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Reati d'immigrazione e cittadini neocomunitari: nessuna abolitio criminis. Cassazione, Sez. I penale, sentenza 11.01.2007 n° 1815

Reati d'immigrazione e cittadini neocomunitari: nessuna abolitio criminis

Cassazione, Sez. I penale, sentenza 11.01.2007 n° 1815

 

La circostanza che la Polonia sia entrata a far parte a far parte dell’Unione Europea dal 2004, con la conseguente libera circolazione dei cittadini polacchi nell’ambito dei Paesi aderenti, non ha alcuna influenza sulle condotte criminose commesse in data antecedente alla ratifica del Trattato di adesione, poiché la qualifica di cittadino di Stato non appartenente alla Ue è un presupposto della condotta, che però non concorre a delineare il precetto penale previsto dall’art. 12 D.Lgs 286/98 (Testo unico sull'immigrazione). Ne consegue che, qualora il Paese di appartenenza dell’imputato venga a far parte della Ue in epoca successiva alla commissione del reato, si verifica una successione di norme extrapenali che non integrano la fattispecie incriminatrice, sì che non è consentita l’applicazione della disciplina prevista dall’art. 2, commi 2 e 4, c.p.

Così la sentenza n. 1815/07 – depositata lo scorso 22 gennaio con cui la prima sezione penale della Cassazione ha respinto il ricorso di un imputato condannato a tre anni e due mesi di reclusione per aver favorito, a fini di lucro, l’ingresso illegale in Italia e comunque la permanenza di due cittadine polacche poi avviate al lavoro di “badanti”, dal dicembre del 2000 all’aprile del 2001, in epoca cioè anteriore all’ingresso della Polonia nell’Unione europea (avvenuto a far data dal 2004).

La richiesta di declaratoria ex art. 129 Cpp perché il fatto non sarebbe più previsto come reato – spiega la Corte regolatrice – non può trovare accoglimento perché l’adesione alla Ue successiva all’epoca del commesso reato non implica «una modifica [mediata] della disposizione sanzionatoria penale, bensì determina esclusivamente una variazione della rilevanza penale del fatto con decorrenza dall’emanazione del successivo provvedimento normativo di adesione del nuovo paese all’Ue, limitatamente ai casi che possono rientrare nel nuovo provvedimento, senza far venire meno il disvalore penale del fatto anteriormente commesso». Insomma l’art. 2 Cp – invocato dal ricorrente – è inapplicabile perché il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina continua a costituire reato conservando, nella previsione legislativa, tutto il proprio disvalore penale.

 

Il fronte della magistratura di merito: la tesi dell’abolitio criminis.

 

Soltanto qualche giorno fa, sul fronte della magistratura di merito, si aveva notizia dell’inedita – ed opposta – soluzione assolutoria (“perché il fatto non è più previsto come reato”) cui era pervenuto da ultimo il Tribunale penale di Viterbo [1] all’indomani dell’ingresso della Romania nella Ue [2], con riguardo ad un’altra fattispecie contemplata dal D.Lgs 286/98 (Testo unico sull'immigrazione): quella di cui all’art. 22, comma 12, che punisce l’assunzione di cittadini extracomunitari (rumeni nella specie) senza permesso di soggiorno.

Tale decisione sembrava recepire un orientamento di favor già propugnato due anni or sono dal Tribunale penale di Roma [3] che, in tema di inottemperanza all’ordine di espulsione impartito dal Questore ad una cittadina della Repubblica Ceca, aveva statuito come «la modifica della norma comunitaria che individua i Paesi facenti parte dell’Ue, determina una fattispecie riconducibile al comma 2 dell’art. 2 Cp. Infatti, il fenomeno della successione di leggi penali nel tempo non può essere circoscritto ai casi di modificazione diretta della norma penale, riguardando cioè un’altra norma o un altro elemento che integra la fattispecie incriminatrice. Di conseguenza, tale modifica incidendo direttamente su tutta la normativa amministrativa che disciplina l’ingresso degli stranieri in Italia, incide altresì sulle fattispecie incriminatrici applicabili. Il venir meno dello status di cittadino extracomunitario, contribuendo ad integrare il contenuto del precetto penale, finisce per incidere, eliminandolo, sul disvalore penale del fatto complessivamente considerato».

 

La sentenza Cass. 1815/07: una smentita “ufficiale” della tesi dell’abolitio criminis?

