RELAZIONE DELLA COMMISSIONE MINISTERIALE PER
INDICE
I.
Premessa
II.
Principi di codificazione
III.
Principio di legalità
IV.
Riserva di codice
V.
Principio di offensività
VI.
Irrilevanza del fatto
VII.
Principio di colpevolezza
VIII. Efficacia
della legge penale nel tempo
IX.
Efficacia della legge penale nello spazio
X.
Il reato
XI.
Soggetto attivo, condotta, evento, nesso di causalita
XII.
Dolo, colpa, colpa grave
XIII. Ignoranza ed
errore
XIV. Cause
oggettive di giustificazione – cause soggettive di esclusione della
responsabilità
XV.
Reato tentato
XVI. Circostanze
del reato
XVII. Concorso di
reati – concorso formale – reato continuato
XVIII.
Concorso di persone nel reato
XIX. Imputabilità
XX.
Persona offesa dal reato
XXI. Querela,
istanza, richiesta
XXII. Prescrizione
XXIII.
Le pene
XXIV.
Commisurazione della pena
XXV. Oblazione
XXVI.
Messa alla prova
XXVII. Sospensione
condizionale e altre cause di estinzione della pena
XXVIII. Sanzioni
civili
XXIX.
Confisca
XXX. Responsabilità
degli enti
I. Premessa
Il fatto che il mondo accademico e gli operatori del
diritto si siano da tempo espressi per la non procrastinabilità di un codice
penale moderno e pienamente aderente ai princìpi costituzionali, e il dato che
la riforma del codice penale fosse indicata tra le priorità nei programmi delle
due coalizioni che si sono presentate alle elezioni, hanno determinato
Il 14 maggio 2007
A conferma
della volontà di iniziare, anche in Parlamento, il confronto sulla
riforma del codice penale, vi sono state, nel corso di quest’anno, varie
sollecitazioni della Commissione Giustizia del Senato affinché il Governo
approvasse un Disegno di Legge-delega per l’emanazione di un nuovo codice
penale. Nella seduta del 13 settembre 2007, l’Ufficio di Presidenza della
Commissione Giustizia del Senato, dopo aver preso atto che
II. Principi
di codificazione
Nello svolgimento dei lavori,
Compito principale del legislatore penale deve essere
quello di garantire la salvaguardia dei beni giuridici di rango costituzionale:
questo il motivo per cui - pur nella consapevolezza che
L’inserimento, tra i principi di codificazione, dell’esclusione
di qualsiasi forma di responsabilità oggettiva, deriva dalla interpretazione che
La riforma del codice deve ad avviso della
Commissione, porsi l’obiettivo di un diritto penale “minimo, equo ed efficace”,
in grado di invertire l’attuale tendenza “panpenalistica” che mostra, ogni giorno
di più, il suo fallimento. L‘inserimento, nel nostro ordinamento, di sempre
nuove fattispecie penali (soprattutto contravvenzionali) – che puniscono condotte
per le quali sarebbe ben più efficace una immediata sanzione amministrativa –
ha contribuito in modo rilevante a determinare l’attuale stato della nostra giustizia
penale, unanimemente considerata al limite del collasso, con milioni di procedimenti
penali pendenti e conseguente quotidiana violazione di quella “ragionevole
durata del processo”, sancita dall’art. 111 della Costituzione e dall’art. 6
della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo.
III.
Principio di legalità
Unanime è la convinzione che le linee della
riforma debbano tendere a realizzare la
razionalità, la coerenza, l’efficienza del sistema penale e la consonanza con
le regole e i valori della Costituzione repubblicana. Il conseguimento di tali obiettivi
dipende principalmente dal principio di legalità, presidio di certezza e
garanzia insostituibile della libertà e della dignità della persona, la cui
piena attuazione è indispensabile soprattutto in un momento storico nel quale
più forte è l’incidenza dei vari fattori di crisi della legalità e della
certezza del diritto.
L’essenzialità della funzione garantistica del
principio di legalità è confermata dalla disposizione contenuta nell’art. 7,
comma 1, della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle
libertà fondamentali (ratificata con L. 4.8.1955, n. 848), e, quindi, inserita
nell’ordinamento italiano in una collocazione sovraordinata alle leggi ordinarie,
trattandosi di norma derivante da una
fonte riconducibile a una competenza atipica e, come tale, insuscettibile di
abrogazione o di modificazione da parte di disposizioni di legge ordinaria
(Corte Cost., sent. n. 10 del 1993).
