«Rom, non nomadi Campi da chiudere» Alexian Spinelli, docente all'Università di Trieste di origini rom: «Solo uno su cinque in Italia vive in un campo, sfatiamo lo stereotipo dello zingaro che ruba» Gli incidenti di questi giorni non casuali ma frutto di un clima. E ci sono associazioni che speculano sui campi Paolo Andruccioli «Duecento morti rom in un anno in tutta l'Europa. Questo bilancio non è stato il frutto di un caso. Gli incidenti possono essere dolosi o non dolosi, ma è certo che sono il risultato di una segregazione razziale. Per ribaltare la situazione gravissima in cui vivono centinaia di rom si dovrebbero chiudere tutti i campi e cominciare a cancellare i troppi luoghi comuni che circolano». Si chiama Alexian Santino Spinelli. Non è un sociologo e non ha alcuna intenzione di scivolare sul pietismo o sulla falsa rappresentazione dominante che vede il rom come un povero che chiede l'elemosina o magari ruba, uno «zingaro», un eterno nomade senza radici che rifiuterebbe la civiltà occidentale e l'integrazione. Alexian vuole invece ribaltare tutti gli stereotipi e spiegare all'opinione pubblica italiana chi sono davvero i rom, qual è la loro cultura, quali sono le radici storiche della loro musica, che piace solo se viene importata dai Balcani e diventa così, qualche volta, una moda. Cominciamo quindi il nostro colloquio con Alexian partendo proprio dalla musica, che è la sua vera passione. Alexian Santino Spinelli è infatti prima di tutto un musicista, grande virtuoso della fisarmonica, compositore, poeta, docente di Lingua e Cultura Romanì all'Università di Trieste, due lauree, una in Lingue e Letterature straniere moderne all'Università di Bologna e una in Musicologia, sempre all'Università di Bologna. Come mai dici che la musica rom non è apprezzata, quando ci sono esempi recenti contrari come nel caso di Goran Bregovic? Io non dico che la nostra musica non piace e che non viene apprezzata dagli italiani. Faccio un discorso un po' più articolato. La musica rom è come il jazz. Quando la suonavano i neri in Africa non era considerata una vera musica. Poi l'hanno cominciata a suonare negli Stati Uniti ed è diventata una grande moda. Così per la nostra musica. Viene considerata solo come fenomeno folcloristico, quando si abbina alla crisi dei Balcani. Non si raccontano però le radici storiche della nostra cultura musicale. Ti faccio solo due esempi per capirci. Il pianoforte è stato inventato da un italiano. Ma niente si inventa dal niente. Così il pianoforte è uno sviluppo di uno strumento precedente, il clavicembalo. E il clavicembalo, a sua volta, è una derivazione del cymbalom, che era uno strumento della musica rom. Clavicembalo significa d'altra parte: tastiera del cymbalom. La stessa cosa si può dire dell'oboe, strumento che è stato molto importante nella storia della musica europea. Ebbene l'oboe deriva dalla zurna, strumento simile alla ciaramella e che era un antico strumento rom. Ancora oggi si producono zurne a Skopie. Ma lo stesso discorso sulle «radici» si potrebbe fare citando decine di grandi compositori europei che si sono ispirati e hanno utilizzato e rilanciato la nostra musica. Ma non ci sono solo i grandi compositori, c'è anche da ricordare l'influenza diretta che la cultura e la musica rom hanno avuto in varie parti d'Europa. Voglio solo ricordare il flamenco spagnolo, l'arte del violino in Ungheria (con un inno ispirato alla musica rom), la musica della Macedonia e perfino la russa Oci ciornie. I rom continuano però a dare fastidio. Sui media spesso vengono ricordati solo quando si tratta di lanciare allarmi. Ora sembra che con l'ingresso della Romania in Europa si sia scatenata una nuova campagna contro l'«invasione». Perché succede tutto ciò? Esiste una discriminazione contro di noi che ha profonde radici culturali. Da sempre i rom sono un popolo perseguitato come lo sono stati gli ebrei. Ma per gli ebrei, dopo l'Olocausto che ha sconvolto l'opinione pubblica civile, qualcosa per loro è cambiato. Invece contro di noi rom vengono usati ancora pregiudizi ormai molto radicati, come quello del nomadismo. Ma noi non siamo nomadi. Se vuoi un esempio di un vero popolo nomade, posso citare i berberi. Noi siamo solo degli immigrati costretti a fuggire. Siamo dovuti scappare da tanti paesi perché ci perseguitavano. E oggi trionfano i pregiudizi. Per rendersene conto basta pensare che in Italia solo il 20% dei rom vive nei cosiddetti campi nomadi. Tutti gli altri vivono in case normali, hanno lavori normali, sono spesso professionisti o gente inserita nel mondo artistico. E poi io inviterei a riflettere anche sul concetto, sulla parola «campi nomadi». In realtà sono luoghi di segregazione. Campi-nomadi sono due parole dense di contenuti visto che campo ricorda molto i lager nazisti, mentre nomadi continua ad attribuirci una caratteristica che non è nostra. Non vorrei neppure essere troppo maligno, ma gli incidenti che sono successi in questi giorni secondo me non sono casuali. Non dico che sono stati necessariamente dolosi. Dico però che sono il frutto di una situazione, di un clima che si è determinato. E purtroppo devo anche constatare che sono in pochi quelli che fanno davvero una battaglia per chiuderli. Ci sono infatti anche organizzazioni nel campo del volontariato (o meglio organizzazioni di pseudovolontari) che hanno interesse a mantenerli aperti, perché ci sono di mezzo i finanziamenti pubblici. Che cosa si dovrebbe fare dunque? Può esistere una buona politica a favore dei rom? La prima cosa che si dovrebbe fare è l'opposto di quello che si discute in questi giorni sui giornali a proposito di muri, barriere, nuove segregazioni, allarmi da invasione. Bisognerebbe cioè chiudere i campi e creare le condizioni per una reale alternativa di vita per tutte queste persone che oggi vivono, in questi campi, in condizioni disumane, degradanti. Tutti quelli che arrivano in Italia dai vari paesi di provenienza vivevano in case normali, facevano una vita normale. Non si capisce perché poi devono essere inchiodati alla loro condizione di nomadi coatti. L'altro piano delle azioni positive che si possono mettere in campo riguarda la cultura. Bisogna smetterla con i luoghi comuni. E io propongo di non utilizzare più la parola «zingaro» quando si parla dei rom. Purtroppo è un fatto normale e anche in un recente documentario trasmesso su Rai 2 si è continuato a fare l'abbinamento tra rom e zingaro. E' come se degli italiani si dicesse che sono mafiosi. Poi bisogna valorizzare la nostra cultura per dare la possibilità all'opinione pubblica di conoscerci veramente. Non è colpa della gente se cresce l'odio. La responsabilità è di chi diffonde luoghi comuni sbagliati. Io temo però che si possano sviluppare reazioni al contrario molto negative.