Comunicazioni del ministro della Giustizia Clemente Mastella sulle linee programmatiche del suo dicastero davanti la Commissione Giustizia della Camera dei Deputati
Le gravi difficoltà della Giustizia e l’eccessiva durata dei processi
Il mondo della giustizia presenta notevoli complessità e sempre più spinosi problemi, alcuni antichi che le varie strategie di intervento non sono riusciti a risolvere.
E’ qualche tempo ormai che il tema dell’inadeguatezza delle prestazioni offerte dal nostro sistema giudiziario sembra aver perso molto del suo appeal, a favore di diatribe tra i poteri interni e tra questi e la classe politica o della ricerca di soluzioni tecnicistiche per risolvere i problemi di pochi. La sensazione che se ne ricava è quella che, al di là delle enunciazioni di principio sulle necessarie riforme di carattere procedurale ed organizzativo e sulla centralità della domanda espressa dai cittadini, l’Amministrazione si stia sempre più allontanando dall’utente finale, al punto di rischiare di dimenticarsene e di farsi risucchiare da un dibattito tutto esterno alle problematiche reali.
Eppure, i quasi 9 milioni di processi pendenti, i 2 milioni e mezzo di reati denunciati, i 61.000 detenuti che affollano le carceri sono lì a ricordare quali sono i problemi veri che si agitano sul tappeto e quale sia la portata dell’impatto del sistema giudiziario sulla popolazione: il 90 % degli italiani, lo dice un’indagine del Censis di qualche tempo fa, boccia la giustizia, considerandola lenta, costosa ed iniqua.
C’è, prima di tutto, la scarsa capacità di esaurire in tempi rapidi i procedimenti che nella sensibilità collettiva e delle forze politiche costituisce un problema da soddisfare in via prioritaria. Le cause sono molteplici: l’arretratezza dell’”apparato giudiziario” che stenta ad articolare la gestione delle risorse secondo modelli propri della cultura dell’organizzazione; una tendenziale deresponsabilizzazione dei protagonisti di giustizia, cioè dei magistrati e del funzionariato, che spesso mancano di cultura dell’ organizzazione; una legislazione sovrabbondante (tra le 140 e 150.000 leggi, oltre la normativa secondaria), talvolta scorretta e contraddittoria che finisce per moltiplicare il contenzioso; la consistenza quantitativa e qualitativa della domanda di giustizia che non trovando risposte in altre occasioni istituzionali, grava sui tribunali e ne ritarda le risposte con una consistente esposizione finanziaria per effetto della legge Pinto sulla responsabilità da ritardi.
A questo proposito credo sia necessario un organico monitoraggio non solo dei tempi dei processi, ma anche dei tempi di pagamento delle somme liquidate dalle Corti di appello a titolo di equa riparazione. Purtroppo, questa figura speciale di risarcimento, è stata gestita male senza alcun coordinamento, per cui va predisposto un intervento correttivo della legge n. 89 del 2001. Per di più la Corte europea dei Diritti dell’Uomo ha censurato i criteri di liquidazione delle indennità riparatorie da parte dei giudici nazionali, ritenendo la legge italiana non compatibile con la Convenzione dei Diritti Umani.
La situazione va affrontata anche ripensando a forme alternative di conciliazione, che attraverso fasi pregiurisdizionali molto snelle possano risolvere le relative controversie con l’apporto dell’Avvocatura; infatti, la spesa ha avuto un incremento notevolissimo, poiché a fronte di 2681 decreti di condanna per euro 1.266.354,84 nell’anno 2002, si è passati a 1654 decreti per euro 5.478.871,69 nel 2003, a 2014 decreti per euro 6.627.974, 36 per il 2004 ed a 2494 decreti per euro 8.921.525,11 nel 2005, senza considerare che le anzidette cifre riguardano pagamenti già effettuati e non anche le maggiori somme rimaste da erogare.
La riorganizzazione dell’apparato
Quanto alla macchina giudiziaria dico subito che respingo la suggestione di mettere mano a riforme di ampio respiro, un versante – come è noto - non agevolmente praticabile. Credo sia preferibile concentrarsi su come riorganizzare il sistema e in questa prospettiva inserire innovazioni legislative indispensabili per ridare efficienza attraverso provvedimenti amministrativi generali e piani di sviluppo, sulla falsariga di quanto consiglia nel suo programma-quadro la “Commissione europea per l’efficacia della giustizia” istituita nell’ambito del Consiglio d’Europa.
Perciò mi soffermo prima di tutto sui profili di riorganizzazione della macchina per poi passare alle innovazioni legislative che ritengo necessarie.
Risorse, personale, strutture dell’apparato di giustizia vanno impiegati secondo modelli operativi che hanno bisogno di una razionale raccolta dei dati per misurare l’impatto ai fini della realizzabilità dei programmi, per valutare la produttività, per operare un’idonea distribuzione del reticolo giudiziario e per gli adattamenti via via necessari. In realtà i metodi di rilevazione fino ad ora usati tendono ad offrire elementi conoscitivi aggregati su grandi categorie mentre la materia giudiziaria è più complessa ed ha numerose variabili che riguardano il territorio, l’intensità e la natura della domanda, le scelte di politica criminale e spesso l’intero contesto in cui tribunali e corti sono inseriti. A queste esigenze i centri di rilevazione del Ministero si devono necessariamente adattare realizzando una rete di monitoraggio che consenta di controllare la distribuzione del lavoro e la resa dei singoli uffici per evitare vuoti di efficienza, fasce oscure o ingestibili sovraccarichi di lavoro.
Conosciuti i bisogni e predisposte le risorse disponibili occorre fissare standard di produttività, tema non facile perché comporta la valutazione ponderale di udienze, procedimenti e sentenze; ma la moderna scienza econometrica offre metodologie idonee a tarare e misurare anche queste risultanze, superando le difficoltà incontrate in passato dalla Commissione mista del Consiglio superiore e del Ministero.
Ebbene, se si ottiene un panorama conoscitivo della macchina giudiziaria e delle sue dinamiche, se si fissano in anticipo gli standard di produttività e in anticipo si misurano i necessari bisogni strumentali, è più agevole elaborare programmi per fasce di uffici accorpati secondo la dimensione, la caratura operativa e le tipologie dimensionali; soltanto l’elaborazione di programmi riferiti all’impiego delle risorse e ai relativi risultati consente riscontri di produttività e adattamenti costanti; inoltre l’insieme rappresenta un prezioso materiale per futuri giudizi sulle capacità dei capi e degli stessi magistrati.
L’essenziale funzione del personale amministrativo
Bisogna riconoscere che l’organizzazione della giustizia poggia in larga misura anche sull’attività del personale amministrativo: una ricchezza fondamentale, necessariamente da valorizzare perché l’efficienza degli uffici giudiziari dipende dall’opera di questo personale che oggi risulta mortificato soprattutto dalla mancata realizzazione della riqualificazione professionale.
Si tratta di un problema delicato sia per i profili di disparità di trattamento con altre amministrazioni dello Stato, sia per la situazione determinatasi a seguito delle numerose decisioni giurisdizionali sull’argomento, ma per avviare un percorso meno accidentato e trovare una soluzione occorre percorrere tutte le strade possibili, nel rispetto del principio di imparzialità e in coerenza con le decisioni della Corte costituzionale, salvaguardando la duplice esigenza del riconoscimento professionale e del riassetto dell’amministrazione: risolvere questi problemi significa dare fiducia ad un settore essenziale delle nostre risorse e stimolare maggior impegno ai fini dell’efficienza dell’intera struttura.
I responsabili dell’organizzazione
I poteri e le responsabilità dell’organizzazione del sistema-giustizia appartengono al Consiglio superiore e ai capi degli uffici. Nonché al Ministero che ha responsabilità per la dotazione delle risorse strutturali e di personale secondo l’art. 110 della Costituzione.
Ecco perché occorre una politica di piano per la giustizia, secondo un programma articolato in tre fasi:
censimento analitico dei bisogni ufficio per ufficio monitorati con tecniche econometriche;
previsione di produttività e relativi costi;
nuovi assetti di efficienza con relative linee di indirizzo concordate fra Ministro e Consiglio superiore della magistratura.
Dunque, il Ministero può avviare piani generali in vari settori, come la geografia giudiziaria, la ristrutturazione gestionale degli uffici, l’eliminazione delle costose pendenze dei corpi di reato affidati a terzi, gli interventi nel settore informatico. E’, quest’ultimo, un obiettivo primario e in tale quadro occorre completare il progetto per il processo civile telematico con la previsione della notifica con tale mezzo per gli atti notificati o comunicati dagli avvocati o dagli ausiliari del giudice, con l’iscrizione a ruolo telematica quale incentivo scaturente dalla riduzione dei costi e con l’ulteriore innovazione della non obbligatorietà del rilascio di una procura a margine dell’atto introduttivo del giudizio bastando il mandato in forma scritta conservato dal professionista per i rapporti interni.
E’ altresì in progetto l’avvio dell’intero processo telematico nei settori ad alta percentuale di procedure routinarie e una prevalenza di prova documentale (procedimenti di ingiunzione, previdenziali ed esecutivi). Quanto al settore penale, si mira alla realizzazione di un sistema “integrato” attraverso l’individuazione di un unico flusso informativo che dalla ricezione della notizia di reato giunga, attraverso la fase di cognizione, sino all’esecuzione della condanna, con eventuale innesto di fasi incidentali come le misure cautelari che pure necessitano di una gestione digitale. Infine, il trattamento cartaceo del casellario appare oggi assolutamente anacronistico sotto il profilo della tempestività di aggiornamento e della completezza del dato nonché della necessaria affidabilità per il momento decisionale.
La digitalizzazione consente al Casellario di svolgere il ruolo di archivio nazionale di riferimento per la conoscenza in tempo reale di tutte le vicende di rilievo penale; con questo sistema il Casellario, nel censire tutte le posizioni definite con sentenza definitiva di condanna e tutti i carichi pendenti, potrà essere alimentato automaticamente dai sistemi “fonte”, rappresentando, in sostanza, il data base nel quale confluiranno gli elementi di quell’unico flusso della giurisdizione che deve rappresentare il filo conduttore del meccanismo informativo penale.
In questa strategia di piano intendo avvalermi anche dell’attività dell’Ispettorato generale, utilizzato non più in funzione esclusivamente repressiva ma soprattutto in funzione preventiva, foriera tra l’altro di un circuito di informazione fra le esperienze dei vari uffici come fattore di conoscenza e di stimolo per una riorganizzazione globale della intera macchina giudiziaria.
