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Una libertà senza confini, Il Manifesto, 22/9/06

Una libertà senza confini
Tra politiche della solidarietà e diritto di fuga. Aporie liberali e paradossi della cittadinanza a partire dalla figure del migrante
Marco Bascetta
Sul piano per così dire etico, vale a dire aldilà dell'utilitarismo che si limita a valutare le opportunità economiche e i bisogni del mercato, vi sono due modi, talvolta intrecciati, ma comunque ben distinti, di guardare al fenomeno delle migrazioni. Il primo, di matrice cattolica o socialista, muove dall'idea di solidarietà; il secondo si fonda sull'idea di libertà, sebbene risulti paradossalmente del tutto inviso a quelle tradizioni di pensiero, liberali o addirittura liberiste, che in linea teorica lo dovrebbero apprezzare. Questa ostilità poggia su una formuletta del liberalismo tanto poco significante quanto ossessivamente salmodiata: «la mia libertà finisce dove comincia la tua». La prima ottica è infestata di paternalismo e cela a fatica la pretesa di riconoscenza che la pervade (e quindi di riconoscimento, senza tante discussioni, delle regole del «donatore» e dei sui modelli sociali e culturali). Anche questo punto di vista, del resto, dispone di un suo motto popolare: «non si sputa nel piatto in cui si mangia».
La singolarità del desiderio
L'oggetto della solidarietà, il migrante, ne risulta connotato dal bisogno, dalla debolezza e dalla disperazione (con tutte le possibili derive criminali proprie di questo stato di indigenza) e costretto a soddisfare condizioni contraddittorie: da una parte deve aderire senza attriti ai «valori» del generoso ospite, ma dall'altro restare prigioniero di una tradizione, comunità o «cultura», cui è negata ogni possibilità di interazione reale. In buona sostanza ciò che gli viene negato è la singolarità del desiderio, così come la possibilità di esercitare critica, ossia ogni dimensione pienamente «personale» e «politica». Il suo stato sarà dunque contrassegnato solo da ciò che ricade al di fuori di queste due sfere: dal lavoro, inteso come liberazione dal bisogno, e dal «costume», inteso come controllo da parte della comunità di appartenenza, chiamata a mediare, per tutti, con le regole della «cultura ospite» e con il ministero degli interni.
Nell'intervista pubblicata sul manifesto (24 agosto), Marco Revelli non sembra avvedersi che è proprio in questa forma perversa che si dà quella convivenza tra diritto pubblico e «altre pratiche e istituzioni meno formalizzate» in cui egli ricerca una possibile soluzione del problema. Del resto, quella «regolazione dei rapporti interni alla famiglia estesa, alla comunità, al clan, alla tribù» in cui Marco Revelli intravvede un correttivo, fondato sulla «relazione», alla fredda arroganza del diritto universalistico, restaura sovente proprio quei legami gerarchici e rapporti di subordinazione e obbedienza, cui molti migranti hanno inteso sottrarsi. Laddove la migrazione non rientra più solo nella categoria del bisogno, ma si configura anche come esercizio della libertà o come «diritto di fuga».
Di tutte le libertà, quella di movimento è forse la più universale e potente, per non dire quella da cui tutte le altre prendono origine. Tanto che la sua privazione equivale praticamente in ogni angolo del pianeta alla punizione e alla pena oppure alla denotazione subumana (schiavo, servo della gleba) di chi la subisce. La sua limitazione mina dunque alla radice l'idea stessa di libertà. Eppure è in primo luogo la limitazione della libertà di movimento il filo rosso che attraversa ogni argomentazione e ogni politica riguardo ai migranti tanto a destra quanto a sinistra. Si sostiene infatti che la libertà di movimento minerebbe le nostre libertà aprendo a chi non le condivide, o si presume non condividerle, lo spazio in cui esse si sono storicamente affermate e innervano la vita sociale e individuale. Si nega insomma il più universalistico dei principi per proteggere la pretesa universalistica dei «valori occidentali».
