Sicurezza
Un tema di estrema attualità: la questione sicurezza. Su questo si sono espressi quasi tutti i gruppi, non solo quello che l'aveva chiaramente in oggetto. Emerge come in questa fase sia particolarmente acuto il conflitto tra le culture che stanno dietro a due diverse concezioni di politica sulla sicurezza: da una parte la sicurezza come garanzia sociale, cioè l'insieme di politiche pubbliche che le democrazie europee del secondo dopoguerra hanno configurato per sostenere gli individui e i gruppi sociali; dall'altra il difendersi della società da individui e gruppi che vengono percepiti e definiti come pericolosi. Questo scivolamento di significato dalla prima concezione alla seconda porta con sé un'enfasi sul "penale" e sulla repressione a scapito delle politiche di riduzione delle disuguaglianze e di tutela dei diritti. Si va però verificando anche un secondo scivolamento di significato: il giudizio di pericolosità ricade anche su individui che, pur non commettendo reati, tengono condotte fuori norma, disordinate, di disturbo, di molestia e in quanto tali percepite come pericolose. Il lavavetri o il ragazzo nomade vengono così inseriti nella medesima categoria di chi ha commesso un reato.
Definendo categorie aprioristiche, le forme di repressione si estendono contro i principi costituzionali e su persone genericamente "devianti". Il "pacchetto sicurezza", che sposta l'accento dal sociale al penale, ci manda indietro di 30 anni e a un concetto di pericolosità sociale di qualche secolo fa. Per garantire sicurezza, un'esigenza sacrosanta - come è stato ribadito in occasione dell'apertura dei nostri cantieri - non è necessario sacrificare queste importanti libertà dei cittadini. La sicurezza è un diritto che va garantito alla stregua degli altri diritti. Va però mantenuta una corretta scelta di priorità: in questo momento storico si sta rovesciando la gerarchia della gravità dei reati, e questo rovesciamento allontana da ogni idea di "diritto penale minimo", cioè dal ricorso al carcere solo in caso di reale necessità.
Sulla legalità occorrono politiche integrate per il governo delle città. Gli interventi di inclusione sociale si devono integrare agli interventi di controllo. Laddove si attivano tavoli sulla sicurezza in cui sono presenti anche i servizi sociali sanitari, si riesce a rispondere diversamente al problema delle marginalità "invadenti", così come sono stati definiti venditori abusivi, lavavetri, mendicanti, senza dimenticare però le schiere molto più folte di marginalità invisibili presenti nelle nostre città.
Quindi diciamo no a politiche repressive che colpiscono i più deboli, che inducono al fenomeno del "sommerso" e che favoriscono, in realtà, maggiore insicurezza. È necessario che l'azione di governo, a livello sia nazionale sia locale, tenga presente il grande patrimonio di esperienze pratiche che si sono dimostrate efficaci e in grado di tenere assieme gli obiettivi dell'inclusione sociale nel rispetto dei diritti di tutti. Queste esperienze sono molte, spesso di piccole dimensioni ma radicate nei territori e perciò davvero capaci di incidere nelle culture della sicurezza e dell'insicurezza dei cittadini. La prossimità e i servizi di prossimità sono fonte di sicurezza: gestire la complessità che sta dietro a molte problematiche strutturali della nostra società significa innanzitutto non considerarle come emergenza né lasciarsi tentare da illusori interventi di forza che spostano il problema e lo spingono nel sommerso. Bisogna, di contro, approfondire la conoscenza del singolo fenomeno - e quindi, ad esempio, sapere chi effettivamente ha occupato il tal fabbricato fatiscente - e acquisire competenze specifiche, agire alla concertazione, suscitare partecipazione, fare mediazione dei conflitti. Risposte quindi organiche, articolate, complessive. Il nostro lavoro si divide tra l'accompagnamento alla persona, la vicinanza, la ricerca del consenso per gli interventi che si attivano, lo sviluppo di autonomia, ma anche l'accompagnamento delle comunità per un confronto continuo su questi problemi, per la mediazione culturale e sociale che si rende necessaria e per il coraggio politico che le amministrazioni devono riuscire a esprimere. Perché la politica non è solo il termometro degli umori dell'opinione pubblica, ma è anche educazione civica. E quindi bisogna farsi carico della paura, senza costruire consenso sulla paura.