L’importanza dell’avvocatura e la legge quadro sulle professioni
All’Avvocatura va dedicata un’attenzione particolare perché essa è coprotagonista a pieno titolo della giurisdizione e portatrice di valori essenziali per l’adempimento del servizio giudiziario. Purtroppo negli ultimi tempi si sono acuiti contrasti e incomprensioni con l’ordine giudiziario, oltre il fisiologico rapporto dialettico delle rispettive funzioni; viceversa sono indispensabili intese e confronti leali, nella piena disponibilità da parte del mio Dicastero a recepire tutti i suggerimenti, gli stimoli, le prospettazioni costruttive e – perché no – le critiche che provengano dall’avvocatura attraverso i suoi organi istituzionali e le associazioni di categoria: così nel settore civile per quanto attiene ai problemi suscitati dalle più recenti riforme sui temi della procedura contenziosa ordinaria, dei danni da circolazione stradale e dei procedimenti specialistici in materia societaria e fallimentare; così, nel settore penale, per quanto attiene all’eccessiva previsione di nullità non incidenti sui diritti di difesa, al trattamento dei recidivi e alla tutela delle vittime del reato. Sono problematiche per le quali l’avvocatura già sta dando preziosi suggerimenti di cui terrò conto in quell’ambito di possibilità correttive che riuscirò a trovare nella volontà parlamentare.
Ma c’è una riforma che tocca con maggiore intensità l’avvocatura e, più in generale, le categorie professionali, cioè la legge-quadro sul riordino delle professioni intellettuali.
Le continue interruzioni del processo di riforma del sistema professionale italiano – che affondano le proprie radici nelle commissioni ministeriali degli anni ’70 – stanno inibendo al nostro terziario intellettuale la possibilità di cambiare in profondità, e di dotarsi di un maggiore orientamento all’innovazione. Ed in più hanno creato competizioni di competenza fra Ministri che hanno ulteriormente accentuato le difficoltà.
Al tempo stesso, i confini del sistema non cessano di crescere: gli iscritti agli Albi nel 2005 erano 1 milione e 828 mila persone, mentre gli esercenti le professioni non regolamentate erano circa 4 milioni. Accanto alle professioni tradizionali sono cresciute, infatti, un notevole numero di attività intellettuali nuove, a fronte del quale si è sviluppato un tessuto associativo ancora in formazione, ma molto attivo. Gli ordini sono al momento 27, mentre le Associazioni professionali non regolamentate sono 160.
La riforma delle professioni deve quindi essere rimessa nell’agenda politica al più presto, per non fare perdurare l’attuale stato di confusione e di conseguente deterioramento del tessuto professionale e di quello associativo a questo collegato.
Nella scorsa Legislatura una commissione costituita presso il Dicastero della giustizia elaborò una bozza di riforma che aveva ricevuto molti consensi e da cui si può ripartire con opportuni aggiustamenti. Ci sono, da un canto, i ben noti indirizzi dell’Unione europea e c’è, dall’altro, una nostra peculiare esperienza; nel mezzo c’è l’esigenza di adeguare il sistema degli ordini professionali alla realtà di oggi, soprattutto per meglio soddisfare i bisogni dell’utenza. Alcune cose vanno riviste ed aggiornate, senza tuttavia cedere all’idea di una completa ed assoluta liberalizzazione che, andando oltre i benefici di una fisiologica concorrenza, potrebbe determinare lo scadimento della prestazione professionale estremizzando la logica del “costo sempre più basso”.
L’istituzione degli ordini, la disciplina della loro autonomia e il relativo controllo non costituiscono un anacronistico interventismo bensì una garanzia per l’utenza perché lo Stato non può disinteressarsi di prestazioni che spesso toccano bisogni e diritti fondamentali dei cittadini.
Sempre in tema di avvocatura, occorre rivolgere uno sguardo più attento a quella parte di essa che svolge attività sostitutiva e di supporto alla magistratura ordinaria; mi riferisco alle varie categorie di giudici onorari che chiedono risposte univoche per la loro posizione futura e assetti più precisi per talune esigenze essenziali.
La leale collaborazione tra Ministero e CSM
Presupposto indispensabile per avviare la strategia descritta è un clima di collaborazione fra Ministero e Consiglio superiore, invece di quell’atmosfera di perenne scontro che ne ha caratterizzato i rapporti negli ultimi anni.
In questa prospettiva assicuro sin d’ora il mio massimo impegno, intendendo ispirare a tale spirito collaborativo i miei rapporti con tutte le istituzioni dello Stato, a cominciare dal Presidente della Repubblica, come di recente testimoniato anche dalla riattivazione della procedura relativa alla concessione della grazia ad Ovidio Bompressi. Ma i rapporti più intensi sono con il C.S.M., organo di governo autonomo della magistratura.
Il C.S.M. ha numerosi compiti di organizzazione che riguardano l’assetto funzionale degli uffici attraverso le tabelle, ove si enunciano per il biennio i criteri di funzionamento della giurisdizione, le regole di distribuzione degli affari, l’adattamento a variabili emergenziali; riguardano anche la politica dei tramutamenti e la provvista per i vuoti di organico, la dotazione per settori specialistici, gli incarichi direttivi e semidirettivi, il controllo di efficienza a carattere diffuso o per singoli uffici.
Negli ultimi anni il Consiglio, con la circolare per le tabelle, ha opportunamente invitato i capi degli uffici ad elaborare programmi di produttività o di recupero dell’arretrato, ma senza prevedere riscontri a consuntivo; purtroppo agiscono talvolta in controtendenza il mutamento dei criteri operativi da una consiliatura all’altra e l’abbandono di orientamenti prestabiliti per esigenze correntizie o prassi ritardatarie da mancata composizione di dialettiche tra gruppi consiliari.
Molto si potrà fare – ne sono convinto - attraverso un’ attiva interlocuzione con il Consiglio Superiore della Magistratura e con tutto il circuito dell’autogoverno della magistratura per un migliore assetto funzionale degli uffici sul piano dell’organizzazione tabellare, per la politica dei tramutamenti, degli incarichi direttivi e semidirettivi, per la formazione della magistratura, ma anche per gli standard di produttività per l’ ottimizzazione delle risorse strutturali e di personale.
L’azione di governo e di amministrazione della giustizia non può essere efficace se l’organo di autogoverno della magistratura non provvede tempestivamente e razionalmente a gestire la mobilità e gli incarichi direttivi od a programmare gli atti di indirizzo organizzativo: un’ampia e complessa attività che richiede un Consiglio superiore meglio strutturato nella composizione e nelle articolazioni. Voglio dire che tale organo di rilevanza costituzionale non può ritenersi sufficientemente garantito dall’attuale consistenza numerica, poiché spesso le numerose competenze appaiono soverchiare oltremodo l’attività che ciascuno dei membri deve affrontare. Occorre quindi riportare a 30 il numero complessivo dei componenti, di cui venti togati e dieci laici, facendosi anche carico di rafforzare la struttura tecnica della segreteria e dell’ufficio studi, assicurando al Consiglio la possibilità di continuare ad avvalersi dell’opera di magistrati per la segreteria e per l’ufficio studi.
Nell’organizzazione della macchina giudiziaria i capi degli uffici hanno un ruolo essenziale; perciò è indispensabile che essi posseggano metodo di gestione del personale, tecniche di utilizzazione delle risorse, capacità di programmare il lavoro; com’è altrettanto necessario che per queste qualità abbiano la necessaria autorevolezza e sappiano assumersi la responsabilità delle iniziative.
Il programma organizzativo di un ufficio è, in buona sostanza, la razionalizzazione delle risorse disponibili nella prospettiva di risultati di cui dar conto a periodi determinati; anzi l’ordinamento dovrebbe stabilire l’obbligo, per i capi, di un progetto iniziale e l’analogo obbligo di periodici rendiconti, prevendendosi una responsabilità “per cattiva gestione” o, secondo i casi, una ipotesi di destinazione ad altra attività per incolpevole inettitudine alla dirigenza.
Anche ai singoli magistrati competono doveri organizzativi per risultati, come – e riferisco le prassi adottate in alcuni uffici - programmare la gestione dei ruoli attraverso criteri di priorità prestabiliti d’intesa con i responsabili dell’ufficio, modulare udienze e orari per massimizzare il rendimento e ridurre costi umani e sociali, evitare quelle regressioni di fase che maggiormente incidono su parti e soggetti processuali, concordare regole procedimentali per rendere più spedito l’iter; impedire nel settore civile, con decisioni immediate, l’uso distorto del contenzioso al solo scopo di guadagnare tempo in favore degli inadempienti, rispettare l’ordine logico delle acquisizioni probatorie evitando dilatazioni istruttorie non coerenti alla natura della causa, utilizzare in modo più deciso la disciplina delle spese processuali secondo l’art. 96 del codice di rito.
Nel campo penale è necessario potenziare la funzione gup affinché il filtro dell’udienza preliminare possa rendere produttivo l’afflusso al dibattimento anche per contenere quell’abnorme scarto tra rinvii a giudizio e statistica assolutoria; fare ricorso, per processi di particolare complessità, alle c.d. udienze di programma in modo che il successivo iter, una volta concordata fra le parti la relativa gestione, possa avere un andamento governabile nelle cadenze e nei tempi; utilizzare strumenti tecnologici per comunicazioni e avvisi; evitare le incompatibilità endoprocessuali così frequenti nei casi di patteggiamento; valutare anche le pretese risarcitorie della parte civile così da evitare agli interessati ulteriori e defatiganti istanze di giustizia.
Sono esempi tratti dall’esperienza di numerosi tribunali (le c.d. “prassi virtuose”), che recentemente una rivista giuridica ha elencato definendoli utili percorsi nella prospettiva dell’art. 111 della Costituzione. E’ stata anche avanzata la tesi di collegare una parte del trattamento stipendiale alla realizzazione del programma elaborato dal magistrato come la riduzione dei tempi e l’eliminazione dell’arretrato: è – questa - una tesi forte, che richiederebbe comunque un intervento legislativo; ma che alcuni prospettano come efficace già con il cosiddetto “effetto di annunzio”.
