Le operazioni Hera II e III svolte nei mesi scorsi dalle unità europee coordinate dall’agenzia europea Frontex, davanti alle coste del Senegal e della Mauritania, hanno già dimostrato il groviglio di interessi contrastanti e di conflitti di competenza scatenati dal “pattugliamento congiunto” delle acque territoriali dei paesi di transito, allo scopo dichiarato di bloccare i flussi di immigrazione irregolare via mare, in Oceano dall’Africa occidentale verso la Spagna, nel Mediterraneo verso l’Italia e la Sicilia in particolare.
Conflitti di competenza tra stati e ragioni di carattere economico ritardano gli interventi di salvataggio e lasciano i migranti per giorni e giorni alla deriva in balia delle onde. Elemento costante delle nuove politiche europee in difesa della Fortezza Europa è il numero dei morti, e dei dispersi in mare, mentre le cifre dell’immigrazione clandestina, su scala europea, continuano a segnalare un costante aumento.
Se diminuisce il numero degli sbarchi in Sicilia si apre la rotta verso la Sardegna, o si ripercorre la pista balcanica, mentre l’inasprirsi delle operazioni di contrasto da parte dei mezzi aeronavali dell’agenzia Frontex non ha certo ridotto gli arrivi di migranti alle Canarie.
Per sfuggire ai controlli radar si utilizzano imbarcazioni sempre più piccole e rotte sempre più pericolose al punto che spesso non rimane neppure traccia dei naufragi, come si è verificato appena pochi giorni fa nel canale di Sicilia. Nei confronti dei migranti sospesi tra le onde si usa il pugno di ferro, in nome del contrasto dell’immigrazione clandestina, con l’obiettivo di respingere le carrette del mare verso i porti di partenza, mentre tutti riconoscono ormai che siamo in presenza di flussi misti, composti da migranti economici e potenziali richiedenti asilo, che avrebbero comunque, in ogni caso, diritto ad entrare nel territorio nazionale.
Italia e Spagna stanno costituendo in queste settimane i principali snodi operativi delle attività promosse dall’agenzia europea Frontex su impulso della Commissione europea. Queste operazioni consistono in pratiche di riammissione sempre più sbrigative e in azioni coordinate di polizia di frontiera, con il ricorso al “pattugliamento congiunto” delle frontiere marittime in acque internazionali.
Alcune decine di unità militari europee, e tra queste un mezzo navale italiano, operano stabilmente nelle acque dell’Africa occidentale, davanti alle coste della Mauritania, tra le isole di Capoverde e le Canarie.
La Spagna ha inviato una sua imbarcazione militare nel Canale di Sicilia ed ha concluso nuovi accordi di riammissione con il Marocco, prevedendo il rimpatrio anche nel caso di minori non accompagnati e di migranti provenienti da paesi terzi, ed altri accordi sono stati sottoscritti con il Senegal e con diversi paesi africani, ai quali si è offerta la possibilità di quote preferenziali di ingressi legali ed un consistente fascio di aiuti economici.
Malgrado questi accordi però, ogni volta che viene intercettata una imbarcazione carica di migranti si apre una lunga fase di trattative che ritarda gli interventi di salvataggio come si è verificato nei mesi scorsi in Atlantico con il respingimento in alto mare del Marine I e dell’ Happy Day, bloccati davanti alle coste africane con il concorso di mezzi militari italiani e come sta avvenendo adesso al largo delle coste libiche dove una unità della marina spagnola ha tratto in salvo 26 migranti che adesso né la Libia né Malta intendono accettare sul proprio territorio. Per fortuna si potrebbe dire, visto il trattamento riservato in questi paesi ai migranti irregolari. Una ennesima dimostrazione del fallimento delle operazioni Frontex.
