Per le presunte torture nel carcere di Ivrea la procura della città piemontese ha notificato 45 avvisi di garanzia ad altrettanti indagati. Tra loro agenti, medici, operatori e funzionari che, a vario titolo, risultano indagati per diversi reati tra cui quelli di tortura, falso in atto pubblico e altri reati collegati.
"Con queste 45 persone sono oltre 200 gli operatori penitenziari attualmente indagati, imputati o già passati in giudicato all'interno di procedimenti che riguardano anche episodi di tortura e violenza avvenuti nelle carceri italiane. Un dato che ci racconta di un problema evidente che si riscontra negli istituti di pena dove, con troppa frequenza, da nord a sud emergono fatti di questo tipo". A dirlo è Patrizio Gonnella, presidente di Antigone.
"L'approvazione della legge sulla tortura, avvenuta nel 2017, ha certamente influito positivamente sull'emersione di queste condotte, aumentando la predisposizione dei detenuti a denunciarle e l'attenzione che la magistratura pone nell'indagarle e perseguirle. Tuttavia, ciò che occorre - continua Gonnella - è un attività di prevenzione che dovrebbe portare ad investire risorse nella formazione degli agenti penitenziari, nella costruzione di una vita interna agli istituti che sia più distesa, contrastando il sovraffollamento penitenziario e con i detenuti impegnati in attività, cosa che aiuterebbe a stemperare quel clima di tensione che si registra e che ravvisiamo in forma crescente anche con le visite del nostro osservatorio. Si dovrebbero poi offrire maggiori riconoscimenti per coloro che, in carcere, lavorano nel pieno rispetto delle proprie funzioni e della dignità della persona. Cosa che riguarda, occorre ricordarlo, la maggior parte degli operatori".
15 persone sono indagate per le presunte torture ai danni di un detenuto avvenute nel carcere di Bari. Di queste, 9 agenti penitenziari sono accusati di "concorso in tortura" e tre di loro sono stati posti agli arresti domiciliari.
Di seguito le dichiarazioni di Patrizio Gonnella, presidente di Antigone:
"Come sempre avviene in questi casi ci auguriamo che la giustizia faccia il suo corso e si chiariscano le eventuali condotte e responsabilità. Da quando è stata introdotta la legge contro la tortura nel 2017 sono diversi i processi e le indagini in corso che vedono coinvolti appartenenti alla Polizia penitenziaria. Segno di un testo che era e continua ad essere fondamentale per prevenire e perseguire abusi in un luogo chiuso come il carcere. Ci auguriamo, altresì, che chiarezza venga fatta anche sul coinvolgimento del personale medico, più di una volta indagato o condannato in procedimenti simili, per la mancata refertazione di ferite e lesioni. Nel caso specifico di Bari la buona notizia è stata la collaborazione dei vertici del carcere - sia della direzione che della stessa Polizia Penitenziaria - per individuare i presunti colpevoli delle violenze e arrivare ad un primo accertamento dei fatti. Anche in questo caso, come ripetiamo, la legge sulla tortura può aiutare a rompere il muro di omertà che spesso si è creato in passato, garantendo ampio riconoscimento a chi porta avanti il proprio lavoro nel rispetto dei diritti e della dignità degli individui".
A Patrizio Gonnella fa eco Maria Pia Scarciglia, presidente di Antigone Puglia:
"Quanto è accaduto è di assoluta gravità e chiediamo che si faccia chiarezza. Come associazione operiamo all'interno del carcere di Bari da qualche anno attraverso uno sportello di informazione legale rivolto ai detenuti e ben conosciamo il grande lavoro che svolgono la direttrice del carcere e la comandante della Polizia Penitenziaria. Non siamo dunque sorpresi della loro collaborazione alle indagini e continuiamo a riporre fiducia nel loro operato".
di Patrizio Gonnella su il manifesto del 4 novembre 2022
Chi si sorprende della violenza fa il gioco dei violenti. Chi si sorprende della nuova norma sui raduni fa il gioco di chi l’ha pensata, proposta, approvata. Neanche nel Testo Unico delle Leggi di Pubblica Sicurezza del 1931 si arrivò a scrivere qualcosa del genere.