 

Oggi – dalla Cassazione – sia pure con riguardo ad altro titolo di reato (quello di cui all’art. 12, commi 1, 3 e 5, D.Lgs 286/98) e ad altro Paese “neocomunitario” (la Polonia), giunge una chiara – quanto autorevole – smentita alla suesposta tesi dell’abolitio criminis che, con l’avvento del nuovo anno, in molti stanno proponendo innanzi ai giudici di merito con riguardo a tutte quelle imputazioni relative a cittadini bulgari o rumeni non più qualificabili ormai come “stranieri” a norma dell’art. 1 del Testo unico sull'immigrazione.

La pronuncia odierna costituisce allora una preziosa occasione per “sondare” sin d’ora la posizione del Supremo giudice sul punto, di modo che, muovendo dalla specifica vicenda processuale (ed al connesso titolo di reato), si possano intuire (anche) i possibili effetti “espansivi” di tale indirizzo restrittivo su tutti gli altri reati d’immigrazione oggi non considerati (quali, in particolare, quello trattenimento ingiustificato del clandestino nel territorio dello Stato e di assunzione di stranieri privi del permesso di soggiorno) e concernenti le posizioni soggettive di più stretta attualità (cioè i cittadini rumeni e bulgari).

 

Il precedente della sentenza Cass. 9233/04: il caso della Lettonia

 

Va subito detto che – quello odierno – non costituisce l’unico precedente di legittimità che ha negato, in tema di reati d’immigrazione, l’efficacia diretta di una modifica (di favore) della norma comunitaria di riferimento.

Già nel 2004, infatti, la Corte regolatrice rispetto all’analogo caso della Lettonia, pur precisando incidentalmente che l’applicazione del D.Lgs 286/98 è limitata ai (soli) cittadini di Stati non appartenenti all’Ue (art. 1), giudicò comunque irrilevante – nel caso di cittadine lettoni entrate in Italia, secondo la contestazione, in un periodo protrattosi sino al 5 aprile 2004 – l’adesione di quel Paese alla Ue, avvenuta il 1° maggio successivo, «non vertendosi evidentemente in un caso di abolitio criminis» [4]. Ma il tutto, allora, fu “liquidato” apoditticamente dalla Cassazione in queste pochissime righe, senza alcuna spiegazione.

 

Il dictum: l’irrilevanza del principio di libera circolazione di persone

 

Si legge in particolare nell’odierna pronuncia che il principio della libera circolazione dei cittadini neocomunitari [5] (nella specie polacchi), nell’ambito degli Stati-membri, non determina affatto la cessazione, dalla data di ingresso della Polonia nell’Ue, dell’antigiuridicità della condotta di favoreggiamento dell’ingresso clandestino di cittadini polacchi in Italia a fini di lucro.

E questo perché – cadenza senza mezzi termini la Cassazione – «non è intervenuta alcuna legge che abbia modificato la fattispecie criminosa così depenalizzando la precedente condotta poiché la norma incriminatrice è rimasta invariata e la ratifica del Trattato di adesione all’Ue, al pari della ratifica di altri analoghi Trattati che hanno negli anni più recenti interessato l’ingresso nella Ue di numerosi nuovi paesi, non può considerarsi come norma integratrice del precetto penale sottoposta al regime di cui all’art. 2, comma 2, Cp, né come elemento esterno che ridisegni la fattispecie penale del favoreggiamento dell’immigrazione clandestina che tale resta in relazione a tutti i soggetti che abbiano la qualifica di cittadini di Stati non appartenenti alla Unione Europea, ai sensi dell’art. 1 del D.Lgs 286/98» [6].

 

La limitazione delle modifiche mediate alla rilevanza sul “fatto concreto”

 

Si tratta, questa, di un’argomentazione dall’indubbia portata generale, estendibile in via di principio a tutte le fattispecie penali d’immigrazione coinvolgenti, a diverso titolo, cittadini “neocomunitari”. Ed è proprio questo il passaggio motivazionale che potrebbe verosimilmente “condizionare” future pronunce della Corte, portandola ancora a rinnegare valore successorio alle “modifiche mediate” in discorso rispetto agli altri reati di immigrazione.

L’idea del giudice di legittimità è che, immutata la legge incriminante il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina (ma – come detto – i dicta della Corte sembrano validi in via generale anche per l’ingiustificato trattenimento o l’assunzione di manodopera straniera), l’invocata successione di leggi riguardi in realtà solo le norme extrapenali (di rango comunitario), con la conseguenza che l’art. 2 Cp rimane fuori gioco, applicandosi sempre la disciplina penale vigente al momento del fatto-reato.