L’ambito della riserva di legge deve evidentemente coprire
tutti gli elementi costitutivi della fattispecie di reato e le sanzioni
comminate per la violazione del precetto, nel senso che la predeterminazione
legale deve avere per oggetto il fatto, la colpevolezza, le circostanze aggravanti
o attenuanti, la punibilità nonché i presupposti della punibilità, delle pene,
dei casi di conversione, dei criteri di ragguaglio, le conseguenze
sanzionatorie e gli altri effetti penali.
Anche il principio di determinatezza è parte integrante
del principio di legalità.
Anche il principio di tassatività, inerente al momento
applicativo o interpretativo della legge penale, si pone in rapporto di
strettissima connessione con il
principio di determinatezza e, al pari di quest’ultimo, costituisce uno dei
profili del principio di stretta legalità: quest’ultimo implica necessariamente
la giuridica impossibilità per il giudice di estendere il precetto penale oltre
i casi previsti e di applicare pene diverse, per specie e quantità, da quelle
stabilite dalla legge penale.
IV. Riserva
di codice
Con tale direttiva si è voluto sottolineare la necessità
di fare del codice il testo centrale dell’intero sistema penale, onde porre un
freno al continuo inserimento di fattispecie penali in leggi speciali con
effetti negativi sia in relazione alla chiarezza che alla effettiva possibilità
di conoscenza, da parte dei cittadini, delle condotte penalmente rilevanti. Ciò
anche al fine di evitare ulteriori estensioni della legislazione penale che,
come già evidenziava nel lontano 1991 la relazione al progetto Pagliaro, “ha assunto
dimensioni abnormi”.
Il principio di “riserva di codice” - pur attenuato
dalla necessaria indicazione di prevedere disposizioni penali inserite in leggi
disciplinanti organicamente l’intera materia cui si riferiscono (es. normativa
sugli stupefacenti, sul contrabbando, sulle armi) - era già stato previsto dall’art. 3 del
progetto Grosso.
La previsione di una “riserva di
codice”, che si potrebbe definire “attenuata” in quanto tiene conto della
peculiarità del nostro sistema penale, intende rafforzare il principio di
legalità allo scopo di superare la crisi di efficienza e di garanzie del
diritto penale, nonché di creare i presupposti di una effettiva possibilità di
conoscibilità delle norme penali (principio garantista che ha anche una
efficacia deterrente). Il codice penale dovrebbe diventare un testo esaustivo
e, per quanto possibile, esclusivo dell’intera materia penale, della cui
coerenza e sistematicità il legislatore dovrebbe ogni volta farsi carico. Ne
verrebbe accresciuta la sua capacità regolatrice, tanto nei confronti dei cittadini
quanto dei giudici, con conseguente incremento della certezza e della
credibilità del diritto penale e con una riduzione della sua area di
intervento, conformemente al suo ruolo di strumento estremo di difesa di beni e
diritti fondamentali.
Unanime è stata la condivisione di tali considerazioni
da parte dei componenti della Commissione: non sono mancate, tuttavia, nel
corso del dibattito, alcune obiezioni. Si è osservato, tra l’altro, che, avendo
il codice il rango di legge ordinaria, tale principio sarebbe scarsamente
vincolante. A tale considerazione, si è risposto che tale obiezione potrebbe
essere estesa anche a molti altri princìpi generali del diritto: basti pensare
a quello di tassatività, a quello di offensività o al sistema sanzionatorio che,
evidentemente, non può escludere che il legislatore possa introdurre nel nostro
ordinamento, come del resto è ripetutamente avvenuto, sanzioni penali diverse
da quelle previste dall’attuale art. 17 c.p. Né si può sostenere che la
codificazione della riserva di codice non sarebbe normativmente rilevante, in
quanto, da un lato, avrebbe la rilevanza che hanno tutti i princìpi generali di
diritto stabiliti da leggi ordinarie e, dall’altro, sarebbe quanto meno un
freno alla prassi legislativa di
inserire norme penali in leggi speciali e – se non altro per l’interazione che
sempre sussiste tra diritto e senso comune – porterebbe, con il tempo, a mutare
il significato associato alla riserva di legge, che si tramuterebbe, nel senso
comune, in riserva di codice.
