di Jacopo Ricca, da la Repubblica del 28 ottobre 2020
Sarà la procura generale di Torino a completare le indagini e mandare a processo gli agenti della polizia penitenziaria del carcere di Ivrea, accusati di aver pestato e vessato i detenuti. «Le indagini espletate dalla Procura della Repubblica di Ivrea appaiono, sotto vari profili carenti» scrive il procuratore generale Francesco Saluzzo che, ieri, ha firmato il provvedimento di avocazione di tre delle quattro inchieste sulle violenze per le quali il procuratore capo di Ivrea, Giuseppe Ferrando, aveva chiesto l'archiviazione. Parole pesanti quelle sottoscritte da Saluzzo e dal sostituto Otello Lupacchini.
Da anni il garante dei detenuti eporediese, Armando Michellizza prima e ora Paola Perinetto, e l'associazione Antingone si battono perché non si spenga la luce su quando è accaduto nel carcere tra il 2015 e il 2016. «Ci abbiamo riflettuto bene prima di chiedere l'avocazione perché era qualcosa di non scontato. Sui 4 procedimenti però abbiamo visto un rallentamento eccessivo e azioni che non venivano fatte dalla procura di Ivrea» racconta l'avvocata Simona Filippi che difende l'associazione Antigone. «C'è molta soddisfazione per la decisione della procura generale che ha deciso tre delle quattro richieste di avocazione» aggiunge l'avvocato Marialuisa Rossetti che rappresenta il garante di Ivrea. C'è attesa rispetto alla quarta richiesta di avocazione, quella che riguarda la repressione violenta delle proteste nel carcere, avvenuta tra il 25 e il 26 ottobre 2016, e denunciata per prima da Repubblica che aveva raccolto una lettera dei detenuti pubblicata da InfoAut. La procura di Ivrea aveva ritenuto che non ci fossero elementi per chiedere un processo, ma ha sempre manifestato soddisfazione perché con l'indagine si sono fermati gli episodi di violenza. La procura generale di Torino però non è dello stesso avviso: «Contrariamente a quanto si sostiene nella richiesta di archiviazione, è presente documentazione medica in ordine alle lesioni riportate dal detenuto giunto in infermeria per essere medicato per escoriazioni e sanguinamento nasale» quando, scrivono Saluzzo e Lupacchiotti «presentava numerose escoriazioni su gambe, braccia e polsi (manette) e, interrogato riguardo all'origine di dette lesioni, ha riferito di essere stato immobilizzato a trasporto di peso da alcuni agenti di polizia penitenziaria. Nessuna indagine è stata svolta, al fine di circostanziare i fatti e i maltrattamenti con riguardo».
Il 26 luglio 2012 Alfredo Liotta, un uomo di 41 anni, morì nel carcere di Siracusa dove era detenuto. A distanza di oltre otto anni dal fatto cinque degli otto medici imputati per la sua morte sono stati condannati ieri, in primo grado, per omicidio colposo.
"Il caso venne portato a conoscenza del difensore civico di Antigone da parte della moglie del detenuto. Il nostro ufficio - dichiara l'avvocato Simona Filippi - una volta acquisite tutte le carte sullo stato di salute dell'uomo presentò un esposto alla Procura della Repubblica di Siracusa nel quale si sottolineava come il personale medico e infermieristico che si succedeva dal detenuto, non avesse saputo individuare e comprendere i sintomi né il decorso clinico di Alfredo Liotta e che tali carenze conoscitive ne avessero determinato il decesso. Quell'esposto consentì di riaprire il caso sulla morte dell'uomo e portò nel marzo 2017 al rinvio a giudizio dei medici".
"Nel corso del dibattimento, a cui Antigone ha partecipato quale parte civile, è stato accertato che i medici del carcere di Siracusa che si sono succeduti nella cella di Liotta negli ultimi 20 giorno della sua vita - prosegue l'avvocato Filippi - sono rimasti completamente passivi davanti alle sue patologie. L'uomo soffriva di diverse problematiche: epilessia, anoressia, depressione, emorroidi. Per venti giorni non aveva più bevuto né mangiato e questo, assieme alla perdita di sangue dovuta alle emorroidi, portò alla sua morte. Il tutto senza che i medici siano intervenuti in alcun modo".
"Il caso di Liotta - sottolinea Patrizio Gonnella, presidente di Antigone - chiama in causa il tema della salute in carcere, come bene supremo da tutelare. La morte del detenuto fu un vero e proprio caso di abbandono terapeutico. La vicenda pone anche il caso di quanto sia lungo e complesso avere giustizia quando si è detenuti. Una giustizia che serve alla famiglia e che speriamo aiuti a costruire un mondo più solidale e attento alle fragilità".