Insomma, mediante circolari, atti di indirizzo, disposizioni regolamentari, su iniziativa del Ministro, dei Capi dei Dipartimenti e del Consiglio superiore, nonché mediante interventi orientativi dell’Ispettorato è possibile incidere sia sugli aspetti organizzativi della giurisdizione sia sulla dinamica della resa di giustizia, responsabilizzandone i protagonisti in termini di efficienza.
La revisione della geografia giudiziaria
Questa strategia di riorganizzazione comporta l’impegno di evitare che l’attuale assetto di alcuni uffici giudiziari ne renda impossibile o molto difficoltoso il funzionamento. Mi spiego.
L’istituzione del giudice unico di primo grado, entrata a pieno regime dal 2000, ha tentato di realizzare una maggiore funzionalità utilizzando il singolo magistrato per più funzioni, e ciò porta a ritenere come più vicina alla piena efficienza una previsione per i tribunale di un organico minimo di 14 magistrati. Tale dimensione rende effettivamente possibile ed economico strutturare l’ufficio con una sezione penale, una civile ed un ufficio gip-gup, composti rispettivamente di un presidente e 5 giudici, per un totale di 12 magistrati e di due componenti dell’ufficio gip-gup.
Tale formula realizza più efficacemente la legge n. 51 del 1998, la quale impone che ogni sezione sia composte di almeno 5 magistrati, più il presidente, che ogni presidente di sezione abbia una sezione a cui essere assegnato, che in presenza di un tribunale diviso in sezioni, debba essere costituita la sezione gip-gup.
Lo scopo di questa impostazione è proprio quello di garantire da un lato una struttura efficiente, realizzata attraverso la formazione di sezioni che si occupano a tempo pieno di un unico settore, civile o penale, con conseguente specializzazione dei magistrati, dall’altro di eliminare il più possibile il problema delle incompatibilità processuali, soprattutto tra il settore giudicante e la funzione gip-gup.
Al di sotto di questa composizione il tribunale è costretto a costituirsi in sezione unica promiscua, realtà che determina una serie di problemi in tema di incompatibilità di funzioni o di sovrautilizzo dei giudici onorari. In tutti i tribunali in cui l’organico risulta inferiore alla suddetta soglia spesso si determinano situazioni insostenibili di pluralità di incombenze in capo agli stessi giudici. La soppressione o l’accorpamento da realizzare può comprendere due circoscrizioni limitrofe, che quindi non subiscono modifiche territoriali o smembramenti e potrebbe essere denominato con doppio nome, così come viene fatto per alcune province ( ad es. Forlì-Cesena).
Il notevole recupero di efficienza può quindi realizzarsi attraverso l’utilizzazione di un maggior numero di magistrati per gli uffici minori secondo criteri di funzionalità e specializzazione ed un migliore utilizzo del personale amministrativo. L’operazione riguarderebbe, in realtà, 38 uffici rispetto ad numero complessivo di 165, quindi un quarto del totale.
Passo ora ad enunciare le iniziative che riguardano specificamente il piano normativo.
Le innovazioni legislative: L’ordinamento giudiziario
Comincio dalla vexata quaestio dell’ordinamento giudiziario. Il tema è troppo importante per ridurne la rivisitazione normativa all’aprioristico segnale di diversità o ad un intento demolitorio di quanto sia stato fatto nella precedente Legislatura.
L’esigenza di riaprire il confronto nasce da una diversa concezione del ruolo e dell’assetto dell’ordine giudiziario nel contesto dell’equilibrio istituzionale. La mia cultura di base e l’esperienza di circa trent’anni nella vita politica mi spingono a considerare la giurisdizione come categoria che ricerca ed esprime in via autonoma le tecniche di ricostruzione delle realtà ed in via autonoma opera la mediazione tra l’astratto senso giuridico di norme con i principi costituzionali e i fatti sottoposti al suo giudizio; questa cultura mi porta a considerare la magistratura come un ordine professionale distinto dal funzionariato pubblico, un ordine che ha con l’apparato amministrativo legami di servizio ma non connessioni strutturali nè articolazioni gerarchiche. E nemmeno identità di status o cultura di carriera.
Non a caso l’art. 107 della Carta Costituzionale afferma che i magistrati si distinguono fra loro soltanto per diversità di funzioni, non per gerarchie di gradi, giacché ogni magistrato, quale sia l’attività in concreto esercitata, è garante della legalità.
D’altronde queste idee sono chiaramente espresse nel Programma dell’Unione, al quale io, come rappresentante di una parte politica, ho ampiamente e responsabilmente aderito.
So bene quanto travaglio sia costato il passaggio dal giudice-funzionario degli ordinamenti Oviglio e Grandi del ‘913 e del ’41 alla concezione di una magistratura costituita come ordine dotato di autonomia e indipendenza; e quanto si sia discusso nella letteratura specialistica sulla maggiore o minore affinità col sistema del funzionariato francese o con quello della concezione anglosassone. Ma oggi, anche nelle direttive comunitarie, c’è una configurazione ben distinta dall’antico funzionariato giudiziario.
Ebbene, la legge n. 150 del 2005 e i decreti attuativi recano in buona parte l’impronta burocratica ancien regime; ed è questa impronta che io intendo rimettere in discussione, traendone le conseguenze sul piano normativo. Tanto più che la VII disposizione transitoria prevedeva, sì, un nuovo ordinamento giudiziario, ma un ordinamento pensato e redatto – essa dice – “in conformità con la Costituzione”.
Su tale base concettuale analizzo brevemente i decreti legislativi per un oggettivo confronto in questa alta sede parlamentare.
I concorsi interni e le possibili alternative
L’accesso alla magistratura è configurato dal decreto n. 160 del 2006 come un concorso di secondo grado, forse al duplice scopo di una preselezione che tagli il numero dei candidati e la prospettiva di una maggior idoneità iniziale. Ma questi obiettivi si possono raggiungere in altro modo, senza penalizzare nell’attesa fasce di giovani e famiglie non in condizione di sostenere la relativa gravosità economica: si può rafforzare il sistema di accesso attraverso le scuole pubbliche di specializzazione e attraverso l’ammissione diretta di quanti abbiano riportato un altissimo voto di laurea e una buona media globale con un piano di studi funzionale all’attività per cui si concorre; si possono rivedere le regole di composizione della commissione esaminatrice in modo da contenere i tempi di espletamento della procedura concorsuale; si possono modificare le prove scritte strutturandole in modo che il candidato sia chiamato a dimostrare una buona preparazione teorica e, contestualmente, la capacità di finalizzarla per la soluzione di problemi tecnico-giuridici.
Superato il concorso, è necessario un buon periodo di uditorato, al termine del quale occorre un severo controllo di professionalità prima del conferimento delle funzioni, ed occorre forse, come si è proposto da più parti, un consistente periodo di esercizio dell’attività in un collegio per quanti iniziano nel settore penale.
Ma due cose vanno eliminate: in primo luogo, l’opzione anticipata fra attività giudicante e attività requirente non solo perché spezza decisamente l’unità culturale della giurisdizione ma anche perché delle rispettive professionalità l’interessato non può avere una cognizione piena e finirà per orientare la sua scelta in rapporto alle sedi disponibili, non certo in coerenza con una effettiva vocazione; in secondo luogo, il colloquio psico-attitudinale nell’ambito delle prove orali, sulla cui rilevanza, metodologia applicativa ed efficacia nessuno degli esperti interpellati ha saputo dire gran che.
Quanto alla cosiddetta carriera dei magistrati, nel decreto n. 160 sono previsti vari concorsi interni per accedere a gradi superiori e a funzioni più alte, dei quali il decreto fa una minuziosa e farraginosa classificazione; il tutto sulla falsariga di un regime impiegatizio che riproduce, nella filosofia di fondo, l’ordinamento del 1941, scomponendo l’assetto realizzato nel frattempo dalle leggi n. 570 del 1966 e 831 del 1973 con i c.d. “ruoli aperti”.
I vari concorsi recati dall’innovazione hanno suscitato critiche notevoli sotto vari aspetti. A parte l’inaccettabilità di un sistema calato appieno nella logica impiegatizia, a me sembrano decisive alcune considerazioni pratiche: quante volte e per quanto tempo ogni magistrato si sottrarrà all’ordinario esercizio della sua attività per dedicarsi alla preparazione dei quattro o cinque concorsi interni? Come potrà, legittimamente, non distrarre il suo impegno dalla giurisdizione? Quale stimolo ad un carrierismo indifferente alle sorti della giustizia questo sistema inocula nell’ordine giudiziario?
Nel decreto, pur formalmente facoltativa, la possibilità di partecipare ai concorsi, con la prospettiva dei relativi vantaggi di carriera anticipati e risvolti economici positivi, potrebbe indurre numerosi magistrati a scegliere questa strada, abbandonando quegli uffici di primo grado dove si adottano le decisioni spesso più delicate e con il maggior impatto sociale. Tutto ciò in contrasto con l’interesse del cittadino ad avere un magistrato esperto fin dal primo grado del processo.
Allora, nell’interesse del servizio e dell’utenza, mi sembra necessario optare per un sistema diverso che non produca quei disastrosi effetti.
Debbo dichiarare con tutta franchezza che le leggi sui ruoli aperti, le quali intendevano realizzare il principio costituzionale della pari dignità delle funzioni giurisdizionali (art 107), ebbero forse un’ispirazione troppo illuministica in quanto facevano leva sull’idea che il magistrato, ormai libero dall’assillo della carriera, avrebbe conservato e potenziato la sua professionalità in rapporto al servizio giudiziario cui di volta in volta era chiamato. Purtroppo la realtà ha offerto esperienze non sempre positive, suscitando la sensazione di una riforma incompiuta, bisognevole cioè di controlli periodici e di meccanismi di riscontro per assicurarsi della costante tenuta della professionalità nelle varie funzioni.
In realtà si è diffusa la convinzione che le leggi n. 570 e 831 presentano un duplice inconveniente: per un verso collocano il riscontro-giudizio in periodi troppo distanziati, cioè soltanto in occasione della nomina alle qualifiche superiori; per altro verso, offrono parametri troppo elastici che non consentono una reale ed oggettiva valutazione, trattandosi di riconoscere soltanto una qualifica e un aumento di stipendio.
