Abbassare l'età di chi entra in carcere non è la soluzione. Così come non lo è mai la reazione repressiva. Chiunque ha a che fare coi ragazzi sa che le responsabilità vanno estese agli adulti e alla società. Punire un ragazzo non è mai la risposta, specie a quell'età.
Il sistema della giustizia minorile italiana è un sistema che funziona, dove la detenzione negli istituti di pena è dal 1988 sempre più residua. Se qualche provvedimento deve essere intrapreso in tal senso, questo deva andare verso una modifica del sistema sanzionatorio prevedendo pene diversificate per i minori e non, come si discute in queste ore, abbassando l'età in cui un minore può entrare in carcere o solo con interventi delegati alla polizia. Servono educatori e non questori per occuparsi di ragazzi nei luoghi a rischio. Servono investimenti sociali e culturali nelle periferie urbane e in tutti quei luoghi dove i contesti economici e sociali sono difficili e non lasciano grande spazio a percorsi diversi da quelli che possono portare alla commissione di reati. Serve la lotta alla dispersione scolastica, che non può passare dal carcere per i genitori.
Anche se autori di reato, si parla di ragazzi in un'età cruciale del loro sviluppo, che hanno bisogno di un percorso educativo e non punitivo, che spesso arrivano da contesti sociali ed economici diffusi. Pensare al carcere come soluzione dei problemi della criminalità significa invece ancora una volta scaricare sul sistema penale la responsabilità dei vuoti che lo Stato lascia in tutti gli altri ambiti. Un problema enorme quando si parla di adulti, drammatico quando se ne discute per i minori.
di Patrizio Gonnella e Susanna Marietti su il manifesto del 17 agosto 2023
In Sardegna, nascosto da qualche parte, c’è un evaso. Oppure no: forse ha già lasciato l’isola, chissà con quale mezzo, e ha raggiunto il continente. Non si hanno più notizie da quando, lo scorso 25 febbraio, si è calato con le lenzuola annodate lungo il muro del carcere di Nuoro ed è scappato via correndo. In internet gira mille volte il filmato. Di lui si sente parlare, aleggia nell’aria. Non capita spesso di evadere. Ma, soprattutto, non capita quasi mai di non venire riacciuffati nelle ore immediatamente successive all’evasione. Lo nominano gli operatori delle carceri che visitiamo, lo nominano i nostri colleghi della sede locale di Antigone, lo nomina l’albergatore dove alloggiamo quando ci chiede cosa facciamo in Sardegna.
Abbiamo una prova concreta della sua influenza quando arriviamo in una delle tre colonie penali sarde. Ci accompagna nella visita il comandante della polizia penitenziaria. È molto tempo che è qui? No, non ha la memoria storica dell’istituto, sono altri operatori che ci raccontano cosa accadeva negli anni passati. Sono solo pochi mesi che il comandante è arrivato in questa colonia isolata e lontana da tutto. Prima era in servizio a Nuoro.
È una pratica tanto ipocrita quanto consueta in ambito carcerario. Nessuno è responsabile delle grandi falle del sistema, della recidiva alle stelle, delle morti in cella, dell’assenza di attività o delle strutture fatiscenti, ma di fronte al singolo evento di cronaca deve esserci sempre un singolo nome da additare, punire, trasferire.
Il lavoro in carcere è uno degli strumenti principali di reintegrazione sociale. Lavorare, guadagnare, imparare una professione, può essere l'elemento che consente alle persone detenute di rompere con il proprio passato criminale, portando così ad un abbattimento della recidiva. Tuttavia il lavoro in carcere è poco. Le nostre rilevazioni ci dicono che, nel 2023, solo il 33% delle persone detenute ha un impiego, fra l'altro non particolarmente qualificato. La maggior parte di loro lavora alle dipendenze dell'amministrazione penitenziaria e per poche ore al giorno o per periodi brevi, così da distribuire le opportunità lavorative - e di guadagno - tra più persone possibili. Solo il 2,5% lavorano poi alle dipendenze di un datore di lavoro esterno, con professioni che possono accompagnarli anche a fine pena.
Il lavoro è dignità, emancipazione sociale. Il lavoro deve essere reddito altrimenti si torna ai lavori forzati. I prelievi forzosi dagli stipendi dei detenuti che lavorano per darli alle vittime hanno già subito nel 1992 la censura della Corte Costituzionale. Non si vede perché far gravare l'onere generico della restituzione alle vittime sui detenuti che lavorano. Viene violato il principio di uguaglianza oltre che l'articolo 36 della nostra Costituzione in materia di dignità del lavoro. I risarcimenti alle vittime sono già decisi nei procedimenti penali e civili. Lavorare e guadagnare per un detenuto significa, soprattutto per chi proviene da contesti di marginalità e povertà, poter avere qualche soldo per acquistare beni al sopravvitto (ad esempio i ventilatori per combattere il grande caldo che in carcere si vive), per far fronte alle spese di mantenimento che ogni detenuto deve all'amministrazione penitenziaria a fine pena e per aiutare i familiari fuori.
