Non ha più fine l’escalation di barbarie che si consuma all’interno dei centri di detenzione per migranti italiani. Pestaggi, autolesionismi, rivolte, irruzioni brutali della polizia appartengono ad un presente sempre più quotidiano, scandito ora per ora nei centri di permanenza, nei centri di accoglienza, nei centri di identificazione e in tutti quegli altri luoghi in cui i migranti sono ridotti a corpi indesiderati.
Ha fine la vita del ragazzo tunisino trovato cadavere nel CPT di Modena, che piuttosto che restare rinchiuso in attesa dell’espulsione ha preferito ammazzarsi da solo.
Non è la prima volta che si muore di detenzione amministrativa, nel CPT di via Mattei era accaduto nell’agosto 2006, mentre a Gradisca d’Isonzo lo scorso settembre la tragedia è stata sfiorata solo per caso.
La questione dei centri di detenzione è stata affrontata con la nota politica dell’annuncio: enormi proclami di superamento, svuotamento, umanizzazione, radicale trasformazione del sistema detentivo, che mai come ora risuonano vuoti di ipocrisia.
La cruda verità è il cadavere di questo giovane ventitreenne, che si è strangolato con i lacci delle scarpe pur di farla finita con la condizione del clandestino, uno stigma indelebile che si attacca alla pelle, una condizione imposta e subita che per tanti trasforma il sogno dell’Europa in un incubo.
Ci sembra puntuale, in questo scenario, il segnale che arriva dalle associazioni e dai movimenti contro il CPT di Gradisca d’Isonzo che invocano la ripresa di un percorso per la chiusura dei centri di detenzione.