Servizi di prossimità
Per i servizi di prossimità sono state proposte dal gruppo di lavoro cinque letture e linee d'intervento.
1) Prossimità verso le persone, prossimità come costruzione di una relazione e di un progetto nel rispetto dei tempi della persona. Come per molti pazienti psichiatrici dimessi, si tratta di ricercare il "senso della possibilità".
2) Prossimità come strategia di riduzione del danno, cioè rispetto di ogni individuo a partire dalle sue capacità, possibilità, risorse.
3) Prossimità come "ingaggio" delle istituzioni, nei coordinamenti, nelle mediazioni, nella costruzione di reti, nella trasformazione dei progetti a servizi e in servizi per garantire l'universalità dell'accesso.
4) Prossimità come scommessa degli operatori ad assumersi anche la funzione di promuovere una diversa cultura della sicurezza, connotando in senso positivo quel controllo sociale ottenuto sviluppando progetti personalizzati e coinvolgendo attivamente le persone.
5) Prossimità come luogo privilegiato di osservazione dei mutamenti in atto. È dalla strada che si riescono a cogliere precocemente certi fenomeni, come ci ha insegnato ad esempio l'esperienza delle unità di strada.
Strutture di cura e di custodia
Negazione della prossimità sono alcune istituzioni di cura e di custodia. C'è un'estendersi delle strutture di cura e di custodia e di modelli improntati al custodialismo e all'istituzionalizzazione. Nel nostro ordinamento una sola istituzione è ormai legittimata a fornire cura e custodia: l'Ospedale psichiatrico giudiziario (Opg). Sono però molto più numerose le strutture di cura e di custodia di fatto. Qualche esempio. In molti servizi psichiatrici di diagnosi-cura sono in uso costante porte chiuse, mezzi di contenzione fisica e camicie di forza chimiche, ovvero abuso di psicofarmaci. In molti istituti per anziani poveri e per persone gravemente disabili accade la stessa cosa: porte chiuse, isolamento sociale e contenzione. Alcune comunità rischiano di virare verso l'istituzione totale e dedicarsi soprattutto, se non esclusivamente, al controllo dei comportamenti.
Cosa fare? Superare gli attuali ospedali psichiatrici giudiziari senza creare nuovi piccoli Opg regionali. I ministeri di Sanità e Giustizia si impegnino ad attivare le Regioni perché tolgano dagli Opg i cittadini internati giudicati non più pericolosi. È possibile in questo modo ridurre di oltre un terzo gli attuali internati usando gli spazi creati dalle sentenze della Corte Costituzionale. E la Sardegna, bisogna riconoscerlo, è stata una delle Regioni che già ha cominciato a farlo. È importante attivare un'attenzione critica verso il mondo delle Rsa (Residenze sanitario assistenziali) e degli istituti per anziani, che spesso sono luoghi di reclusione mascherata, una vera emergenza invisibile sul piano dei diritti e della dignità. Attivare la stessa attenzione critica verso i servizi di salute mentale, in particolare gli Spdc. Il passaggio alle Regioni e al Sistema sanitario nazionale della tutela della salute dei cittadini detenuti, fa sperare che si avvii la trasformazione di un settore caratterizzato da condizioni spesso drammatiche d'illegalità e inefficienza. Ma questo passaggio non basta se è solo burocratico. Occorre che Ministeri e Regioni lavorino insieme e che i Ministeri mettano in atto azioni di promozione, pressione e vigilanza, indicando obiettivi precisi, priorità, tempi e risorse: le funzioni del punire e del curare, entrambe legittime, possono e devono convivere, ma non possono essere né confuse né mescolate o esercitate dalle stesse persone. Quello che deve essere comune è l'obiettivo di portare le persone condannate entro un percorso di responsabilizzazione e di inclusione sociale. I primi obiettivi da conseguire sono: a) far cessare subito la vergogna dei neonati e dei bambini detenuti;
b) farli uscire dalle carceri insieme con le loro madri. Non sono più di una cinquantina in tutta Italia. C'è una bella esperienza, quella del carcere di Opera, che ha già cominciato a farlo e non costa neanche moltissimo.
