Dai deportati ai clandestini, vecchi e nuovi colonialismi
Giampaolo Calchi Novati
Quando fra Italia e Libia nel luglio 1998 fu stipulato un accordo che nelle intenzioni doveva aprire una fase nuova nei rapporti fra i due paesi fu messo in cantiere anche un progetto congiunto di ricerca storica su un capitolo poco trattato del passato coloniale: i deportati libici in Italia. A dimostrare quanto il tema fosse scabroso fu impiegata una perifrasi un po' ipocrita. Non deportati, ma «allontanati coercitivamente dalla Libia in periodo coloniale». A quasi dieci anni di distanza, i tempi devono essere cambiati se ieri si è potuto tenere a Roma, nella sede prestigiosa e appropriata dell'Archivio centrale dello Stato e alla presenza del ministro D'Alema e dell'ambasciatore libico Gaddur, un convegno conclusivo di quel progetto che senza più finzioni di comodo aveva per titolo «I deportati libici in Italia».
La prima reazione che viene in mente è che ognuno ha i suoi armeni. Forse, se non ci fosse solo la Turchia sul banco degli accusati, sarebbe un progresso per tutti. Nel suo intervento al convegno, D'Alema ha detto che, con questo studio alla pari condotto da studiosi italiani e libici coordinati all'Isiao di Roma e dal Libyan Studies Center di Tripoli, l'Italia si è esposta più degli altri paesi europei nel ripensare il proprio colonialismo. In effetti, vista la poca attenzione per la storia del colonialismo italiano in Africa della scuola e della cultura nel suo complesso, ma anche dell'opinione pubblica, è stato necessario l'incentivo venuto dall'alto. Altrove - si pensi ai più di mille volumi fra storie, memorie e testimonianze usciti in Francia sulla guerra d'Algeria - le reticenze del potere, che fino a pochi anni fa aveva persino vietato nei testi ufficiali l'espressione «guerra» parlando più vagamente di «les événements», hanno avuto meno conseguenze sulla storiografia e sulle coscienze. Il fatto che i possedimenti italiani siano stati persi durante la guerra, e poi per le decisioni della diplomazia internazionale, a seguito quindi di vicende politiche e soprattutto militari che non riguardavano direttamente i popoli soggetti, ha ritardato quel confronto fra colonizzatori e colonizzati che caratterizza la decolonizzazione in senso stretto. Per la Libia, in fondo, la decisione all'Onu fu influenzata più dagli argomenti connessi alla guerra fredda che al diritto dei popoli. La scelta di Idris come sovrano del regno indipendente non fu solo un atto dovuto per il ruolo svolto dalla Senussia nella resistenza al colonialismo italiano. Con essa si voleva soprattutto garantire che uno stato di quella importanza strategica, al centro del Mediterraneo, dove erano già state stabilite basi militari britanniche e americane, disponesse di una leadership sicuramente allineata sulla politica dell'Occidente nel Nord Africa e Medio Oriente a difesa del contenimento, del petrolio e di Israele.
L'Italia non ha certo elevato la verità storica sul colonialismo a obiettivo primario della sua memoria e della sua identità. Le colpe del fascismo (ma i deportati libici sono arrivati in Italia a cominciare dall'ottobre del 1911, quando vigevano ancora le istituzioni liberali e fra i protagonisti dei primi atti di sopraffazione in Libia figurano personaggi come Giolitti e Giovanni Amendola) hanno dato a molti l'illusione che l'Italia democratica potesse esimersi da ogni assunzione di responsabilità. Una mancanza e un errore di prospettiva che scontiamo anche nella politica asfittica e contorta nei confronti degli immigrati dall'Africa e dall'Asia, che, se non provengono per lo più da nostre ex-colonie, sono sicuramente uno dei prodotti del colonialismo come fenomeno generale. Il flusso di disperati che sbarcano sulle coste italiane, o che affogano nel Mediterraneo, è la dolorosa prosecuzione di quella spinta all'estroversione di uomini e risorse dalla periferia al centro che costituisce l'essenza stessa dell'espansione oltremare dell'Europa.
Voltare definitivamente le spalle al colonialismo è doveroso. Ma la lezione della storia imporrebbe un atteggiamento diverso su processi che abbiamo accettato invece nella politica corrente come normali o inevitabili a cominciare dalla guerra invisibile contro l'emigrazione clandestina. Anche l'Italia tende a scaricare sui vicini, Libia compresa, l'onere di un contrasto che alla fine colpisce altre persone «allontanate coercitivamente» dalle loro terre. La globalizzazione imperialista è stata sostituita dalla globalizzazione del mercato e della good governance. Ma il rispetto che l'ordine globale e post-coloniale concede ai diritti delle nazioni della periferia in transizione dal sottosviluppo e dall'autoritarismo è restato lo stesso.
Sorprende che si creda di poter conciliare le professioni di anticolonialismo con la cancellazione nella pratica della sovranità dei paesi ex-coloniali, che in teoria è il cardine meno discutibile e a parole meno discusso della fine del colonialismo, e ignorando sistematicamente la loro richiesta, delle élites e delle popolazioni, di partecipare al sistema mondiale secondo le regole della politica e non della guerra, come si usava appunto in epoca coloniale.