"Alle condanne di ieri - conclude l'avvocato Filippi - si è riusciti ad arrivare anche grazie al lavoro della giovane Giudice che ha condotto il processo che, attraverso un dibattimento serrato, ha permesso di evitare la prescrizione dei reati".
È grave che il concorso per assumere 45 dirigenti penitenziari sia stato messo in un binario che appare morto. Lo scorso 22 settembre avrebbero dovuto essere pubblicate le date per lo svolgimento dei test pre-selettivi, invece neanche quelle. Tutto rinviato a gennaio 2021. Vuol dire che il ministero della Giustizia non ha a cuore la grande questione della gestione delle carceri in Italia. Vi sono istituti che non hanno direttori, l’ultimo concorso risale a metà degli anni ’90 del secolo scorso. Molti dirigenti svolgono doppie, triple funzioni. Nel 2019 l'osservatorio di Antigone ha potuto rilevare, in 100 carceri, come solo in 53 ci fosse un direttore di ruolo. In 37 istituti il direttore era incaricato anche in un altro carcere, in 9 era in missione da un altro istituto e in 1 carcere non c'era direttore.
Ai direttori si deve la tenuta di un sistema complesso e articolato. Il mestiere di direttore di carcere va valorizzato, gratificato. C’è bisogno di energie umane nuove. Per questo è inaccettabile che vi sia stato uno slittamento sine die.
L’emergenza Covid non ha impedito la fissazione della data per il concorso di insegnanti nelle scuole dove si partirà il 22 ottobre e si continuerà fino a metà novembre in modo scaglionato. Si poteva fare allo stesso modo anche per le carceri, che evidentemente non sono tra le massime priorità.
di Mauro Palma, Garante nazionale per i diritti delle persone private della libertà, già presidente di Antigone e fondatore della rivista "Antigone" insiema Rossana Rossanda e altri.
Su il manifesto del 22 settembre 2020
La critica dell'emergenza. "Ho sempre diffidato della parola verità e del suo uso specie quando riguarda la conoscibilità della persona", diceva. Il 7 aprile 1979, l'inchiesta padovana e poi quella romana resero evidente l'urgenza di opporsi a ricostruzioni onnivore e distruttive di soggettività.
"Un ricordo di studi ormai lontani mi ha fatto sempre diffidare della parola verità e del suo uso, specie quando riguarda la conoscibilità della verità della persona, soprattutto in quell'intrico di calcolo, emozioni, passione che è l'atto trasgressivo. E così complessa è la verità della persona che, in fondo, può apparire che la verità processuale sia la più semplice perché sorretta da un sistema convenzionale come quello delle procedure".
Rossana parlava, in quell'occasione di più di trent'anni fa di verità processuale - era un confronto su tale tema con alcuni magistrati, giuristi e parlamentari organizzato da Antigone - e di come attorno ai diversi tentativi di appropriarsi della presunta verità si giocasse un ruolo tutto stretto all'interno di ricostruzioni o giudiziarie o complottistiche.
Ricostruzioni che perdevano comunque lo spessore politico e collettivo di azioni, che però solo attraverso tale dimensione potevano essere inquadrate. La verità diveniva solo quella processuale e vite, aspirazioni, progetti sparivano, portando con sé, in tale dissolversi, anche la riflessione doverosa sugli errori commessi e sulle loro conseguenze, spesso gravi.
Si terrà il prossimo 15 ottobre l'udienza preliminare per 5 agenti di polizia penitenziaria accusati del reato di tortura per le presunte violenze contro due detenuti reclusi nel carcere di San Gimignano. I fatti risalgono all'ottobre del 2018. Davanti al GUP del tribunale di Siena, che dovrà decidere se rinviare a giudizio i cinque o per un non luogo a procedere, comparirà anche la nostra associazione che aveva presentato un esposto affinché si indagasse su quanto sembrava essere accaduto nell'istituto toscano e che si è costituita parte civile nel procedimento.
Oltre ai 5 agenti è indagato anche un medico del carcere (il quale ha chiesto di procedere con il rito abbreviato) con l'accusa di rifiuto di atto d'ufficio per non aver effettuato una visita medica su una delle due vittime dell'ipotesi di tortura.
Questo sarà il primo processo a tenersi in Italia dove il reato di tortura è contestato a dei pubblici ufficiali.