V. Principio
di offensività
La previsione, a livello di legge ordinaria, di una
clausola di necessaria offensività è apparsa non solo opportuna ma necessaria anche
in un sistema penale completamente riformato, che contenga descrizioni
pregnanti dei fatti punibili, in termini di chiara, afferrabile lesione o messa
in pericolo di beni significativi: ciò sia per rimediare a sempre possibili
scarti tra descrizione legale astratta ed offesa concreta, sia per orientare
l’interprete nei casi dubbi (art.3, lettera a).
Il confronto si è sviluppato partendo dall’art. 4 del
progetto Pagliaro, ispirato al principio di offensività quale canone
ermeneutico di interpretazione della legge penale. Come si legge nella
relazione al progetto del 1999, il principio di offensività costituisce “il
baricentro di ogni diritto penale non totalitario, poliziesco, liberticida e
per ciò è stato assunto come principio regolatore, informatore del nuovo
codice”. La finalità di tale principio è duplice: da un lato, di “fondamentale
direttrice di politica legislativa” e, dall’altro, di criterio interpretativo
delle fattispecie, la cui formulazione deve essere in termini di concreta
offensività del bene giuridico (salvo deroghe espresse ammissibili “solo per la
prevenzione della lesione di beni primari individuali, collettivi o istituzionali”).
VI. Irrilevanza
del fatto
Partendo dalle considerazione in tema di offensività, e
dopo essersi soffermata sul dibattito e sulle proposte dei progetti Grosso e
Nordio,
Il tema dell’offensività ha portato
Sulla formulazione di tale norma vi è stato un serrato
confronto,che ha portato a modifiche rispetto all’iniziale proposta del
relatore (che, ad esempio, faceva riferimento alla “tenuità del fatto” o “alla
particolare tenuità dell’offesa”). Secondo alcuni Commissari vi può essere
“irrilevanza del fatto” solo se è da considerarsi “bagatellare” non solo la
tenuità dell’offesa ma anche la modalità della condotta: proprio per questo, ed
allo scopo di evitare sia una interpretazione eccessivamente restrittiva sia
una interpretazione indebitamente estensiva, è stata proposto che le varie
circostanze in astratto ipotizzabili fossero indicate non quali “condizioni” ma
quali “criteri di valutazione” (es. “il fatto non è punibile qualora sia
ritenuto irrilevante; la valutazione della sua irrilevanza deve essere motivata
in base alla sua tenuità, o alla minima entità del danno, o alla natura, alla
specie, all’oggetto, al tempo, al luogo o ad altre modalità dell’azione”). Si è
anche proposto di inserire il requisito dell’assenza di violenza o minaccia
alla persona.
VII. Principio
di colpevolezza
Uno degli elementi qualificanti dello schema di legge
delega è costituito dall’attuazione del principio di colpevolezza quale
principio desumibile, secondo la giurisprudenza della Corte Costituzionale fin
dalla sentenza 364/88, dall’art. 27, comma 1 della Costituzione.
Il principio di colpevolezza esige innanzitutto che
non sia punibile chi non abbia violato alcun comando normativo e chi non sia
stato nella condizione di poterlo adempiere. Del pari esclude che possano
rilevare, ai fini del giudizio di responsabilità penale, elementi della
personalità o dell’ambiente di vita che non abbiano attinenza al fatto commesso
(e che dunque non concorrano a delineare la c.d. “colpevolezza del fatto”). Sul
punto è stata del resto tassativa
VIII. Efficacia
della legge penale nel tempo
Dopo aver stabilito la irretroattività delle norme
incriminatici e la retroattività della legge penale più favorevole, il progetto
prevede una articolazione delle diverse
ipotesi di abolizione di incriminazioni precedenti (nessuno può essere punito
per un fatto non più previsto dalla legge come reato; in caso di condanna irrevocabile, ne debbono
cessare l’esecuzione e gli effetti penali). In caso di modifica di leggi si
deve applicare quella in concreto più
favorevole, sempre che la sentenza di condanna non sia già passata in
giudicato: in tal caso, se la legge successiva prevede una pena di durata
minore o di specie meno afflittiva, la pena deve essere rideterminata (art. 6, lettera
c).