Minori stranieri non accompagnati
Bisogna anche affrontare il problema dei minori stranieri - sempre più numerosi negli istituti penali minorili -, evitare che il conseguimento della maggiore età significhi ingresso nel circuito penale. Occorre garantire anche a loro la possibilità di usufruire di misure alternative e di progetti di presa in carico. Sono esperienze che mostrano i loro effetti positivi sulla maggioranza dei minori italiani. Abbiamo firmato la Convenzione sui diritti dei minori e quindi dobbiamo essere coerenti con i principi là affermati.
Bisogna potenziare i servizi di strada e la possibilità di servizi evolutivi dopo la fase dell'"aggancio", con percorsi di formazione e lavoro. Bisogna creare strutture accreditate con competenze specifiche. E' ormai evidente che le comunità non attrezzate non sono in grado di svolgere questa funzione: i minori stranieri scappano non appena ci mettono piede. Là dove invece ci sono esperienze più qualificate anche i minori stranieri rimangono.
E' importante poi garantire l'accesso al servizio sanitario anche per i minori comunitari e neocomunitari. Non criminalizzare perché la criminalizzazione spinge tutti, ma in particolare i minori, verso il "sommerso". A Torino abbiamo l'esempio delle fogne che scaricano sul Po, diventate luogo di riparo e di sicurezza per i minori stranieri finiti nel giro dello spaccio.
Problema delle carceri
Le carceri sono di nuovo affollate di immigrati e di tossicodipendenti. Per riequilibrare, secondo i principi costituzionali, il rapporto tra penale e sociale occorre intervenire in modo sostanziale sulla Legge Bossi-Fini, sulla Legge Cirielli e sulla Legge Fini-Giovanardi. Queste sono le prime azioni di prevenzione necessarie. È anche necessario che l'azione di governo a livello nazionale e regionale prenda coscienza e valuti il grande patrimonio di esperienze ancora poco conosciute e visibili.
Immigrazione
Sull'immigrazione sappiamo quanto sia strategico agire sul piano legislativo, sul piano dei servizi, sull'universalità dell'accesso, sul piano della dimensione culturale e della cooperazione internazionale.
Le proposte:
a) Totale superamento della legge precedente.
b) trasferimento delle competenze agli enti locali per un processo di "normalizzazione" del fenomeno.
c) alternative ai Cpt.
Prostituzione e tratta delle persone
Sulla prostituzione e sulla tratta un chiaro "no" all'art. 7 del Decreto Amato sulla prostituzione perché colpisce le vittime e tradisce il lavoro dello stesso Osservatorio sulla tratta degli esseri umani.
Gli obiettivi:
unificazione dei fondi dell'art. 13 e dell'art. 18; programmazione pluriennale e stabilizzazione dei servizi; applicazione omogenea dell'art. 18 e non sulla base della sola logica premiale a livello nazionale; rendere attiva la Commissione interministeriale della tratta, anche con l'inserimento del privato sociale; potenziare gli interventi di mediazione sociale dei conflitti, che nel caso delle vittime della tratta devono coinvolgere tutti gli attori, dai comitati dei cittadini ai comitati delle persone che si prostituiscono o che vengono prostituite.
Sfruttamento sul lavoro
Sul lavoro schiavistico e lo sfruttamento sul lavoro, ci siamo accorti quanto siano ancora carenti e necessari i servizi diffusi d'informazione, di orientamento e di accompagnamento delle vittime sulla normativa e sui loro diritti. Bisogna anche definire meglio gli strumenti per fare chiarezza su certe persistenti "zone grigie" e sul concetto di lavoro forzato. Bisogna organizzare programmi di formazione comuni tra operatori sociali, questure, ispettorato del lavoro, Guardia di Finanza e sindacato. Nelle esperienze più riuscite, come alcune del Nord Italia, arriva dal sindacato solo il 20% delle denunce. Il sindacato deve quindi riuscire a potenziare insieme a tutti noi la propria azione.