La Corte regolatrice non nutre dubbi sulla circostanza che la perdita dello status di “straniero” sia rilevante ai fini dell’applicazione della norma penale di riferimento, ma – scandisce a chiare lettere – lo è «solo nel senso che costituisce un presupposto della condotta che può riflettersi sulla rilevanza penale del fatto concreto, senza invece concorrere a delineare il precetto penale di cui all’art. 12 del Tu sull’immigrazione il quale è rimasto inalterato con tutto il suo contenuto offensivo derivante dalla situazione di sfruttamento dell’essere umano in condizioni di particolare debolezza poiché non dotato di cittadinanza di un paese facente parte dell’Ue e quindi dei diritti alla libera circolazione, alla libera permanenza ed alla tutela che spettano ai cittadini dei paesi appartenenti alla Ue» [7].

 

Il perdurante disvalore (penale) del fatto-reato

 

È da escludere – conclude quindi la Cassazione – che ricorra un’ipotesi di abolito criminis, fosse pure parziale, come tale rilevante ai sensi dell’art. 2, comma 4, Cp, in relazione a fatti, commessi prima dell’ingresso della Polonia nella Ue, che non siano riconducibili alla fattispecie criminosa di cui si tratta, «poiché la fattispecie non ha subito modificazioni in conseguenza di una successione di leggi penali che non vi è stata».

In definitiva l’applicazione dell’art. 2 Cp - invocata dal ricorrente - non rileva nel caso in esame poiché il fatto continua a costituire reato conservando, nella previsione legislativa, tutto il proprio disvalore «e ciò specie se si considerano le finalità di sfruttamento e di lucro del reato contestato che connotano l’antigiuridicità dello specifico comportamento».

Insomma, anche a voler prescindere dal rigido formalismo della presunta “estraneità” delle norme sopranazionali richiamate, in ogni caso per il Supremo collegio le modifiche normative sopravvenute non incidono sul contenuto di disvalore del fatto costituente il fondamento della sua incriminazione, che anzi resta immutato dal punto di vista sostanziale. Né più né meno – per esemplificare – di quanto si sostiene a proposito dell’abrogazione del reato che, nella calunnia, ha costituito l’oggetto della falsa incolpazione.

 

Gli opposti precedenti di legittimità in materia di rifiuto del servizio di leva

 

Prima di giungere ad una riflessione conclusiva sul dictum odierno, non può non sottolinearsi come esso si discosti nettamente da quanto sostenuto, da ultimo, dalla stessa Cassazione, sempre sul tema delle modifiche “mediate” della fattispecie penale, in relazione al delitto di rifiuto del servizio militare per motivi di coscienza.

A tal proposito, infatti, il giudice di legittimità ha più volte sentenziato, sia pure con diverse prospettazioni, che il fatto non è [più] previsto dalla legge come reato, nell’assunto – peraltro opinabile perché qui le norme amministrative di riferimento hanno natura temporanea, incompatibile alla vicenda successoria [8] – che la legge di abolizione (rectius: sospensione) del servizio di leva avrebbe ridisegnato la fattispecie penale del rifiuto della relativa prestazione «eliminando il disvalore sociale della condotta incriminata. Ne consegue che l’art. 1, comma 6, della legge 331/2000, deve essere considerato norma integratrice del precetto penale e che, con riferimento alle situazioni da esso disciplinate, trova applicazione l’art. 2, comma 2, Cp, sicché l’abolizione del servizio di leva comporta la non punibilità della condotta di chi in precedenza, allorché detto servizio era obbligatorio, ha rifiutato di prestarlo» [9].

 

L’adesione di nuovi paesi all’Ue: successione di norme “non integratrici”

 

Quest’ultimo indirizzo giurisprudenziale, confrontato con quello – opposto – oggi propugnato, dà la misura di quanto la giurisprudenza di legittimità si divarichi sullo spinoso ed insidioso tema della successione di leggi penali nel tempo, a seconda che riconosca o meno natura di norma integratrice del precetto penale alla fonte esterna di riferimento (sia essa legislativa, regolamentare od amministrativa) ovvero a seconda che ravvisi la perdurante illiceità del fatto di reato.