Nel Mediterraneo centrale l’Italia continua la sua politica “sottotraccia” con Gheddafi, dal vertice di Tripoli dello scorso anno, fino al viaggio di D’Alema a Tripoli lo scorso aprile. Nessun accordo ufficiale, come quello concluso con l’Egitto all’inizio dell’anno, ma una discreta collaborazione informale, gestita a livello di alti funzionari di polizia, ufficiali di collegamento e contatti diplomatici segreti, che producono, ad ogni situazione di crisi, gravi ritardi nei soccorsi a mare e una totale incertezza sulla sorte dei migranti, una parte dei quali proveniente da paesi dai quali può essere fatta valere una richiesta di asilo, come la Somalia o l’Eritrea, ma inesorabilmente abbandonati al loro destino di clandestini, se non di naufraghi, quando non respinti direttamente verso le coste africane. Le autorità maltesi intanto stanno a guardare, negano l’ingresso persino ai potenziali richiedenti asilo e si limitano a lanciare tardivi appelli di soccorso anche quando le azioni di salvataggio rientrerebbero nell’area di loro competenza.
Le navi commerciali e le imbarcazioni da pesca che affollano il canale di Sicilia si guardano bene dall’intervenire in soccorso dopo l’incriminazione ed il fermo prolungato di quanti, senza attendere l’esito delle trattative tra governi, avevano operato tempestivi interventi di salvataggio, come nel caso della nave tedesca Cap Anamur nel 2004.
Quanto successo nell’ultima settimana di maggio conferma le previsioni che avevamo fatto subito dopo il lancio delle operazioni Frontex, per le quali il commissario europeo Frattini rivendica adesso maggiori finanziamenti, ammettendo, di fronte all’evidenza, che altrimenti queste missioni resteranno prive di una reale efficacia di contrasto dell’immigrazione clandestina.
Tra la Libia e la Sicilia si è giocata una partita a scaricabarile, nella quale i mezzi mercantili non sono intervenuti tempestivamente, e gli stati interessati, Malta soprattutto, hanno cercato fino all’ultimo di eludere le proprie responsabilità derivanti dalle convenzioni internazionali che impongono la salvaguardia della vita umana a mare ed il diritto all’accesso alla procedura di asilo. Si è giunti persino anegare l’evidenza, quando il governo maltese si è dichiarato all’oscuro della presenza dei 37 naufraghi aggrappati da tre giorni alle gabbie per la pesca dei tonni trainate da una imbarcazione maltese.
Decine di migranti sono rimasti per giorni su sottili passerelle di legno, a rimorchio di un imbarcazione maltese che si è rifiutata di farli salire a bordo. Non si sa nulla della sorte dei loro compagni di viaggio, né come sia affondata la imbarcazione sulla quale si trovavano.
Nei giorni precedenti una carretta del mare, avvistata da un aereo ricognitore a sud di Malta, veniva poi data per dispersa, e a Lampedusa era giunta un altra imbarcazione sfuggita per giorni ai controlli, con un carico di immigrati in stato di disidratazione, ed una donna che si trovava sullo stesso battello è stata costretta ad abortire per le sofferenze del viaggio. Altri immigrati hanno dichiarato di avere gettato in mare i cadaveri di due compagni che non avevano resistito ai lunghi giorni passati in attesa di un intervento di soccorso.
I rischi per la vita umana e l’assenza di garanzie per i potenziali richiedenti asilo vittime delle operazioni Frontex sono ulteriormente confermati da queste testimonianze e da quanto successo ai migranti che dopo l’affondamento del loro battello si sono aggrappati a delle gabbie per la pesca dei tonni. Solo l’intervento dell’Alto Commissariato delle nazioni unite per i rifugiati ha impedito che l’odissea di questi naufraghi si prolungasse ulteriormente e che l’intervento di salvataggio operato dalla Marina militare italiana si concludesse con la riconsegna alla polizia libica, come avvenuto assai probabilmente con gli occupanti di altre imbarcazioni segnalate in difficoltà a sud di Malta e poi scomparse nel nulla.