Ebbene, per garantire una professionalità permanente, costantemente aggiornata, sensibile alle esigenze della collettività e alla dimensione europea del rendere giustizia; per assicurare all’utenza un impegno del corpo giudiziario di alto livello sempre aderente al valore dell’imparzialità; per collocare alla direzione degli uffici presidenti e procuratori i quali siano autorevoli più che autoritari, rispettosi delle garanzie di indipendenza di ciascun magistrato ma anche solleciti nel prevenire negligenze o inutili protagonismi; per garantire in ogni caso quella “professionalità forte” che sta alla base di una magistratura come ordine autonomo, è necessario e sufficiente prevedere valutazioni periodiche a tempi fissi, ad esempio ogni quadriennio, valutazioni che costituiscano non solo presupposti per il conferimento di altre funzioni, ma anche importanti momenti di verifica, suscettibili di concludersi, in caso di esito negativo, con il blocco per un quadriennio della progressione economica o con la destinazione ad altra funzione dei magistrati che si rivelino inidonei all’esercizio di specifiche funzioni in atto loro assegnate od, infine, con la rimozione dei magistrati che non superino successive verifiche.
Tali verifiche potranno fondarsi, sulla falsariga di una proposta presentata durante la XIII Legislatura, sui rapporti dei capi degli uffici, sul riscontro di produttività secondo gli standard generali e settoriali, su segnalazioni eventualmente pervenute dal Consiglio dell’ordine degli avvocati per fatti incidenti sulla professionalità o su situazioni concrete e specifiche di esercizio non indipendente della funzione ovvero su comportamenti sintomatici di mancanza di equilibrio; ulteriore elemento valutativo potrà essere costituito dall’autorelazione in cui, fra l’altro, il magistrato dà conto degli obiettivi programmati e realizzati, ovvero delle ragioni di una mancata realizzazione, e di quant’altro ritenga di enunciare per esprimere la sua professionalità e i relativi modi di esercizio
La preoccupazione di una difficile gestione di tale meccanismo da parte degli organi incaricati della valutazione, e cioè Consigli giudiziari e Consiglio superiore, è superato dal fatto che si tratta di acquisizioni a futura memoria, sostanzialmente informatizzate, da utilizzare quando si maturano i tempi e le occasioni per il conferimento di altre funzioni. Insomma, una banca dei dati valutativi da utilizzare per i tramutamenti specialistici, ovvero, secondo determinate fasce di anzianità, per le funzioni di secondo grado, per incarichi semidirettivi e per incarichi direttivi; nulla impedisce comunque di attivare questa banca in riferimento a situazioni che riguardino comunque la capacità, la laboriosità, le professionalità specifiche, l’equilibrio, le attitudini del singolo magistrato.
Quanto al conferimento delle funzioni di legittimità, va in primo luogo garantito che la valutazione permanga, secondo il sistema costituzionale (art. 105 Cost.), nell’ambito delle attribuzioni del Consiglio superiore. L’assegnazione dei magistrati alla Corte di Cassazione, in ragione della specificità delle funzioni svolte, andrebbe organizzata secondo moduli valutativi diversi dalle assegnazioni agli uffici di merito, per garantire un’adeguata valutazione della professionalità specifica.
Ma è del tutto inidonea la previsione di un concorso per esami.
Si può prevedere che l’organo di autogoverno si avvalga a tal fine della collaborazione di magistrati e professori universitari per una prima valutazione dei provvedimenti degli aspiranti alla funzione di legittimità, finalizzato al riscontro delle specifiche attitudini.
Insomma, per l’accesso alle funzioni di legittimità la prospettiva è diversa. Un magistrato, per quanto bravo e costantemente capace nell’attività di merito, può non essere in grado di svolgere una funzione di legittimità presso la suprema corte o la procura generale: allora deve dimostrare di essere esperto nell’analisi delle norme e in quella diversa professionalità che è l’esercizio della nomofilachia ove l’indagine sulla identità normativa è cosa ben diversa dalla ricostruzione del fatto, sia pure sub specie juris.
Tutto questo va integrato con la partecipazione ad appositi stages presso le scuole della magistratura che vanno frequentati sia da quanti aspirino a funzioni diverse sia da quanti intendano restare nella originaria funzione di primo grado. Ovviamente la partecipazione allo stage deve avere un significato, una cifra finale che non si limiti a registrare la mera partecipazione.
La distinzione delle funzioni
Ritengo, invece, che vada valutata meglio quella parte del decreto n. 160 comunemente chiamata “distinzione delle funzioni”. Pur convinto della unicità sistematica dell’ordine giudiziario, sono, infatti, sensibile all’esigenza, di natura sociale più che istituzionale, secondo cui chi ha esercitato funzioni requirenti o giudicanti in una sede non possa esercitare, per almeno un quadriennio, le diverse funzioni nel medesimo distretto; sono altresì convinto dell’esigenza che ogni passaggio richieda l’obbligatoria frequenza di un corso di riqualificazione professionale e, ovviamente, un successivo giudizio di idoneità espresso dal C.S.M. previo parere del competente Consiglio giudiziario.
Queste esigenze, peraltro, non sembrano imporre necessariamente una scelta definitiva tra le due funzioni, nei termini attualmente previsti nel decreto legislativo n. 160, potendo pienamente essere realizzate anche con la conservazione di un impianto normativo più aderente al dettato costituzionale, che consenta, alle condizioni indicate, la possibilità di passaggio dall’una all’altra funzione.
La scuola per la magistratura
L’istituzione della scuola è un’antica aspirazione dell’ordine giudiziario che opportunamente la legge n. 150 e il decreto legislativo n. 26 hanno soddisfatto. Ma anche questo decreto risente della concezione burocratica di cui è intrisa l’intera riforma dell’on. Castelli.
Per riportare la disciplina nell’alveo di una concezione meglio ancorata ai principi costituzionali è necessario che il comitato direttivo sia composto in maggioranza da magistrati nominati dal Consiglio superiore e rivedere talune capacità per chi entri a far parte dell’organizzazione della scuola; è necessario altresì ripensare alla relativa allocazione lasciando alla struttura centrale la gestione del tirocinio degli uditori, i corsi di aggiornamento, quelli per passaggi di funzioni e per aspiranti direttivi o semi direttivi, potenziando per il resto l’attuale formazione decentrata presso le corti di appello.
Sul piano della garanzia degli equilibri nella composizione, l’assetto normativo e funzionale della scuola della magistratura dovrà tenere nel debito conto che l’effettività dell’autonomia di indirizzo non può che essere garantita evitando ogni possibile equivoco sulla rappresentanza della giurisdizione di legittimità, dovendosi ribadire che, anche sul piano della formazione professionale, il ruolo della Suprema corte deve essere contemplato come apporto di una giurisdizione diversa, deputata anche alla nomofilachia, ma non come manifestazione di un disegno verticistico, che finirebbe per tradire il principio di cui all’art. 107 della Costituzione.
La scuola ha bisogno di stanziamenti adeguati, superiori a quelli già previsti, ed ha bisogno di regolamenti esecutivi; nel frattempo è mia intenzione assicurare una continuità tra il lavoro formativo che il Consiglio ha già svolto e programmato e il periodo successivo sino alla operatività reale della scuola, in modo da non lasciare vuoti nella preziosa attività di formazione e di aggiornamento professionale.
Ciò è possibile attraverso una snella struttura di cerniera diretta da chi, nell’ambito del C.S.M., si sia costantemente e con alta dignità interessato dei profili formativi dei magistrati.
La disciplina delle procure della Repubblica
Nell’ordinamento elaborato dal Ministero Castelli lo stigma burocratico è ancora più marcato quanto all’ufficio di Procura: quasi un moloc tutto accentrato nel capo, titolare “esclusivo” dell’azione penale e dei relativi poteri, dispensatore degli incarichi di indagine revocabili ad nutum.
A tale stigma, caratterizzato dalla titolarità esclusiva, si associa un’idea della funzione di accusa che spezza l’unità anche culturale dell’ordine giudiziario – intendo la cultura della giurisdizione – e che, pur senza giungere alla netta separazione delle carriere e dei ruoli, tende a trasformare il protagonista dell’accusa in un pubblico persecutore. Invece è quanto mai opportuno anche nell’interesse dell’indagato, che il pubblico ministero sia partecipe della cultura della giurisdizione, conservi la capacità e l’impegno di accertare e valorizzare tutti gli elementi probatori, pure quelli oggettivamente emersi in favore dell’indiziato o dell’imputato. Né ciò contrasta con il sistema accusatorio perché la relativa dialettica non può prescindere dai dati ontologici che emergano sia a carico sia a discolpa.
Certo, il principio del potere diffuso che per la magistratura giudicante è radicato nel capoverso dell’art. 101 della Costituzione trova un’applicazione attenuata per i magistrati della requirente – ricordo in proposito un intervento dell’on. Boato che, nei lavori della Bicamerale, estendeva quel principio a tutti gli appartenenti all’ordine giudiziario – ma ben altra cosa è la completa gerarchizzazione dell’ufficio di Procura. Non c’è dubbio che occorra evitare iniziative unilaterali, estemporanee, talvolta meramente protagonistiche di ciascun sostituto, e ciò secondo un’esigenza comunemente avvertita di cui non è possibile disinteressarsi in sede ordinamentale. Ma il quadro è più ampio.
Al Procuratore della Repubblica compete, certo, la determinazione dei modelli di organizzazione dell’ufficio, dei criteri di assegnazione del lavoro, del programma di attività e delle direttive generali alle quali i sostituti devono attenersi per il coordinamento delle investigazioni, per l’impiego della polizia giudiziaria e delle complessive risorse dell’ufficio. Tutto questo secondo un progetto organizzativo e funzionale approvato dal Consiglio superiore nei termini previsti da quell’art. 7 ter, co. 3, dell’ordinamento anteriore, che va reintrodotto per motivi di trasparenza ed efficienza dell’ufficio; ed anche per scaricare un po’ di quella enorme responsabilità che il decreto legislativo n. 106 impone ai Procuratori della Repubblica, forse nell’intento di una futura protezione-vigilanza da parte di un qualche Ministero.
Nella prospettiva che ho delineato si incasellano le varie attribuzioni del Procuratore-capo e le garanzie per l’attività dei sostituti: è lui che assegna i procedimenti e, a certe ben precise condizioni, può avocarli a sé o assegnarli ad altri con provvedimento motivato sottoposto al controllo del C.S.M.; è lui che dà notizie, se necessario, ad altri organi istituzionali o alla stampa, senza un’assoluta esclusione del sostituto-titolare purché questi preventivamente concordi con il capo quanto comunicherà; è lui che dà l’assenso per l’iniziativa di misure cautelari, personali e reali, salvo eccezioni in sede di convalida dell’arresto o del fermo e del sequestro di polizia giudiziaria oppure, per le misure reali, in ragione del valore del bene o della ridotta rilevanza del fatto; infine, è a lui che va comunicata l’emersione, nel corso dell’indagine, di una nuova notizia di reato affinché provveda alla relativa designazione.