Ad avviso del Supremo collegio – tornando alla sentenza in rassegna – avremmo a che fare con una «vicenda successoria di norme extrapenali che non integrano la fattispecie incriminatrice e tanto meno implicano una modifica della disposizione sanzionatoria penale, bensì determinano esclusivamente una variazione della rilevanza penale del fatto con decorrenza dall’emanazione del successivo provvedimento normativo di adesione del nuovo paese all’Ue, limitatamente ai casi che possono rientrare nel nuovo provvedimento, senza fare venire meno il disvalore penale del fatto anteriormente commesso».

Il che non è altro che la pedissequa riproposizione, mutatis mutandis, di quel noto indirizzo di legittimità – fondato sul criterio formale – secondo il quale nell’ambito di operatività dell’istituto successorio non rientrano «le vicende successorie di norme extra-penali che non integrano la fattispecie incriminatrice né quelle di atti o fatti amministrativi che, pur influendo sulla punibilità o meno di determinate condotte, non implicano una modifica della disposizione sanzionatoria penale, che resta, pertanto, immutata e quindi in vigore. Ne consegue che la successione di norme extra-penali determina esclusivamente una variazione del contenuto del precetto con decorrenza dalla emanazione del successivo provvedimento e che, in tale ipotesi, non viene meno il disvalore penale del fatto anteriormente commesso» [10].

 

Conclusioni: la perenne incertezza sul tema della successione mediata

 

La sentenza odierna riapre la discussione – mai sopita per il vero – sui limiti all’applicabilità della disciplina dell’art. 2 Cp alle modifiche normative “indirette” o “mediate”, cioè non incidenti direttamente sugli elementi costitutivi della fattispecie incriminatrice. Un problema, questo, come noto assai controverso, rispetto al quale, sia in dottrina che in giurisprudenza, si registrano da sempre orientamenti assai diversificati, basati talora sul criterio formale costituito dal rapporto di integrazione tra norma incriminatrice e norme richiamate; talora sul criterio sostanziale della persistenza nel fatto dello stesso contenuto di disvalore penale.

Oggi la Cassazione pare attingere ad entrambi i suddetti criteri per negare valore retroattivo alle modifiche extrapenali di favore rispetto alla disciplina penale in materia d’immigrazione.

Senonchè la grande incertezza del criterio della persistenza del disvalore penale del fatto, come pure il rigido formalismo inficiante quello basato sulla natura integratrice o meno delle norme extrapenali richiamate, inducono a propendere per la “terza via” risolutiva, che – al di là degli aspetti formali e sostanziali – in ossequio ai principi costituzionali di uguaglianza e di garanzia che governano la materia della successione di leggi nel tempo, tiene conto della differenza di trattamento giuridico-penale derivante, per lo stesso fatto, alla modifica legislativa sia pure “mediata” [11]. Così che, di fronte alla diversità di disciplina giuridica, tra quella vigente al momento del fatto e quella vigente al momento del giudizio, il principio generale sovraordinato all’intera materia esige che trovi applicazione quella normativa da cui discende il trattamento più favorevole per il reo [12].

In quest’abbrivio, non potrebbe più prescindersi dalla circostanza di favore secondo la quale – oggi – persone di nazionalità polacca, bulgara, rumena, lettone e via dicendo possano entrare legalmente in Italia pur se prive di visto di ingresso, con la conseguenza che i connessi fatti di reato (di favoreggiamento dell’immigrazione piuttosto che di assunzione di manodopera straniera), già commissibili con riferimento a costoro, non sono più configurabili in ragione del loro nuovo status di cittadini “neocomunitari”. Ma si tratta di un profilo, questo, oggi apertamente rinnegato dalla Corte Suprema.