Altra questione dibattuta è stata
quella relativa ai casi di modificazioni “mediate” della norma incriminatrice, al
momento che è ancora controversa la questione se ricorra o meno una situazione
di “successione” nell’ipotesi di abrogazione di una norma richiamata dalla
legge penale.
Pur non esistendo dissensi sul punto, è
apparso opportuno specificare che le
leggi eccezionali e quelle temporanee debbano essere sottratte alla disciplina
della successione delle leggi penali nel tempo. Si è altresì estesa, con una
esplicita equiparazione, la disciplina sopra richiamata alle situazioni
conseguenti alla dichiarazione di illegittimità costituzionale, in quanto gli
effetti delle pronunce di incostituzionalità non sono assimilabili a quelli propri del meccanismo regolatore
delle vicende modificatrici della legge penale (art. 6 lettera e).
Per quanto concerne la non conversione di decreti
leggi contenenti disposizioni penali, o la conversione con modifiche,
IX. Efficacia
della legge penale nello spazio
Per quanto concerne l’attuale disciplina della legge
penale nello spazio, oltre ad aggiustamenti di ordine terminologico, si sono
ritenuti necessari alcuni interventi modificativi in relazione alle seguenti
problematiche.
Quella derivante dall’art. 4, n. 7
lett. a) e b) della Decisione Quadro 2002/584/GAI del Consiglio dell’Unione Europea
del 13.6.2002 recepita dall’art. 18, lett. p) della legge 22 aprile 2005 n. 69,
secondo la quale
Tale previsione ha imposto la ricerca di un punto di
equilibrio tra l’esigenza di dare attuazione al principio di territorialità e
quella di estendere l’applicabilità della legge penale italiana anche ai reati
commessi al di fuori del proprio territorio relativi a fatti di “criminalità di
Stato”, a interessi primari e a fenomeni criminali tipicamente transnazionali. L’attuale
disciplina (c.d. “principio di ubiquità”) non è
stata condivisa - soprattutto in relazione ai casi di concorso di
persone nel reato – nella parte in cui fa riferimento, nell’art. 6 del codice
vigente, al luogo in cui è avvenuta “parte” dell’azione. Si è ritenuto quindi di
specificare che il reato si debba considerare commesso in Italia quando
l’azione o l’omissione che lo costituisce è in tutto, o in parte rilevante,
posta in essere nel territorio dello Stato ovvero nel territorio dello Stato si
è verificato l’evento (art. 7, lettera d)
Si è poi affrontato il delicato tema della “doppia
incriminazione”. Nell’attuale disciplina è controverso se per la procedibilità
dei delitti comuni commessi all’estero, occorra, nonostante il silenzio del
legislatore, che il fatto sia preveduto come reato anche dalla legge dello
Stato in cui il fatto è avvenuto. Per evitare dubbi o incertezze interpretative
si è inserito esplicitamente il principio della doppia incriminazione, anche
quale tutela, sia pure di riflesso, del principio di legalità: lo straniero,
infatti, deve essere posto in grado di sapere che il fatto costituisce un illecito penale nel
luogo dove lo ha commesso. Ne consegue che la doppia incriminazione deve essere
prevista anche per i reati commessi all’estero dal cittadino. In caso contrario
si avrebbe una ingiustificata sperequazione proprio ai danni del cittadino (il
che ha fatto ritenere quantomeno opportuno estendere la necessità della doppia
incriminazione anche alle ipotesi di cui all’attuale art. 9 c.p.).
Passando ad esaminare l’articolato, l’art. 7 tende a
definire i reati che si considerano commessi nel territorio dello Stato e
quindi risultano incondizionatamente assoggettati alla legge italiana. I primi
due commi riproducono sostanzialmente l’art. 3 del c.p. vigente con le seguenti
modificazioni ed aggiunte: a) l’inciso “cittadini o stranieri” è stato omesso
in quanto pleonastico e comunque non comprensivo degli apolidi; b) la
espressione “obbliga” è stata sostituita con il termine “applica”; c) si è
fatto riferimento al diritto comunitario che contiene espressamente norme sulla
immunità dei propri organi. La lettera c) ripropone l’equiparazione di navi ed
aeromobili al territorio dello Stato. E’ stata eliminata ogni definizione di
territorio dello Stato e di cittadino, competenza di altre branche del diritto.
