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La legge sull’immigrazione e lo stato moderno. Il nodo dei Centri di Permanenza Temporanea, meltingpot.org, 25/02/07

La legge sull’immigrazione e lo stato moderno. Il nodo dei Centri di Permanenza Temporanea

Un contributo alla riflessione in merito alla questione dei CPT, in vista della manifestazione nazionale del 3 marzo a Bologna.

tratto da GlobalProject.info

Nel 1999 ero davanti al CPT di via Corelli, a Milano, con una moltitudine di persone che ne chiedeva la chiusura. Poi Torino, Modena, Bologna, Gorizia...

E in questi anni mi sono chiesta: perché mettere al centro della propria azione politica, come singola/o o come movimento, la questione dei CPT?
Cosa risponderei a chi mi chiedesse il perché di questa scelta?
Facciamo alcuni passi indietro.
Istituiti dalle legge Turco-Napolitano nel 1998, i CPT sono luoghi di detenzione per migranti senza documenti in attesa, in quanto presenti sul territorio senza titolo per soggiornarvi, di essere condotti al proprio paese. Ma attraverso i rapporti si scopre che solo il trenta per cento delle espulsioni vengono eseguite. Allora perché la spesa per il mantenimento di questi centri è altissima e assorbe la quasi totalità delle risorse che lo stato stanzia per l’immigrazione?
Probabilmente a fini elettorali. Però poi parli con le persone e scopri che, a destra come a sinistra, non sono molte quelle che ne conoscono l’esistenza, anche tra chi, in modi diversi, si occupa di immigrati e di integrazione.
A cosa servono allora questi luoghi?

