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Ius migrandi, di E.Vitale

 

Ius migrandi.

 

Figure di erranti al di qua della cosmopolidi Ermanno Vitale  

di A.M. Pugliese 

Master Universitario in Politiche dell’Incontro e della Mediazione culturale

Università degli studi Roma Tre

 

 

Modulo diritti. Prof. Stefano Anastasia; tutor Simona Filippi e Gennaro Santoro

 

  Introduzione. La riflessione di Ermanno Vitale sulla condizione dell’emigrante prende spunto dalle parole con cui Salman Rushdie definisce tale condizione nel testo Patrie immaginarie. Come Rushdie l’autore individua nella fatica materiale e la sofferenza psicologica del migrare caratteri universali dell’essere umano che intraprende un’esperienza di migrazione. La sua riflessione non muove da una rigida interpretazione ma si sviluppa al confine tra storia, filosofia, politica, autobiografia e letteratura e si serve di testi ed autori che non appartengono all’ambito scientifico degli studi sui fenomeni migratori per offrire un ulteriore angolo visuale sulle migrazioni. La riflessione sulla figura del migrante non è volta solo ad individuare una tipologia del migrante moderno ma è soprattutto l’occasione per riflettere sulla società moderna: il libro nasce dall’indignazione all’indifferenza dei cittadini delle società opulente “verso l’annichilimento delle persone più deboli” e mette in discussione una civiltà che teoricamente si dichiara fondata sul rispetto dei diritti fondamentali della persona - dunque anche delle persone più deboli - ma che in realtà si rivela indifferente e ostile verso questi ultimi. Le leggi sull’immigrazione degli Stati democratici di diritto prospettano una pessima sorte ai diritti fondamentali della persona, mentre l’ideale della cittadinanza cosmopolitica si fa sempre più lontano. La riflessione sui migranti coinvolge anche quanti vivono oggi tutelati dai diritti dagli stati in cui risiedono, in quanto nuove politiche di regolamentazione dei flussi migratori interni agli stati potrebbero in futuro mettere in discussione anche la loro libera circolazione.      Migrazioni degli antichi e dei moderni. In primis Vitale mette in discussione il tradizionale modo di intendere il termine “migrazione”. Egli ampia il significato proposto dalle discipline scientifiche e mutuato dalla biologia e dalla zoologia - come uno spostamento volontario di un gruppo consistente di individui verso un regione/stato diversa/o alla ricerca di migliori condizioni di vita - includendovi anche i semplici viaggiatori. Per migratio è da intendersi un percorso migratorio implica fatica ed è onerosa - la migrazione implica un viaggio scomodo, può essere motivata o imposta da una condizione di disagio perciò non è sempre una libera scelta -. Sulla base di questi caratteri si possono distinguere, secondo l’autore, ben cinque figure di migranti: l’emigrante (o immigrante), il profugo, il marrano, l’ (auto)deportato e l’“autosegregato”. Va considerato come migrante - intendendo la migratio come metafora e rottura delle regole - anche il “rivoluzionario” etico e politico, che compie un viaggio pericoloso non solo nello spazio ma anche nel tempo: egli migra per i posteri, tentando di costruire il futuro per sé e i suoi figli ma soprattutto per i posteri. Delle migrazioni che vedono protagoniste queste diverse figure le teorie sociologiche, economiche e politologhe hanno tentato di spiegare l’origine e la persistenza - alla ricerca di leggi generali di tipo probabilistico - finendo per riservare una scarsa attenzione alla persona, alla sua condizione esistenziale e per escludere dal dibattito sui fenomeni migratori alcune figure di migranti. Con la sua analisi delle cinque tipologie di migranti in quanto prodotto della modernità, per offrire Vitale trae spunto per riflettere sul nuovo ordine mondiale e sui fenomeni migratori che lo attraversano. Pur riconoscendo alle migrazioni un carattere comune - esse hanno sempre implicato fin da tempi ancestrali sofferenze, lotte e incomprensioni tra gli uomini e i popoli - egli distingue tra le migrazioni dei moderni e le migrazioni degli antichi. Innanzitutto l’età antica e quella moderna riflettono due visioni del mondo - olistica quella antica e individualistica quella moderna - in cui si sono sviluppati fenomeni migratori di natura diversa: nell’antichità prevaleva una forma migratoria di tipo comunitario mentre nell’età moderna una forma individuale. Le migrazioni moderne risultano inoltre connesse alla nuova realtà dello Stato territoriale come Stato-Nazione. Lo Stato moderno fissa dei confini e li difende discriminando tra sudditi/cittadini o stranieri: i confini degli Stati contribuiscono a craere la figura dello straniero che coincide in parte con quella del migrante[1]. Lo Stato moderno non può spiegare però in maniera esclusiva origine e modalità delle migrazioni moderne e il tipo di migrante moderno, in quanto il concetto di straniero risulta essere già presente nelle civiltà antiche. Nel mondo greco, ad esempio, lo straniero