[1] Tribunale monocratico di Viterbo, Sez. penale, sentenza 11 gennaio 2007, n. 15 (Est. Centaro, Imp. Dottori), pubblicata sul quotidiano on line «Dirittoegiustizia.it» del 27 gennaio 2007, con nota di A. Natalini, Assunzione di rumeni senza permesso di soggiorno: non è più reato.
[2] A decorrere – come noto – dal 1° gennaio scorso, in forza dell’art. 4 del Trattato di adesione all’Unione europea (pubblicato nella Gazzetta ufficiale dell’Unione europea L 157/11 del 21 giugno 2005) sottoscritto a Lussemburgo il 25 aprile 2005 tra la Repubblica di Bulgaria e la Romania da un lato e tutti gli altri Stati-membri dell’Unione europea dall’altro (cioè Regno del Belgio, Repubblica Ceca, Regno di Danimarca, Repubblica Federale di Germania, Repubblica di Estonia, Repubblica Ellenica, Regno di Spagna, Repubblica Francese, Irlanda, Repubblica Italiana, Repubblica di Cipro, Repubblica di Lettonia, Repubblica di Lituania, Granducato di Lussemburgo, Repubblica di Ungheria, Repubblica di Malta, Regno dei Paesi Bassi, Repubblica d’Austria, Repubblica di Polonia, Repubblica Portoghese, Repubblica di Slovenia, Repubblica Slovacca, Repubblica di Finlandia, Regno di Svezia, Regno unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord).
[3] Tribunale monocratico di Roma, sentenza 25 novembre 2005 (Est. Iulia, Imp. Yarga), pubblicata su Cassazione penale, 2006, p. 2270 ss.
[4] Così, in parte motiva, Cass., Sez. VI, sentenza 16 dicembre 2004, n. 9233, Buglione ed altro, in CED Cass, rv. 230950 (citata nella sentenza in commento): fattispecie in cui il S.C. ha ritenuto sussistente il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina anche nel caso in cui di ingresso regolare in Italia, attraverso il prescritto valico di frontiera, con un valido passaporto e per motivi turistici, ma con finalità di permanenza illegale.
[5] Ribadita, da ultimo, con riguardo ai cittadini rumeni e bulgari, con circolare n. 2 del 28 dicembre 2006 (diretta a tutti i Prefetti, Presidenti di Regione, Questori, Direzioni regionali e provinciali del lavoro), dei Ministeri dell’Interno (prot. n. 4468) e della Solidarietà sociale (prot. n. 23/II/2175/06): «i predetti cittadini neocomunitari potranno entrare liberamente in Italia e potranno, se in possesso dei requisiti di cui al citato Dpr 54/02, richiedere la carta di soggiorno alle Questure competenti, direttamente o tramite gli uffici postatali».
[6] Corsivi aggiunti.
[7] Corsivo aggiunto.
[8] Sul punto cfr. D. Brunelli, Rilevanza penale dell’abolizione del servizio militare obbligatorio: tra successione di norme e “scomparsa” del fatto tipico, in Cassazione penale, 2006, pp. 1682 ss. che critica la soluzione assolutoria cui giunge la Cassazione anche in ragione della natura non integrativa delle norme sull’obbligatorietà del servizio militare.
[9] Così Cass., Sez. I, 10 febbraio 2005, n. 12316, Caruso, in CED Cass, rv. 231721, corsivi aggiunti; Id., 6 maggio 2005, n. 23788, Taboni, in CED Cass., rv. 231763; Id., 24 gennaio 2006, n. 7628, Bova, in «D&G» n. 15/06, p. 79, con nota di A. Natalini, La leva volontaria è un’abolitio criminis. La Corte aggiusta il tiro: non rileva la gradualità della riforma).
[10] Così ad es. Cass., Sez. III, 19 marzo 1999, n. 5457, Pm in proc. Arlati ed altro, in CED Cass., rv. 213465: fattispecie relativa ad esercizio di attività venatoria vietata da una legge regionale al momento della commissione del fatto, e successivamente consentita in virtù di abrogazione della medesima legge.
[11] Così, per tutti, F. Palazzo, Corso di diritto penale. Parte generale, Torino, 2005, p. 156.
[12] In questo senso v. Cass., Sez. un., 23 maggio 1987, Tuzet, n. 8242, in CED Cass., rv. 176406; Cass., Sez. III, 29 gennaio 1998, n. 4176, Sciacchiano, in CED Cass., rv. 210696.

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE - SEZIONE PRIMA PENALE

Sentenza 11-22 gennaio 2007, n. 1815

(Presidente Fazzioli – Relatore Corradini)

 

Svolgimento del processo

 

Con sentenza in data 12 aprile 2006 la Corte d’Appello di Messina ha confermato la sentenza 23 maggio 2003 del GUP del Tribunale di Barcellona Pozzo di Gotto che, a seguito di rito abbreviato, aveva dichiarato F. Giuseppe colpevole del reato di cui all’art. 12, commi 1, 3 e 5, del D.Lgs 286/98 per avere favorito, a fini di lucro, l’ingresso illegale nel territorio dello Stato e comunque la permanenza di cittadine polacche provvedendo alla loro sistemazione iniziale in un appartamento di Terme Vigliatore per poi avviarle al lavoro domestico o di assistenza agli anziani, dal dicembre del 2000 all’aprile del 2001, e lo aveva condannato alla pena di tre anni e due mesi di reclusione oltre alla multa.

