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Le lettere dei prigionieri bambini "Ecco il nostro sogno italiano", La Repubblica, 26/06/08

Le storie dei piccoli immigrati rinchiusi nel centro di accoglienza di Lampedusa
raccontate attraverso appunti di quaderno. Il viaggio per mare, la paura e la speranza

Le lettere dei prigionieri bambini "Ecco il nostro sogno italiano"

dal nostro inviato ATTILIO BOLZONI


Le lettere dei prigionieri bambini "Ecco il nostro sogno italiano"
LAMPEDUSA - Il suo nome adesso è un numero. E lui è felice come non lo è stato mai. Finalmente è in Italia. Dietro le sbarre segna i suoi pensieri su un foglio: "Qui comincia la mia nuova vita". Il numero 17 del secondo sbarco del 22 giugno 2008 è Dell, un ragazzino di quindici anni del Ghana. L'hanno raccolto in mare che era svenuto, su un gommone venuto dall'altra parte del mondo. "Posso solo ringraziare Dio che mi ha portato in Italia dove potrò andare a scuola, ricevere un'educazione e dove la sfortuna non mi perseguiterà più", scrive Dell nei suoi appunti.

Isola di Lampedusa, sull'estremo confine meridionale d'Europa si inseguono i sogni dei ragazzi approdati come naufraghi e clandestini. Nelle camerate di quel ricovero forzato che è il "centro di accoglienza" - la loro prima casa, guardati a vista dai carabinieri, curati e sfamati da instancabili volontari - i quaderni di adolescenti e bambini si riempiono di speranze. Molti sono neri, alcuni mediorientali, c'è anche qualche magrebino. Sono tutti rinchiusi in un recinto in mezzo alle campagne, in attesa del loro destino sopravvivono con quel "numero identificativo" della polizia di frontiera.

Numero 71 del quarto sbarco del 20 giugno: è Jude, diciassette anni, nigeriano. Numero 34 del secondo sbarco del 21 giugno: è Appiah, diciotto anni, ghanese. Numero 15 del primo sbarco del 22 giugno: è Karim, sedici anni, palestinese. Numero 36 del secondo sbarco del 20 giugno: è Falis, sedici anni, somala.

Sono i "piccoli uomini" e le "piccole donne" che depositano i loro desideri su un foglio di carta. Sono le loro prime emozioni dopo l'attraversamento del Mediterraneo. È il loro primo diario in terra straniera.
Una pagina a quadretti, qualche scarabocchio con la matita e poi sei righe in arabo. È la testimonianza di Diaa Mohamed Hassan, sedici anni. È il numero 1 del primo sbarco del 22 giugno. Scrive: "Sono uscito dal mio paese che è la Tunisia, sapevo che il viaggio sarebbe stato molto lungo e molto pericoloso ma ho deciso di partire lo stesso per avere di più, per avere di meglio dalla vita. Vorrei fare il meccanico. O anche l'elettrauto. Sono mestieri che ho imparato nel mio paese vicino a Tunisi. Ringrazio il popolo italiano e ringrazio Allah". Il numero 18 del terzo sbarco del 21 giugno è arrivato con tre amici, hanno tutti diciassette anni. Per quattro mesi hanno risalito l'Africa sui camion e a piedi, passando dalla Nigeria e dall'Algeria. Poi si sono imbarcati in Libia. I suoi appunti sono in inglese: "Vorrei diventare uno studente, vorrei avere un futuro di successo in Italia... il mio nome è Seth Boafo... Ghana, West Africa...".
Il numero 36 del quarto sbarco del 22 giugno è una ragazza somala nata nel 1993 a Mogadiscio. La sua è una lettera lunga scritta nella sua lingua, la grafia è elegante e ordinata: "Ancora non ci credo di essere davvero arrivata in Europa, in un posto ricco come l'Italia. Non voglio mai più tornare in Africa, non voglio mai più fare la vita che ho fatto. La vita a Mogadiscio era più brutta e rischiosa del viaggio nel deserto e poi per mare. Per questo me ne sono andata via dalla Somalia, io sono Falis Abdullah Mohem e sono sola".

Il disegno è di una bambina di sette anni. Anche lei è somala. Si chiama Cadeej. È arrivata con la madre e due sorelline. Colora di blu il tetto di una casa, fa lo schizzo di un leone e poi di una farfalla. Sul foglio che ha riempito c'è una bandiera somala, c'è un autobus. E c'è anche un elicottero, forse quello che Cadej ha visto abbassarsi sul suo gommone quando al largo l'hanno avvistata e trascinata fino ai moli di Lampedusa. Su un'altra pagina bianca, la bimba scrive all'infinito il suo nome: "Cadeej, Cadeej, Cadeej, Cadeej.... ".

