
La percentuale più bassa di detenuti lavoranti (19.96%) è stata invece quella del 2012, anno caratterizzato da un elevato sovraffollamento (66.528 detenuti). Le opportunità lavorative in carcere non vengono incrementate per far fronte ad aumenti della popolazione detenuta, per cui il diritto a lavorare in carcere diventa un privilegio per pochi in periodi di sovraffollamento.
Secondo le statistiche ufficiali nel 2016 i detenuti lavoranti sono stati 16.251, tra i quali 15.370 uomini e 881 donne. In percentuale, rispetto alle presenze in carcere, risulta, però, che le donne lavoranti (38,56%) sono più degli uomini (29,35%). Tra gli stranieri, invece, lavora il 28,84%.
Valore % sul totale dei detenuti per genere al 31.12.2016
29,3
38,6
%
%
Uomini
Donne
15.370
881
29,3
38,6
%
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Uomini
Donne
15.370
881
29,3
%
Uomini
15.370
38,6
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Donne
881
Fonte: DAP
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Ma se consideriamo la distribuzione dei lavoranti negli istituti di pena per Regione, emerge una non equilibrata distribuzione delle possibilità di lavorare tra le carceri nazionali, con una percentuale che oscilla tra un massimo del 45% di lavoranti nelle carceri sarde e un minimo del 21,5% in Friuli Venezia Giulia. Le Regioni in cui vi sono più detenuti lavoranti sono la Lombardia (2687) e la Sicilia (1742). In Lazio i detenuti lavoranti sono 1340, ma costituiscono solo il 21,94% dei presenti.
i detenuti lavorano frequentemente a “rotazione”, nel rispetto delle graduatorie
Per ovviare alla carenza di opportunità lavorative, negli istituti i detenuti lavorano frequentemente a “rotazione”, per cui per una stessa mansione si alternano più persone, ciascuna delle quali lavora per un periodo di tempo abbastanza breve, con un part-time verticale, nel rispetto delle graduatorie. Va quindi tenuto conto il fatto che le percentuali delle statistiche sui detenuti lavoranti spesso non fanno riferimento a lavori full-time ma indicano il numero di detenuti che hanno avuto modo di lavorare durante l’anno, indipendentemente dal monte ore e dalla durata del contratto di lavoro.
Alcuni detenuti1 (13.480, tra cui 733 donne) lavorano alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria. Tra questi troviamo chi svolge servizi d’istituto (10.900) o servizi extramurari in art.21 (700), chi cura la manutenzione ordinaria del fabbricato, in gruppi misti con agenti specializzati, detti M.O.F. (1.027), e chi invece è impiegato nelle lavorazioni (568) e in colonie agricole (285). Tra i detenuti alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria, la concentrazione più elevata si riscontra in Lombardia (1.989) e in Campania (1.514).
Tra le figure lavorative troviamo quelle di manutentore, addetto alla refezione (cuochi e portavitto), barbiere, addetto alla lavanderia. Per lo svolgimento di alcune attività è necessario che i detenuti abbiano particolari competenze, o, perlomeno che siano alfabetizzati, come nel caso dei lavoranti dell’ufficio conti correnti, del sopravvitto, e i bibliotecari.
Questi lavori, in generale assai poco qualificati, difficilmente conferiscono competenze spendibili nel mondo del lavoro. Ad esempio, lavorare come cuoco in carcere non agevola l’assunzione del detenuto in attività legate alla ristorazione.
In alcuni istituti, la presenza di spazi da adibire a laboratori attrezzati e i finanziamenti (pubblici e privati) permettono di attivare anche lavorazioni più simili a quelle industriali e artigianali esistenti all’esterno del carcere.
In particolare, vengono prodotti beni commissionati dall’amministrazione penitenziaria (mobilio per le carceri, tessuti, lenzuola), la cui realizzazione è affidata ai detenuti. Solo di rado le lavorazioni sono commissionate da privati, dato che i prezzi dei prodotti realizzati non sono competitivi rispetto a quelli di mercato.
Alcuni detenuti lavorano in attività agricole (391), soprattutto in Sardegna (259), e in 35 in strutture in ambito agricolo, con particolare concentrazione in Toscana (8).
Le lavorazioni che richiedono particolari competenze tecniche sono concentrate prevalentemente negli istituti del Nord, dove alcuni detenuti lavoranti assemblano componenti elettronici e meccanici (207 posti di lavoro, dei quali 43 a Belluno, 32 a Padova e 15 a Treviso), svolgono attività di call center (72 in Lombardia e 58 a Padova), operano in servizi di data-entry e dematerializzazione documenti (100, soprattutto nel carcere milanese di Opera). Altri detenuti lavorano in pasticcerie, panifici e pizzerie (22 a Brescia, 10 in Piemonte, 31 a Padova, 30 a Busto Arsizio) all’interno degli istituti, solo in pochi casi gestiti dall’amministrazione penitenziaria (2) e, per la maggior parte, da soggetti esterni (22). I detenuti lavorano anche al trattamento rifiuti (74 posti di lavoro, concentrati negli istituti di Secondigliano e Rebibbia).
Queste attività vengono quasi sempre gestite da privati e possono offrire reali possibilità di reinserimento lavorativo dopo la detenzione. L’amministrazione penitenziaria continua, invece, a gestire spesso direttamente lavorazioni di sartoria (13 su 20), tessitoria (6 su 8), falegnameria (19 su 25) e lavorazione metalli (11 su 15)2.
