Novembre 2007
Barça ou Barçakh. Barcellona o l’inferno. Lo ripetono da anni, in wolof, i giovani di Saint Louis e Dakar, pronti a partire, costi quel che costi, per raggiungere il centro del mondo: l’Europa. La storia è nota. Nel 2006 il boom degli arrivi alle Canarie, a un anno di distanza dalle deportazioni di massa dal Marocco e dalla dura repressione di Ceuta e Melilla, le enclave spagnole dall’altro lato di Gibilterra, finita con 17 morti ammazzati e un migliaio di deportati. Nel 2006 arrivarono a Las Palmas più di 31.000 migranti, contro i 4.751 del 2005. Zapatero firmò un accordo di riammissione con il Senegal e l’Unione europea lanciò la prima missione di pattugliamento anti immigrazione dell’agenzia Frontex (denominata Hera) nelle acque mauritane e senegalesi, con l’obiettivo di respingere in mare i migranti. Intanto i lavori del campo di detenzione “Ecole VI” a Nouadhibou (Mauritania) venivano ultimati e la struttura affidata alla Croce rossa spagnola. A settembre 2006 iniziarono i rimpatri dei migranti sbarcati alle Canarie, prima verso Senegal, poi verso gli altri Paesi firmatari di accordi bilaterali di riammissione con Madrid.
Nel corso del 2007 oltre 1.500 migranti sono stati fermati in mare dalle navi di Frontex, mentre i senegalesi rimpatriati dal 2006 sono oltre 18.000. Oggi il numero degli arrivi alle Canarie è crollato: meno 75% nei primi nove mesi dell’anno. Ma da Dakar si continua a partire. Ma soprattutto si continua a morire. Sì perchè le rotte si sono fatte via via sempre più lunghe e pericolose, e per evitare i pattugliamenti di Frontex ormai si naviga fino a 300 miglia al largo dalle coste africane restando in mare dieci dodici giorni con grandissimi rischi. Lo testimonia lo stato di salute dei migranti che arrivano a Las Palmas, sempre più spesso in gravi condizioni di disidratazione e ipotermia proprio per la durata dei viaggi. Sempre più spesso con morti di stenti a bordo delle piroghe. Lo scorso sei novembre, una delle piroghe venne stata soccorsa a La Güera, al confine tra Mauritania e Sahara occidentale. Vagava alla deriva da tre settimane, dopo un guasto al motore. A bordo c’erano 101 passeggeri. Gli altri 56 che erano partiti con loro da Ziguinchor, in Senegal, venti giorni prima, li avevano gettati in mare dopo che erano morti di stenti. Nel 2006 le vittime al largo delle Canarie erano state, secondo i dati di Fortress Europe, almeno 1.035. Un anno dopo, con gli sbarchi diminuiti del 75%, i morti sono già 657 nei primi undici mesi dell’anno. Dei quali 200 a ottobre e 119 a novembre. Un dato che rischia di essere di gran lunga inferiore alla realtà, di fronte all’eventualità di tanti, troppi naufragi fantasma, come quello consumatosi a ottobre nell’Atlantico, la cui unica eco è stata il funerale collettivo celebrato a Kolda, in Senegal, dalle famiglie degli oltre 150 dispersi in mare. Barça ou Barçakh. Qualcosa non va. Una intera generazione è tagliata fuori dalla possibilità di raggiungere l’Europa, in un Paese, il Senegal, che non riesce ad offrire un futuro ai propri giovani. La sola cosa che il presidente Wade ha saputo fare, è stato firmare gli accordi di riammissione con la Spagna nel 2006 in cambio di maggiori quote di ingresso. Accordi che presto saranno estesi anche al rimpatrio dei minori non accompagnati, visto che solo a novembre, 616 dei migranti arrivati alle Canarie non avevano ancora compiuto i 18 anni di età. Certo la Spagna di Zapatero ha anche quadruplicato gli aiuti allo sviluppo, passati dai 150 milioni di euro nel 2003 ai 700 milioni nel 2006, ed ha aperto sei nuove ambasciate in Sudan, Capo Verde, Mali, Nigeria, Guinea Conakry e Guinea Bissau. E di questo gliene va fatto merito. Tuttavia senza un’apertura di canali legali di mobilità e senza un massiccio e coerente investimento nelle economie africane, questo modello sia destinato a fallire. Quanti altri morti dovremo ancora aspettare prima di capirlo?
Il summit di Lisbona. “Cooperazione su rimpatri e riammissioni dei migranti”. Unione Europea e Unione Africana non si sono sbilanciate al meeting euro-africano di Lisbona dell’8 e 9 dicembre 2007. Eppure incrociando le asettiche righe della dichiarazione finale del summit con la cronaca degli ultimi anni, il testo diventa più chiaro: pattugliamenti congiunti nelle acque territoriali africane, costruzione di campi di detenzione, finanziamento delle operazioni di rimpatrio e perché no, esternalizzazione delle richieste d’asilo. In cambio l’Ue, fedele alla linea di Zapatero, ha proposto più posti di lavoro per l'immigrazione regolare africana, investimenti nei paesi di origine, nelle infrastrutture e nella formazione. Sulla carta il summit ha rilanciato l’impegno per la pace e la sicurezza, per i diritti umani e il buon governo, per l’energia e l’ambiente, promettendo di destinare lo 0,56% del Pil all’aiuto allo sviluppo, entro il 2010, quando si terrà il prossimo vertice euro-africano, molto probabilmente nella Libia di Qaddafi. Ottime premesse che solo il futuro saprà giudicare. Intanto Qaddafi ha ribadito a Lisbona la sua posizione: risarcimenti coloniali, almeno un miliardo di euro, come merce di scambio per bloccare i flussi migratori verso la Sicilia.