La funzione pratica dei CPT
Una prima risposta è piuttosto immediata e deriva da una valutazione di tutto l’apparato normativo sull’immigrazione, del cui impianto politico i CPT possono essere considerati la sintesi: la presenza del migrante in Italia deve essere completamente assoggettata al più assoluto sfruttamento del suo lavoro. Questo è il fine ultimo del legame introdotto dalla Bossi-Fini tra permesso di soggiorno e contratto di soggiorno e trasforma il lavoro migrante in lavoro servile, esponendo al rischio di perdere il permesso chi osi ribellarsi, chi chieda qualche miglioramento, qualche diritto in più. Il CPT allora come orizzonte di minaccia.
E come regolatore dei flussi di manodopera, come mostra egregiamente il rapporto di Medici Senza Frontiere sul lavoro stagionale in agricoltura nel sud – I frutti dell’ipocrisia. Storie di chi l’agricoltura la fa. Di nascosto  -, che parla di frontiere chiuse quando la manodopera non serve e sbarchi non intercettati e facili fughe dai CPT quando inizia il lavoro nei campi. In questo caso l’orizzonte di minaccia vale per tutti i lavoratori, anche gli autoctoni, poiché se è vero che il lavoro temporaneo fu inizialmente sperimentato sulla pelle dei migranti, ora dilaga in tutti gli ambiti e in tutti i settori. Ferie e malattia non pagate, niente trattamento di fine rapporto, niente pensione, contratti rinnovati di mese in mese e paghe sempre più basse, impossibilità di decidere dei propri tempi di vita a causa della flessibilità e del proprio futuro. Un assoggettamento al datore di lavoro che ricorda sempre più il lavoro servile. Come non accorgersi che i diritti dei migranti sono il laboratorio dei diritti di tutti? Come non vedere che legge Bossi-Fini e CPT hanno conseguenze su tutti i lavoratori?
Secondo Loïc Wacquant per comprendere lo Stato nel pieno dispiegamento dell’economia neoliberista è centrale comprenderne le politiche securitarie e il riaffermarsi dello stato penale. Il senso di insicurezza generato dalla precarietà e dall’indebolimento del potere economico di singoli e famiglie di far fronte a bisogni primari, è usato ed insieme celato, occultato, per alimentare un’insicurezza che avrebbe come principali cause, migranti, criminali, devianti e poveri e un fantomatico aumento dei reati e della criminalità. In questo gli Stati Uniti, studiati da Wacquant, sono un’ottima lente di ingrandimento per osservare i nostri territori: retate nei confronti di venditori ambulanti, colpevoli di inquinare il mercato con griffe false e prodotti contraffatti (chi ha letto Gomorra capisce bene quanto questa accusa sia assurda), migranti etichettati come terroristi e imposizione di leggi speciali che consentono di attuare vere e proprie angherie da parte delle forze dell’ordine (continui controlli dei documenti, migranti con cedolini di permesso di rinnovo condotti nei CPT per essere rilasciati il giorno dopo, controlli nei phone center e nei locali gestiti dai migranti e l’assurda minaccia ai baristi – succede a Parma – che li fanno chiudere se non controllano che i clienti siano in regola e la polizia trova qualche "clandestino" nel locale). Tutto questo rafforzato dalla retorica dei media che rappresentano i migranti sempre come delinquenti e di rado ne parlano, per esempio, per il contributo che apportano all’economia o alle casse dell’INPS.
Wacquant parla di “proliferare di leggi e una sete inestinguibile di innovazioni burocratiche e di gadget tecnologici: comitati di vigilanza e poliziotti di quartiere, settorializzazione delle azioni di polizia e premi di produzione per i commissari, collaborazioni tra le forze dell’ordine e gli altri servizi dello Stato (scuole, ospedali, assistenza sociale e amministrazione fiscale), trattamento giudiziario "in tempo reale" e ampliamento delle prerogative degli agenti di sorveglianza, telecamere per la videosorveglianza e cartografìa informatizzata delle infrazioni, test antidroga e pistole flashball, profiling criminale, braccialetto elettronico, schedatura generalizzata delle tracce genetiche, allargamento e informatizzazione del sistema penitenziario, moltiplicazione dei centri di detenzione specializzati (stranieri da espellere, adolescenti recidivi, donne e malati, pregiudicati in semilibertà) ecc.” [L.Wacquant, Punire i poveri. Il nuovo governo dell’insicurezza sociale, Derive Approdi, Roma 2006, pp.17-18]
Molti di questi dispositivi sono stati importati anche in Italia, ma ora ci interessano soprattutto i “centri di detenzione specializzati”, che possono essere per stranieri da espellere. Vedremo poi perché proprio per stranieri, perché se è vero, come sostiene Wacquant, che questa affermazione dello stato penale serve a mascherare la fine dello Stato, del suo ruolo di regolazione e di garanzia degli ideali di libertà ed eguaglianza ed infine costituisce un meccanismo che costringe i riottosi a lavori precari e malpagati, vedremo con Sayad perché proprio i migranti e quale è la funzione delle frontiere e dell’identità nella retorica che fonda le entità statuali. Ma tornando ai centri specializzati per migranti, le carceri etniche che uno strano umorismo del legislatore ha voluto chiamare centri di permanenza temporanea, l’ipotesi è che essi siano perfettamente funzionali alla creazione di quell’estraneo che poi le politiche securitarie trasformano in facile target del malcontento dei cittadini, anche a scopi elettorali. I CPT non come luoghi dove finiscono delinquenti, devianti e marginali, ma luogo che costruisce delinquenti, devianti e marginali. Per poter meglio applicare, senza resistenze e proteste degli elettori, quelle politiche di esclusione che hanno sostituito l’apartheid. Ma lo eguagliano. E attenzione che la categoria degli “extra-”, degli alieni, è sempre aperta ad accogliere nuovi gruppi sociali!
L’ipotesi è di leggere il CPT anche come come luogo dove viene impresso uno stigma, e non solo a chi lo attraversa, ma a tutta la categoria di persone alle quali è “riservato”.