Si raggiunge così un equilibrio coerente fra la tendenziale uniformità organizzativa e funzionale dell’attività di accusa e il rispetto della dignità professionale degli altri magistrati dell’ufficio, senza incontrollate iniziative e con un fermo contrappeso nella vigilanza del Consiglio superiore della magistratura.
Il disciplinare
Altrettanto delicato è il tema del disciplinare, per gli aspetti della tipologia di alcune figure di illecito e dell’obbligatorietà del promovimento dell’azione da parte del Procuratore Generale.
Alcune figure sono indicate in termini così generici da contraddire lo stesso intento della tipicizzazione. Una maggiore puntualizzazione potrebbe semmai realizzarsi utilizzando la giurisprudenza di legittimità formatasi in tale materia, attraverso l’enunciazione dei concetti “di perseguimento di fini diversi da quelli di giustizia”, “dichiarazioni ed interviste rese in violazione dei criteri di equilibrio e di misura”, “emissione di provvedimenti la cui motivazione consista nella sola affermazione della sussistenza dei presupposti di legge”. Occorre, infatti, evitare che le fattispecie previste conferiscano impropri margini di valutazione discrezionale.
Se qui l’anomalia è di carattere tecnico, altre figure sottintendono scelte che non possono condividersi, soprattutto quelle relative ad ipotesi esterne all’esercizio delle funzioni che in certi casi finiscono per vietare libertà di partecipazioni ad iniziative di cultura politica nel più ampio senso della polis greca, come se il magistrato fosse un cittadino di seconda serie o un estraneo all’assetto socio-economico dello Stato.
Non basta. L’obbligatorietà dell’azione disciplinare, oltre ad avere un impatto preoccupante per ogni magistrato cui si riferisca il facile e infondato esposto di un qualunque scontento per la sorte della propria causa, determina una vera e propria invasione cartacea della Procura generale, anche per effetto del dovere gravante sui Capi degli uffici di comunicare qualunque notizia avente risvolti disciplinari: questo dovere e il prevedibile rischio di una incontrollata moltiplicazione degli esposti determinerebbero, in breve tempo, l’intasamento della Procura generale, un faticosissimo e spesso inutile lavoro e il definitivo blocco, con la conseguente paralisi della sezione disciplinare perché, mancando il necessario contrappeso di una archiviazione presso quell’ufficio, dovrebbe essere il giudice consiliare a gestire l’ enorme flusso di richieste sia di procedure attive sia delle tante archiviazioni. Insomma, laddove si voleva essere più rigorosi e severi con la magistratura, in realtà si è messo in piedi un sistema che rende impraticabile, nei ridotti termini decisionali recati dalla riforma, anche quelle sacrosante reazioni disciplinari che qualche magistrato merita.
Il decreto n. 109 va dunque rivisto in molte sue parti, potendosi anche considerare l’ipotesi di rendere certo il termine di decadenza dell’azione disciplinare, ancorandolo alla data del fatto.
Le iniziative sul processo civile
Nella materia del diritto processuale civile va dedicata particolare attenzione a tutte le misure idonee ad incidere sulla durata dei procedimenti. Misure che non devono risolversi soltanto in interventi normativi di riforma, giacchè il tumultuoso incedere degli interventi del legislatore può essere, a sua volta, causa di crisi del sistema. Priorità è – come si è detto - quella di riorganizzare per rendere razionale il “processo”, creando filtri precontenziosi preliminari o di fase, eliminando quelle inutili complicazioni non funzionali alla realizzazione di un “giusto processo” che impediscono la valorizzazione del principio di lealtà processuale, vera chiave di volta di tutti gli impianti processuali delle democrazie occidentali.
Proprio sul piano dell’organizzazione, nella prospettiva che nel mondo anglosassone viene definita case management, gli interventi potranno essere di sicuro rilievo.
Ormai la situazione è tale da imporre un energico meccanismo secondo cui il grande numero di processi sopravvenienti negli uffici giudiziari non può essere assegnato alle sezioni od ai singoli magistrati senza una fase di preventiva selezione allorché il fascicolo perviene all’ufficio: possono istituirsi presso gli uffici giudiziari, soprattutto presso quelli di maggiori dimensioni, strutture filtro con il compito di individuare cause seriali oppure motivi di manifesta inammissibilità o questioni di diritto analoghe.
Si tratta di un’opera particolarmente complessa e delicata che dovrà essere preceduta da un’intesa fra tutte le realtà professionali coinvolte, senza escludere che il nuovo assetto possa sperimentarsi presso uffici giudiziari di eccellenza, utilizzando, fra l’altro, il lavoro che la Rete Europea del Consigli della giustizia ha istituito per l’analisi del tema nelle giurisdizioni degli stati membri dell’Unione.
Un simile intervento deve, poi, essere accompagnato dalla creazione, da lungo tempo auspicata, dell’ufficio del giudice, concepito come una struttura di supporto all’attività giudiziaria, e composto, oltre che dal personale amministrativo, da professionalità esterne derivanti dal mondo universitario e post universitario nel contesto della formazione pratica finalizzata alle professioni legali.
Sempre in questo quadro di interventi deve considerarsi l’istituzione di una struttura definibile “ufficio per il processo” che può meglio realizzare l’ufficio del giudice. Si tratta di un progetto di lavoro concordato e condiviso dai protagonisti dell’azione giudiziaria che sulla base delle tabelle organizzative degli uffici si avvalga di un polo statistico decentrato per l’analisi dei flussi e dei tempi di esaurimento del contenzioso, coadiuvato da una conferenza dei presidenti di sezione e della dirigenza organizzativa.
Tale modello di programma, già contenuto in nuce nell’ultima normativa secondaria emanata dal Consiglio superiore della magistratura, va rafforzato con il supporto delle strutture del Ministero deputate all’organizzazione.
Sul piano più strettamente legislativo, occorre rivedere, con notevole parsimonia, quegli aspetti della disciplina che costituiscono inutili complicazioni le quali incidono sulla celerità del procedimento e creano dissidi interpretativi; taluni di questi sono stati introdotti negli ultimi tempi senza calibrare l’aggravio processuale e senza soddisfare effettive esigenze di tutela delle parti. Si tratta di contemperare gli interessi di soggetti processuali e della difesa tecnica con l’interesse primario della risoluzione dei conflitti in tempi ragionevoli come il cittadino si attende.
Il giudice, terzo e garante per tutte le parti, deve essere maggiormente dotato di poteri discrezionali che possano indirizzare il processo verso binari i quali assicurino il suo ordinamento e leale svolgimento.
Alcune delle scelte di politica legislativa adottate nella precedente Legislatura possono condividersi ed anzi sono apprezzabili, come l’opzione verso il concordato piuttosto che verso il fallimento tout court, come la tutela dell’impresa familiare e via dicendo, ma non sono state idoneamente realizzate, con il pericolo di effetti perversi tanto da suscitare critiche nel mondo forense e in quello accademico. Perciò ho incaricato l’Ufficio Legislativo del Ministero di operare, con cautela e parsimonia, un appropriato censimento delle norme da rivedere per meglio realizzare le scelte condivisibili, effettuate nella precedente Legislatura.
Gli interventi sul processo penale
Anche il processo penale necessita di interventi volti a garantire il rispetto del canone costituzionale della durata ragionevole; gli interventi possono riguardare la sospensione della prescrizione in caso di sentenza di condanna per evitare impugnazioni proposte a solo scopo dilatorio, l’abolizione del deposito degli atti previsto dall’art. 415 bis del codice di rito per i processi in cui è prevista l’udienza preliminare essendosi tale udienza strutturata in modo diverso secondo la riforma, la modifica del processo contumaciale, salvo il diritto al silenzio dell’imputato.
Queste proposte che, unitamente ad una ragionevole razionalizzazione del regime delle nullità da tutti riconosciuto eccessivo, e del recupero degli atti per fasi di processo, possono conseguire un forte risparmio di tempi e risorse, senza comprimere le garanzie per l’indagato e per l’imputato, ed anzi rafforzando i diritti dei soggetti coinvolti.
A tali interventi è mia intenzione abbinare una limitata riforma delle impugnazioni nel processo penale, in modo da rendere il sistema meglio ispirato, in ogni stato e grado, al principio del contraddittorio e dell’effettiva parità delle parti.
Le intercettazioni
Ritengo improcrastinabile affrontare un intervento normativo in materia di intercettazioni telefoniche, tale da rafforzare gli aspetti di garanzia individuale dei soggetti coinvolti in uno strumento probatorio molto invasivo.
E’ vero che nell'ambito delle indagini preliminari le ipotesi di reato in fase di accertamento implicano spesso l’acquisizione di circostanze ed episodi per i quali, su un piano generale, viene coinvolto l'esercizio legittimo del diritto di cronaca; va considerata tuttavia, con grande attenzione, la necessità di assicurare un'adeguata tutela dei diritti di persone coinvolte dalla possibile pubblicazione pressoché integrale di innumerevoli brani di conversazioni telefoniche, semmai intercorse con terzi estranei ai fatti o che non risultino indagati.
L’obbiettivo è quello di contemperare l’efficienza di un efficace mezzo di ricerca della prova correlata allo sviluppo tecnologico e delle comunicazioni con la tutela della riservatezza, non soltanto sotto il profilo della repressione del comportamento illecito dei soggetti preposti all’utilizzazione del mezzo.
L’impatto delle misure normative ed amministrative allo studio è di grande rilievo se si considera che verrà ad incidere su un fenomeno che ha riguardato, nel solo 2005, 131.200 richieste, 178.154 decreti emessi e, per la sola telefonia voce, 57.565 utenze e 89.154 punti di intercettazione. Il fenomeno va dunque affrontato avendo la consapevolezza che le risorse economiche impegnate sono rilevantissime: nell’anno 2005 i costi per fatture emesse per intercettazioni ammontano ad euro 53.088.525,84, per l’acquisizione di tabulati ad euro 20.551.599,10, per il solo noleggio di apparati ad euro 223.706.551,78. La spesa che grava sul bilancio dello Stato ammonta, quindi, ad euro 307.346.676,72.