Il gruppo di lavoro ha infine messo evidenza come precarizzazione e flessibilità esasperata da una parte non sono funzionali allo sviluppo dell'occupazione, dall'altra favoriscono l'allargamento di fasce a forte rischio di lavoro forzato se non addirittura paraschiavistico.
La violenza sulle donne
Sulla violenza di genere quello che si richiede è un più attento monitoraggio della normativa vigente per capire se effettivamente funziona e non sia invece necessaria una legge organica nazionale, nonché leggi regionali per istituire ovunque i Centri antiviolenza. Dovrebbe trattarsi di una legge con una copertura economica, nella consapevolezza che su questi problemi non basta lavorare sui percorsi individuali di aiuto.
Occorre inoltre intervenire sui percorsi culturali e sulle relazioni tra i sessi. È necessario inserire all'interno dei programmi scolastici l'educazione alla non violenza, bisogna formare i docenti, gli operatori sociali, sanitari e le forze di polizia e inserire personale con competenza adeguata presso i servizi e le istituzioni che entrano in contatto con le donne maltrattate.
Giovani e precarietà
Per quanto riguarda il gruppo che ha lavorato sui giovani, sono state ribadite alcune questioni che ci sembrano centrali: i giovani come risorsa del presente e risorsa da cui partire. I giovani sono già presenti nella comunità sociale, non dobbiamo aspettare che ci arrivino.
Bisogna quindi superare gli approcci basati sulle tipizzazioni e sulle categorie giovanili, perché i giovani - come ci dicono le ricerche più attente - hanno traiettorie di vita diverse, opportunità diverse, appartenenze e identità diverse. Allo stesso modo non esiste un modello di crescita, ma esistono pluralità di strade, di possibilità e di mezzi. I temi rivendicati dagli stessi giovani sono stati il rispetto, il riconoscimento, la rappresentatività, l'accesso ai diritti e una maggiore visibilità. La questione principale non è contrattare fondi ma negoziare con loro nuove trasformazioni, accettando un po' del disordine proprio della gioventù. La partecipazione comporta la modificazione e non si può accettare la partecipazione se non ci sono anche proposte di modificazione. Nel contesto sociale possono trovare spazio sia l'identità del passato, sia il cambiamento così come viene proposto dai giovani. La questione sta quindi nel promuovere la partecipazione nelle forme liberamente accettate dai giovani. Garantire l'accesso alle opportunità, come per esempio l'accesso alla casa e l'accesso all'autoimprenditorialità in una logica di confronto che non sia individualistica. L'accesso alla casa e all'autoimprenditorialità possono costituire due formidabili indicatori dell'efficacia delle politiche giovanili. Bisogna poi anche sviluppare canali d'informazione/comunicazione adeguati e differenziati e offrire riferimenti istituzionali competenti e stabili.
L'applicazione delle politiche giovanili non si gioca quindi tanto sul "cosa", ma sul "come"; determinante, per la promozione e assunzione di responsabilità, è l'efficacia dell'approccio.
Riqualificazione urbana: comunità locale e partecipazione
Parlare di città è parlare di spazi pubblici nei quali la presenza dei servizi ha anche una funzione di risarcimento sociale per chi ha poche opportunità, nell'ottica di una redistribuzione del reddito e di un aumento della qualità della vita. Questo vale anche nei piccoli centri, che troppo spesso rischiano di diventare caricature delle città, senza riuscire a contrapporre una diversa qualità della vita e differenti modelli di relazione.
Dobbiamo però rivedere alcune parole chiave del nostro linguaggio di operatori sociali. La prima è ‘comunità locale', che non è sempre sinonimo di comunità solidale. È emerso il rischio di mitizzare le comunità locali del passato, dimenticando quanto esprimessero controllo sociale, chiusura e potere degli uni sugli altri. Oggi le comunità locali sono realtà assai complesse, attraversate da diversità che spesso si fa fatica ad integrare, ed è su questi processi che dobbiamo lavorare. Ugualmente dobbiamo stare attenti al rischio di demonizzare i centri commerciali, che hanno funzione di aggregazione per tanti giovani e che forse è sbrigativo liquidare come "non luoghi". Dobbiamo cercare di capirci di più, andando oltre il pregiudizio.