Intanto tra Italia e Spagna si registrano significative differenze, dovute in parte alla diversa situazione geopolitica nella quale si trovano. Sono migliaia i migranti espulsi dalla Spagna verso il Marocco ed il Senegal, ed altri ancora respinti in mare verso la Guinea e la Mauritania, sono poi ricacciati verso i paesi dai quali sono fuggiti, come nel caso delle imbarcazioni Marine I ed Happy Day. Si registra invece una diminuzione consistente degli sbarchi ( o meglio dei salvataggi) nel Canale di Sicilia, tra Lampedusa e la Sicilia meridionale.
Diminuzione che corrisponde però ad operazioni di rastrellamento condotte periodicamente dalla polizia libica nei confronti degli immigrati irregolari, attratti in Libia negli anni dell’embargo, ed adesso preziosa merce di scambio per accreditare Gheddafi come partner privilegiato dei governi europei, non solo nel contrasto dell’immigrazione clandestina, ma anche negli scambi commerciali e nelle forniture di gas e petrolio.
Prima delle stragi in mare, è spesso il deserto che arresta i viaggi della speranza dei migranti attraverso la Libia. Almeno per quelli che non trovano il danaro per corrompere un funzionario della polizia di frontiera.
Come è confermato da numerose testimonianze, in molti paesi di transito la corruzione della polizia e le organizzazioni criminali dei trafficanti di uomini formano un “sistema unico” che stritola migliaia di vite. Un sistema illegale bene organizzato che risulta invisibile soltanto ai governanti europei che con gli stati di polizia del nord-africa non esitano a concludere accordi di collaborazione e di riammissione che -sulla carta- richiamano i diritti fondamentali ed il diritto di asilo, ma che nella pratica si riducono a pratiche di deportazione e di schiavizzazione indegne di un qualsiasi paese che voglia continuare a definirsi democratico.
In ogni caso i nuovi controlli a terra ed a mare, costringono ad utilizzare rotte e mezzi sempre più pericolosi, con una crescita esponenziale delle stragi dell’immigrazione clandestina. Se è diminuito il numero degli immigrati transitati attraverso la Libia ed il Marocco verso l’Italia e la Spagna, è aumentato il numero delle partenze dalla Mauritania, dal Senegal, persino dalla Guinea Conakry, di migranti diretti verso la Spagna, e dall’Algeria, dalla Tunisia, dalla Turchia, attraverso la Grecia, di migranti diretti in Italia, non solo verso la Sicilia, ma anche verso la Sardegna, e di nuovo verso la Puglia. Ancora incalcolabile il numero delle vittime di queste nuove rotte, costretti ad intraprendere i viaggi della disperazione in assenza di un riconoscimento effettivo del diritto di asilo nei paesi del Nord africa, e di un sostanziale canale di ingresso per lavoro negli stati europei, unico vero strumento per ridurre il numero dei migranti irregolari. L’Unione Europea non è riuscita infatti ad adottare una direttiva sugli ingressi per lavoro e le diverse direttive adottate in materia di asilo e protezione umanitaria consentono ancora situazioni molto differenziate tra i diversi paesi e prassi delle autorità amministrative che impediscono generalmente l’accesso effettivo alla procedura di asilo o di protezione umanitaria.
