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Detenuti in attesa di Espulsione - Il processo contro i pestaggi del 2003 a scapito di alcuni ‘ospiti’ del CPT bolognese e una breve riflessione sull’impunità delle forze dell’ordine accusate di violenze ai danni degli immigrati

Detenuti in attesa d’espulsione

di Gennaro Santoro

Aggiornamento sulla vicenda processuale inerente ai pestaggi del 2003 a scapito di alcuni ‘ospiti’ del CPT bolognese e una breve riflessione sull’impunità delle forze dell’ordine accusate di violenza ai danni degli immigrati c.d. clandestini 

Macchie di sangue sui muri, lividi e teste spaccate: questo è l’agghiacciante spettacolo che si sono trovate davanti le deputate Titti De Simone (Prc) e Katia Zanotti (Ds) quando hanno visitato il centro di permanenza temporanea per stranieri di via Mattei a Bologna, 48 ore dopo il pestaggio della notte del 2 marzo 2003. Sono ormai trascorsi oltre due anni da quella tragica notte: il processo è ancora in corso ma non è ancora stata fissata l’udienza dibattimentale nonostante la difesa (avv. S.Sabattini) abbia inoltrato la richiesta più di un anno fa e l’espletamento dell’incidente probatorio abbia già fatto chiarezza sulla drammaticità dell’accaduto. Dei 13 indagati (12 appartenenti alle forze di sicurezza e un operatore della croce rossa) 4 poliziotti sono stati rinviati a giudizio; la difesa ha proposto opposizione all’archiviazione dell’operatore della croce rossa - che, a detta di alcuni testimoni oculari, ha partecipato direttamente ai pestaggi - ma, anche in questo caso, il GIP non ha ancora fissato la data dell’udienza di trattazione.

Nel frattempo, i 4 poliziotti rinviati a giudizio per lesioni volontarie aggravate sono ancora in servizio, senza che sia stato avviato nei loro confronti alcun procedimento disciplinare – o la sospensione cautelare dal servizio - da parte delle autorità competenti. 

Ma forse è già da salutare come ‘evento’, quasi una ‘vittoria’, il fatto che in questa circostanza vi sia stato un rinvio a giudizio, visto che nonostante le numerosissime denunce, presenti e passate, provenienti da fonti attendibili (ad es., parlamentari) riguardo gli abusi e i maltrattamenti cui sono reiteratamente sottoposti “gli ospiti” dei centri presenti nel Belpaese, soltanto nei casi di Lecce e Bologna si è giunti ad una fase dibattimentale-processuale. La paura è che però anche in questa occasione – come nel caso del rogo al CPT di Vulpitta del’99, dove il procedimento penale è giunto persino in appello, ma il tutto si è concluso con l’assoluzione dell’ex Prefetto di Trapani imputato di omissione di atti d’ufficio, incendio colposo e concorso in omicidio colposo plurimo per la morte di 6 ‘ospiti’ del centro siciliano - lo stato non condannerà se stesso.

Dovremo interrogarci sul perché in questo settore esistono barriere tali da impedire alla giustizia di fare il proprio corso. Ed è, ahimè, agevole rispondere a questo interrogativo ricordando che lo straniero che è sottoposto al trattenimento in CPT è un detenuto in attesa di espulsione, e che, quindi, le forze dell’ordine possono ‘legittimamente’ deportare chi è stato vittima dei propri abusi per evitare che lo stesso denunci le malfatte subite.

Una recente storia, avvenuta sempre nel CPT bolognese, può avvalorare - qualora ve ne fosse bisogno - quanto ora sostenuto. La denuncia è sempre della deputata Katia Zanotti la quale racconta di aver ricevuto telefonate dagli internati del CPT di Via Mattei che denunciavano la scomparsa di una ragazza marocchina. In breve, intorno al 10 Maggio 2005 la protagonista di questa raccapricciante vicenda stava per essere espulsa, quando è stata colpita da una crisi epilettica forse causata dal pestaggio da parte della polizia. Rientrata in CPT dopo una sommaria visita medica viene riportata nella propria gabbia, ma durante la notte il dolore, la crisi e i pianti si sono intensificati al punto che al mattino successivo è stata trasferita al pronto soccorso del Sant'Orsola. In questa sede i medici le hanno riscontrato degli ematomi sul corpo dovuti a percosse ed una vertebra incrinata e ne hanno disposto il ricovero all'ospedale Rizzoli. Purtroppo, la ragazza è misteriosamente scomparsa prima di poter sporgere denuncia per il trattamento subito e al momento non se ne hanno più notizie. Nessun operatore interno al CPT ha fatto trapelare la notizia delle percosse subite dalla ragazza, o, almeno, nessuno ha verificato se tali informazioni fossero veritiere, né i medici del CPT hanno redatto referti attestanti le lesioni sul corpo della maghrebina documentati invece dai medici del pronto soccorso.