Per questo il sottosegretario alla Giustizia Ostellari farebbe bene ad occuparsi di come incentivare l'aumento delle opportunità di lavoro - cosa che lo stesso ministro della Giustizia Nordio ha dichiarato più volte essere una priorità del governo - anziché proporre di togliere soldi ai detenuti lavoranti. Ne guadagnerebbe la sicurezza di tutti.
Inoltre a proposito delle telefonate. Pensare a una modifica della norma regolamentare estendendo da 4 a 6 telefonate mensili significa non cambiare le regole già in corso. In moltissimi istituti sono già sei. Coraggio, ci vuole coraggio. Vanno previste telefonate quotidiane per evitare solitudine, depressione, abbandono.
Queste le dichiarazioni di Patrizio Gonnella, presidente di Antigone.
L'ESTATE AL FRESCO. Meriterebbero di entrare in un tour di turismo sociale, le isolate fattorie di Is Arenas, Isili e Mamone dove lavorano più di 300 detenuti. Tra benefici e solitudine: un modello penitenziario che ha bisogno di futuro
di Patrizio Gonnella e Susanna Marietti su il manifesto del 11 agosto 2023
«Purtroppo, nella condizione in cui devo vivere, i capricci nascono da soli: è incredibile come gli uomini costretti da forze esterne a vivere in modi eccezionali e artificiali sviluppino con particolare alacrità tutti i lati negativi del loro carattere» (Antonio Gramsci in Lettere dal carcere). Gramsci era nato ad Ales, un piccolo paese che si attraversa arrivando da ovest alla colonia penale di Isili, aperta nel 1878, qualche anno prima della nascita del fondatore del Partito Comunista d’Italia. Nello sguardo e nel linguaggio profondi, autentici e mai banali, di chi deve garantire la sicurezza della colonia, si percepisce la stratificazione della storia difficile di quei luoghi. Si ha anche la fortuna di poter intravedere una copia (rigorosamente in pdf, in quanto il giornale non si trova purtroppo nell’isola) de il manifesto.
QUELLA DELLE COLONIE penali è una storia ottocentesca. Non sono molti gli studi che ripercorrono le tappe della loro nascita, evoluzione, progressiva dismissione. Di certo – spiegava Guido Neppi Modona, a cui si deve la più ricca ricostruzione della storia carceraria italiana – le finalità rieducative, seppur proclamate, stentavano a essere raggiunte: «Basti pensare – scriveva – alle condizioni di vita cui erano costretti i condannati e, con loro, le guardie carcerarie: nelle colonie, collocate appunto in terreni incolti e malarici, la malaria e le disastrose condizioni igieniche mietevano vittime in altissima percentuale, con picchi di mortalità dall’8 al 10% e di infermità dal 30 al 40%, secondo quanto dichiarato dallo stesso direttore generale delle carceri Beltrani Scalia in una relazione del 1891».
Il sovraffollamento continua ad essere una delle principali problematiche del sistema penitenziario italiano, con un tasso che viaggia attorno al 121%, con 10.000 persone detenute in più rispetto ai posti effettivamente disponibili (e un numero di presenze in costante crescita).
Il sovraffollamento non toglie solo spazi vitali, ma anche possibilità di lavoro e di svolgere attività che spezzino la monotonia della vita penitenziaria. Quella monotonia che porta all’emergere di situazioni di forte depressione, alla base di un aumento di suicidi e atti di autolesionismo nel periodo estivo.
Proprio i suicidi, pur nel silenzio della politica e di parte del sistema dell’informazione, continuano ad essere una piaga a cui il carcere ha abituato. Dopo gli 85 dello scorso anno, quest’anno sono già 42. Come riferisce Ristretti Orizzonti 1.352 quelli avvenuti dal 2000 ad oggi. L’estate, da questo punto di vista, non aiuta. Il caldo è uno dei fattori che impattano maggiormente sulla qualità della vita negli istituti penitenziari, qualità della vita già non elevata neanche negli altri periodi dell’anno. A questo si aggiunge poi la chiusura di molte attività e quindi una situazione di ulteriore e sostanziale isolamento. Non è un caso che, durante i mesi estivi, proprio il numero dei suicidi cresca. Quest’anno, dei 42 già avvenuti, i soli mesi di giugno, luglio e i primi giorni di agosto ne hanno fatti contare 15.
Come detto in estate in galera si sta male. In tantissimi istituti mancano i ventilatori, le finestre sono schermate, non ci sono frigoriferi in cella e a volte neanche nelle sezioni e in molti casi in cella non c’è neanche la doccia. Per questo le carceri vanno riempite di iniziative e attività, favorendo il volontariato; ai detenuti va assicurata la possibilità di contattare quotidianamente per telefono o con video-chiamata i propri affetti; vanno comprati ventilatori e frigoriferi. Poche cose, minime, con un impatto fondamentale per la vita delle persone recluse, e anche degli operatori che con il caldo e lo sconforto dei reclusi devono lavorare e confrontarsi ogni giorno.
LA CARTELLA STAMPA CON DATI, NUMERI E SITUAZIONI RILEVATE NELLE VISITE DEL NOSTRO OSSERVATORIO