Seconda parola chiave è "partecipazione". In genere abbiamo un'idea molto alta di partecipazione, che va dritta al cuore della politica. Questa idea può però essere proposta a pochi. Bisogna aprire spazi che permettano livelli diversi di partecipazione, che propongano percorsi di educazione alla responsabilità. Luoghi di colloquio in cui ridare parola alle persone, provare a proporre un'attenzione collettiva ai problemi, fare esperienza di un impegno possibile. E' forse una versione debole del concetto di partecipazione, ma se non imbocchiamo questa strada rischiamo di non andare troppo lontano.
La sicurezza nelle città
La politica ha una funzione precisa rispetto alle città. La mancanza di risorse pubbliche espone gli amministratori alle pressioni più forti e la ricerca di consenso rischia di trasformare la politica in semplice risposta alle richieste che provengono da interessi particolari.
L'ultima parola chiave su cui abbiamo riflettuto è "sicurezza", riconoscendo che causa della paura e del bisogno di sicurezza è la mancanza di politiche integrate sulla città. L'agire politico sta nella prevenzione e nella riqualificazione urbana.
Da questo punto di vista non aiuta, per fare un esempio, che nella Regione Lazio la gran parte dei progetti presentata su questi temi (37), abbiano chiesto (e si tratta di piccoli centri, non di città) l'installazione di telecamere. Non ci sembra questo il modo giusto di procedere sul problema della sicurezza.
Proposte: rimettere al centro il diritto alla città, che significa, come abbiamo detto in premessa, diritto ai servizi e agli spazi pubblici per tutti i cittadini.
Servono quindi maggiori investimenti verso il settore sociale, economico, culturale, dell'istruzione e della salute. In questa direzione sarebbero utili azioni collettive a carattere simbolico ma anche riuscire a definire precisi indicatori di coesione sociale urbana. Lavorare, come ha già fatto Legambiente, sugli indicatori ambientali e il benessere delle città. Dobbiamo intervenire sulla progettazione dei nuovi insediamenti urbani, per garantire criteri di abitabilità e un'effettiva integrazione nel territorio. C'è qualche esperienza - è stata citata quella di Padova. Bisogna riproporre la fruizione collettiva degli spazi pubblici e dei progetti di riqualificazione urbana. Abbiamo 600.000 appartamenti vuoti in tutta Italia (140.000 nella sola Roma). Sarebbe quindi forse meglio non costruire nuove abitazioni ma utilizzare e provare a rimettere in circolo gli alloggi sfitti, cercando di rispondere con autoristrutturazione agevolata ad una serie di problemi di svendita del patrimonio pubblico.
Infine, una riflessione sulle città non può lasciare da parte la lotta alle ecomafie e una gestione "virtuosa" dei rifiuti. E quindi la creazione di spazi e di strutture per il riciclo.