La funzione simbolica dei CPT
Intorno alla questione dei CPT, dunque, vi è una costruzione, concettuale e politica, ben più ampia. Non abbiamo manifestato e smontato queste carceri etniche solo perché la detenzione amministrativa, di chi non ha commesso alcun reato, non è accettabile.
Non lo abbiamo fatto solo perché dentro questi campi di concentramento avvengono quotidianamente abusi e violazioni dei diritti umani inaccettabili.
Non sono luoghi da chiudere solo perché al proprio interno vi sono rinchiusi anche decine di minori. I Centri di detenzione per migranti sono tutto questo, che pure è sufficiente per chiederne la chiusura, ma sono anche molto di più e su questo è necessario riflettere per continuare il nostro cammino che, accanto alla chiusura dei CPT, tenta di costruire un nuovo mondo possibile sulle macerie del paradigma dello stato moderno. Stato moderno che, svuotato da ogni potere dall’assetto imperiale del comando – si vede bene con la questione dell’ampliamento della base militare a Vicenza – afferma con violenza un residuo di capacità di comando e controllo che va pensato seguendo alcune possibili piste. Queste sono quelle che propongo sapendo che non sono esaustive e sperando che altri contributi si aggiungano nel nostro percorso verso il 3 marzo.

Normativa sull’immigrazione e Stato moderno. Le frontiere dell’esclusione
La fine del secolo passato ha visto il pieno realizzarsi della scomparsa delle frontiere per merci e capitali ma si è sempre più caratterizzata dall’ergersi di nuovi muri per arginare i corpi dei migranti che cercano di attraversare i confini alla ricerca di un lavoro o in fuga da guerre e regimi dittatoriali. I confini divengono quindi centrali nei processi di differenziazione e di esclusione che colpiscono migranti ma anche altre categorie di poveri e marginali. I confini, costitutivi dello Stato, non sono solo materiali, ma anche culturali e giuridici.
Secondo Sayad, pensare l’immigrazione significa pensare lo Stato e gettare una luce sul ’Pensiero di Stato’, quell’insieme, cioè, di strutture mentali che sono interiorizzate nel profondo di ogni individuo, strutture che “ognuno ha incorporate in se stesso nel senso letterale del termine, che cioè si sono fatte corpo” e che, pur essendo un prodotto storicamente e socialmente determinato, pre-determinano e organizzano tutta la nostra rappresentazione del mondo. Lo stato secondo Sayad è una frontiera. Per questo è per sua stessa natura discriminante.

“È anche per queste ragioni che pensare l’immigrazione significa pensare lo Stato ed è lo Stato che pensa se stesso pensando l’immigrazione. Questa è una delle ultime cose che si scoprono quando si riflette e si lavora sul problema dell’immigrazione, mentre bisognerebbe senz’altro cominciare da lì, o perlomeno esserne consapevoli, prima di cominciare a lavorare su questo problema. Ciò che si scopre in tal modo è la segreta virtù dell’immigrazione come introduzione alla sociologia dello Stato. Per quale motivo? Abitualmente si parla della "funzione specchio" dell’immigrazione, cioè dell’occasione privilegiata che essa costituisce per rendere patente ciò che è latente nella costituzione e nel funzionamento di un ordine sociale, per smascherare ciò che è mascherato, per rivelare ciò che si ha interesse a ignorare e lasciare in uno stato di "innocenza" o ignoranza sociale, per portare alla luce o ingrandire (ecco l’effetto specchio) ciò che è abitualmente nascosto nell’inconscio sociale ed è perciò votato a rimanere nell’ombra, allo stato di segreto o di non pensato sociale. Ma, ancor più, l’immigrazione costituisce il limite dello Stato nazionale, una frontiera che permette di comprendere ciò che lo Stato nazionale è intrinsecamente (la sua verità fondamentale), una frontiera (ontologica, si potrebbe dire) dell’essere stesso dello Stato che, per poter esistere, si è dato delle frontiere nazionali. È nella natura stessa dello Stato discriminare e, per questo, dotarsi preventivamente di tutti i criteri possibili di pertinenza necessari per una discriminazione, senza la quale esso non sarebbe possibile: discriminazione tra i nazionali che riconosce come tali, e nei quali si riconosce allo stesso modo in cui essi si riconoscono in lui (questo effetto di doppio riconoscimento reciproco è indispensabile per l’esistenza e per la funzione dello Stato), e gli "altri" che deve conoscere solo "materialmente", in ragione del solo fatto che sono presenti nel campo della sua sovranità nazionale e sul territorio nazionale che ricade sotto questa sovranità.” [A. Sayad, La doppia pena del migrante. Riflessioni sul pensiero di Stato. In AutAut n. 275 del 1996 Dentro/Fuori. Scenari dell’esclusione]