L’intervento può esplicarsi su un duplice versante: su quello legislativo, attraverso modifiche che introducano adeguate sanzioni pecuniarie a carico di testate giornalistiche che illegittimamente pubblichino documenti coperti dal segreto di indagine o comunque dal segreto d’ufficio; sul versante amministrativo, dando attuazione alle norme del D.lgs n. 196 del 2003, contenente il codice per la privacy, in sintonia con le iniziative già assunte, per la gestione della telefonia fissa e mobile, dal Garante per la protezione dei dati personali.
La questione è particolarmente rilevante, se si considera che mentre le società di gestione di telefonia devono approntare misure tecnologiche adeguate per garantire la privacy della persone coinvolte da intercettazione, secondo le prescrizioni del codice e del garante, gli uffici giudiziari sono al momento carenti di controlli di sicurezza. Basti pensare alla conservazione materiale dei fascicoli, ai mezzi di trasmissione dei documenti, alla sicurezza dei sistemi informatici adottati dagli uffici, sicchè i dati contenuti nei fascicoli possono risultare, a loro volta, “intercettabili”, in alcuni casi agevolmente.
Nessuno mette in discussione le intercettazioni quale mezzo indispensabile per le attività di indagine finalizzate alla prova dei reati.
Nessuno ipotizza museruole legislative per mitigare o infrenare il diritto di cronaca, ma bisogna convenire che, allo stato, risultano spesso lesi la dignità della persona ed il doveroso rispetto della persona, valori questi che non solo appartengono al patrimonio etico della nostra società, ma sono anche costituzionalmente garantiti. Pertanto non si può penetrare nella sfera di valori costituzionali promossi e protetti attraverso incursioni mediatiche.
Tutto ciò comporta responsabilità di Governo e Parlamento e ritengo che solo dall’azione concorde del legislatore e dell’esecutivo può nascere una nuova disciplina. I modi per arrivarci li scelga il Parlamento. Come legislatori, però, non possiamo accontentarci della fenomenologia delle deviazioni giuridiche, non possiamo limitarci a constatare i fatti.
Dobbiamo disciplinarli attraverso la critica ed attraverso interventi diretti a colmare le lacune. Abbiamo fede nel progresso giuridico, anche se comprendiamo che la legge non basta di per sé a migliorare l’uomo, non crea un costume ma lo presuppone. Ormai la questione di quanto esula dai contenuti delle intercettazioni, essenziali ai fini processuali, è diventata quasi questione democratica, perché quando le deviazioni diventano prassi esse possono diventare una clava per la lotta politica.
Che i partiti, poi, debbano fare ogni sforzo per essere come i cittadini ed i loro elettori vorrebbero è cosa diversa dal linciaggio mediatico che tocca quanti marginalmente, ma non penalmente, entrano nel circuito delle intercettazioni.
Lotta al terrorismo
Altro punto che considero nevralgico per l’assetto democratico è quello del terrorismo, fenomeno che deve essere fronteggiato anche con l’impegno del mio Ministero, al fine di assecondare una strategia di lotta con pari determinazione e impegno insieme agli altri Dicasteri interessati,pur nel rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali.
Nonostante i progressi realizzati a livello dell’Unione Europea nella lotta contro il terrorismo, molto resta ancora da fare. E’ necessario procedere ad un monitoraggio del fenomeno del terrorismo internazionale nell’ambito del nostro territorio, idoneo a sviluppare metodologie e tecniche di indagini dirette alla prevenzione del fenomeno, coordinandone i dati anche attraverso l’uso di una banca centralizzata o coordinata a livello nazionale.
Va nel contempo rafforzata la cooperazione e lo scambio reciproco di informazioni con le Autorità Europee, anche ai fini dell’applicazione della decisione 2005/671/GAI del Consiglio di Europa del settembre 2005, così come è necessario un immediato intervento diretto a regolamentare l’informatizzazione del materiale di indagine per favorire lo scambio diretto di notizie ex art. 371 bis del codice tra i diversi uffici.
La disponibilità di un patrimonio informativo in ambito nazionale non costituisce soltanto l’idoneo veicolo di collegamento fra indagini ma realizza un valore aggiunto per gli esiti che possono derivare dal complessivo materiale investigativo.
Occorre, in definitiva, un’attività di direzione e coordinamento tra tutti gli uffici distrettuali, e tra essi e le strutture inquirenti di altri Stati.
La riforma del codice penale
Per quanto riguarda il diritto penale sostanziale una delle prioritA' é quella di dare finalmente al Paese un nuovo codice che sostituisca quello vigente. Malgrado i numerosi interventi della Consulta e talune modifiche legislative, talvolta frammentarie e disorganiche, l’impianto codicistico attuale ancora risente del periodo storico in cui fu approvato.
E' sufficiente, del resto, rileggere le audizioni in Commissione giustizia dei ministri che si sono succeduti nelle ultime legislature, per averne la conferma;in realtà la riforma del codice penale é stata ritenuta una prioritA' da tutti i Guardasigilli che mi hanno preceduto, trovando sul punto piena condivisione dei gruppi parlamentari.
Ampio e approfondito é stato il lavoro che si é concretizzato nei diversi progetti predisposti dalle Commissioni ministeriali presiedute, di volta in volta, dal prof. Pagliaro (1991), dal prof Grosso (XIII legislatura) , dal dr. Nordio (XIV legislatura), alle quali si deve aggiungere quella parlamentare istituita dal Senato nella XII legislatura, progetti recanti tutti una riforma complessiva del sistema penale e pervenuti a soluzioni in gran parte convergenti.
Ebbene, le linee guida del nuovo codice potranno tenere conto dei lavori delle precedenti Commissioni ministeriali con l'obiettivo di inviare alle Camere una legge delega in tempi ragionevoli, nella certezza che sul tema vi sarA' un confronto costruttivo che coinvolgerà le Commissioni giustizia e l’intero Parlamento.
Il nuovo codice dovrà dare piena attuazione ai principi di legalitA', tassatività e colpevolezza; dovrà essere riaffermato e reso effettivo il principio di personalità della responsabilità penale; dovrá prevedere un' ampia depenalizzazione delle figure contravvenzionali, nell'ottica di un diritto penale minimo ma efficace.
Uscendo dalla logica per cui le uniche sanzioni penali sono la reclusione, l'arresto e/o le pene pecuniarie, occorre proporre soluzioni innovative rispetto al sistema attuale per numerosi reati di minor allarme sociale si dovrá prevedere un complesso di pene diverse dalla detenzione in carcere, come la detenzione domiciliare e la permanenza domiciliare (oggi prevista per alcuni reati di competenza del giudice di pace), il lavoro di pubblica utilitá e le attivitá finalizzate al risarcimento del danno ovvero a elidere o ad attenuare le conseguenze dannose, le misure interdittive o sospensive (da pubblici uffici, da una professione o da un'attivitá di impresa, da licenze, concessioni o autorizzazioni amministrative), le misure prescrittive (il divieto o la limitazione d'accesso o di permanenza in determinati luoghi, la diffida dall'avvicinare determinate persone, l’affidamento al servizio sociale con specifiche prescrizioni) nonché le pene ablative come la confisca.
Dovranno inoltre essere incentivate le condotte di riparazione dell'offesa e di risarcimento del danno, da considerarsi non solo quali circostanze attenuanti ma, per alcuni specifici reati, anche quale causa di non punibilitá, il tutto nell'ottica di rendere effettiva la funzione rieducativa della pena. D’altronde è di comune esperienza che l'attuale sistema sanzionatorio, oltre a rendere incerta l'esecuzione delle pene, si sia dimostrato inefficace anche rispetto alla funzione preventiva di deterrenza.
La necessaria offensivitá del fatto é un connotato presente in tutti i recenti progetti riformatori e in molti disegni di legge presentati nelle scorse legislature, perciò la nuova progettazione dovrà recepire questo valore assicurando la punibilità delle solo condotte realmente offensive dell'interesse protetto o del bene giuridico tutelato.
Inoltre, si dovrà tener conto dei lavori delle Commissioni giustizia di Camera e Senato che, nelle scorse Legislature, hanno elaborato testi su istituti come la "messa in prova" che ha già dato risultati positivi nel processo minorile e che, con le adeguate modifiche, era stato previsto anche per i maggiorenni in un testo approvato nella scorsa Legislatura della Commissione di una sola Camera. Ritengo che sia anche necessaria una più accurata tipizzazione delle condotte nel concorso di persone nel reato, finalizzata a dare al giudice la possibilità di differenziarle rispetto all'evento illecito.
L'obiettivo non é solo quello di dare al Paese un codice penale moderno e aderente ai principi costituzionali, ma anche di creare le premesse di un sistema penale che porti a una significativa diminuzione dell’immunità da prescrizione.
La situazione penitenziaria
Quanto al sistema penitenziario un particolare impegno deve essere finalizzato a trovare mezzi e risorse, materiali e professionali, idonee non soltanto a porre rimedio alla drammatica situazione di sovraffollamento delle carceri, ma anche a rendere effettiva la differenziazione delle condizioni di detenzione fra detenuti in attesa di giudizio e condannati in stato di esecuzione della pena.
Occorre potenziare le offerte trattamentali ai detenuti e le stesse misure alternative alla detenzione, così da rendere più facile il reinserimento sociale, la riduzione del fenomeno della recidiva e la crescita dei livelli di sicurezza per i cittadini. Negli ultimi quindici anni le misure alternative alla detenzione sono significativamente aumentate, eppure, nella considerazione diffusa, sembra che non esistano, oppure che non siano vere e proprie pene.
Tutto ciò, ovviamente, necessita di investimenti e risorse, non solo delle amministrazioni centrali dello Stato, e richiede investimenti sulle professionalità interne all’Amministrazione penitenziaria, da quelle amministrative e trattamentali a quelle della sicurezza, che con grande spirito di abnegazione e senso di responsabilità hanno fatto fronte (e stanno ancora oggi facendo fronte) a un carico di lavoro mai affrontato prima, con mezzi insufficienti già per l’ordinario. A questo proposito si impone come essenziale qualificare e razionalizzare le funzioni e l’organico della polizia penitenziaria.
Ma ciò richiede il concorso di altre amministrazioni, cioé delle Regioni e degli enti locali, affinché possa realizzarsi la programmazione di tutte le risorse volte al perseguimento del precetto costituzionale del reinserimento dei detenuti attraverso politiche congiunte dell’istruzione, della formazione, dell’orientamento e dell’inserimento lavorativo e del sostegno sociale.