La lettera d) precisa che il reato si deve considerare commesso nel territorio dello
Stato quando l’azione o l’omissione che lo costituisce è in tutto, o in parte rilevante, commessa nel territorio
dello Stato o ivi si è verificato l’evento. Dopo ampia discussione, si è inteso
specificare che, per ritenere che il
reato sia stato commesso in Italia, l’azione o l’omissione debba essere stata
posta in essere nel nostro paese almeno “in parte rilevante”, onde evitare, dato
il principio di obbligatorietà dell’azione penale, che si debba procedere per
fatti rispetto ai quali in Italia la “parte di azione od omissione” sia stata
minimale o, in ogni caso, irrilevante (regola che, evidentemente, non si
applica allorché, nel nostro territorio, si sia verificato l’evento).
L’art. 8 disciplina l’applicabilità delle legge
italiana ai reati commessi all’estero equiparando gli interessi dello Stato
italiano e quelli dell’’Unione Europea”. Nel primo comma si prevede la
punibilità, con esclusione del principio della doppia incriminazione, di
chiunque commette all’estero reati che ledono interessi primari, con una norma
di chiusura che rinvia a norme speciali, comunitarie e internazionali. Il
secondo comma fa riferimento ai reati di genocidio, di tortura e ai crimini di
guerra o contro l’umanità. In questi casi,
Per quanto concerne l’estradizione, questa non potrà
essere concessa qualora vi sia ragione di ritenere che l’imputato o il
condannato possano essere sottoposti ad atti persecutori o discriminatori per
motivi di razza, religione, nazionalità, lingua, genere, orientamento sessuale,
opinioni politiche, condizioni personali o sociali ovvero a pene o trattamenti
crudeli, inumani o degradanti o, comunque, ad atti che configurino violazione
di diritti fondamentali della persona. L’estradizione non potrà essere altresì concessa
nei casi in cui, per il reato per il quale è domandata, sia prevista, dalla
legge dello Stato estero, la pena di morte (art. 9). Non si è ritenuta
sufficiente, anche sulla base della sentenza della Corte Costituzionale n. 223/2006,
l’assicurazione dello Stato estero che la pena di morte non sia infitta o, se
inflitta, non sia eseguita.
X. Il
reato
Dopo ampia discussione, e un doveroso approfondimento
di diritto comparato,
Nel dibattito sono emerse valide argomentazioni sia a
favore che contro il mantenimento dell’attuale dicotomia delitti-contravenzioni.
Diversità di opinioni che, come emerge dalle relazioni dei progetti Grosso e Nordio,
si erano già manifestate nelle precedenti Commissioni.
a) pericolo di un appesantimento della categoria dei
delitti a fronte della difficoltà di realizzare una depenalizzazione che superi
determinate soglie di incisività;
b) persistente validità del modello contravvenzionale
in ragione della sua specifica idoneità a recepire le esigenze di una
configurazione dinamica delle fattispecie di reato (fattispecie di mera
condotta e di pericolo astratto, con una tipicità soggettiva poco marcata e
tale da giustificare la previsione indifferenziata);
c) esistenza di contravvenzioni non trasformabili
agevolmente in delitti;
d) validità del modello di reato contravvenzionale
individuato, in adesione a quanto previsto dal progetto Pagliaro, nei reati relativi
a violazione di regole cautelari, in quelli integranti un irregolare esercizio
di attività sottoposte a poteri amministrativi di concessione, autorizzazione,
controllo o vigilanza e nei fatti di ridotta offensività.
a) residualità del diritto penale: il diritto penale è infatti
incompatibile con le fattispecie rappresentative di comportamenti
assiologicamente neutri, o comunque di scarsa valenza antisociale;
b) presa d’atto che l’attuale catalogo dei reati
contravvenzionali non ubbidisce a
ragionevoli criteri di differenziazione
rispetto ai delitti: da un lato, infatti, vi sono delitti puniti con la sola pena pecuniaria e dall’altro
contravvenzioni per cui è prevista la pena detentiva; vi sono delitti
perseguibili a querela e contravvenzioni perseguibili d’ufficio. Il che, come
si legge nella relazione, “rivela una visione contraddittoria che impone una
riduzione ad armonia ed equità”;
c) assoluta ineffettività della sanzione, neutralizzata
dall’inevitabile prescrizione, che impone la depenalizzazione dei reati
bagattellari quale scelta coerente e doverosa rispetto all’impianto complessivo
del progetto di nuovo codice penale.
