di Patrizio Gonnella e Susanna Marietti su il manifesto del 4 agosto 2023
Era il 1998 quando – per volontà di Sandro Margara, indimenticato giudice di sorveglianza e capo dell’amministrazione penitenziaria – il carcere dell’Asinara chiuse in via definitiva. Poco meno di vent’anni prima, il 2 ottobre 1979, c’era stata la rivolta nella sezione speciale Fornelli. Altri tempi, quando le carceri erano i luoghi della repressione della lotta armata. Oggi l’isola dell’Asinara è visitata da turisti e il carcere di massima sicurezza è per fortuna solo parte del racconto delle guide locali. Strano posto la Sardegna per chi ha a che fare con il sistema delle prigioni. Forse l’unica tra le regioni italiane che non presenta rischi di sovraffollamento: i detenuti, rinchiusi in dieci istituti penitenziari, sono 2.070, un numero inferiore ai 2.617 posti calcolati per definirne la capienza regolamentare. E, se non fosse per la pratica di spostare dal continente un numero significativo di detenuti stranieri con pochi legami sul territorio, sarebbero ancora di meno.
LA SARDEGNA SCONTA il suo essere isola. Ce ne siamo accorti in questi giorni in cui siamo in giro a visitare le carceri della regione. Non ci vogliono andare i direttori – oggi sono solo in tre, a dover gestire circa tre carceri a testa -, sono pochi i sottufficiali di Polizia Penitenziaria, scarseggiano gli educatori. Si vede però una luce in fondo al tunnel: a fine ottobre verranno immessi in servizio 57 nuovi giovani direttori. Alcuni andranno a riempire i vuoti gestionali della Sardegna.
L’isolamento è una delle parole chiave nella vita carceraria sarda. Era il 2014 quando furono inaugurate alcune nuove carceri, tra cui Cagliari e Tempio Pausania. Fu deciso di ubicarle lontano dai centri storici e dagli abitati. Per chi ama la natura è affascinante ammirare i fenicotteri che circondano il carcere cagliaritano di Uta o perdere lo sguardo tra le colline di Nuchis vicino Tempio. Ma la lontananza dalle città produce desertificazione sociale. Rende complesso costruire ponti tra dentro e fuori, immergere il carcere in un tessuto relazionale che possa dare qualche significato al periodo detentivo. Si sconta così un doppio isolamento: quello isolano e quello della pianificazione urbana.
Ce n’è poi un terzo, quello classico usato da sempre nelle galere. Un isolamento tragico. Le scene di Steve McQueen che in Papillon cerca strategie per non impazzire ci danno un’immagine cinematografica di quanto le ricerche mediche hanno confermato negli anni: l’isolamento fa male, l’isolamento porta al disadattamento, allo squilibrio, alla follia. Ma viaggiando per le carceri italiane si incontrano tanti detenuti isolati. Accade per le più varie ragioni: motivi sanitari, perché non si interferisca con i processi, per motivi disciplinari, su presunta scelta volontaria. Oppure perché condannati alla pena dell’isolamento diurno. Nel carcere di Tempio Pausania ce n’era uno in questa situazione.
L’ARTICOLO 72 del codice penale prevede che ai pluriergastolani si aggiunge la pena dell’isolamento diurno che può arrivare fino a tre anni. Un’eternità capace di devastare la psiche di chiunque. Una pena nella pena, che dovremmo considerare una condizione di vero e proprio maltrattamento. Le cosiddette «Mandela Rules» delle Nazioni Unite ci dicono che la durata massima dell’isolamento non deve superare i 15 giorni. La modalità di esecuzione è poi molto, troppo diversa da carcere a carcere: si interpreta l’isolamento diurno come agganciato all’alba e al tramonto, o alle ore lavorative, o ancora come sconfinante nella notte in un isolamento totale. Una pena produttiva solo di sofferenza, sganciata da ogni istanza di reintegrazione sociale, evidentemente diseguale, in relazione alla quale si attende che un giorno qualche giudice sollevi la questione di costituzionalità.
IN QUALCOSA le carceri sarde sono ben simili a tutte le altre: nell’essere diventate contenitori degli esclusi dal welfare, di quelle persone di cui nessuno (società, famiglia, servizi) vuole farsi carico. La sofferenza psichica si tocca con mano. Gli operatori raccontano storie di abbandono, solitudine, malattia, dipendenze che paiono senza speranza. È a queste persone che spesso tocca l’isolamento. A differenza dei detenuti più strutturati dal punto di vista criminale, loro non sanno farsi la galera. Entrano in conflitto con il personale, sono abbandonati nelle sole mani di chi li deve custodire. Gli occhi di alcuni poliziotti sono occhi disarmati. Sono lasciati soli nell’affrontare casi complicatissimi. Ma l’isolamento non può mai essere la giusta risposta. Proprio su questa consapevolezza, Antigone sta lavorando, insieme a Physiciens for Human Rights Israel, a linee guida su scala mondiale su alternative dall’isolamento carcerario.
TRA GLI ERGASTOLANI a Tempio Pausania c’è Marcello Dell’Anna, in carcere da 32 anni, una storia di emancipazione sociale prodotta dall’impegno universitario. Ha conseguito ben tre lauree, scrive importanti articoli sul carcere e la pena, ha portato avanti un percorso che dovrebbe sfociare in qualche possibilità alternativa al carcere al fine di guardare a un pieno riavvicinamento alla società. Dell’Anna è un buon esempio di ricostruzione di una biografia nel segno della trasformazione culturale. A Tempio, carcere interamente dedicato all’alta sicurezza, sono una trentina i detenuti iscritti all’Università di Sassari. Girando per le celle, ben tenute, si vedono i pc che i detenuti possono utilizzare nello studio (anche se non collegati in rete). L’Italia ha una sua buona prassi: l’impegno di molte Università per offrire un’occasione di studio qualificato. Esiste una Conferenza dei delegati dei rettori per i poli universitari in carcere. L’educazione e la cultura sono straordinari fattori di emancipazione sociale. Nel carcere di Tempio è presente anche una sezione del liceo artistico “Fabrizio De Andrè”. «Per quanto voi vi crediate assolti siete per sempre coinvolti», cantava Faber. Siamo tutti coinvolti. Nessuno escluso.