era un concetto non uniforme: esistevano due diverse tipologie di straniero, lo xenos - straniero parziale, biologicamente e culturalmente pensato come simile - e il barbaros - lo straniero totale, quasi biologicamente altro -. Anche nella Roma arcaica è rintracciabile la distinzione tra straniero parziale e straniero totale nelle due figure dell’hostis e del perduellis[2]. Nell’antichità a spostarsi su un territorio a scontrarsi per contenderselo erano interi gruppi di popolazione, tra cui le poleis greche, che si scontravano tra loro o contro i barbari persiani, i romani contro le tribù latine. Nell’età moderna invece la guerra rimane distinta dalla migrazione, che ne costituisce solo una conseguenza indiretta. Il carattere comunitario delle migrazioni non è scomparso all’inizio dell’età moderna ma si è protratto fino al tramonto del colonialismo; basti pensare ai gruppi di coloni organizzati che hanno lasciato l’Europa alla volta del continente americano che hanno vissuto un’esperienza migratoria al tempo stesso antica e moderna - dalla colonizzazione degli Stati Uniti alle ultime forme coloniali del Novecento -. E’ solo con la fine del secolo le migrazioni hanno acquisito un carattere esclusivamente individuale: anche laddove sono masse di individui a spostarsi da stati definiti a territori altrettanto definiti e con motivazioni non differenti manca loro un progetto e una guida condivisi specifici delle migrazioni comunitarie. Gli Stati a cui sono diretti i flussi migratori sono Stati democratici di diritto fondati sul riconoscimento costituzionale dell’inviolabilità dei diritti individuali della persona. In questi paesi esistono però negli ordinamenti giuridici norme e interpretazioni di queste che discriminano tra cittadino e straniero e tra straniero e straniero a seconda della loro cittadinanza in ambiti che riguardano non l’individuo come cittadino ma come persona. In questi Stati i diritti fondamentali della persona - tra cui anche il diritto alla migrazione - pur essendo teoricamente attribuiti anche ai migranti dalle carte costituzionali degli stessi praticamente sono dispensati come privilegi connessi alla cittadinanza, perciò non esercitabili dai migranti -. Emigranti e profughi.  Per delineare le tipologie di migranti Ermanno Vitale, come è stato già accennato, adotta un punto di vista soggettivo, in quanto questo si rende adatto a indagare non solo le ragioni “oggettive” a fondamento dei flussi migratori, quali accadimenti naturali imprevedibili e particolari congiunture economiche ma anche le motivazioni soggettive di ciascun migrante. Non si può per l’autore assimilare i migranti in una unica categoria visto che il disagio, le sofferenze, le speranze e la disperazione, che pur connotano ogni esperienza migratoria, sono vissuti in maniera diversa, sia qualitativamente che quantitativamente che in termini di intensità, dalle diverse figure di migranti[3]. L’esercizio di delineare una tipologia delle persone migranti può costituire un utile esercizio alla dottrina dei diritti fondamentali a tutela dei più deboli, tra cui gli stessi migranti[4]: comprendere chi sono i migranti più deboli e perché lo sono potrebbe contribuire a riaffermare la necessità di garantire il diritto alla migrazione - diritto che rimanda direttamente al cuore dei diritti fondamentali della persona: la libertà personale e di movimento -. Le figure di migrante moderno analizzate in questo capitolo da Vitale sono l’emigrante e il profugo, forse le più “classiche” figure di migranti, facendo ricorso a due testi che si collocano al confine tra discipline diverse: Furore (The Grapes of Wrath) di John Steinbeck, Noi profughi (We refugees) di Hannah Arendt. A partire dal testo di Steinbeck Vitale si interroga su una delle distinzioni più consolidate e scontate, tra migrazioni interne e migrazioni internazionali. Solitamente le seconde sono considerate più problematiche in quanto interessano i confini statuali che impongono una serie di restrizioni legislative per gli stranieri che invece il migrante interno non si vede sottoposto.  Quest’ultimo è in definitiva un cittadino a pieno titolo ed ha il diritto a risiedere dove meglio crede all’interno dei confini del paese. Dalla lettura del testo emerge in realtà che questa distinzione per i migranti è quasi inesistente o può essere addirittura capovolta: un individuo può essere considerato un migrante interno anche se in condizioni di marginalità solo a condizione che viva ancora all’interno dei codici che non lo separano dal resto dell’umanità e in particolare della collettività che lo circonda stabilmente; quando il migrante si ribella alle regole della società allora passa alla condizione di barbaro interno, diventa agli occhi degli stanziali un fuorilegge. Il testo di Hannah Arendt invece offre l’occasione di riflettere sulla doppia figura del “paria”, e del paria consapevole, “come cifra universale della condizione del profugo moderno (e, vieppiù, dell’apolide)”. La Arendt afferma che il profugo è portato a