Il paradosso liberale
La libertà sarebbe così malauguratamente costretta a difendersi cancellando la sua origine più genuina. Può sembrare il vecchio problema, senza soluzione e forse senza senso, se e quanto si debba concedere libertà ai nemici della libertà, ma si tratterebbe di una bieca mistificazione non potendosi certo imputare ai migranti e all'esercizio del loro «diritto di fuga» precisi intenti liberticidi o subdolamente colonizzatori. A fronteggiare il paradosso si schiera allora la ben nota formulazione liberale, ricalcata sugli schemi del diritto proprietario, secondo cui la propria libertà avrebbe come unico limite la libertà altrui, ovvero il mio podere termina laddove inizia il tuo. Sebbene contraddetta e smentita, fin dalla sua formulazione, dall'asimmetria evidente dei rapporti sociali, la formula ritorna, con argomentazioni più o meno grottesche, a contrastare la libertà di movimento, accompagnata dall'altro sacro principio che la retorica liberale condivide con i peggiori populismi: «essere padroni in casa propria». Principio da cui discende, fra l'altro, la propensione nazionalista, e sempre potenzialmente guerrafondaia, a considerare un determinato territorio come «proprietà» di un determinato popolo a esclusione di tutti gli altri.
La finzione collettiva si sostituisce così alla finzione individualistica sotto il segno del medesimo diritto proprietario. Che la circolazione dei capitali non corrisponda a quella delle persone, quando non si fondi proprio sulla sua negazione, è una banale evidenza storica. Sul fatto, poi, che la figura del migrante introduca un elemento di trasformazione, diciamo pure di innovazione, che investe concetti e certezze consolidate, schemi mentali e abitudini, formule ideologiche e dispositivi politici, ritorna efficacemente Sandro Mezzadra nell'intervista pubblicata il 5 settembre, sempre sulle pagine del manifesto. Investe dunque concetti come quello di cittadinanza, di rappresentanza o di libertà.
Sul sentiero della libertà
Ma in quale direzione può essere sospinta la nostra idea di libertà, in alternativa a quella sua progressiva contrazione, dettata dalla paura e dal risentimento, dal vittimismo e dallo spirito di vendetta, che oggi domina la scena della politica mondiale? Potremmo allora avventurarci sul sentiero indicato da Roberto Finelli nell'ultimo breve saggio del suo libro Tra moderno e postmoderno (Pensa multimedia, pp.346, euro 19). A cominciare dal titolo che gli ha voluto dare «Una libertà post-liberale e post-comunista». Ma che cosa significa? Sul piano del post, o della negazione, significa un esercizio della libertà che non risieda né nell'individuo atomizzato né in una dimensione collettiva sovraordinata. Sul piano della costruzione in positivo Finelli segue quella pista psicoanalitica che legge la formazione della singolarità personale e la costruzione del sé come processo che implica necessariamente il riconoscimento dell'altro. E la libertà come espressione di questo intreccio, antitetico tanto alla distinzione pubblico-privato della tradizione borghese quanto alla socializzazione astratta e autoritaria del socialismo.
In questa direzione muove anche l'antropologia sociale di Axel Honneth, cui Finelli si richiama direttamente, tutta protesa a coniugare individuazione e socializzazione, così che «si può pensare, diversamente dal diritto liberale e dal diritto comunista, che portatrici di diritti in generale non siano più gli individui, atomisticamente concepiti e presupposti, ma le istituzioni del riconoscimento a patto, ovviamente, che, per sfuggire all'estremo opposto di un invasione del collettivo nella singolarità, il loro scopo istituzionale prioritario sia proprio la promozione e l'accudimento dell'autodeterminazione individuale». Senonché chi e che cosa garantisce il mantenimento di questo patto? Tanto più quando il riconoscimento si istituzionalizza, come nelle politiche del multiculturalismo, in uno schema che soffoca le singolarità rinchiudendole nelle diverse tradizioni culturali comunitarie. Quando il concetto stesso di riconoscimento diventa equivoco, istituendo più una distanza incolmabile che un'interazione possibile. Così come le «relazioni meno formalizzate» cui fa appello Revelli, così anche le «istituzioni formalizzate del riconoscimento» non garantiscono in alcun modo di operare per la libertà dei singoli. Ed è allora proprio la figura del migrante a scardinare questo schema.
Le grandi migrazioni da est a ovest, da nord a sud costituiscono indubbiamente un fenomeno collettivo, una risposta di massa agli assetti attuali del pianeta, ma incarnati in scelte, desideri, destini rigorosamente individuali, mai riconducibili a un disegno unitario. Un cambiamento della Storia attraverso una molteplicità irriducibile di storie, una rivoluzione senza ideologia (ma non priva di violenze) una pretesa di riconoscimento non attraverso ma contro le istituzioni. E' in questo movimento intimamente conflittuale, in perenne implicito attrito con il luogo di provenienza così come con quello di approdo, insofferente a qualsiasi forma di normazione, che si dà forse a vedere tra luci e ombre una forma postliberale e postcomunista di libertà. Una dimensione comune nella quale il singolo non sia condannato ad annullarsi.