L'importanza di lavorare insieme
Oggi lavorare insieme non è solo lavorare in équipe, ma lavorare tra équipe, unire le forze. Noi sappiamo che lavorare insieme è la storia ed è la vita di molte persone che sono qui, e alcune cose le abbiamo imparate. La prima è la pazienza dei costruttori, perché esiste anche un'adolescenza delle organizzazioni, così come esiste l'autoreferenzialità adolescenziale di molti portavoce. Abbiamo imparato ad apprendere dall'errore, a non ripeterlo, e quindi a rifletterci. Abbiamo imparato, qualcuno ha detto, a saper ascoltare l'altro secondo i suoi bisogni e non secondo le nostre competenze, che già ci chiudono l'ascolto. Abbiamo imparato a vedere nell'altro una risorsa. Qualcuno propone il capovolgimento in positivo di nuovi precetti: fai all'altro quello che vorresti fosse fatto a te. Lavorare insieme, tutti l'hanno ribadito, è conveniente, e cito un'esperienza per tutti, quella sarda dell'Abc (Associazione bambini cerebrolesi della Sardegna), un'esperienza di buona prassi. L'obiettivo era rendere esigibile il diritto all'inclusione sociale e ai progetti personalizzati per i disabili gravi. Quindi, partendo dalla 162/98, l'incremento del fondo chiedeva che non arrivassero alle famiglie soldi ma progetti mirati alle necessità di quella persona e di quella famiglia. Tutto è cominciato dalle famiglie che nel 2000 hanno trascorso alcune giornate nel Consiglio regionale. Nel 2005 c'è questo straordinario fondo di 42.500.000 euro stanziato ai Comuni per la disabilità. La Regione Piemonte, anche se ha una associazione molto forte, il Cssa, di cui siamo grandi amici, aveva stanziato solo 5.000.000 di euro, la regione Sicilia anche. I fondi della Regione Sardegna hanno voluto dire 9.250 progetti finanziati e la creazione connessa di 4.000 posti di lavoro part-time nel Terzo settore. Si è lavorato insieme: famiglie, Terzo settore e pubblica amministrazione, che ha fatto da regista di quest'operazione, con benefici per i singoli e le loro famiglie, per il mutamento delle culture del territorio, per l'inclusione invece dell'esclusione, praticando il principio della non discriminazione e delle pari opportunità. Quindi le integrazioni sono possibili: ci sono state molte esperienze, molte delle quali sono state illustrate. Dobbiamo però partire dal principio che fare integrazione vuol dire osservare insieme i bisogni del territorio. Dobbiamo lavorare insieme fin da subito. I Piani di zona devono dotarsi di osservatori territoriali, che forniscano i dati e che siano anche composti da chi opera quotidianamente nel settore per costruire - ad esempio nel caso delle dipendenze - un indice di rischio sociale e di consumo territoriale, che vuol dire analisi dei dati sugli incidenti stradali sul territorio, sulla dispersione scolastica sul quel territorio, sulla microcriminalità e soprattutto valutazione delle attività di prevenzione selettiva che sul quel territorio sono stati organizzati. Se iniziamo insieme a fornire dati, a valutare quel percorso, lavorare insieme sarà più facile. L'interlocutore è la comunità locale, che rappresenta l'interlocutore privilegiato della definizione degli obiettivi del proprio territorio. Bisogna strutturare interventi, uscire dal paradigma della precarietà che investe tutte le sfere della società, le istituzioni stesse, le organizzazioni, le attività. Non c'è solo il tema delle risorse. C'è la ridefinizione delle nostre mission, c'è la democratizzazione dei luoghi di decisione (se raccogliamo insieme dati poi però bisogna anche decidere insieme), ci deve essere una maggiore attenzione alla coincidenza degli ambiti territoriali di lavoro (non è possibile che i Centri per l'impiego abbiano un riferimento territoriale, le Asl un altro e i Consorzi socio-assistenziali un altro ancora) così come è necessario modificare alcuni dispositivi legislativi. Sono tutte piccole cose ma necessarie.
"Senza dimora"
L'esperienza del San Gallicano di Roma ci dice che per un "senza dimora" nel 73% dei casi di perdita di lavoro c'è poi lo sfratto e la diaspora famigliare e che chi sta in strada sviluppa legami debolissimi oppure conflittuali con la rete famigliare (o con quello che di essa rimane).
Le ricerche affermano che c'è una fase propizia per l'intervento sui "senza dimora", che sono i primi 12 mesi, dopo la quale la soggettività delle persone si indebolisce: gli offri risorse e sono meno capaci di utilizzarle. Perché allora non si modifica la 381 per allargare l'accesso alle cooperative di tipo B allo svantaggio temporaneo dei "senza dimora", che stanno affluendo in massa ai dormitori per l'emarginazione tradizionale?
Agire insomma diversamente dall'Europa, che propone, tra le categorie svantaggiate, le donne e i giovani sotto i 25 anni. Noi proponiamo di estendere un po' di più alcune fasce.