Dopo la vicenda della Cap Anamur, sulla quale è ancora aperto un processo ad Agrigento che vede sul banco degli accusati gli autori di una operazione di salvataggio, sanzioni penali sempre più severe dissuadono le imbarcazioni da pesca e le navi mercantili dal prestare aiuto ai migranti, come se in alto mare non valessero più le Convenzioni internazionali che prevedono comunque l’obbligo di salvataggio immediato. Come se nelle acque internazionali non fosse applicabile quella causa di giustificazione umanitaria che invece esclude la sanzione penale per coloro che aiutano senza fine di lucro gli immigrati irregolari nel territorio nazionale. Numerose testimonianze di migranti, ancora di recente, riferiscono come le navi e le imbarcazioni da pesca ignorino le richieste di soccorso, talvolta senza neppure rilanciare un allarme immediato che potrebbe salvare la vita a decine di persone. Senza l’estensione immediata della esimente umanitaria agli interventi di salvataggio operati da mezzi civili in acque internazionali si corre il rischio che le attività di soccorso siano sempre meno tempestive e che l’elenco dei morti e dei dispersi possa allungarsi ancora di più. Di fronte alla composizione mista dei flussi migratori occorre un regolamento europeo che superi la Convenzione di Dublino e garantisca la salvaguardia della vita umana a mare e la protezione dei soggetti più vulnerabili come i richiedenti asilo, le donne ed i minori. In particolare si devono depenalizzare al più presto gli interventi di salvataggio a mare da parte delle imbarcazioni non militari, in modo da rendere più tempestive le azioni di salvataggio. Le missioni FRONTEX devono essere bloccate o riconvertite nella prospettiva della salvaguardia assoluta della vita umana e del diritto di asilo. Devono essere evitate pratiche di polizia concretamente riconducibili al divieto di espulsioni collettive. Vanno interrotti immediatamente i finanziamenti concessi dai governi europei ai paesi di transito per mantenere centri di raccolta dei migranti irregolari, che assumono spesso, come rilevato in Libia da Human Rights Watch e da una delegazione del Parlamento europeo, il carattere di veri e propri lager. Come vanno interrotti i finanziamenti europei dei voli con i quali gli stati di transitano restituiscono molti potenziali richiedenti asilo alla polizia dei paesi, come l’Eritrea, dai quali questi sono fuggiti.
Gli accordi di riammissione con i paesi nordafricani sono basati sul presupposto che questi paesi, ad eccezione della Libia, hanno aderito alla Convenzione di Ginevra sui rifugiati. Quando poi si va a considerare la dimensione effettiva del diritto di asilo in questi stati si verifica come il diritto di asilo venga riconosciuti in poche centinaia di casi. Non si può ritenere sufficiente l’adesione formale alla Convenzione di Ginevra, se poi i singoli stati si comportano in modo da violare i principi essenziali di quella convenzione, e neppure consentono il tempestivo intervento dei funzionari dell’ACNUR. In questo quadro, può costituire la premessa per gravi violazioni dei diritti fondamentali della persona il coinvolgimento nelle pattuglie FRONTEX di unità navali di paesi che non rispettano i diritti dei richiedenti asilo, come Malta e la Libia. Non si dovranno più verificare espulsioni o respingimenti verso paesi che non garantiscono i diritti fondamentali della persona umana, a partire dal diritto di asilo. Piuttosto che finanziare campi di detenzione amministrativa nei paesi di transito, strutture che diventano luoghi di abusi e di traffici di ogni tipo, occorre istituire, negli stessi paesi di transito, veri e propri centri di accoglienza per i richiedenti asilo. Bisogna estendere l’istituto dell’asilo extraterritoriale, dare quindi la effettiva possibilità di presentare una richiesta di asilo nei paesi di transito e di garantire un rigoroso rispetto del principio di non refoulement previsto dalla Convenzione di Ginevra.
I Parlamenti nazionali devono riconsiderare la materia degli accordi di riammissione, sia perché nella loro concreta attuazione questi accordi risultano in contrasto con le normative internazionali ed interne in materia di salvaguardia della vita umana in mare e di protezione dei diritti fondamentali della persona migrante, sia perché le azioni di polizia che ne conseguono sono sottratte ad ogni effettivo controllo parlamentare o giurisdizionale. Gli accordi già stipulati con i paesi di transito e di provenienza vanno revocati o comunque rinegoziati, ed eventuali accordi futuri, comunque discussi ed approvati dalle assemblee parlamentari, dovranno essere strettamente conformi alle norme internazionali e costituzionali sulla tutela dei diritti fondamentali della persona, come la Carta di Nizza, che vieta le espulsioni collettive, la Convenzione di Ginevra sul diritto di asilo, e la Convenzione Europea a salvaguardia dei diritti dell’uomo, che vieta trattamenti inumani o degradanti ( art. 3) e che prevede, in caso di violazione, mezzi immediati di ricorso davanti alla Corte Europea dei diritti dell’Uomo.