Si potrebbe aggiungere che i CPT sono lo strumento attraverso il quale questa frontiera, questa discriminazione viene incisa sul corpo dei migranti e nel tessuto sociale.

Controllare questa presenza in grado di far vacillare il fondamento sociale.
Riaffermare una linea di demarcazione sempre più labile.
Ridare forza a un concetto, quello di Stato, costruito sulla violenza, non sull’appartenenza, quella verrà dopo.
Cercare di nascondere che l’immigrazione è ancor più pericolosa quando è riuscita, perché dimostra che si può vivere lontano dalle proprie radici e “contaminando” le proprie appartenenze. Superando i confini. Annullando i confini. Riporto le parole di Dal Lago, che riprende la riflessione di Simmel sullo straniero pensato non come il diverso assoluto, ma come l’eterogeneo che si mescola tra gli ospitanti, perché mi sembrano centrali in questo ragionamento che, come si vede, altro non è che un interrogare alcuni autori e osservatori dell’immigrazione e della teoria politica:

“Il sospetto da cui - oggi forse più di ieri - sono avvolti i migranti dipende dal loro carattere socialmente fluido. Come gli stranieri di cui parlava Simmel [1908], i migranti sono ontologicamente fuori posto e non solo perché "forse resteranno"; soprattutto perché esercitano, consapevolmente o no, la pretesa di non vivere nello spazio, territoriale o culturale, che il destino ha assegnato loro, ma in un altro spazio. Sono insomma individui che avranno pure un’identità (lingua, religione, bagaglio culturale ecc.), ma l’hanno di fatto svincolata dalle proprie radici. L’inquietudine che generano - all’origine della supposta minaccia che creerebbero tra chi li "ospita" - nasce dal fatto che i migranti sono individui o soggetti de-territorializzati e parzialmente deculturati. Il messaggio che incarnano, intenzionale o no, è che "si può vivere altrove e senza il paese d’origine". È il successo del loro tentativo di vivere tra noi a suscitare ostilità; perché è come se dicessero che il territorio e la cultura non sono indispensabili all’esistenza. In questo senso, sono esseri marini per eccellenza. Ed ecco perché, oltre al rifiuto dei tutori delle piccole patrie, cioè della purezza culturale o etnica, suscitano nella società di arrivo l’irrefrenabile impulso di etichettarli come pezzi o microcosmi della loro cultura. [...]
I migranti, dunque, non minacciano la nostra cultura perché visibilmente appartenenti a un’altra, ma perché esercitano la pretesa di vivere al di fuori della loro. Insomma, l’esistenza dei migranti è una confutazione del carattere indispensabile della cultura per gli individui. [...] Ma a ben vedere, più che confutare l’idea di cultura, il migrante minaccia la pretesa che una cultura coincida con un territorio (si può essere, con diversa intensità, islamici in Europa, questo è lo scandalo religioso degli stranieri). E soprattutto, ecco lo scandalo ancora più grande, l’individuo non è il microcosmo rappresentativo della sua supposta cultura originaria, ma qualcuno che ha operato un assemblaggio di culture diverse, insomma un ibrido, un meticcio. Il migrante suscita sospetto, paura e ostilità, perché, che lo voglia no, è un veicolo di ibridazione.” [Dal Lago, tratto da C. Galli, Multiculturalismo. Ideologie e sfide, Il Mulino, Bologna 2006]