Sulla base di tali considerazioni,
In numerosi interventi, inoltre, è
stato rilevato come, alla fine, l’unica distinzione tra delitti e
contravvenzioni (non solo di fatto ma anche nell’analisi delle Commissioni che
avevano ritenuto di mantenere l’attuale assetto), si trovi nella diversa specie
delle pene stabilite. Da parte di numerosi commissari si è inoltre osservato
come - in presenza di contravvenzioni che hanno una effettiva e reale funzione
preventivo-cautelare per beni particolarmente rilevanti - non sia più
procrastinabile la loro trasformazione in “delitti”; e come, invece, per molte delle
attuali contravvenzioni, non vi siano validi motivi per mantenerle nell’ambito
penale, con il vantaggio non solo di decongestionare, semplificare e
razionalizzare il sistema penale ma anche di contribuire ad una accelerazione
dei tempi processuali.
Nel corso della discussione non è stata affatto
sottovalutata la difficoltà di esaminare il complesso delle contravvenzioni presenti
in leggi speciali, per valutare quali trasformare in delitti e quali
depenalizzare. Si è ritenuto, tuttavia, che, sulla base del decreto istitutivo
della Commissione, alla stessa spettasse il compito di fare una proposta
limitata alle contravvenzioni contenute nel libro III del codice, e che si
dovesse prevedere una norma transitoria per le contravvenzioni contenute in
leggi speciali e, contemporaneamente, una delega specifica, con tempi
ragionevolmente più lunghi, per quelle previste da leggi speciali. In tale
direzione si era mossa anche
XI. Soggetto
attivo, condotta, evento e nesso di causalità
Soggetto attivo può essere sia il titolare di
particolari doveri o poteri giuridici specificamente attribuitigli al momento
del fatto sia chi, pur sprovvisto di regolare investitura, eserciti in concreto
tali poteri (art. 12, lettra a). L’art. 12 stabilisce che nessuno possa essere
punito per una azione od omissione prevista dalla legge come reato se non
l’abbia posta in essere con coscienza e volontà, salvo i casi di forza maggiore
o costringimento fisico: in tali casi risponde del reato l’autore della
violenza (lettera c).
Per quanto concerne il nesso di causalità, si è fatto
riferimento – per stabilire la regola generale - al concetto di “condizione
necessaria”, mutuandolo dalla dottrina e dalla giurisprudenza che hanno maggiormente
sottolineato, da un lato, la necessità, derivante dal principio di legalità, della
ricostruzione del rapporto tra condotta ed evento a leggi scientifiche di
copertura e, dall’altro, il fatto che l’evento in questione deve essere quello
che si è verificato in concreto, con l’esclusione di ogni livello della cd. “causalità
alternativa ipotetica”.
La controversa figura del reato omissivo improprio è
stata regolata (commi 2 e 3 dell’art.12), con una soluzione che ha inteso
superare non solo l’ermetica formula dell’ art. 40, comma 2 del vigente codice,
accogliendo gli stimoli provenienti soprattutto dalla dottrina sulla necessità
di colmare il deficit di tipicità e
legalità che la materia dell’omesso impedimento dell’evento presenta; ma anche evitare
una rigida tipizzazione delle posizioni di garanzia, nella convinzione che tale
opera di tipizzazione competa alla normativa del settore e mal si accordi con
le clausole di disciplina “generale” che un codice deve fornire nella parte
generale.
Col secondo comma dell’art. 12 si equipara, quindi, il
non impedire l’evento al cagionarlo, con una significativa modifica rispetto al
codice vigente: da un lato, vi deve essere stata violazione di un “obbligo
attuale” di garanzia del bene giuridico e, dall’altro, il titolare dell’obbligo
di garanzia deve avere i poteri giuridici e di fatto idonei a impedire l’evento.
