7 marzo 2007: una giornata tutta al femminile. Al convegno Ristrette: Carcere, cpt e diritti al femminile, promosso da Antigone, si parla di donne, e a parlarne sono le donne in prima persona. Il dibattito si configura come “uno spaccato della capacità delle donne di padroneggiare ambiti di responsabilità importanti, anche se ancora insufficienti”. Argomento di discussione i diritti al femminile della reclusione. “Dopo l’indulto sono 1800 le donne detenute nelle carceri italiane: un numero esiguo, che spesso determina poca attenzione alla specificità della detenzione femminile. Nell’intera Europa manca una riflessione sul tema, salvo qualche “felice e parziale eccezione” come l’Inghilterra. Pochi gli interventi per promuovere un’immagine positiva delle donne a livello politico-istituzionale, che vada oltre la specificità di madre. “Le donne sono certamente madri ma non solo”. Purtroppo però gli interventi in materia non fanno che perpetuare un’immagine tutt’altro che positiva del genere femminile. È il caso del recente atto emanato dal Consiglio d’Europa, che, pur volendo combattere la discriminazione delle donne, in realtà non propone alcun provvedimento concreto. Queste le premesse alla discussione presentate da Susanna Marietti di Antigone, che ha moderato una discussione non facile. L’associazione Antigone apre il dibattito con una proposta: una risoluzione da presentare al Parlamento Europeo per promuovere un nuovo approccio alla detenzione femminile. Per le donne, il cui comportamento criminale è di scarsa pericolosità sociale, va pensata una detenzione diversa da quella maschile; un approccio distinto per genere garantirà “un giusto-differenziato trattamento penale-sanitario che risponde a necessità diverse”. I dati statistici e le condizioni delle carceri italiane riportati da Gianfranco Spadaccia, Garante dei diritti delle persone private della libertà del Comune di Roma, non sono affatto rassicuranti; a partire dalla realtà a noi più vicina del carcere di Rebibbia. Nelle carceri femminili spacciatrici, tossicodipendenti e infanticide ricevono un trattamento non adeguato per insufficienza di copertura medica, soprattutto psicologica e psichiatrica; la scuola per le donne nelle carceri è “troppo ristretta”, finalizzata più che altro alla sorveglianza.Ci sono però segnali che lasciano ben sperare: accanto al lavoro domestico sta prendendo piede anche il lavoro esterno con cooperative e aziende, garantito da contratti regolari; sul lavoro si innestano poi corsi di formazione, spesso con esiti positivi; le attività in generale nel carcere non mancano, soprattutto grazie al supporto del volontariato associativo. Si addentra ulteriormente nelle condizioni problematiche della detenzione femminile Nadia Roscioli, a fronte della sua esperienza nel Dipartimento amministrazione penitenziaria.Durante le visite presso 5 carceri femminili e alcune sezioni femminili in carceri maschili ha potuto osservare che i diritti dei detenuti vengono sistematicamente disattesi, a partire da quelli delle donne. Alle detenute viene negato sia il diritto a essere donna che ad essere madre: mancano gli strumenti per vivere la quotidianità al femminile; manca la possibilità di “creare una genitorialità vera”, che vada oltre il colloquio settimanale; sono sistematicamente negati alle donne anche l’accesso alla scuola e al lavoro. La violazione della femminilità interessa in carcere anche le poliziotte: esse ricevono un insegnamento e un inquadramento tutto al maschile. Roscioli ha poi così spiegato le ragione per cui vanno pensate detenzioni distinte per genere: è improponibile una gestione comune in quanto “il carcere maschile è razionalità, quello femminile emotività”. La detenzione femminile governata come quella maschile sottopone le donne a forti limitazioni e a violazioni dei loro diritti.È poi intervenuta Cecilia D’Elia, Assessore alle Politiche per la Semplificazione, la Comunicazione e le Pari Opportunità del Comune di Roma: nella figura femminile si esprime il paradosso del carcere, per mancanza di attenzione e risorse. Non basta però, secondo D’Elia, investire risorse economiche nel carcere; per affrontare risolutivamente le questioni sociali che qui si ripropongono devono procedere di pari passo le riforme legislative. Gli enti locali devono impegnarsi per inglobare il carcere nella città e al contempo portare la città nel carcere: “il carcere rischia di essere per le donne un circolo vizioso di esclusione sociale, così come i Centri di Permanenza Temporanea”. Nei cpt il numero di donne è in crescita e raggiunge anche il 50% delle presenze. Anche qui “si avverte la scarsa considerazione per il percorso che già fuori aveva reso le donne vittime di tratta sessuale e di altre forme di violenza”. Quello dei cpt è un universo fatto di donne abusate, sfruttate nella loro femminilità perfino nella loro maternità, e usate dal mondo maschile. Queste le conclusioni di un questionario amministrativo che Medici Senza Frontiere ha distribuito nei cpt agli stranieri, illustrato da Valentina Fabbri. Si profila uno scenario deludente per un paese democratico fondato sul rispetto dei diritti di ogni persona, maschi e femmine, detenuti e cittadini liberi. Lanciano una sfida e lasciano trapelare una speranza sul miglioramento delle condizioni nella carceri italiane, a partire dalle donne, le proposte dell’ Assessore alle politiche per le Periferie, per lo Sviluppo, per il Lavoro del Comune di Roma, Dante Pomponi, che ha mostrato di apprezzare sia la vivacità della discussione che le proposte per il ripensamento della detenzione femminile.Interessante la proposta di portare il carcere in città e la città nel carcere, ma servono altri interventi. Ripensare il lavoro in carcere per favorire un inserimento all’uscita dei detenuti; finanziare l’educazione degli adulti; creare “un movimento istituzionale di confronto e verifica sistematica del lavoro in carcere con persone che vi lavorano quotidianamente”: questi dovranno essere gli interventi per un ripensamento della detenzione in Italia.