Rapporto con i media
Per essere incisivi gli operatori del sociale e le loro organizzazioni devono imparare a comunicare meglio, devono dotarsi di capacità comunicative più adeguate. Sotto questo punto di vista il gruppo di lavoro che ha lavorato sull'argomento, sottolinea che c'è un problema di scenari: il sociale è sempre più attuale nei media, ma le categorie entro le quali viene interpretato lasciano a desiderare. I soggetti sono sempre presentati come pericolosi, c'è sempre emergenza, sempre illegalità. I media danno un grande spazio alla piccola devianza, mentre rimane più nascosto lo spazio sulla grande criminalità. C'è il rischio di dirottare l'opinione pubblica. Emerge quindi l'urgenza di informare e comunicare correttamente per incidere sulle rappresentazioni sociali e quindi sulle decisioni. Da questo punto di vista dobbiamo capire che il terzo settore deve assumere l'aspetto della comunicazione in termini strutturali, in maniera costante e non episodica, perché oggi esiste un marcato rapporto tra i mass media, la politica e la società civile. I media tendono a scegliere sempre quei contenuti sociali che sono rilevanti per la politica, o per i partiti che la rappresentano. Per riuscire a dire la sua il Terzo Settore deve in qualche modo diventare attore mediatico, e indirettamente politico. Il linguaggio della comunicazione sociale non dovrebbe essere omologato al linguaggio politico conosciuto, né dovrebbe, come spesso capita, comunicare in un "tecnichese" incomprensibile ai più. È necessario mantenere la propria originalità ma rendersi comunicativi, comunicare agli altri. Quindi serve un'attenzione nella ridefinizione dei significati di alcuni termini, un'attenzione anche alle frasi fatte che stimolano interpretazioni semplicistiche e un'attenzione alla tempistica. Bisogna stare sulla velocità della comunicazione, uscire dall'autoreferenzialità, che è un po' la "sindrome del brutto anatroccolo", intesa come prerogativa di sentirsi incompresi e svalutati. Qualcuno ha detto anche "uscire da una sindrome della bandizzazione", non come banditi ma come dipendenti dai bandi, per cui quello che ci interessa è riuscire a informare rispetto al bando, ma sui mass media ovviamente si tratta di un'altra rappresentazione dei fenomeni sociali. Che cosa fare? Imparare a conoscere le logiche, i bisogni e il linguaggio dei media, esportando anche i metodi dell'accoglienza, e soprattutto riuscire a capire quando si ha in mano una notizia: molto spesso non ce ne accorgiamo. Quindi è importante investire sulla professionalità dei comunicatori del Terzo settore, bisogna investire in formazione. Occorre fare rete sulla comunicazione, ci sono poche risorse ma dobbiamo guardare anche al di fuori di noi, a tutti coloro che sono interessati ad un lavoro sulle rappresentazioni sociali, perché è questa la partita su cui si gioca la politica. Quindi occorre dare valore al lavoro dei singoli, tenendo presente che esiste una molteplicità di canali e di strumenti a disposizione (web, radio, free press, nazionali e locali, tv). Dobbiamo dare più attenzione ai media locali. Dobbiamo conquistare più spazi di visibilità e non in termini autoreferenziali. Aprire varchi nei muri è possibile: alcuni giornalisti possono diventare interlocutori. Occorre diventare utili, diventare una fonte credibile per i mass media, una fonte che fornisce dati. Si può fare del buon giornalismo con il racconto delle storie, cercando di cambiare l'approccio e il modo di rappresentare le cose. Bisogna costruire legami con i giornalisti, creare nuovi flussi autonomi di informazione (siti, blog, youtube), che hanno il pregio di essere strumenti di circolazione orizzontale e quindi creare una connessione orizzontale di massa critica. Bisogna esercitare di più il ruolo di advocacy, il diritto di rettifica, eventualmente ricorrere, di fronte a scorrettezze gravi e deliberate, all'ordine dei giornalisti.
Infine la legalità dell'informazione: la criminalità organizzata molto spesso controlla i mezzi di informazione a livelli locali. Non entro nel merito, ricordo solo che questa non è una partita da poco, pensando ai giornalisti più coraggiosi che hanno pagato un prezzo altissimo per la libertà di informazione.