rifiutare la definizione stessa di profugo per allontanare l’onere psicologico che questa condizione comporta e che lo trasforma in “paria”: la definizione di “profugo” è accompagnata nel senso comune dal pregiudizio di aver fatto qualcosa di grave, ad esempio aver sovvertito l’ordine costituito. L’assenza di questa colpa (incomprensibile a se stessi e agli altri) non fa che accentuare la condizione del paria, rendendo più insopportabile la vita del profugo, che nulla ha fatto. Per sfuggire a questo inevitabile pregiudizio persecutorio il profugo tenta di cambiare la definizione del suo status, cercando di “spacciarsi per un semplice immigrato economico”. Il paria è dunque il frutto di una società che lo marginalizza fino al disconoscergli un carattere umano, per cui non sono riconosciuti di fatto i diritti umani fondamentali. Nella sua figura si palesa dunque la contraddizione tra teoria e prassi dell’universalismo dei diritti (innanzitutto come diritti della persona), anche in seno alle società dove è previsto il rispetto dei loro diritti dalle Dichiarazioni internazionali e dei diritti o dove questi sono protetti dalle costituzioni nazionali. A contribuire alla definizione della figura del profugo, escludendolo dalla collettività politica in cui fisicamente abita, è anzitutto il concetto di cittadinanza (nazionale): a questa figura viene riconosciuta una natura eccezionale e una presenza provvisoria nel paese di “accoglienza”. Arendt sposta poi la sua attenzione poi sulla ulteriore metamorfosi del profugo in apolide, individuandone l’origine nell’esclusione da una comunità politica; inoltre allo stesso modo del profugo anche l’apolide con la loro esistenza denunciano “l’idealismo ipocrita o ingenuo” della dottrina dei diritti umani, i quali altro non sono che fandonie e assurdità. Vitale, pur condividendo l’accusa dell’autore ai “fabbricanti di apolidi di fatto” (non più i regimi totalitari ma le logiche di mercato e le legislazioni dei cosiddetti paesi democratici sempre più restrittive in materia di immigrazione), ne contesta invece il pensiero circa le cause profonde che generano l’apolidia di fatto come fenomeno di massa e il suo giudizio superficiale sulla dottrina dei diritti umani. La riflessione sui profughi si conclude con la comparazione tra gli emigranti raccontati da Steinbeck e da Arendt, da cui emerge che entrambe le figure sono il prodotto di tragici errori del Novecento - i profughi e gli apolidi sono in effetti il prodotto prima di politiche di potenza e poi del materializzarsi dei sistemi totalitari - e seguono percorsi di uscita dalla società civile: gli emigranti passano rapidamente da concittadini a “barbari interni”, a cui non è garantito più il diritto alla vita; i profughi sono invece all’inizio stranieri che finiscono per decadere ben presto anch’essi nella condizione di barbari (a meno che eventualmente non si applichi loro il diritto di asilo o le convenzioni internazionali). Dunque le due figure pur partendo da posizioni diverse giungono a punti di arrivo simili, a volte anche identici.               Vil marrano. Vitale individua anche nel marrano una delle figure moderne del genere “migrante”, e per delinearne il profilo ripercorre per sommi capi le vicende dei marrani veri, cioè degli ebrei che si convertirono forzatamente al cristianesimo, soprattutto in Spagna, tra la fine del Trecento e gli inizi del Cinquecento e che si distribuirono per il mondo - una sorta di “diaspora nella diaspora” -. Le vicende storiche degli ebrei conversos hanno generato con l’avvento della modernità un nuovo tipo psicologico di uomo, senza radici e senza speranza: i conversos non vennero mai accettati nel mondo cristiano come buoni cristiani ma sempre guardati col sospetto di continuare a praticare il loro vecchio credo, così pure da parte ebraica essi vennero ritenuti dei traditori sia che praticassero forme di criptogiudaismo che agissero da cristiani convinti. Uno dei tratti caratteristici che la storia ha attribuito al marrano consiste appunto nel portare il peso di una duplice colpa: da un lato la colpa di rimanere ebreo in quanto a origine nonostante la conversione e dall’altro quella di aver rinnegato le origini fingendosi cristiano. Secondo Vitale nei migranti moderni si possono rintracciare dei tratti propri della figura del marrano: come l’emigrante e il profugo il marrano migra per sfuggire ad un male certo alla ricerca di una condizione migliore o che gli offra maggiori probabilità di sopravvivenza. A differenza dei migranti moderni, che migrano individualmente e senza un progetto comune ma che hanno la speranza di ricostruire in terra straniera lo stile di vita tradizionale, egli non può godere di questa speranza e vive in assoluta solitudine il suo dramma per sopravvivere - il marrano considera la sopravvivenza personale sempre in pericolo, e a ciò commisura tutte le sue scelte, finendo per alimentare la spirale perversa dell’esclusione e dell’autoesclusione -. Egli si differenzia dalla categoria del migrante moderno anche