L’obbligo di garanzia, inoltre, deve essere istituito dalla legge o, nei limiti
indicati dalla legge, essere specificato da regolamenti, provvedimenti della
pubblica autorità, ordini o atti di autonomia privata. Il terzo comma 12 indica
i presupposti per ritenere validamente trasferito l’obbligo di garanzia (si è
deciso di rinviare alla parte speciale l’eventuale previsione di uno specifico
reato di omissione di sorveglianza connessa alle organizzazione dell’impresa).
La materia risulta quindi sensibilmente arricchita
rispetto alla scarna “clausola di equivalenza” presente nel codice vigente.
Tuttavia, le esigenze di legalità e tipicità prese giustamente in
considerazione dalle precedenti Commissioni sono state soddisfatte, senza
ricorrere ad elencazioni, potenzialmente incomplete, delle posizioni di
garanzia, ma prevedendo che l’obbligo di garanzia sia comunque istituito per
legge. Tale requisito restringe notevolmente il campo applicativo della figura
omissiva impropria, che oggi si muove invece liberamente all’interno dell’ampio
terreno contrassegnato dalla mera “giuridicità” dell’obbligo di impedimento: con la proposta formulata, le fonti extralegali
potranno solo regolamentare le “vicende” della posizione di garanzia, ma non
istituirla. Rilevante è anche la previsione per cui gli obblighi di mera
vigilanza possono avere rilevanza penale solo se la loro inosservanza sia
espressamente prevista dalla legge come reato omissivo proprio (lettera b,
comma 3)
XII. Dolo,
colpa, colpa grave (art.13)
Il ripudio della responsabilità oggettiva, che aveva
già trovata ampia convergenza nei più recenti progetti di riforma, ha portato
Già il Progetto Pagliaro, all’art.12, prevedeva di
“escludere qualsiasi forma di responsabilità incolpevole, prevedendo due sole
forme di imputazione: il dolo e la colpa”. Il Progetto Grosso, all’art.25, ha
stabilito che “la colpevolezza dell'agente per il reato commesso è presupposto
indefettibile della responsabilità penale” e che “ nessuno può essere punito
per un fatto previsto dalla legge come delitto se non lo ha realizzato con
dolo, salvi i casi di delitto colposo espressamente previsti dalla legge”. L’art.
19 del Progetto Nordio prevede che “nessuno possa essere punito per un fatto previsto dalla
legge come reato se non lo ha commesso con dolo, salvi i casi di reato colposo
espressamente previsti dalla legge”.
a) che fossero maturi i tempi di una definitiva messa
al bando della responsabilità oggettiva, non solo nelle forme espresse, ma anche
in quelle “occulte” e, quindi, più insidiose;
b) che, in tale materia, formulazioni contenute in
norme definitorie hanno comunque una ridotta capacità di incidenza sugli
orientamenti giurisprudenziali;
c) che, quanto al dolo, andrebbe contrastata l'attuale
tendenza giurisprudenziale a svalutare la componente volontaristica del nesso
psichico e a privilegiare l’instaurazione
di un vorticoso processo di oggettivizzazione e di normativizzazione, che
riduce il dolo a componente estremamente malleabile sul piano applicativo e quindi
facile terreno di coltura per scorciatoie probatorie, soprattutto nel concorso
di persone;
d) che vi sia una tendenza all’appiattimento della
colpa specifica sulla responsabilità oggettiva, anche in quanto la
giurisprudenza tende a non riscontrare il nesso di imputazione tra condotta ed
evento, nonché il grado di esigibilità dell’osservanza della regola cautelare
violata; che tale tendenza determina, non raramente, una “trasformazione”
della colpa specifica in colpa generica
mediante l'impiego di clausole generali a sfondo cautelare, con la rinuncia di
fatto al controllo di prevedibilità in concreto dell’evento e con la liquidazione
del principio di affidamento sulla base del
“convincimento” che questo non possa essere invocato da chi viola una
regola cautelare;
e) che una vera rivoluzione copernicana si potrebbe
attuare solo introducendo una terza tipologia di elemento soggettivo,
intermedia tra quelli che oggi chiamiamo dolo e colpa e mutuata dall’esperienza
inglese della “reklesness”, ed
incentrata sul carattere sconsiderato della condotta posta in essere dal reo,
in modo non dissimile da quanto realizzato in Francia a proposito della “mise en danger”: scelta che porterebbe a
distinguere l’area della “volontà del fatto” dall’area della “volontà del
(mero) rischio del fatto” e ciascuna di queste due dall’area della “non
volontà” dell’uno e/o dell’altro;
f) che tuttavia tale scelta non è ad oggi
realizzabile, sia in quanto la distinzione tra “volontà del fatto” e “volontà
del mero rischio del fatto” non sempre è agevole, in quanto comporta per il
giudice la difficoltà di spiegare perché chi ha così intensamente voluto il
rischio del fatto in realtà non ha voluto il fatto e chi si è rappresentato il
fatto in maniera sbiadita ciò nondimeno lo abbia voluto; sia in quanto neppure
la distinzione a livello inferiore è spesso così marcata e razionalmente
giustificata (basti pensari all'incerta collocazione dei casi di dubbio sulla
consistenza della regola cautelare, sulla sua operatività e sulla sua portata),
con il conseguente rischio di fare una scelta che, da un lato, finirebbe per
rendere ancora più difficile l’accertamento dell’elemento psicologico del reato
e, dall’altro, finirebbe per comportare una reazione negativa anche in
considerazione del non particolare
apprezzamento nel nostro Paese, da parte della dottrina e degli
operatori del diritto, del sistema tripartito.