Se lo Stato si riduce, abdicando definitivamente alla funzione di garante degli ideali di giustizia ed eguaglianza, forse erroneamente attribuiti alle democrazie moderne, all’appartenenza identitaria, ecco che il migrante diventa la minaccia assoluta. Pensare alla presenza dei migranti ci costringe a pensare un nuovo fondamento sociale e ad un rinnovato legame sociale, non più basato sull’appartenenza e già sempre oltre la proposta del recuperare le politiche dell’ospitalità. Si rimanda, senza approfondire, all’analisi di Benveniste e all’analisi linguistica dei termini di hospes (ospite, straniero) e hostis (nemico). Hostis assume una connotazione ostile quando nasce e deve essere rafforzata una istituzione di nuovo tipo, fondata sui confini e costruita attraverso le retoriche delle identità.

Il Centro di Permanenza Temporanea, deve essere pensato come parte fondante di un dispositivo, dispositivo rimanda a questa logica di costruzione dell’identità attraverso l’esclusione, esclusione dal diritto perché la detenzione amministrativa si dà in casi di sospensione del diritto. Come negli stati coloniali o mentre era in corso il secondo conflitto mondiale, periodi nei quali una persona poteva essere internata per il solo fatto di essere-nel-posto o essere-nel-momento sbagliato. Per il solo fatto di essere, senza aver fatto alcunché. Quando chiediamo la chiusura dei CPT chiediamo la fine di un sistema, dell’agonizzante stato nazione che con tanta violenza e ferocia cerca di mantenersi in vita. Quando smontiamo un CPT stiamo sabotando questo, non stiamo solo smontando delle gabbie che è giusto smontare.

Abbiamo chiamato spesso questi luoghi lager per migranti, consapevoli della differenza tra questi e i campi nazisti, dove furono sterminati milioni di ebrei, centinaia di migliaia di Rom e Sinti, migliaia di persone portatrici di altri tipi di diversità: omosessuali, malati mentali. Oltre che oppositori politici. Anche qui reclusi per il fatto di essere. Alcuna storiografia, non bastasse il monito di Levi a far tacere chi vuole i lager figli solo della follia nazista, ci ricorda che questi luoghi furono costruiti, essenzialmente come campi di lavoro, ben prima che forni e camere a gas cominciassero a lavorare a pieno regime. E che se questi entrarono in azione fu grazie al fatto che nessuno si oppose a questi luoghi.
Nessuno, o molto pochi, si ribellarono.
Così divennero e non nacquero come luoghi di sterminio. E li divennero grazie al fatto che vi fu un lavoro culturale enorme di privazione di queste categorie dello statuto di persone. Per cui poi poterono essere discriminati per legge ed internati pur senza aver commesso nessun reato. Sbagliamo a dire che ci ricorda qualcosa? Cosa sarebbe successo se migliaia di persone avessero protestato? Se qualcuno avesse provato a smontarli?