In primo luogo l’articolo è scritto in modo sciatto e in un italiano claudicante. Sarà un buon esempio per quei professori che a lezione di diritto vorranno spiegare agli studenti come non si deve scrivere una norma penale. Siamo molto lontani da quella necessità di chiarezza invocata da Cesare Beccaria nel lontano 1764. Con il nuovo articolo 434-bis siamo al primitivismo linguistico che potrebbe funzionare per la comunicazione social ma non per una legge che i giudici dovranno applicare.
La norma parte con un’espressione tautologica. Si scrive letteralmente che l’invasione di terreni o edifici consiste in un’invasione arbitraria di terreni o edifici altrui. Troviamo domanda e risposta all’interno della stessa norma, come se fossimo a un quiz. Ogni reato dovrebbe punire un’azione o un’omissione. In questo caso essa consisterebbe in un’invasione. Sarà la giurisprudenza a dover distinguere ciò che è ingresso da ciò che è invasione. Quest’ultima sembrerebbe rimandare a pratiche belliche. Se un certo numero di persone alla spicciolata, senza danneggiare cose o persone, entra in un terreno altrui per raccogliere i fichi e non per ascoltare musica techno, è accusabile di invasione?
La norma penale introdotta per contrastare i rave party assomiglia ad una norma in bianco, una fattispecie non tassativa e non ispirata a principi di necessità, offensività e proporzionalità, che è ciò che dovrebbe invece accadere all'interno di un diritto penale di impronta liberale.
Ciò che si può ravvisare è una delega totale alle forze di Polizia che, sul campo, dovranno decidere se c'è violazione della norma o meno. Una discrezionalità ampia e pericolosa, perché ampie e pericolose sono le fattispecie che potrebbero finire sotto l'ombrello del nuovo articolo 434-bis: dall'occupazione di fabbriche da parte dei lavoratori a rischio licenziamento, a quello delle scuole superiori o università che i collettivi di giovani studenti organizzano per richiamare l'attenzione sulle problematiche che riguardano il mondo dell'istruzione.
Le norma penali spesso vivono al di là delle intenzioni di chi la scrive e, se anche le intenzioni del governo fossero state realmente riferite alla sola fattispecie che riguarda i rave party, una norma così scritta porta invece alla criminalizzazione del dissenso e il restringimento dello spazio civico e democratico attraverso una serie di pene spropositate, comprimendo irragionevolmente le libertà di associazione, riunione e opinione, costituzionalmente tutelate.
Inoltre, semmai dovesse essere se mai applicata, potrebbe portare all'ingolfamento di tribunali e ad accentuare il sovraffollamento penitenziario. Avremmo bisogno di ulteriori migliaia di posti nel sistema carcerario, con dei costi umani e economici intollerabili. Da spiegare ai cittadini quando si dice che si vuole ridurre il peso fiscale.
La necessità di rivedere l'articolo 4-bis dell'ordinamento penitenziario era nata a seguito della nota sentenza della Corte Costituzionale. La Consulta aveva chiesto una revisione delle norme sul divieto di concessione dei benefici penitenziari nei confronti dei detenuti che non collaborano con la giustizia o che non sono nelle condizioni di collaborare con la giustizia. Deve esserci sempre una chance di ritorno in libertà, altrimenti la pena perde il suo scopo rieducativo. Il regime vigente è dunque incostituzionale in quanto ammette l’ergastolo senza speranza di uscita, evidentemente contrario ai principi di cui all’articolo 27 della Costituzione (pena umana e tendente alla rieducazione).
"La riforma approvata è un’occasione parzialmente persa", commenta Patrizio Gonnella, presidente di Antigone. "Il governo è rimasto imprigionato nella paura di fare un regalo alle mafie, innovando in modo non sufficiente la legislazione penitenziaria. È mancato un generale ripensamento dell’attuale disciplina della concessione dei benefici ai condannati per una serie del tutto eterogenea ed illogica di reati anche ben distanti da qualsiasi matrice organizzata, mafiosa o terroristica. Nel decreto c’è finanche un inutile aggravamento di tale disciplina".