Blitz italiano in Libia. Intanto Marcella Lucidi, sottosegretario del ministero dell’Interno con delega all’immigrazione, è volata a Tripoli. Il 19 novembre 2007, una settimana dopo il ministro degli esteri Massimo D’Alema, ha incontrato, assieme all’ambasciatore italiano Francesco Trupiano, le più alte cariche libiche per definire le strategie di contrasto all’immigrazione nei prossimi mesi. Omran Hmeid (segretario della pubblica sicurezza), Abdelati Labidi (segretario delle relazioni con l’Europa), Ali Salah Al-Richi (segretario dell’immigrazione). L’Italia sta ancora dotando la Libia di mezzi di pattugliamento. Le denunce sui crimini e abusi commessi contro migranti e rifugiati dalle autorità libiche continuano a rimanere inascoltate dal governo italiano, mentre le interrogazioni parlamentari in merito, ancora attendono una risposta. Non c’è da stupirsi. La Libia costituisce un partner privilegiato dell’Italia, specie dal punto di vista energetico. Il 16 ottobre 2007, Eni ha siglato un accordo con la compagnia di stato libica National Oil Company (Noc) prevedendo 28 miliardi di dollari di investimenti oltremare in dieci anni, con un’estensione della durata dei diritti di estrazione di gas e petrolio fino al 2047. Un accordo importante, che non vale la pena rovinare denunciando le deportazioni collettive dei rifugiati arrestati a Tripoli, le espulsioni nel deserto e le condizioni degradanti in cui sono detenuti arbitrariamente in Libia, per mesi o per anni, 60.000 tra uomini e donne ogni anno. Lo dicono tutti: Amnesty International, Human Rights Watch, Fortress Europe, e adesso anche un rapporto dell’Afvic che ha raccolto le testimonianze degli harragas marocchini rimpatriati da Tripoli. Ma l’Unione Europea continua a chiudere gli occhi.
Buone nuove. Un merito va però riconosciuto al governo italiano. Sono 34 donne, 5 uomini e una bambina neonata, atterrati il 7 novembre a Fiumicino e accolti a Cantalice, in provincia Rieti. Facevano parte degli oltre 600 rifugiati eritrei detenuti da un anno e mezzo a Misratah, in Libia. L’Acnur ha svolto un ruolo fondamentale per il reinsediamento dei 40. A maggio 2007 aveva visitato il centro e censito 443 prigionieri eritrei. Il 29 luglio una seconda visita e finalmente, a fine agosto, le interviste di una sessantina di donne con bambini, ritenuti i casi più vulnerabili. Di queste, 49 sono state riconosciute rifugiate politiche e da allora è iniziata una corsa contro il tempo per organizzare il loro trasferimento in Europa, dato che in Libia rischiavano il rimpatrio in Eritrea, un paese in guerra dove i disertori dell'esercito, come nel caso di questi rifugiati, sono arrestati e talvolta fucilati, come successo nel 2005 a 161 persone, secondo un rapporto di Amnesty International. Un merito che però scompare presto di fronte al destino di decine di migliaia di migranti arrestati e deportati dalla Libia ogni anno, grazie alla cooperazione dell’Unione europea e dell’Italia. E intanto a Misratah sono stati trasferiti altri 40 eritrei detenuti da alcuni mesi a Zawiyah. Tutti continuano a rischiare l’espulsione.
In breve. Segnaliamo diversi articoli pubblicati sul sito nel mese di novembre. Il primo sul recente rapporto pubblicato da Medecins du Monde su Malta, che definisce “spaventose” le condizioni di detenzione dei migranti, che una volta sbarcati sono trattenuti fino a 18 mesi, in condizioni che “si ripercuotono sulla salute fisica, psicologica e psichiatrica, con frequenti problemi di salute mentale”. Non va meglio nei nostri centri di permanenza temporanea. Roman Herzog, un documentarista radiofonico tedesco, ha visitato a metà novembre il centro di prima accoglienza di Cassibile, a Siracusa, in Sicilia. E noi abbiamo pubblicato il suo reportage. Si può consultare nella sezione “Primo piano”, insieme agli articoli sulle stragi dell’esodo somalo verso le coste yemenite, in fuga dalla guerra civile, già 921 morti nel 2007 e all’approfondimento sui respingimenti dei profughi afgani e irakeni dai porti italiani dell’Adriatico, mai cessati nonostante le proteste ufficiali del Cir, che gestisce degli sportelli di servizio legale nelle frontiere portuali italiane. Il 20 novembre da Bari sono stati espulsi collettivamente 55 irakeni. Riammessi in Grecia negli stessi giorni in cui le autorità greche, arrestavano 50 irakeni ad Alexandroupolis, vicino alla frontiera turca, dichiarando che sarebbero stati riammessi nella Turchia che si appresta a invadere militarmente il Kurdistan iracheno. Infine segnaliamo la nostra nuova sezione video e audio. Se avete materiale interessante speditecelo.