perché il suo percorso non prevede un punto di arrivo prestabilito - la migrazione prevede una meta prestabilita, anche se solo temporanea, intesa sia come luogo fisico che come progetto di “socialità possibile” - in quanto è cacciato e scacciato da altri; la mancata accoglienza fa di lui uno “straniero”, un “nemico”. Egli si preoccupa solo di fuggire sperando che la colpa di essersi trasformato da ebreo in cristiano venga prima o poi dimenticata. La fuga che il marrano intraprende lo porta a fuggire anche dalla propria umanità: per sopravvivere egli si vede costretto ad agire strategicamente e “diabolicamente” anche sovvertendo le regole che in altre situazioni avrebbe considerato immorali e avvicinandosi alla mentalità dei propri persecutori per avere maggiore probabilità di farcela. Questo meccanismo produce ciò che Vitale definisce la “selezione alla rovescia”, per cui sono i più scaltri, gli individui “peggiori”, che sopravvivono mentre quelli che non scendono a compromessi, i “migliori”, soccombono[5]. Lo stesso accade oggi con i fenomeni migratori, dove ad avere le maggiori possibilità di farcela sono gli individui disposti ad agire secondo modalità criminali e corrotte. A riprodurre oggi la selezione alla rovescia non è più il sistema inquisitoriale ma le istituzioni, gli organi di informazione, le norme e le politiche nei confronti dei migranti, che discriminando tra di essi in base alla religione o alla provenienza etnica non fanno che riprodurre tentativi di aggiramento tipici della condotta “marrana”: i migranti si convertono in massa, contraggono matrimoni di comodo, abbandonano stili di vita tradizionali per la massificazione ma ancor più significativo essi sono disposti all’autodeportazione.In conclusione del capitolo Vitale osserva come oggi lo stigma di marrano ricorre anche nel mondo intellettuale: l’epiteto si presta ad indicare anche determinate prese di posizione intellettuali che si pongono in maniera autonoma al di fuori del controllo di pensiero comunitario. Tra gli intellettuali che rischiano di essere additati come vili, marrani, rientrano coloro che prendono seriamente la dottrina dei diritti fondamentali della persona e la sua positivizzazione: chi, ad esempio, tenta di riaffermare il rispetto dei diritti fondamentali dei più deboli, tra cui i migranti, laddove essi vengono messi in discussione dalla ragion di Stato o dalla ragione economica viene accusato di tradire i valori della civiltà a cui appartiene e da cui viene chiamato fuori; e dipinto come un “vil marrano”.           Autodeportazione. Il deportato è una figura di migrante tipica del Novecento[6]. Ciò che distingue in maniera assoluta il fenomeno della deportazione dalle altre forme di migrazione è la mancanza di qualsiasi elemento di scelta e di assenso delle persone deportate. Vitale rintraccia nelle migrazioni clandestine una forma di deportazione volontaria o autodeportazione: i migranti che si affidano ai “mercanti di uomini” si considerano disponibili a perdere la dignità umana e a tutte le conseguenze che ciò comporta; pur non mancando l’elemento dell’inganno e del raggiro chi decide di migrare clandestinamente molto spesso sa la condizione materiale e morale che lo attende e che lo condurrà fino all’annullamento della sua dignità di uomo. Le ragioni che inducono milioni di individui ad autodeportarsi non rientrano esclusivamente nell’ambito economico, visto che nella maggioranza dei casi essi subiscono un ulteriore impoverimento anche dal punto di vista materiale. Secondo l’autore si può tentare di spiegare il fenomeno facendo ricorso alla prospettiva soggettiva del disagio, delle speranze irrazionali e delle illusioni che possono spingere un individuo a rinunciare all’esercizio dei propri diritti fondamentali. E’ il desiderio di difendere il diritto alla vita che spinge in primis gli individui a rinunciare agli altri fondamentali diritti: questo è appunto il tragico paradosso dell’autodeportazione. Per comprendere le motivazioni soggettive delle deportazioni moderne l’autore mette a confronto due testi al confine tra letteratura e politica, lontani nel tempo e nel metodo, che affrontano il tema della servitù, della schiavitù o prigionia volontaria: il Discorso sulla servitù volontaria (1548 ca.) di Etienne de La Boétie e La domesticazione del comando in Massa e potere di Elias Canetti. Come per La Boétie anche per Vitale è un potere di tipo tirannico a generare forme di schiavitù: per il primo è la figura del tiranno reincarnata nell’assolutismo monarchico della Francia del Cinquecento la fonte della schiavitù; per il secondo sono gli Stati di diritto e le istituzioni internazionali a perpetrare ancora oggi forme di schiavitù planetarie. I grandi fenomeni migratori, nei territori dove assumono la connotazione di “deportazione volontaria”, sono appunto la conseguenza di decisioni prese altrove da “legislatori” tiranni che non consentono alle persone soggette alle medesime decisioni di esercitare alcun potere di scelta, di controllo o di influenza. In