Per assegnare a personale competente l’organizzazione di queste produzioni, se si eccettuano alcuni rari casi (ad esempio, ci è capitato di trovare un agente di polizia penitenziaria che dirigeva il lavoro dei detenuti nella falegnameria del carcere di Orvieto), si ricorre a bandi di gara.
Osservando la serie storica di cui sopra, emerge che, mentre nel 1991 i detenuti lavoranti erano per la stragrande maggioranza dipendenti dell’amministrazione penitenziaria (89.66%), nel corso degli anni è andata aumentando la percentuale dei lavoranti dipendenti da soggetti diversi dall’amministrazione penitenziaria (15.5% nel 2016). In termini assoluti, il numero dei detenuti che lavorano per soggetti diversi dall’amministrazione penitenziaria è più che raddoppiato, passando da 1.106 del 1991 a 2.771 del 2016. Il numero più elevato di detenuti lavoranti non dipendenti dall’amministrazione penitenziaria, pari a 2.910 è stato raggiunto nel 2006. Osservando quali sono i principali datori di lavoro, i detenuti che lavorano non alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria sono solo di rado lavoratori in proprio (1.5%) o dipendenti di imprese (9.4%) e, in maggioranza, lavorano per conto di cooperative (30.1%) o per datori di lavoro esterni (26%).
Si tenga però presente che la maggior parte dei detenuti che lavorano per datori di lavori diversi
dall’amministrazione penitenziaria non lavora in carcere, ma all’esterno (66.6%3). Sono infatti detenuti in art. 21 (1.000) o semiliberi (tra questi ultimi 804 sono dipendenti, mentre 43 lavorano in proprio), ossia persone che possono recarsi fuori dal carcere a lavorare.
924 lavoratori per datori di lavoro diversi dall’Amministrazione penitenziaria
In tutto il paese sono solo 924 i detenuti che lavorano all’interno degli istituti di pena per datori di lavoro diversi dall’Amministrazione penitenziaria (284 per imprese private, 640 per cooperative). Le aziende italiane, dunque, si tengono ben lontane dal carcere.
La distribuzione su scala nazionale del lavoro dei detenuti non alle dipendenze della amministrazione penitenziaria varia enormemente da una Regione all’altra. Tra i 2.771 detenuti lavoranti non alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria, dentro o fuori dal carcere, 698 si trovano in Lombardia mentre in Friuli Venezia Giulia e Trentino Alto Adige, nonostante l’alto livello di industrializzazione che potrebbe agevolare l’ingresso di privati in carcere, i lavoranti alle dipendenze di privati sono rispettivamente solo 9 e 22.
Quindi, per un detenuto, finire in un carcere anziché in un altro può comportare la perdita della possibilità di lavorare, e i trasferimenti da un istituto all’altro impediscono ai detenuti di continuare a svolgere alcune attività lavorative dopo averle iniziate.
Valori % rispetto al totale dei detenuti
Dati al 31/12/2016
Fonte: DAP
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Per quanto concerne il pagamento, gli orari di lavoro spesso sono inferiori alle 8 ore e sono previsti dei turni, per permettere di lavorare ad un maggior numero di detenuti e di pagare tutte le ore lavorate. I dati sul reddito percepito dai detenuti lavoranti sono difficili da reperire, ma è possibile farsi un’idea dello stipendio annuo di un detenuto lavorante. La percentuale della spesa per le mercedi ha inoltre subito una diminuzione del 13,2% tra il 2007 e il 20104. Nel 2010 la spesa per le mercedi ai detenuti lavoranti è stata di 54.215.128 euro annui, distribuiti tra 12.110 detenuti lavoranti alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria, con un reddito medio pro-capite lordo inferiore ai 4.500 euro annui. Nel 2014 invece i 12.226 detenuti alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria hanno avuto a disposizione 88.975.281 euro per le mercedi, ottenendo in media stipendi più alti, pari a circa 7.300 euro lordi all’anno5, per cui hanno lavorato un maggior numero di ore.
In conclusione, il diritto-dovere di lavorare per i detenuti definitivi si configura come un privilegio, in cui risultano favoriti i detenuti che hanno pene più lunghe. La possibilità di provvedere al proprio sostentamento e a quello del proprio nucleo familiare con il lavoro in carcere è limitata, dato che le poche opportunità vengono ripartite in modo da tenere “impegnati” quanti più detenuti possibile per un breve periodo di tempo, o con orari lavorativi part-time. Come visto, i lavoranti percepiscono al massimo uno stipendio mensile di circa 600 euro. Le attività che i detenuti svolgono in carcere sono perlopiù poco “professionalizzanti”, e difficilmente si riesce a costruire un percorso di reinserimento che consenta al detenuto di svolgere anche all’esterno l’attività che svolgeva in carcere. I corsi professionali sono sempre meno (120 corsi attivi nel secondo semestre 2016, di cui 29 concentrati in Piemonte, ai quali hanno preso parte 1.363 detenuti6) ed è venuto quindi a mancare un importante anello di congiunzione tra il carcere e la società. Difficilmente il lavoro in carcere contribuisce al reinserimento, e sembra essere al massimo un diversivo, un modo per far trascorrere con qualche attività il tempo della detenzione, un modo per far guadagnare pochi soldi in un’ottica di eterno presente che non getta le basi per il futuro.
© Maggio 2017