Rifugiati ma solo per poter vivere
Venerdì si è celebrata la Giornata mondiale del rifugiato. E' stata l'ottava edizione. Fu infatti istituita nel Duemila per ricordare solennemente le convenzioni internazionali che prevedono il diritto all'asilo per gli individui perseguitati per motivi razziali, politici e religiosi. Ma, nei fatti, ogni anno la celebrazione si traduce in una serie di iniziative che hanno un obiettivo più modesto: spiegare all'opinione pubblica che, nell'ambito della categoria "immigrazione", esiste uno speciale sotto-insieme costituito dalle persone che non abbandonano il loro paese per "vivere meglio" ma semplicemente per vivere. Per restare in vita.
Non è facile. La confusione tra i richiedenti asilo e gli immigrati economici è sistematica. Lo dimostra l'abitudine giornalistica di chiamare "clandestini" quelli che sbarcano a Lampedusa. I dati statistici dicono che uno su cinque ottiene l'asilo politico o la protezione umanitaria. Dunque, nel momento in cui hanno varcato il nostro confine, molti di quei "clandestini" non solo non hanno commesso un reato ma hanno esercitato un diritto. Un articolo pubblicato mercoledì scorso sul "Corriere della Sera" offre un esempio da manuale di quanto sia difficile cogliere questa fondamentale differenza. Scrive Magdi Cristiano Allam: "Se un estraneo irrompe in casa nostra, noi ci sentiamo in diritto e in dovere di far intervenire le forze dell'ordine per arrestarlo e sanzionarlo, nella certezza che abbia infranto la legge che tutela l'inviolabilità del domicilio privato, indipendentemente dal conoscere quali possano essere state le sue motivazioni e senza attendere di subire le conseguenze del suo gesto, qualunque esse siano. Ebbene, non si capisce perché ciò che è estremamente chiaro e inoppugnabile nel microcosmo della casa individuale, diventa totalmente contraddittorio e discutibile nel macrocosmo della casa collettiva, la nostra città o il nostro Stato".
L'esempio è totalmente sbagliato. Intanto l'immigrato che varca il confine (nemmeno quello "economico") non è paragonabile a chi irrompe in una casa privata. L'immigrato non scardina alcuna serratura, non usa grimaldelli o fiamme ossidriche. Eventualmente è paragonabile, se si vuole restare nella metafora domiciliare, a un tale che entra senza autorizzazione nel nostro giardino di casa. Secondo Allam, in quello stesso istante dovremmo chiamare la polizia e pretendere che l'intruso venga ammanettato e condotto in cella. "Indipendentemente dal conoscere quali siano state le motivazioni del suo gesto".
L'inganno sta qua. Non è affatto "chiaro e inoppugnabile" che dobbiamo reagire in quel modo. Se, per esempio, l'intruso ci spiegasse di aver saltato la recinzione perché era inseguito da un killer armato, e ci dimostrasse che sta dicendo il vero (magari indicandoci il killer appostato dietro una siepe) chiederemmo il suo arresto? Oppure gli ordineremmo di uscire immediatamente dal nostro giardino ributtandolo così nelle mani del killer? Siamo certi che una persona normale - un buon cristiano o anche un laico dotato di buon senso - tenterebbe di dare una mano al malcapitato. Terrebbe conto (come d'altra parte farebbe il giudice se fosse chiamato a pronunciarsi) del fatto che ha agito in stato di necessità. Ed è esattamente questa la condizione di chi entra nel nostro territorio da richiedente asilo. Un concetto, come purtroppo dimostra l'uscita di Allam, solo apparentemente semplice.
(glialtrinoi@repubblica. it)