Il F. era stato accusato da un polacco di reclutare ragazze polacche per avviarle alla Prostituzione prelevandole da Messina dove giungevano con un pullman e conducendole in una casa di Terme Vigliatore o di Falcone, di cui aveva la disponibilità, ricevendone in cambio somme di denaro. La Corte di merito ha ritenuto provato, sulla base dei successivi accertamenti dei Carabinieri – che avevano tra l’altro individuato il F. in compagnia di numerose ragazze extracomunitarie ed in occasione di un controllo presso la sua abitazione avevano identificato due donne polacche prive di documenti e quindi entrate illegalmente in Italia – delle intercettazioni telefoniche, dei tabulati telefonici e dell’esame di diversi testi, che il F., previi contatti, si recasse effettivamente presso la stazione di Messina per prelevare le donne che giungevano con i pullman direttamente dalla Polonia e che quindi, a bordo di una Lancia Dedra, le conducesse in una casa di cui aveva la disponibilità per avviarle però non già alla prostituzione bensì al lavoro di badanti, all’uopo accompagnandole presso gli anziani, ricevendo in tal senso richieste telefoniche da tutta l’Italia, stante la notorietà che aveva assunto nell’intermediazione nei rapporti di lavoro domestico. Era stato altresì ritenuto provato che svolgesse tale rapporto di intermediazione per fini di lucro ricevendo una percentuale sugli incassi delle lavoratrici extracomunitarie che andava da 350.000 lire a 500.000 lire mensili a seconda dello stipendio che ricevevano le donne, come era emerso attraverso le intercettazioni telefoniche, oltre ad un compenso per l’affitto della casa che metteva a disposizione in attesa di reperire loro il lavoro.

Ha proposto ricorso per cassazione l’imputato personalmente deducendo:

- violazione degli artt. 129 c.p.p. e 2 c.p., poiché, a decorrere dal 1.5.2004, data in cui era stato ratificato il Trattato di adesione della Polonia all’Unione Europea, comprensivo dell’accordo di Schengen, i cittadini polacchi potevano circolare liberamente all’interno dell’Unione Europea, per cui non era più previsto come reato il favoreggiamento dell’ingresso illegale in Italia di cittadini polacchi;

- la responsabilità dell’imputato era basata soltanto su supposizioni in palese contraddizione con le risultanze istruttorie, poiché era rimasto accertato direttamente dai Carabinieri che le cittadine polacche prive di permesso di soggiorno ospitate dal F. erano soltanto due, di cui comunque non si sapeva quando erano entrate in Italia e quindi se il F. ne avesse o meno favorito l’ingresso ovvero le avesse ospitate successivamente, mentre per le altre donne, cui si riferivano le intercettazioni, non si sapeva se fossero o meno prive di permesso di soggiorno e comunque se fossero state poi effettivamente avviate ad un lavoro.

 

Motivi della decisione

 

Con il primo motivo di ricorso l’imputato lamenta che, essendo ormai prevista la libera circolazione nell’ambito dei paesi della Comunità Europea dei cittadini polacchi, a fare data dal 2004, sarebbe cessata, da tale data, successiva alla commissione del reato, la antigiuridicità della condotta di favoreggiamento dell’ingresso illegale di cittadini polacchi nel territorio italiano a fini di lucro, a norma dell’art. 2 del c.p..

In sostanza, ad avviso del ricorrente, posto che il comma 1 dell’art. 12 del D.Lgs 298/98 contemplerebbe solamente la condotta di ingresso clandestino, mentre le donne polacche, pur se prive di visto di ingresso e di permesso dì soggiorno, potrebbero oggi entrare legalmente in Italia, il fatto non costituirebbe più reato, ai sensi dell’art. 2, comma 2, c.p..