conclusione l’autodeportazione non sarebbe altro che la resa incondizionata a questo ordine iniquo delle cose, noto come globalizzazione. Come lotta a questo ordine internazionale iniquo, che priva i deboli sottoposti alle decisioni delle organizzazioni internazionali della loro umanità fino a spingerli alla (auto)deportazione, Vitale propone forme esclusivamente pacifiche di disobbedienza civile planetaria - attraverso le quali si affermi il  rifiuto di servire e si ribadisca la dignità delle persona -, e non violente - scegliere forme di contestazione non pacifiche come il terrorismo non farebbe altro che alimentare il meccanismo di riproduzione delle condizioni globali della servitù volontaria, autorizzando interventi militari pensati come indispensabili a garantire i diritti di libertà -. Emancipazione o autosegregazione? Un altro tipo di migrazione esaminato nel volume è la creazione dello Stato di Israele, che si qualifica molto più simile alla fondazione delle colonie greche nell’antichità che non alle migrazioni tipiche del Novecento. Israele nasce idealmente dalla migrazione pianificata da individui che condividono un’identità culturale e religiosa oltre al progetto politico: il sionismo si propone di trovare una collocazione sicura al popolo ebraico perseguitato dalla notte dei tempi.Le vicende storiche hanno rivelato il fallimento di questo progetto, sia perché la maggioranza degli ebrei non si è trasferita nel nuovo Stato ma anche perché quest’ultimo non è riuscito a garantire ai suoi cittadini una vita sicura e tranquilla - la terra promessa si è rivelata un inferno peggiore della stessa diaspora -. La creazione della colonia ebraica da elemento di emancipazione si è invece rivelato un’occasione di autosegregazione: dal cosmopolitismo della diaspora si è passati alla chiusura in se stessi al fine di tutelare la sicurezza nazionale. L’ossessione di garantire la difesa del proprio territorio ha impedito allo Stato di Israele di aprirsi al dialogo con le altre realtà religiose ed etniche del Medio Oriente: l’identità nazionale ebraica si è definita sulla base della presunta superiorità in termini finanziario, imprenditoriale e intellettuale verso i palestinesi e il resto del mondo e sulla pretesa di possedere una verità assoluta. La pretesa dei coloni di riprendere possesso del territorio dei propri antenati a cui era stato loro attribuito dall’unico vero Dio ha prodotto nuovamente come al tempo del contratto stipulato con Mosè nel deserto una lotta con le popolazioni locali, considerate usurpatrici. Di conseguenza i non ebrei che vivono in territorio ebraico in quanto i figli degli antichi usurpatori non sono concepiti come titolari di fatto degli stessi diritti di cittadinanza - essi occupano nella società israeliana solo una posizione marginale -. Non accettando la pari dignità di altre identità etnico-religiose gli israeliani non fanno che alimentare l’ostilità con le realtà confinanti. L’esempio di Israele insegna, come sottolinea l’autore, che non è sufficiente, dare ad un “popolo” uno Stato per metterlo al sicuro da violenze, persecuzioni, dispersione e fughe di individui nei vari angoli del pianeta. Solo l’abbandono definitivo di questa logica può invece garantire come diritto fondamentale della persona il risiedere o migrare in una parte qualsiasi del pianeta, e può rendere possibile farlo pacificamente e sulla base di scelte solo o in prevalenza individuali. Migrare con i posteri. Dall’analisi delle diverse figure di migrante nella tarda modernità incentrata sulla loro condizione esistenziale è emerso più volte il riconoscimento del diritto alla migrazione come corollario del diritto alla libertà personale e di circolazione. Secondo Vitale è il “diritto a migrare” e non il “diritto alla fuga” a dover essere rivendicato dai migranti in quanto condizione preliminare al godimento dei suoi diritti come persona. Il “diritto” alla fuga non ha ragione di essere positivizzato in quanto sottintende l’idea che il fuggitivo sia un criminale: chi si ribella ad un potere oppressivo che minaccia la sua vita si pone fuori da una condizione giuridica - quindi al controllo dello stato - passando da cittadino a nemico; considerata la sproporzione tra l’individuo e lo Stato, chi diventa un fuorilegge non ha via di uscita che la fuga. Il migrante, che non ha alcuna grave colpa, se non quella di sottrarsi a condizioni esistenziali disperate e al rischio di perdere la vita, in molti casi, viene considerato alla stregua di un criminale che invece fugge per sottrarsi alla giustizia. L’attribuzione del “diritto” di fuga ai migranti non fa dunque che creare e alimentare nuove discriminazioni ed esclusioni. In conclusione, secondo Ermanno Vitale, considerare i migranti come dei fuggitivi - la cui fuga è giustificata solo da una sorta di diritto naturale alla vita - “preclude la via a ogni possibile rivendicazione del diritto positivo alla migrazione e alla pensabilità stessa che tutti gli esseri umani siano un giorno cittadini della cosmopoli”.


