Muro Usa-Messico: «sì» elettorale
Superato in senato l'ultimo scoglio per la costruzione
Franco Pantarelli
New York
Hanno discusso per un anno e mezzo; la camera e il senato hanno organizzato innumerevoli audizioni di esperti e di parti interessate; sono state scritte, cestinate e riscritte decine di proposte di legge; gruppi di cittadini si sono organizzati come «vigilantes» per fermare l'orda che viene dal Sud; centinaia di migliaia di persone (appartenenti all'orda) sono scese in piazza per rivendicare i loro diritti. E alla fine l'unica decisione presa, almeno per questa legislazione, è stata quella di costruire il famigerato muro al confine fra Stati Uniti e Messico. Sarà lungo 700 miglia (circa 1200 chilometri) e coprirà un terzo del lunghissimo confine, in pratica solo la parte riguardante l'Arizona e il Nuovo Messico, ignorando quella di Texas e California.
Dato l'andamento di quell'anno e mezzo di dispute (la camera che approva una legge decisamente forcaiola, il senato che risponde con una legge molto più «umana» e George Bush che si colloca nel mezzo) non sembrava possibile che riuscissero a trovare un accordo in extremis, prima che il lancio della campagna elettorale, per il voto del 7 novembre, svuotasse il Congresso. Ma i repubblicani avevano bisogno di «qualcosa» da offrire ai loro elettori più beceri e così si è trovato un accordo al «ribasso», nel senso che il senato ha approvato la costruzione del muro negli esatti termini in cui era stato approvato un mese fa dalla camera e tutto il resto è stato rimandato alla prossima legislatura.
Anche con la legge approvata l'altro ieri, comunque, il muro rimane soprattutto un «simbolo», perché lo hanno approvato stanziando per la sua costruzione soltanto un miliardo e 200 milioni di dollari, che costituiscono un modesto acconto di quanto in effetti costerà. Ma si sa che in campagna elettorale la bruta realtà dei numeri non conta. I deputati repubblicani in cerca di una difficile rielezione avevano bisogno di un «simbolo», nulla come il muro poteva servire allo scopo e i loro colleghi senatori li hanno accontentati.
La necessità di evitare le code procedurali che ogni differenza fra la legge della camera e quella del senato avrebbe provocato, ha finito per avere degli aspetti che hanno rasentato il comico. Un emendamento presentato da due senatori repubblicani, affinché fosse il dipartimento della Sicurezza nazionale a decidere «dove» collocare le 700 miglia di muro fra le oltre 2000 di confine, è stato bocciato senza neanche discuterlo; un altro emendamento bipartisan in difesa dei lavoratori agricoli (il settore in cui gran parte gli «illegali» vengono impiegati e sfruttati in modo inverecondo) ha avuto lo stesso destino e perfino un emendamento «tecnico» presentato addirittura dal leader dei senatori repubblicani, Bill Frist, è stato bocciato perché «non c'era tempo». Insomma, la classica «leggina elettorale».
Il «vero» lavoro, per dare al problema degli immigrati una regolamentazione, avverrà solo dopo. Sul tavolo ci sono molte proposte, non proprio concordanti fra loro. Per fare un paio di esempi, c'è quella di trasformare da «infrazione» a «crimine» la presenza illegale in questo paese e quella di offrire agli immigrati «senza documenti» una via per sistemare la loro situazione; c'è quella di «snellire» le leggi in modo che la polizia possa arrestare e deportare la gente senza tante storie e quella di creare un programma per «lavoratoti ospiti», e così via. Il «segno» che quel lavoro prenderà dipenderà dall'esito elettorale. Se - come molti prevedono - i democratici riusciranno a conquistare la maggioranza alla camera, il lavoro di armonizzazione con il senato diventerà molto più facile. Se invece la maggioranza resterà ai repubblicani, l'incompatibilità fra i due rami del Congresso su questo punto continuerà a bloccare tutto per molto tempo ancora.