In questo quadro, grande considerazione verrà data all’attività del volontariato penitenziario e al possibile contributo che può venire sia dalla cooperazione sociale che dal mondo imprenditoriale.
Esemplare della sinergia indispensabile con le Regioni e gli enti locali è l’annosa questione dell’offerta sanitaria rivolta ai detenuti, che necessita finalmente di una organica sistemazione; e, ancora, l’irrisolto problema della detenzione delle madri di figli di età inferiore ai tre anni, e quindi di quelle bambine e di quei bambini che, nei fatti, risultano reclusi.
Nella XIII legislatura, il Parlamento ebbe la sensibilità di approvare con ampio consenso una legge finalizzata alla promozione di misure alternative alla detenzione per le madri dei bambini più piccoli, ma l’esperienza e il tempo trascorso ci dicono che diversi ostacoli, anche di ordine materiale, impediscono la sua piena attuazione: mi riferisco all’assenza di strutture di accoglienza sul territorio, che facilitino la concessione delle misure alternative alla detenzione; il Parlamento valuterà, con la fattiva collaborazione del Governo, se e in che misura sia possibile modificare le norme che impediscono la concessione di tali misure per fatti di minore allarme sociale.
Ma sono, tuttavia, certo che è possibile, su questo terreno, fare qualche passo ulteriore, fino a promuovere – di concerto con gli enti locali interessati – una rete di strutture capaci di far fronte a quelle necessità di accoglienza per le madri con bambini nonché per quegli adulti che, in grave o gravissimo stato di salute, siano dichiarati “incompatibili” col carcere, ma che nel carcere restano perché non esistono strutture di accoglienza esterne.
In questa prospettiva va, altresì, favorita la cura delle tossicodipendenze al di fuori delle strutture detentive.
Infine, quanto alla effettività dei diritti delle persone detenute, va assicurato l’impegno a dare piena attuazione al nuovo regolamento di esecuzione dell’ordinamento penitenziario, investendo nella ristrutturazione degli istituti penitenziari le risorse economiche necessarie.
Traendo spunto da esperienze già collaudate in alcune Regioni, si può pensare all’istituzione della figura di un garante dei diritti delle persone private della libertà personale, intendendosi per tali le persone recluse o trattenute negli istituti penitenziari, negli ospedali psichiatrici e giudiziari, negli istituti penali per minori, nei centri di permanenza temporanea per stranieri, nelle caserme dei carabinieri, della guardia di finanza e nei commissariati di pubblica sicurezza. Al garante dovrà attribuirsi il delicato ruolo di mediazione finalizzata al riconoscimenti dei diritti dei reclusi.
Su un piano più generale vanno, inoltre, considerati gli inconvenienti che discendono da alcune normative che comportano transiti di breve periodo nelle strutture penitenziarie e che coinvolgono più frequentemente soggetti di spessore delinquenziale non allarmante, provenienti dall’area del disagio sociale e della povertà. Intendo riferirmi:
alla recente legge sulla immigrazione c.d. Bossi-Fini. Nel solo anno 2005 le ipotesi di reato introdotte dalla stessa hanno provocato 13.654 ingressi in carcere, per 11.519 è stata contestata la violazione delle disposizioni sull’espulsione, quasi sempre come unico reato;
alla recente legge sulla tossicodipendenza, che ha modificato – tra le altre - la norma relativa al possesso illecito di stupefacenti ( art. 73 dpr n. 309/1990), introducendo un criterio quantitativo tabellare, il cui superamento inevitabilmente comporta la possibilità dell’arresto da parte degli organi di polizia, pur in presenza di situazioni che non necessitino del rimedio custodialistico;
alla legge c.d. ex Cirielli sulla recidiva, che pur non venendo ad incidere come le altre sulla detenzione cautelare, finisce per provocare carcerazioni a carico di soggetti che hanno già subito condanne penali, impedendo al giudice valutazioni discrezionali intese ad adeguare la pena alla reale entità del fatto, ed all’eventuale percorso di rieducazione dell’imputato.
L’amnistia
“Un segno di clemenza verso i carcerati mediante una riduzione della pena costituirebbe una chiara manifestazione di sensibilità, che non mancherebbe di stimolarne l’impegno di personale recupero, in vista di un positivo reinserimento nella società”; così Giovanni Paolo II.
Le ragioni della politica hanno spinto purtroppo altrove, mentre il rimbalzare di ipotesi, proposte, chiusure provoca nella concretezza della quotidianità carceraria effetti di particolare gravità, infliggendo una quota aggiuntiva di malessere e di sofferenza. Capisco anche il timore delle forze politiche di apparire poco efficaci nell’azione repressiva. Un giusto equilibrio tra queste due esigenze è da ricercare, per consentire al Parlamento di assumere una decisione.
Sono ben consapevole che la concessione di misure di clemenza deve abbinarsi a misure di sistema, ed è per questo che primario interesse rivestono gli interventi, anche ordinamentali, volti a garantire il rispetto del canone costituzionale della ragionevole durata dei processi, già indicati come assoluta priorità.
La prospettiva di clemenza che intendo segnalare va intesa solo come stimolo alle forze politiche per maturare elementi di serenità, poiché, ove questo sforzo si realizzasse in maniera congiunta, il merito non sarebbe del solo Governo ma di tutto il Parlamento. Ho sempre inteso così. So che questa è materia del parlamento non surrogabile e la cui titolarità non ho mai messo in discussione, auspicando solo una decisione da convenire, se si vorrà, in tempi brevi, essendo ormai distante il tempo dell’ultima amnistia.
Non ho mai pensato, dunque, a gesti solitari, peraltro fuori da ogni logica in cui si pone il legislatore, ma nessuno scambi causa per effetto riguardo a miei presunti azzardi lessicali, che qualcuno ha ritenuto improvvidi: l’invocazione a far qualcosa viene non solo dalla condizione drammatica delle carceri, ma da tante sollecitazioni parlamentari, non ultime quelle emerse in occasione della marcia del Natale ultimo scorso, cui presero parte autorevoli esponenti di questo Parlamento.
Non può non venire in rilevo, a questo proposito, la situazione di sovraffollamento delle carceri, che rende difficile assicurare dignitose condizioni di vita per i detenuti. Alla data del 26 maggio 2006, a fronte di una recettività regolamentare di 45.490 posti, risultano presenti 61.353. Nell’ambito dei 16 provveditorati regionali dell’amministrazione penitenziaria, quelli che presentano il maggior sovraffollamento sono ubicati nelle regioni Lombardia, Veneto e Campania, che registrano 8.906, 2.844 e 7.868 detenuti a fronte di una capienza, rispettivamente, di 5.650, 1.782 e 5.247 unità.
Nell’ultimo anno hanno fatto ingresso nelle carceri italiane circa 90.000 detenuti, mentre 88.000 ne sono usciti. La differenza tra i flussi da conto dell’effettiva crescita annua della popolazione carceraria, che negli ultimi anni si è aggirata costantemente intorno alle 2000 unità. Oltre ai dati aggregati totali, va considerato qualche elemento statistico più preciso, ai fini di una maggiore comprensione del panorama sociale carcerario.
Nel primo semestre del 2005 risulta che la maggioranza dei detenuti stranieri è costituita da semplici irregolari presenti nel nostro Paese. La popolazione carceraria risulta per la grande maggioranza costituita da persone di sesso maschile, 95,2 % del totale e rivela una concentrazione nelle fasce di età intermedie (il 35,2 % del totale ha un età compresa tra i 25 e i 34 anni; il 30,9 ha un età che va dai 35 ai 44 anni).
Una percentuale molto significativa dei detenuti, inoltre, ha un livello di istruzione medio basso: il 65,4 % possiede al massimo il diploma di scuola media inferiore: tra questi l’1,5 % è analfabeta, il 28,2 % ha conseguito la licenza elementare ed il 36,9 % ha finito la terza media. Il dato statistico diviene ancora più drammatico se confrontato con la relativa situazione di sofferenza dei capitoli di bilancio assegnati alle strutture penitenziarie. E’ del tutto evidente che il livello di guardia raggiunto dal sovraffollamento penitenziario non solo ha ridotto al lumicino le risorse umane e finanziarie destinate ad una efficace politica per il reinserimento dei condannati, ma costituisce un rischio per lo stesso principio che vieta i “trattamenti contrari al senso di umanità”.
Un provvedimento deflattivo può consentire, da subito, di salvaguardare i diritti fondamentali dei detenuti e di tutte le persone che in carcere operano, in primo luogo gli agenti di polizia penitenziaria, e – non ultimo – l’interesse alla credibilità del nostro Paese e dell’amministrazione penitenziaria talvolta oggetto di critiche in sede europea ed internazionale.
La cifra complessiva degli scarcerati per effetto dei provvedimenti di clemenza del 1990/91 fu di 12.237 detenuti, dei quali 10.311 per indulto (concesso per due anni) e 1.926 per amnistia(concessa per reati puniti con pena fino a quattro anni).
Nella situazione attuale, l’applicazione dell’indulto comporterebbe, nell’immediato, la scarcerazione di circa 10.481 unità (pari a circa 1/6 della popolazione carceraria), se concesso nella misura massima di due anni, ovvero di 12.756 unità, se concesso nella misura massima di tre anni. Comporterebbe, inoltre, ulteriori effetti negli anni a venire, poiché avrebbe efficacia anche sulle pene in espiazione più lunghe, riducendone comunque la durata, nonché sulle condanne future per i fatti commessi prima del provvedimento.
Quanto all’amnistia, è prevedibile, sulla scorta di quanto accaduto in passato, un effetto additivo di scarcerazioni, rispetto all’indulto, pari a circa il 20 %. A tale effetto si aggiungerebbe quello non trascurabile di deflazione dei procedimenti e di conseguente riduzione del carico di lavoro degli uffici giudiziari.
La giustizia minorile
Per quanto riguarda la giustizia minorile, appare necessario promuovere quelle azioni volte alla ricerca e al potenziamento del volontariato e di collaborazioni interistituzionali a livello centrale e territoriale con le pubbliche amministrazioni statali e locali. E’ indispensabile l’opera di diffusione di una cultura della legalità e della connessa educazione alla cittadinanza attiva per rivitalizzare nelle giovani generazioni il senso delle istituzioni e dello Stato, per condividere le reciprocità di culture diverse ed il riconoscimento dell’altro come valore, anche se proveniente da Paese diverso.