Ruolo della politica
L'analisi porta a constatare la crescente separazione tra la rappresentanza della politica e la cittadinanza. Riteniamo che sia sbagliato che il Terzo settore si trasformi in un partito politico, ma è anche decisamente insufficiente la rappresentanza del Terzo settore nei singoli partiti. Occorre mantenere un ruolo autonomo di servizio per la politica, per la riqualificazione della politica, con un'attenzione primaria alla dimensione etica della politica, su cui si fa già molta selezione. Abbiamo abbassato troppo il livello di guardia rispetto alla politica e dovremmo utilizzare di più il semplice codice etico come "allarme rosso", non solo verso i rappresentanti ma anche verso la dirigenza pubblica, non solo per le pratiche di collusione ma anche riguardo alla correttezza nel rappresentare le mappe dei bisogni, i pro e i contro di ogni scelta operativa. Qualcuno diceva che se la legge sullo spettacolo in Campania costa 21 milioni di euro, quella sulla dignità ne deve costare almeno 22. Questo è compito del funzionario, che deve presentare al politico la contraddizione, e in un momento successivo il politico decide.
Dobbiamo porre al centro delle nostre proposte politiche la giustizia e la legalità. L'accoglienza e la legalità si incontrano sul valore della giustizia, una giustizia che ha tanti volti: ieri si diceva che la spesa sociale procapite in Emilia Romagna è cinque volte quella della Calabria. Dobbiamo rappresentare i valori sociali come diritti, dobbiamo unire le nostre forze, uscire dalle nostre autoreferenzialità, dobbiamo dare voce alla stessa autorappresentazione delle vulnerabilità, dobbiamo essere fedeli e rispettosi a una pratica non violenta, dobbiamo qualificare politicamente i nostri progetti e i nostri servizi, diffondere nuove prassi, essere coerenti con gli stili di vita. Zanotelli ce lo ricorda sempre: "si fa più politica andando a fare la spesa che non andando a una manifestazione". Dobbiamo essere coerenti con il progetto, con i riferimenti culturali, consapevoli dei prezzi da pagare.
Le politiche sociali
Le politiche sociali devono diventare più ambiziose, bisogna accorciare le distanze: i poveri sono sempre di più, 16 milioni 500.000, con 836 euro di reddito a coppia. È forse giunto il momento della costruzione di una piattaforma comune dei diritti sociali. Questa costruzione deve partire da tre convinzioni:
1) il welfare è una condizione di sviluppo, perché l'investimento in risorse e in stili di protezione sociale determina le condizioni necessarie di coesione per lo sviluppo economico e culturale.
2) il welfare è una condizione di sicurezza, perché il contrasto alle povertà e alla cultura della legalità toglie linfa vitale all'area grigia dell'economia illegale e alla devianza giovanile sotto sfruttamento delle mafie.
3) il welfare è condizione di efficienza nella spesa pubblica perché - anche se in Italia le ricerche a riguardo sono poche - costa molto di più la spesa dei danni arrecati alla collettività, dai comportamenti, dal carcere, dalla gestione dell'emergenza, dai conflitti sociali, che non nell'investimento nella rete dei servizi socio-educativi e socio-culturali.
Deve essere quindi posto il tema della piattaforma dei diritti sociali in modo che tenga insieme "l'acqua e la conoscenza", i diritti di prima generazione e quelli di quarta generazione.
Piattaforma dei diritti sociali vuol poi dire Leas (Livelli essenziali di assistenza sociale), Liveas (Livelli essenziali delle prestazioni sociali), qualificazione dei piani di zona all'interno della 328, costruzione di piani di regolazione sociale, rafforzamento della cooperazione internazionale, riduzione delle spese militari a favore delle spese sociali: con il costo di due aerei fighter si può costituire oggi il fondo della disabilità.
In conclusione: operatore sociale chi sei?
Guadagni poco, non più di 1.000 euro al mese, non sempre lo stipendio arriva puntuale, non sei sicuro che l'anno prossimo la convenzione ti sarà rinnovata. Ti sia almeno concessa la soddisfazione di vedere i diritti sociali un po' più garantiti.