[1] Lo Stato territoriale moderno non produce di per sé i migranti ma tende a governare le migrazioni dall’esterno e l’attraversamento delle sue frontiere: l’istituzione delle frontiere moderne ha rappresentato la fine del loro stile di vita errante per quei gruppi nomadi perseguiti prima come nemici interni e poi come barbari interni.

[2] L’ hostis era considerato il simile al confine con l’Impero con cui Roma aveva rapporti di pace e di guerra, mentre il termine perduellis indicava i nemici perpetui di Roma che venivano respinti in quanto non riconosciuti come simili.     

[3] A questo proposito egli si rifà allo studio di Sandro Mezzadra, di cui accetta una lettura delle migrazioni non quantitativa ma qualitativa che si interroga anche sulle motivazioni soggettive dei migranti; alla lettura di Mezzadra Vitale rimprovera però un eccesso di soggettività, per aver individuato nei migranti tutti dei potenziali rivoluzionari e per aver accomunato nella categoria del fuggitivo tutti coloro che si spostano per disagio.  

[4] Questo approccio presume che tutti i migranti sono i più deboli tra i deboli: pur esistendo casi di migranti fortunati che si sono integrati nonostante l’ostilità nei loro confronti in quanto forti, la storia ci insegna che nelle migrazioni è insita la fatica e la sofferenza e che i migranti sono tra i deboli che soccombono in mancanza dei diritti e delle loro garanzie.

[5] Nei lager, Primo Levi insegna, erano gli ebrei deboli, da lui definiti “sommersi”, a soccombere mentre quelli vili egoisti e collaboratori, i “salvati” , avevano la possibilità di sopravvivere.    

[6] A differenza delle deportazioni dei secoli precedenti, connesse a ragioni propriamente economiche, quelle del Novecento si caratterizzano per essere funzionali all’ideologia dei regimi totalitari.