Sempre per citare (esclusivamente) episodi recenti, una sventura simile è avvenuta al CPT di via Corelli, Milano. Il 19 Marzo 2005, si è tenuto un incontro tra alcuni ristretti del CPT milanese e una delegazione della società civile costituitasi in comitato di sostegno ai cittadini immigrati in protesta all’interno del centro. Due cittadini brasiliani hanno raccontato le angherie subite per opera delle forze dell’ordine in occasione della loro deportazione in Brasile con un volo civile: in quella occasione le proteste dei passeggeri e del comandante di volo sono riuscite ad impedire l’espulsione coatta. Ma durante il ri-accompagnamento al CPT – raccontano i brasiliani - le violenze delle forze dell’ordine, in assenza di qualsivoglia testimone, sono divenute ben peggiori; e la minaccia delle autorità in divisa di eseguire nuovamente la deportazione nel caso in cui gli interessati avessero denunciato le malfatte subite hanno condotto le vittime ad un forzato silenzio. Quando tale silenzio è venuto meno, in occasione, appunto, dell’incontro del 19 Marzo, le forze dell’ordine, appena 3 giorni dopo, hanno ‘legittimamente’ deportato i 2 delatori; vieppiù, il Prefetto di Milano ha successivamente vietato lo svolgimento di nuovi incontri tra i ristretti del CPT e delegazioni del Comitato di sostegno e sono stati effettuati 21 arresti nei confronti degli immigrati in protesta. 

Questo stato dell’arte – ovvero, l’impunità delle violenze a scapito di immigrati c.d. clandestini - trova la sua causa prima nel diritto (eternamente) emergenziale ed eccezionale che regolamenta il fenomeno delle immigrazioni, spostando dal piano sociale alla sfera penale una questione che andrebbe trattata con politiche attive piuttosto che con azioni neofasciste.

In altre parole – evidenziando in questa sede esclusivamente l’ignobile politica di contenimento dei flussi migratori attraverso la detenzione amministrativa e l’esposizione al crimine e ai soprusi cui è relegato il cittadino migrante -  il nodo principale della questione è rappresentato dall’istituto del trattenimento in gabbie etniche - volgarmente denominate CPT - che altro non sono che lager, istituzioni totali caratterizzate da una insostenibile separatezza con il mondo esterno. Separatezza più estesa e drammatica di quella che caratterizza le patrie galere, proprio perché nei CPT ogni possibilità di interazione fra gli “ospiti” e il mondo libero non è regolata da alcuna norma o disposizione conosciuta ed è relegata alla discrezionalità assoluta del Ministero dell'interno, dei singoli prefetti e della prassi poliziesca. Basti pensare al divieto posto in essere più di due anni fa da una circolare ministeriale di far entrare giornalisti all’interno di questi istituti, o alle difficoltà – per così dire - strutturali di interpellare un avvocato da parte di questa nuova categoria ristretta del terzo millennio – ovverosia, detenuti in attesa di espulsione -, per comprendere l’impossibilità di far trapelare al mondo esterno, libero e autoctono, informazioni concernenti le condizioni di vita delle persone ivi trattenute. E se non fuoriescono da tale istituzioni notizie comuni, figuriamoci se possano mai essere esternati episodi di pestaggi a discapito degli “ospiti”. Nulla affatto, li si deporta ‘legittimamente’ verso i paesi di origine, impedendo che gli stessi possano esporre denuncia contro le malfatte subite.

Bisogna rammentare che quando si è ristretti in questi ‘luoghi’ spesso non è avvisata nessuna terza persona né, tanto meno, all’interessato viene rivolto l’invito a nominare un avvocato di fiducia. Eppure la direttiva generale in materia di CPT (dell’agosto 2000, in attuazione dell’art.22 d.p.r. 394/99) dispone l’obbligo di istituire in tutte le strutture detentive etniche presenti nel Belpaese centri di informazione legale. Vi sono stati tentativi della società civile rivolti a dare attuazione a tale disposizione normativa, ma i risultati concreti non sono ancora stati raggiunti. Al comune di Roma, ad esempio, l’ufficio del garante per le persone ristrette nella libertà ha proposto (verso la fine del 2004) l’istituzione a spese dello stesso ufficio di un tale centro all’interno del CPT di Ponte Galeria, ma le lungaggini procedurali non hanno ancora permesso la nascita di questo importante strumento di garanzia per i diritti degli immigrati ivi ristretti. 

Intanto a Torino il 28 Maggio si è tenuta una manifestazione per chiedere la chiusura dei CPT, dove alcuni cittadini migranti hanno rivendicato con rabbia il loro diritto di denunciare gli abusi di cui sono vittime: il 25 Maggio un clandestino nigeriano, Steve Osakue è morto cadendo dal terzo piano di uno stabile per sfuggire a un controllo di polizia; il 10 maggio un senegalese, Mamadou Diagne, è annegato nel Po mentre cercava di sfuggire a un blitz dei carabinieri al Parco del Valentino; il giorno successivo Cheik Ibra Fall, anche lui senegalese, è stato ucciso da un colpo di pistola esploso accidentalmente da un poliziotto.

La fidanzata di Steve Osakue – la vittima del 25 Maggio - è attualmente ristretta nel CPT torinese, dove è stata accompagnata a seguito dell’interrogatorio delle forze dell’ordine immediatamente dopo al decesso del compagno: è un'altra ‘legittima’ detenuta in attesa di espulsione.