Tutte le situazioni di patologia socio-minorile vanno affrontate con azioni volte al rafforzamento della tutela e dei diritti dei medesimi, affinché non vengano più considerati destinatari di interventi, ma titolari e portatori di diritti soggettivi, con particolare attenzione verso programmi globali di inclusione sociale per i ragazzi che entrano nel circuito penale. Il dicastero procederà ad intese con il Ministero dell’Istruzione finalizzate a rafforzare le reti di collaborazioni centrali e periferiche al fine di elaborare progettualità congiunte per garantire il diritto-dovere allo studio anche ai minori sottoposti a provvedimenti dell’autorità giudiziaria minorile, con tempi e modalità adeguati alle loro caratteristiche e condizioni.
Devono, inoltre, essere assecondati accordi con il Ministero della salute per la definizione di adeguate modalità di intervento e protocolli operativi nei confronti dei minorenni sottoposti a provvedimento penale, con particolare riferimento alla tossicodipendenza e al disagio psichico.
Una collaborazione con il Ministero della solidarietà sociale sul crescente fenomeno della prostituzione minorile, rivolta all’analisi di proficui percorsi riparativi, dovrà essere accompagnata dalla prosecuzione delle attività con la Direzione centrale anticrimine del Ministero dell’interno, per una collaborazione sempre più attiva e propositiva rivolta alla individuazione di ulteriori percorsi di tutela dei minori sulle tematiche dell’abuso sessuale, dello sfruttamento da parte della criminalità organizzata e della sottrazione internazionale.
Il versante europeo
Poche ma decise parole sul versante europeo. Voglio sottolineare che la cooperazione giudiziaria deve contribuire ad allargare e rendere effettivo lo spazio di libertà, sicurezza e giustizia, che costituisce l’orizzonte di riferimento della politica europea in materia di giustizia.
Particolarmente rilevante sarà tutta l’attività legata all’attuazione del Programma Pluriennale, cioè il cosiddetto Programma dell’Aja o Tampere II, ove sono stati individuati gli obiettivi da perseguire nel settore della Libertà, Sicurezza e Giustizia fino al 2009. Quindi deve essere potenziata la cooperazione in materia penale, rafforzando la fiducia reciproca e sviluppando gradualmente una cultura giudiziaria comune che, pur consapevole della diversità degli ordinamenti degli Stati membri, rafforzi l'unità della legge europea; così come occorre, al fine della piena attuazione della piena attuazione del principio di reciproco riconoscimento, individuare un sistema di valutazione obiettiva e imparziale dell'attuazione delle politiche europee nel settore della giustizia.
L'Unione Europea si è fattivamente impegnata per avviare e sostenere reti di istituzioni e di organismi giudiziari, quali la rete dei Consigli della magistratura, la rete europea delle Corti supreme, la rete europea di formazione giudiziaria: a tali iniziative il mio dicastero darà tutti i contributi operativi e professionali. Nel contempo andrà data piena adesione – molto più di quanto sia stato fatto sinora - sia agli strumenti normativi fondati sul mutuo riconoscimento delle decisioni giudiziarie, tra i quali il mandato d’arresto europeo ed il mandato europeo di ricerca delle prove, sia a quelli che mirano all’armonizzazione delle fattispecie penali e delle sanzioni.
Sono, tuttavia, consapevole del fatto che i processi di mutuo riconoscimento delle decisioni giudiziarie e di ravvicinamento delle legislazioni penali sono benèfici, ma necessitano di adeguati contrappesi sul piano delle garanzie difensive; perciò la proposta della Commissione europea, diretta ad armonizzare, sotto questo profilo, alcuni diritti processuali negli Stati membri, deve compiere passi in avanti.
L’adozione di uno strumento normativo integrato ed uniforme, avrebbe un enorme valore, sostanziale e simbolico, in quanto potrebbe realizzare una sorta di “magna charta” dei diritti processuali dell’Unione europea. D’altro canto è indispensabile adeguare rapidamente la legislazione nazionale agli impegni assunti in ambito europeo. Penso, ad esempio, all’attuazione della decisione quadro 2002/584/GAI relativa al mandato di arresto europeo, ed alla legge n. 69 del 2005: recentissimi casi hanno condotto a scarcerazioni facendo leva su in applicazione di disposizioni normative che non trovano alcuna corrispondenza nella decisione quadro né giustificazione nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo.
Occorre, quindi, procedere ad una rivisitazione dell’impianto normativo affinché si elimini qualunque possibilità di rifiutare la consegna o disporre la scarcerazione di persone ricercate, per gravi reati, sulla base di esclusioni consentite dalla nostra legge ma non previste dalla normativa europea.
Di primaria importanza appare, altresì, la ratifica della Convenzione europea di assistenza giudiziaria in materia penale firmata a Bruxelles il 29 maggio 2000, relativamente alla quale l’Italia risulta l’unico paese dei 15 ancora inadempiente.
Parimenti, assumono rilevanza tutte le iniziative volte all’attuazione nell’ordinamento interno degli obblighi derivanti dalle altre decisioni quadro del Consiglio dell’Unione Europea. Basti pensare alla decisione del 13 giugno 2003 relativa ai provvedimenti di blocco dei beni o di sequestro probatorio ed a quella sul reciproco riconoscimento delle sanzioni pecuniarie.
Va poi dato impulso all’attuazione di tutte le decisioni dirette al ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia penale, fra le quali devono segnalarsi la decisione quadro 2003/568/GAI sulla corruzione privata e quella 2005/222/GAI relativa agli attacchi contro i sistemi di informazione.
Di particolare importanza è anche la ratifica della Convenzione per la Repressione degli atti di terrorismo nucleare, firmata a New York il 14 settembre 2005, che può costituire l’occasione per una organica revisione di una materia eccezionalmente delicata, quella del contrasto al terrorismo interno e internazionale, frammentata nella legislazione speciale ed emergenziale di oltre un ventennio e solo parzialmente riportata in ambito codicistico dalla riforma del 2005 (D.L. 144/2005, conv. L. 155/2005).
Infine, un sistema che voglia garantire “tutti” i cittadini, non può prescindere dall’attuazione di norme che garantiscano la tutela delle vittime di reato; in tal senso, appare necessario predisporre tutte le misure necessarie a dare attuazione a quanto previsto in sede europea dalla Decisione Quadro 15.03.2001 e dalla Direttiva comunitaria 29-4-2004 n. 2004/80/CE relativa all'indennizzo delle vittime di reato.
Deve, infine, essere data piena adesione alle politiche comunitarie idonee a rafforzare la competitività e la trasparenza societaria, rivedendo quelle semmai quelle parti del recente regime societario che non siano conformi a tali regole di base.
Le esigenze di spesa
Molte altre cose andrebbero analizzate perché, come ho detto all’inizio, la problematica del mondo-giustizia è ampia, articolata e piuttosto spinosa. Voglio concludere questa esposizione – e ringrazio per la pazienza i signori parlamentari -sottolineando un’esigenza assoluta che condiziona ogni discorso sui mali della giustizia: quasi tutti gli interventi che ho descritto hanno bisogno di un’adeguata provvista finanziaria, sia in taluni settori organizzativi sia in alcune delle innovazioni legislative.
Non è possibile portare avanti l’informatica, presupposto di efficaci modelli di organizzazione, senza i fondi necessari; non è possibile ristrutturare gli uffici, senza neppure la carta per le fotocopie; non è possibile adeguare nel minimo le aule e i servizi alla legge 626 per la sicurezza, senza lavori strutturali, e potrei continuare a lungo.
Purtroppo le leggi finanziarie dell’ultimo quinquennio hanno apportato notevoli riduzioni alle spese di funzionamento, cioè ai cosiddetti “consumi intermedi”, con tagli mediamente superiori al 50% rispetto agli stanziamenti iniziali dell’anno 2002 e di oltre il 40% rispetto agli analoghi stanziamenti del 2005.
Si è così determinata una grave situazione finanziaria che risulta pesantemente ipotecata dalla mole delle spese insolute accumulatesi nel corso dei precedenti esercizi per effetto di obbligazioni assunte e non onorate (239,9 milioni di euro, di cui 121,6 milioni per l’amministrazione giudiziaria ordinaria, 18,3 milioni per la giustizia minorile, 100,00 milioni per l’amministrazione penitenziaria) e non consente il regolare andamento della gestione per l’esercizio corrente.
Quanto all’amministrazione penitenziaria, debbo sottolineare che la carenza di risorse finanziarie ha determinato una particolare situazione di degrado delle strutture, soprattutto negli aspetti igienico-sanitari. Nonostante gli accorgimenti adottati per ottenere sensibili risparmi di spesa e l’avvio di un ampio processo di contenimento e razionalizzazione delle risorse, le riduzioni apportate negli ultimi anni sia dalle leggi finanziarie e di bilancio, sia dai cosiddetti “decreti tagliaspese” hanno messo a dura prova la funzionalità del settore giustizia e degli uffici, difficoltà aggravate dal venir meno di alcuni strumenti di flessibilità del bilancio introdotti dalla legislazione primaria di spesa.
Ho già dato rigorose disposizioni a tutte le strutture del Dicastero affinché, in proprio e con opportune direttive agli uffici giudiziari, eliminino ogni spesa o costo non essenziale, pur sapendo quali saranno le comprensibili reazioni degli uffici.
E’ per questo che, pur non ignorando le tante esigenze del Dicastero, mi guarderò bene – ed altrettanto faranno i Sottosegretari – dal ricorrere alle consulenze esterne, se non assolutamente necessarie, interrompendo così l’onerosa emorragia di denaro pubblico registratasi in precedenza, con il conferimento di ben 51 consulenze per l’ammontare complessivo di 899.326,80 euro.
Nonostante ogni buon proposito, mi vedo costretto in questa sede a ribadire che, per la sola gestione corrente dell’esercizio 2006, occorreranno 154,4 milioni per l’amministrazione giudiziaria in senso stretto, 103,5 milioni per l’amministrazione penitenziaria, 22 milioni per la giustizia minorile, in totale non meno di euro 279,9 milioni.
Dall’insieme di questi dati emerge con evidenza che gli uffici giudiziari sono ormai prossimi alla paralisi.
Mi spiace dover concludere con la penosa ma necessaria aridità di queste cifre e non con più ariose considerazioni di politica istituzionale.