ROMA - La comunità bangladese di Roma ha deciso di sospendere lo sciopero della fame che a centinaia avevano iniziato il 28 gennaio. Rimane però il presidio a San Giovanni a sostegno della richiesta di concessione del permesso di soggiorno per motivi umanitari. I bangladesi hanno deciso di sospendere la protesta dopo la proposta fatta dal questore di Roma di prevedere un'apertura speciale dello Sportello unico per accettare le domande di permesso umanitario. I bangladesi italiani, che dal 9 gennaio scorso sono riuniti in presidio davanti alla basilica di San Giovanni, hanno tentato la carta dello sciopero della fame per far comprendere a istituzioni e politica la difficile situazione che sta vivendo la comunità all’indomani del ciclone Sidr che ha travolto il Bangladesh provocando 30 mila morti. Accampati con tende e coperte sotto la statua di San Francesco, nella piazza dove solitamente si tiene il concerto del Primo maggio, chiedono che venga rilasciato loro il permesso di soggiorno per motivi umanitari. La catastrofe infatti ha distrutto i villaggi del sud provocando migliaia di sfollati; mancano acqua potabile e medicine, la situazione politica è confusa con un governo repressivo che impedisce ogni forma di impegno politico e di espressione.
I manifestanti lamentano la mancata volontà delle questure italiane di valutare l’emergenza. “Gli uffici - dicono – smaltiscono solamente 15 pratiche al giorno e rimangono aperti solo 3 giorni a settimana. Di questo passo per analizzare tutte le nostre richieste di asilo ci vorranno due anni”. (Sono infatti oltre 11 mila le domande in attesa di essere presentate). Per ora, dal Viminale hanno ottenuto soltanto la sospensione delle espulsioni fino alla fine della crisi, ma non basta, aspettano che il questore prepari i moduli per quello che dovrebbe essere un iter “speciale”.
“Quello fatto dal Viminale - dice Islam Sm Saiful, ex consigliere aggiunto del IX municipio di Roma e membro attivo dell’Islamic Forum in Italia - è un primo passo, ma abbiamo bisogno di andare avanti. Siamo disposti ad accettare la risposta che a ciascuno di noi verrà data dalle commissioni che esaminano le domande, ma che ci dessero la possibilità di presentarle in breve tempo”. Dunque il digiuno come ultima arma di lotta; è scritto anche sullo striscione che campeggia in piazza “O il questore stampa i permessi di soggiorno o il sindaco dovrà stampare i nostri certificati di morte”.
La protesta dei bangladesi è iniziata il 4 dicembre quando la comunità era scesa in piazza per la prima volta davanti al Senato per chiedere un aiuto umanitario immediato. Intanto, tra i ragazzi imbacuccati e stanchi che ingannano il tempo giocando a carte o ascoltando chi prende il microfono, c’è chi, come Manir, racconta in italiano stentato: “Mia madre era in casa quando è arrivato il ciclone, le è crollato addosso il tetto, l’hanno dovuta portare in ospedale, ma ora sta meglio. Laggiù ho anche mia moglie che però vive in un altro villaggio lontano dal luogo della catastrofe e mio cugino che vive nella capitale. Loro stanno bene, li ho sentiti al telefono. Vorrei andare a casa ma senza documenti non posso lasciare l’Italia ”. In questi primi tre giorni di sciopero della fame già ci sono stati alcuni ricoveri in ospedale.