La circostanza che la Polonia sia entrata a fare parte dell’Unione Europea alcuni anni dopo la commissione, da parte dell’imputato, della condotta incriminata, non consente però di affermare che non sia più previsto come reato il favoreggiamento della immigrazione clandestina sia pure limitatamente ad una determinata categoria di soggetti, quali i cittadini polacchi che ora fanno fatto dell’Unione Europea. Non è infatti intervenuta alcuna legge che abbia modificato la fattispecie criminosa così depenalizzando la precedente condotta poiché la norma incriminatrice è rimasta invariata e la ratifica del Trattato di adesione all’Unione Europea, al pari della ratifica di altri analoghi Trattati che hanno negli anni più recenti interessato l’ingresso nella Unione Europea di numerosi nuovi paesi, non può considerarsi come norma integratrice del precetto penale sottoposta al regime di cui all’art. 2, comma 2, c.p., né come elemento esterno che ridisegni la fattispecie penale del favoreggiamento dell’immigrazione clandestina che tale resta in relazione a tutti i soggetti che abbiano la qualifica di cittadini di stati non appartenenti alla Unione Europea, ai sensi dell’art. 1 del D.Lgs 286/98.

Tale qualifica viene certamente in considerazione ai fini della applicazione della norma penale di cui si tratta, ma solo nel senso che costituisce un presupposto della condotta che può riflettersi sulla rilevanza penale del fatto concreto, senza invece concorrere a delineare il precetto penale di cui all’art. 12 del Tu sull’immigrazione il quale è rimasto inalterato con tutto il suo contenuto offensivo derivante dalla situazione di sfruttamento dell’essere umano in condizioni di particolare debolezza poiché non dotato di cittadinanza di un paese facente parte dell’Unione Europea e quindi dei diritti alla libera circolazione, alla libera permanenza ed alla tutela che spettano ai cittadini dei paesi appartenenti alla Ue.

Nel caso di partecipazione del paese di appartenenza dell’autore del fatto alla Ue, successiva alla violazione della norma incriminatrice, si tratta quindi, ad avviso di questo Collegio, di vicenda successoria di norme extrapenali che non integrano la fattispecie incriminatrice e tanto meno implicano una modifica della disposizione sanzionatoria penale, bensì determinano esclusivamente una variazione della rilevanza penale del fatto con decorrenza dall’emanazione del successivo provvedimento normativo di adesione del nuovo paese all’UE, limitatamente ai casi che possono rientrare nel nuovo provvedimento, senza fare venire meno il disvalore penale del fatto anteriormente commesso (v. Cassazione, sezione terza, 5457/99, RV. 213565; Cassazione, sezione quarta, 9233/04, Buglione, con riguardo all’analogo caso della Lettonia, la cui partecipazione all’UE è stata ratificata con legge 24 dicembre 2004 n. 9233).

È poi da escludere pure che ricorra una ipotesi di abolito criminis, fosse pure parziale, come tale rilevante ai sensi dell’art. 2, comma 4, c.p., in relazione a fatti, commessi prima dell’ingresso della Polonia nella Ue, che non siano riconducibili alla fattispecie criminosa di cui si tratta, poiché la fattispecie non ha subito modificazioni in conseguenza di una successione di leggi penali che non vi è stata (Cassazione, Sezioni unite, 25887/03, Giordano).

Questa Corte ha già affermato che la condotta punibile relativa all’immigrazione clandestina riguarda il compimento di atti diretti a procurare l’ingresso nel territorio dello Stato in violazioni delle disposizioni del Tu e quindi di ogni tipo di violazione e mira ad impedire ogni ingresso illegittimo, indipendentemente dal fatto che possa essere illegale o clandestino ai sensi dell’art. 4, cioè per violazione della normativa sul visto, dovendosi valutare se la condotta di immigrazione illegale sia solo quella relativa all’ingresso nello Stato, inteso come atto di transito alla frontiera o qualcosa di più ampio comprendente ad esempio anche la disciplina della permanenza nello Stato per motivi di lavoro; avendo presente in particolare che sia lo straniero che il cittadino italiano sono comunque tenuti al rispetto ed alla osservanza degli obblighi previsti dalla normativa vigente, ivi compresi quelli espressamente dettati per esigenze di ordine e sicurezza pubblica.