Ancora un disegno, un'altra bambina. È Jamila, otto anni, sbarcata l'altra notte con sei fratellini, la mamma e due zie. Prova a tracciare i contorni di un cuore rosso che racchiude la figura di una ragazza bionda. Ritrae Grazia che le sorride sempre e accarezza la sua testolina. Grazia, una delle mediatrici culturali del "centro di prima accoglienza" dove è finita anche lei.
Jamila e le altre bimbe.

Sono tutte in quello che lì dentro chiamano "il container delle donne e dei minori". È una palazzina bianca sulla destra, appena si supera il cancello con la garitta e i carabinieri. Poi c'è "il container delle famiglie", un altro prefabbricato sulla sinistra, vicino a un piccolo parco giochi per i bimbi più piccoli. E poi un altro cancello, uno sbarramento, grate, un camminamento laterale, un altro sbarramento ancora e un altro grande recinto. È il posto degli uomini. I neri da una parte, i marocchini e i palestinesi e gli egiziani dall'altra.

Dopo il mare piatto dell'ultima settimana il "centro di prima accoglienza" di Lampedusa è strapieno. Di posti ne ha poco più di 800 ma alle nove del mattino del 23 giugno i clandestini stipati lì dentro sono 1005: 820 maschi, 121 femmine, 15 minori "accompagnati" e 49 minori "non accompagnati". Al tramonto diventano 1349. Le donne africane avvolte nelle loro vesti colorate sono fuori nel cortile, sdraiate sui materassi. Ridono, annodano una all'altra i capelli in lunghe treccine. Gli uomini sono ammassati oltre le sbarre, gli asciugamani in testa per ripararsi dall'ultimo sole, panni stesi sulle inferriate. I ragazzini nelle loro camerate scrivono.

Il nigeriano Jude è un orfano: "L'Italia è la mia nuova casa". Il palestinese Tamer viene da Ramallah: "Il mio paese è in guerra da tantissimi anni, mia madre mi ha spinto ad andare via e non tornare più in Palestina, anche se per ora sono finito in questo posto pieno di barriere sono convinto che qui in Italia troverò la pace". Saida è di Marrakech: "Ho fatto un giro lungo per raggiungere Tripoli dal Marocco, poi i libici ci hanno mandato qua. Voglio fare la cuoca in Sicilia dove mi aspettano tanti amici". Il ghanese Bende, nato il 6 maggio 1991, non conosce ancora nessuno da questa parte del Mediterraneo ma è sicuro di quello che troverà: "Per me il popolo italiano è il migliore del mondo".

C'è chi sogna la nuova vita e chi ricorda quella vecchia. Come Tez, eritreo di diciassette anni. I suoi sentimenti sono divisi fra il passato e il futuro. Scrive: "Sono nato ad Asmara, ho lasciato da solo il mio paese dove ancora vivono i miei genitori, due fratelli e quattro sorelle. Sono un cristiano pentecostale, ho sempre frequentato la chiesa e sono stato un membro attivo della mia congregazione. Purtroppo là, in Eritrea, soffrivamo di discriminazioni da parte degli abitanti del nostro villaggio perché facevamo parte di una corrente cristiana diversa... il peggio è successo nel 2002, quando il nostro governo ha cominciato la persecuzione contro la mia setta... pregavamo di nascosto".

È la cronaca di un calvario religioso: "Durante una di quelle preghiere sono arrivati i poliziotti, ci hanno messi in prigione. Ci hanno accusati di essere spie e cospirare con i paesi occidentali contro il governo eritreo, ci picchiavano, ci torturavano. Per fortuna la mia famiglia conosceva un commerciante che portava cibo alla prigione col suo camion, è riuscito a farmi evadere e mi ha accompagnato fino in Sudan dove ho continuato il mio viaggio verso la Libia...".

La traversata di Tez è durata cinque giorni e cinque notti. Al timone c'era uno di loro, un altro eritreo che non sapeva dove puntare la prua del gommone. Erano senza bussola e senza acqua. Tez è sbarcato con le gambe bruciate dalla benzina mischiata alla salsedine. "Ora voglio stare per un po' in Italia ma il mio desiderio è di andare in Inghilterra, vivere e mettere su famiglia a Londra".
Tez, il numero 42 del quarto sbarco del 22 giugno 2008.
(ha collaborato Khalid Chaouki)