Il campo come paradigma biopolitico del moderno
Il pensiero che intreccia campo e stato moderno si arricchisce, con Agamben, con e oltre Foucault, e spinge a guardare al potere focalizzando l’attenzione non più sui modelli giuridico istituzionali, ma a quella serie di tecnologie chiamate a costruire i corpi docili necessari alla produzione nel capitalismo, ai modi concreti con cui il potere penetra nel corpo stesso dei soggetti e nelle loro forme di vita. Il potere si fa biopolitico.
Agamben in Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita assume il campo come nomos del moderno, a partire dalla figura dell’homo sacer colui il quale, messo al bando, al di fuori della legge, poteva essere ucciso senza commettere omicidio. Colui che ridotto a pura vita dal bando sovrano, fonda la sovranità stessa, dal momento in cui è l’atto del mettere al bando, prerogativa del sovrano, ciò che fonda la sovranità, il fondamento della sovranità. La sospensione della legge si ritrova a fondamento della sovranità. Non si può che rimandare al testo, che argomenta questa tesi e che non è possibile sintetizzare in poche righe.
Riporto però due passi significativi per la nostra riflessione, e per capire cosa ci porta al pensiero la forzatura dell’analogia, che Agamben ci concede e si concede, tra lager e CPT:
“[...] l’aver voluto restituire allo sterminio degli ebrei un’aura sacrificale attraverso il termine "olocausto" è un’irresponsabile cecità storiografica. L’ebreo sotto il nazismo è il referente negativo privilegiato della nuova sovranità biopolitica e, come tale, caso flagrante di homo sacer, nel senso di vita uccidibile e insacrificabile. La sua uccisione non costituisce perciò, come vedremo, né un’esecuzione capitale né un sacrificio, ma solo l’attuazione di una mera "uccidibilità " che inerisce alla condizione di ebreo come tale. La verità difficile da accettare per le stesse vittime, ma che pure dobbiamo avere il coraggio di non coprire di veli sacrificali, è che gli ebrei non sono stati sterminati nel corso di un folle e gigantesco olocausto, ma letteralmente, come Hitler aveva annunciato, “come pidocchi”, cioè come nuda vita. La dimensione in cui lo sterminio ha avuto luogo non è la religione né il diritto, ma la biopolitica.
Se è vero che la figura che il nostro tempo ci propone è quella di una vita insacrificabile, che è, tuttavia, divenuta uccidibile in una misura inaudita, allora la nuda vita dell’homo sacer ci riguarda in modo particolare. La sacertà è una linea di fuga tuttora presente nella politica contemporanea, che, come tale, si sposta verso zone sempre più vaste e oscure, fino a coincidere con la stessa vita biologica dei cittadini. Se oggi non vi è più una figura predeterminabile dell’uomo sacro, è, forse, perché siamo tutti virtualmente homines sacri.” [Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi, Torino 1995, pp. 126-7]

“[...] se l’essenza del campo consiste nella materializzazione dello stato di eccezione e nella conseguente creazione di uno spazio in cui la nuda vita e la norma entrano in una soglia di indistinzione, dovremo ammettere, allora, che ci troviamo virtualmente in presenza di un campo ogni volta che viene creata una tale struttura indipendentemente dall’entità dei crimini che vi sono commessi e qualunque ne siano la denominazione e la specifica topografia. Sarà un campo tanto lo stadio di Bari in cui nel 1991 la polizia italiana ammassò provvisoriamente gli immigrati clandestini albanesi prima di rispedirli nel loro paese, che il velodromo d’inverno in cui le autorità di Vichy raccolsero gli ebrei prima di consegnarli ai tedeschi; tanto il Konzentrationslager für Ausländer a Cottbus-Sielow in cui il governo di Weimar raccolse i profughi ebrei orientali, che le zones d’attente negli aeroporti internazionali francesi, in cui vengono trattenuti gli stranieri che chiedono il riconoscimento dello statuto di rifugiato. In tutti questi casi, un luogo apparentemente anodino (ad esempio, l’Hotel Arcades a Roissy) delimita in realtà uno spazio in cui l’ordinamento normale è di fatto sospeso e in cui che si commettano o meno delle atrocità non dipende dal diritto, ma solo dalla civiltà e dal senso etico della polizia che agisce, provvisoriamente come sovrana (per esempio nei quattro giorni in cui gli stranieri possono essere trattenuti nelle zone d’attante prima dell’intervento dell’autorità giudiziaria).” [p.195] Ecco che il campo ci porta al centro del pensiero politico. E solo pensando questo arcano che sta a fondamento della statualità questa potrà essere superata.

di Elisabetta Ferri, ass. Ya basta! Parma