di Patrizio Gonnella su il manifesto del 19 novembre 2023
Con il nuovo delitto di rivolta nasce il reato di lesa maestà carceraria. Il governo, a volto e carte scoperte, ha deciso di stravolgere il modello penitenziario repubblicano e costituzionale, ricollegandosi al regolamento fascista del 1931. Il crimine di rivolta carceraria, così come delineato all’interno del pacchetto sicurezza, sarà un’arma sempre carica di minaccia contro tutta la popolazione detenuta. Qualora dovesse essere approvato così come è stato scritto, cambierà la natura del carcere in modo drammatico e autoritario. Il nuovo articolo 415-bis del codice penale punisce fino a otto anni di carcere: “Chiunque, all’interno di un istituto penitenziario, mediante atti di violenza o minaccia, di resistenza anche passiva all’esecuzione degli ordini impartiti ovvero mediante tentativi di evasione, commessi da tre o più persone riunite, promuove, organizza, dirige una rivolta”.
La violenza commessa da un detenuto verso un agente di Polizia penitenziaria, che già prima era ampiamente perseguibile, ora è parificata alla resistenza passiva e alla tentata evasione. In sintesi se tre persone detenute che condividono la stessa cella sovraffollata si rifiutano di obbedire all’ordine di un poliziotto, con modalità nonviolente, scatterà la denuncia per rivolta. Un detenuto, ad esempio entrato in carcere per scontare qualche mese per un furto semplice, ci potrebbe restare per quasi un decennio, senza potere avere accesso ai benefici penitenziari, in quanto la rivolta viene parificata ai delitti di mafia e terrorismo. Ancora più incredibile è l’avere inserito il tentativo di evasione tra le modalità di realizzazione della rivolta (non riuscita visto che il detenuto ha solo tentato di scappare), alla faccia del principio penalistico del ne bis in idem, in base al quale non si può essere puniti due volte e per due delitti diversi a causa della stessa condotta.
di Patrizio Gonnella su il manifesto dell'11 novembre 2023
“Chiudere, chiudere, chiudere”. È oggi il mantra che si sente ripetere dalle parti del ministero della Giustizia, come se nulla fosse accaduto in passato. I detenuti hanno raggiunto la quota di 60 mila. Più o meno 10 mila in più rispetto alla capienza regolamentare. Numeri che non si vedevano da tantissimo tempo. Era il 2013 quando l’Italia fu condannata per trattamento inumano e degradante a Strasburgo, da parte della Corte Europea dei diritti umani, nella famosa sentenza Torreggiani. I giudici affermarono perentoriamente che il sovraffollamento rendeva intollerabili le condizioni di detenzione nel nostro Paese. Fu allora che l’amministrazione penitenziaria, finalmente, si adeguò ai più elevati standard europei, proponendo modelli di vita interni più aperti e la possibilità per il detenuto comune di trascorrere almeno otto ore al giorno fuori dalle celle anguste e affollate.
La Corte costituzionale, chiamata a pronunciarsi sulla possibilità di perseguire i presunti autori di torture anche laddove non sia possibile notificare gli atti ai soggetti chiamati a rispondere di queste accuse, nello specifico nel caso di Giulio Regeni, ci dice una cosa fondamentale, cioè che la tortura va sempre perseguita.
La Consulta scrive che «non è accettabile, per diritto costituzionale interno, europeo e internazionale» la paralisi senza fine del processo per l'impossibilità di notificare gli atti a causa della mancata cooperazione del Paese di appartenenza degli imputati. Una situazione che si risolverebbe in "un'immunità de facto", che offende tra l'altro i diritti inviolabili della vittima (art. 2 Cost.) e il principio di ragionevolezza (art. 3 Cost.), in un quadro in cui la codificazione della tortura "è connaturata alla radicale incidenza di tale crimine sulla dignità della persona umana".
Anche a fronte di tale pronuncia chiediamo ancora una volta a Governo e Parlamento di archiviare definitivamente ogni proposito di modifica o, peggio ancora, abolizione del reato di tortura che, come ricorda la Consulta, va sempre e ovunque perseguita.
Il tema della sanità penitenziaria è un tema centrale per quanto riguarda l'esercizio di uno dei principali diritti della persona, stabilito anche dall'articolo 32 della Costituzione: quello alla presa in carico sanitaria e quindi alla salute.
Il carcere, come anche il mondo esterno, risente molto dai tagli e dalle difficoltà che il Servizio Sanitario Nazionale subisce. Con l'unica differenza che, per chi è recluso, non c'è la possibilità - anche laddove ci siano le risorse economiche - di affidarsi a visite specialistiche private. Questo comporta tempi di attesa a volte anche di alcuni mesi.
Inoltre, non in tutte le carceri, l'assistenza medica o infermieristica è fornita per tutte e 24 le ore della giornata. Spesso, al fianco dei medici di medicina generale, mancano gli specialisti o la loro presenza è prevista solamente per poche ore. Un tema che ha bisogno di essere rimesso al centro dell'agenda e su cui, alcune delle persone detenute nella Casa di Reclusione di Rebibbia hanno voluto accendere una luce con un loro appello (che puoi leggere qui).
APPELLO. Non c’è Paese democratico al mondo che, per salvare un manipolo di poliziotti accusati di questo reato, abbia cambiato in corso le regole del gioco mettendo mano al delitto. Deputati e senatori della Repubblica non si rendano complici di questo misfatto giuridico.
di Patrizio Gonnella su il manifesto del 12/10/2023
È di due giorni fa la notizia delle accuse di tortura nei confronti di 23 agenti di polizia penitenziaria a Cuneo. Ancora una volta, in alcuni commenti, piuttosto che soffermarsi su quanto accaduto si evoca la necessità di mettere mano alla legge che proibisce la tortura. È come se a seguito di una persona ammazzata si discutesse di abolire il reato di omicidio. Chiunque assecondi, promuova, voti un provvedimento di legge che cancella o modifica l’articolo 613-bis, introdotto nel codice penale nel 2017, si renderà complice di un atto di impunità di massa. Esistono vari disegni di legge pendenti a riguardo e pare sia intenzione del Governo mettere mano alla norma.
In premessa va ricordato che la legge contro la tortura fu approvata dopo un’intollerabile attesa di quasi trent’anni. Era il 1988 quando l’Italia si era impegnata a prevedere un reato che punisse i torturatori, ratificando la Convenzione dell’Onu. Per trent’anni, in particolare a destra, c’era chi aveva remato contro la codificazione del delitto di tortura affermando che non andassero criminalizzate le forze dell’ordine alle quali bisognava lasciare le mani libere.