Chi volesse controllare, scoprirebbe che i principali dizionari di politica in auge nell’accademia italiana ed europea, non contengono una voce "cittadinanza", almeno sino alla fine degli anni ’70. Probabilmente, si riteneva allora che una trattazione separata del lemma non avesse senso e che potesse darsi semplicemente per esaurita con il rinvio al sistema di norme concernenti il suo esercizio. E’ solo dalla fine degli anni ’80, e cioè quando lungo molti vettori esso viene investito da tensioni e da claims che ne pongono politicamente in questione forme e perimetri (l’immigrazione, il dibattito sulle "nuove povertà", le lotte delle donne e quelle gay), che il termine "cittadinanza" viene acquisendo centralità. E’ solo come concetto conteso e di contesa, potrebbe dirsi, che esso si impone alla discussione.
Di cittadinanza si inizia allora a discutere non come di un campo definito da titolarità di diritto e da forme secche di esclusione - non più cioè nei termini della linea che separa chi gode dei diritti da chi invece ne è privo - ma come del punto di giuntura, della linea di tensione, tra gli ordinamenti oggettivi della politica (sovranità, Stato, costituzione) e le forme soggettive dell’esperienza politica che premono per riaprire quanto nei primi è dato per scontato e, quindi, almeno in apparenza, "chiuso".
Ciò che viene così progressivamente emergendo, è da un lato l’ambivalenza della nozione di cittadinanza, il suo essere il confine, mobile, costitutivo che separa, dentro a processi che producono il soggetto nell’assoggettamento marcato dalla disciplina della proprietà e della capacità, chi sulla scena del diritto è rappresentabile come cittadino da chi non lo è, non lo sarà mai, o la cui inclusione è per il momento rimandata (di volta in volta: i poveri, i pazzi, gli stranieri, le donne); dall’altro il determinarsi del suo discorso dentro schemi qualificati in termini temporali (la gradazione e il progressismo della cittadinanza come processo inclinato ad un’inclusione allargata; il suo offrirsi come processo in grado di tenere assieme tempi, età, diversi: l’estrema modernità di alcuni diritti a fronte della persistenza di forme di nuovo schiavismo, ad esempio; il suo potenziale disegnare la traiettoria dello scontro tra costituzione e insorgenza, tra pace e conflitto).
La cittadinanza non rappresenta l’esito di un processo, il punto in cui culmina e si appesa un percorso di progressivo riconoscimento dei diritti, ma si dimostra pertanto, sia sul piano storico sia su quello che, con Foucault, potremmo indicare nei termini di un’"ontologia dell’attualità", uno spazio costantemente sfidato, riaperto, percorso da pratiche di soggettivazione che muovendo dai suoi confini, ne disarticolano i quadri, ne rimettono in questione le risposte, si ergono a motore della ridistribuzione di posizioni e di aspettative assegnati come diritti di cittadinanza.
La cittadinanza segna un terreno di lotta.
Contrariamente al senso comune delle Dichiarazioni universali dei diritti dell’uomo e del cittadino (espressione ambivalente anche questa, si potrebbe notare, e che sin dal suo momento aurorale, dalla Rivoluzione francese, non riconosce nella propria universalità né le donne, né gli schiavi neri delle colonie…), l’universale non sta nelle carte costituzionali, ma, sempre, nella presa di parola da chi non vi è compreso.
L’universale sta sempre, e solo, dalla parte dell’escluso.
La parte dei senza parte - i migranti, le donne, i soggetti riconosciuti e non autorizzati (i clandestini confinati nei mille sweatshops del lavoro nero), quelli autorizzati, ma non riconosciuti (i precari, ad esempio), come li ha recentemente chiamati Saskia Sassen - è il solo soggetto capace di pretese universali in quanto non politicamente assegnate; non comprese nell’ordine che amministra, in termini di diritti acquisiti e riconosciuti, la police delle posizioni nel governo della città e nello spazio politico.
La cittadinanza non è un quadro che si difende, Nemmeno chiedendo di esservi inclusi. La cittadinanza è il quadro mobile e in tensione tra insorgenza e neutralizzazione, tra sfondamento dei confini e loro ritracciatura. Tra la libertà assoluta e l’imbrigliamento con cui si cerca di addomesticare,pacificare, rendere compatibile, neutralizzare, la libertà e la sua potenza di soggettivazione.
Il comune dei migranti e dei precari che abbiamo davanti come la sintesi da conquistare (e non alle spalle, come soggetto del nuovo ciclo di movimento già pronto e in tensione) è il comune di lotta che attraversa (anche ) gli spazi della cittadinanza. Non per trovare in essa il proprio fondamento, il terreno sul quale costituirsi e insistere, ma per ridefinirivi le proprie ragioni e, per mezzo di esse, rivoluzionare, ritrascrivere, i tempi e gli spazi della politica. La città che viene, non è anticipata se non nel comune dell’insorgenza e della lotta.