La soluzione adottata da questa Corte è stata nel senso che l’unica interpretazione possibile della normativa è che il legislatore abbia voluto punire il compimento di tutti gli atti che realizzano l’immigrazione di stranieri in violazione delle norme del testo unico, fra le quali vi sono anche le norme sull’ingresso e la permanenza dello straniero per motivi di lavoro o per altri motivi ed in particolare ogni qualvolta la permanenza nel territorio dello Stato deve considerarsi illegale fin dal suo inizio, con l’atto di ingresso in Italia, perché già conseguenza di un’azione illegale, in quanto, pur essendo in ipotesi determinato da motivi di lavoro, questi vengono occultati, per motivi di profitto ovvero perché l’ingresso sia clandestino ai sensi dell’art. 10 del Tu in quanto avvenuto al dì fuori dei valichi di frontiera, sottraendosi ai controlli di frontiera, come previsto dall’art. 4 del Tu sull’immigrazione (cfr. Cassazione, 7 aprile 2004, n. 17973; Cassazione, Sezione prima, 12 maggio 2004, Deinita, RV. 228254; Cassazione, Sezione sesta, 16 dicembre 2004, Buglione, RV. 230950; Cassazione, Sezione prima, 27 ottobre 2004, Passaro, RV. 229823). Lo spirito della legge sull’immigrazione, nel suo complesso, vuole infatti evitare qualsiasi artificio diretto a fare entrare in Italia persino i lavoratori, anche provenienti da paesi che abbiano stipulato particolari accordi per la libera circolazione dei propri cittadini, per impiegarli in violazione delle leggi sul lavoro, tanto è vero che si è procurato di disciplinare l’ingresso dello straniero per motivi di lavoro (art. 22) e da ciò se ne può dedurre che se l’ingresso è illegalmente avvenuto per fini di lavoro o addirittura per finalità diverse, non meritevoli di alcuna protezione, si tratta di ingresso comunque illegale con conseguente individuazione della ipotesi criminosa contestata all’imputato.

Ciò comporta che la condotta di favoreggiamento dell’ingresso del cittadino straniero nel territorio nazionale determinato per motivi di permanenza stabile, mediante sottrazione ai controlli di frontiera, previsti dagli artt. 10 e 4 del Tu come condizioni per la lega1ità dell’ingresso, deve qualificarsi come ingresso illegale o clandestino che dir si voglia e tale permane fino a quando il soggetto che entra illegalmente nel territorio nazionale resti uno straniero nel senso inteso dall’art. 1 dal Tu sull’immigrazione e sia favorito dalla attività dell’autore del fatto illecito, mente non potrà più essere posta in essere la condotta – sotto il profilo fattuale prima ancora che giuridico – di sfruttamento o favoreggiamento della immigrazione clandestina una volta che il soggetto acquisti la cittadinanza di un paese UE ovvero addirittura la cittadinanza italiana.

L’applicazione dell’art. 2 del c.p., invocata dal ricorrente, non rileva in definitiva nel caso in esame poiché il fatto continua a costituire reato conservando, nella previsione legislativa, tutto il proprio disvalore (v. Cassazione, sezione terza, 5457/99, RV. 213565) e ciò specie se si considerano le finalità di sfruttamento e di lucro del reato contestato che connotano l’antigiuridicità dello specifico comportamento.

Il primo motivo di ricorso deve essere pertanto respinto.

Il secondo motivo di ricorso è pretestuoso.

Il ricorrente lamenta mancanza di motivazione in ordine alla valutazione della prova sotto il profilo che soltanto per due donne polacche, identificate dai carabinieri all’interno della casa del F., sarebbe stato dimostrata la mancanza di permesso di soggiorno, pur non essendovi la prova che il F. ne avesse favorito l’ingresso clandestino in Italia posto che erano uscite dalla Polonia più di un mese prima, mentre per le altre, interessate dalle intercettazioni, non sarebbe stato dimostrato che non avessero i documenti in regola.

La Corte territoriale ha però, con argomentazioni ineccepibili sotto il profilo logico e del tutto conformi al parametro normativo, indicato i motivi per cui ha ritenuto provato che l’ingresso delle donne fosse avvenuto illegalmente, previi accordi diretti con il F., visto che si recava a prelevarle alla stazione di Messina non appena erano giunte in Italia in pullman dopo due o tre giorni ininterrotti di viaggio dalla Polonia, e che non fosse neppure prospettabile che le donne avessero fatto ingresso regolare e cioè con un regolare contratto di lavoro, poiché, in tal caso, si sarebbero recate direttamente dal loro datore di lavoro e non avrebbero versato più di un terzo del loro stipendio al F., considerato anche che comunque le due donne identificate dai Carabinieri all’interno della casa del F. avevano certamente fatto ingresso illegale, potendo contare sull’ospitalità, ovviamente non gratuita, dell’imputato che quindi ne aveva favorito l’ingresso e la permanenza in Italia.

Il ricorso deve pertanto essere respinto perché infondato su sotto tutti i profili addotti, con le conseguenze di legge in punto di spese (art. 616 c.p.p.).

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.