La domanda potrebbe essere formulata in questi termini: esiste un disegno razionale dietro al governo delle migrazioni in Europa? Dietro alla retorica, carica di ipocrisia, che proclama guerra all’immigrazione “clandestina”, ma non conosce remore nell’utilizzo della forza lavoro migrante, più facilmente sfruttabile se priva di diritti, e motore, ormai, dell’economia globale?
È una domanda che capita di sentirsi rivolgere spesso quando si discute di migrazioni, e l’interrogativo che pone non è affatto banale. Eppure, si tratta di una prospettiva che rischia di relegare, una volta di più, i migranti a meri soggetti passivi nel sistema dei confini globali, senza vedere come questi non siano semplicemente sovradeterminati dalle politiche istituzionali, ma vengano continuamente rinegoziati dalla libertà di movimento agita dai migranti anche fuori dalle regole. Parlare di cittadinanza ripartendo dai suoi confini, da quei campi di tensione che non sono delocalizzati ai margini dello spazio europeo ma, in quanto istituzioni mobili, proiettano i loro effetti nel cuore delle sue metropoli e si estendono al di fuori dei perimetri statuali ufficiali, significa provare a rovesciare questa prospettiva. Non certo per fare un’apologia estetizzante del nomadismo - magari relegando in ombra la drammaticità che segna, il più delle volte, l’esperienza migratoria - ma piuttosto per evitare di cadere nell’equivoco di guardare alle migrazioni come a una condizione di transito, destinata a stabilizzarsi in quel simulacro di razionalità istituzionale che, con significati diversi, viene invocato da alcuni quando si parla di cittadinanza. Chiedersi quale disegno si nasconda dietro al governo dei confini europei, presuppone infatti l’esistenza di un modello sociale e istituzionale omogeneo nel quale integrare le migrazioni e, soprattutto, rischia di dare per scontato che questo modello sia rappresentabile nei termini tradizionali dei diritti dei cittadini o degli stranieri (questi ultimi costruiti, appunto, in contrapposizione alla figura omogenea del cittadino). Il rischio è, quindi, quello di ratificare e implicitamente legittimare l’opposizione per cui i cittadini dell’Europa sarebbero i (più o meno) sedentari appartenenti agli stati membri (ma neppure tutti, visto che a ogni allargamento i nuovi entrati continuano ad aver bisogno di un permesso di soggiorno per lavorare nella “vecchia Europa”), mentre ai migranti, sicuramente più mobili, sono destinati diritti pro tempore in vista o della soddisfazione delle loro aspirazioni a una piena cittadinanza, o della loro esclusione in quanto soggetti “non integrabili”.
Che i migranti vantino ancora meno diritti degli altri è certamente indubbio, ma che l’opposizione possa essere descritta nei termini appena riportati e, soprattutto, che essa sia la contropartita di un circolo virtuoso che premia chi aspira alla cittadinanza non è affatto scontato. Le trasformazioni dei confini europei, con la crescente esternalizzazione delle pratiche di controllo e confinamento della mobilità nei paesi terzi in funzione di un governo efficace della circolazione interna (così come si legge anche nei documenti ufficiali, a partire dal consiglio di Siviglia del 2002 fino al programma dell’Aja avviato nel 2005), ci dicono infatti che la cifra caratteristica dell’organizzazione dello spazio politico e giuridico europeo mette al suo centro proprio il governo della mobilità. Ci parlano, in altre parole, di un modello nel quale i confini non mirano a perimetrare spazi omogenei di diritto da cui tenere fuori gli intrusi (migranti “illegali” o “alterità” irriducibili rispetto a una qualche identità europea), ma piuttosto di confini che svolgono la funzione di mettere a valore la mobilità, espropriandone il legittimo esercizio e facendone merce di scambio. Il contratto di soggiorno, così come ogni dispositivo che subordina il permesso di soggiorno al lavoro, inserisce, di fatto e di diritto, il diritto a risiedere sul territorio nella funzione giuridico sociale del contratto che non è più (neppure formalmente) solo uno scambio di equivalenti tra il salario e la prestazione lavorativa. Il lavoro viene scambiato con lo stesso diritto a esistere su un territorio, grazie all’internalizzazione di confini che possono essere definiti come veri e propri “confini di produzione”.
Il sistema di governo dei confini europei non nasconde, dunque, alcun disegno occulto. La sua logica, almeno tendenziale, risulta abbastanza esplicita una volta che le retoriche ufficiali vengano ripulite da un po’ di sedimentazioni ideologiche e da una buona carica di ipocrisia. È tuttavia una logica che non riporta ai modelli tradizionali di rappresentazione della cittadinanza e, di conseguenza, difficilmente può venire scalfita con armi spuntate che ci parlano di “integrazione” in spazi di diritto omogenei che non esistono più. Non si tratta di una logica necessariamente più “morbida” o meno repressiva, ma anzi di un sistema che mette in campo meccanismi di assoggettamento raffinati e spesso più difficili da contrastare, come nel caso dell’insistenza sui rimpatri “volontari” (fatta propria anche dal disegno di legge Amato-Ferrero) rispetto ai quali l’alternativa alla scelta volontaria di andarsene è quella dell’espulsione. E ancora, di un sistema che può essere compreso solo quando si ricomincia a considerane i confini: quelle zone ai margini degli stati membri dove, per esempio, l’Europa concentra in maniera crescente i suoi interessi al governo della circolazione, e che assomigliano sempre di più a delle vere e proprie maquilladoras dove l’esternalizzazione della produzione e il controllo della mobilità vengono subappaltati congiuntamente ai paesi terzi.
Si tratta tuttavia di un modello che mostra inequivocabilmente come i migranti siano parte integrante – e, quindi, non residuale o “da integrare” – di quella comunità a cui si rivolge l’organizzazione politica e giuridica dello spazio europeo. Che mostra, in altre parole, come ne siano a tutti gli effetti cittadini, anche quando le leggi li relegano al ruolo di “cittadini illegali”. Ripartire dai confini per parlare di cittadinanza non significa consegnare ai migranti armi spuntate, ma al contrario riconoscere come la loro pratica di mobilità, anche quando viene esercitata fuori dalle regole o rinegoziandole, sia una pratica politica che, proprio perché è in grado di sovvertire le gerarchie degli spazi, esprime (questa volta sì) un’istanza universalistica di cittadinanza.