Qual è la mission istituzionale di un direttore di un istituto penale per minori e in che modo l’ha interpretata?
Credo che la differenza fondamentale, rispetto al carcere per adulti, sia data dai numeri. Sicuramente lavorare con 300, o con 1000 detenuti non è la stessa cosa che lavorare con 50 ragazzi: con meno persone, hai la possibilità di avere un rapporto individualizzato, di considerare l’utente una persona e non un numero.
Io ho lavorato anche con gli adulti e, inevitabilmente, quando lavori con numeri più grandi, ti è difficile avere presenti le esigenze, i problemi e le necessità della singola persona. Da questo punto di vista nel minorile, anche per la tipologia di norma processuale penalistica che porta il ragazzo in carcere, c'è la possibilità di lavorare in maniera diversa. C’è, però, anche un altro aspetto: il processo penale minorile porta ad applicare la misura cautelare soltanto nelle situazioni più gravi, il che, naturalmente, comporta che il ragazzo che arriva nel carcere minorile è un ragazzo che ha già una sua struttura di personalità deviante, difficilmente arriva il ragazzino totalmente sprovveduto, mentre questo, in termini negativi e anche positivi, se vogliamo, in una struttura per adulti può accadere e inevitabilmente le possibilità di agire per un recupero sono maggiori, perché il problema del lavorare sulla devianza è quello di offrire uno stile di vita, un modello culturale che sia alternativo a quello che ha portato alla devianza: non è tanto il dire non rubare, non uccidere, ma mettere in condizione di fare una scelta di vita che non ti imponga, come strumenti per raggiungere quegli obiettivi, la vita deviante, quindi il furto, la rapina, l’omicidio e quant'altro.
E’ per questo che il nostro lavoro tende ad incidere e ad andare a modificare le scelte di stili di vita perché, con la tipologia di utenza con cui lavoriamo, sono fattori che influiscono molto sulla scelta deviante dei ragazzi
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