Nella consapevolezza, dunque, che un codice non debba
imporre scelte di élite, ma debba limitarsi a registrare cambiamenti
sufficientemente maturati nell’esperienza giuridica,
In ordine alla formulazione scelta per definire il
reato doloso, l’allontanamento dalla vigente definizione si misura nella
chiarificatrice sostituzione dell’evento, quale oggetto del dolo, con il fatto
costitutivo di reato e nella soppressione dell’inciso “secondo l’intenzione”,
che non può non apparire distonico in un sistema in cui hanno cittadinanza,
all'interno del modello doloso, anche forme non intenzionali (il reato è doloso
quando l’agente si rappresenta concretamente e vuole il fatto che lo
costituisce - art. 13 lettera b).
Tale carattere è ribadito nella definizione che
Un più evidente tratto di innovazione caratterizza la
scrittura della norma relativa alla definizione del reato colposo. A parte il
richiamo alla non volontà del fatto costitutivo di reato, che conferma la
posizione della colpa in un territorio esattamente contrapposto a quello del
dolo, la disposizione ha cura di esplicitare i distinti passaggi che debbono
guidare l’interprete nell’accertamento di tale elemento psicologico,
menzionando, accanto alla violazione di una regola cautelare, la prevedibilità
ed evitabilità del fatto commesso, allo scopo di impedire intollerabili
sovrapposizioni tra responsabilità colposa e responsabilità oggettiva. Nel
prevedere una rimproverabile corrispondenza tra il fatto verificatosi e quello
da evitare, si è espressamente esclusa una responsabilità nei casi in cui l’evento
cagionato non rientri tra quelli che la regola cautelare violata mirava
specificamente a prevenire (art. 13, lettera d: “il reato è colposo quando il
fatto che lo costituisce non è voluto dall’agente e questi lo realizzi come
conseguenza concretamente prevedibile ed evitabile dall’inosservanza di regole
di diligenza, di prudenza o di perizia ovvero di regole cautelari stabilite da
leggi, regolamenti, ordini o atti di autonomia privata”).
La novità più rilevante riguarda la previsione della
figura della colpa grave, con conseguente abbandono della c.d. colpa cosciente
come ipotesi aggravata di colpa. In proposito si è constatato come la colpa
cosciente (o con previsione) non rappresenta necessariamente una forma più
grave di colpa, potendo la colpa incosciente risultare, a seconda delle
circostanze, comparativamente più grave della colpa cosciente (è ben plausibile
infatti considerare più grave il fatto di chi, per sconsideratezza, negligenza
o indifferenza, ignora le più elementari cautele in una situazione di evidente
pericolosità, rispetto a quello di chi si rappresenta una remota possibilità di
verificazione di un evento lesivo). Si è dunque incentrato il nucleo della
maggior gravità della colpa nella “particolare rilevanza” dell’inosservanza
delle regole cautelari o della pericolosità della condotta (sul presupposto di
una sua misurabilità): dati che, nella loro evidenza, si sono riflessi nella
sfera dell'agente e che, comunque, costui avrebbe dovuto agevolmente percepire,
sicché è elevato anche il grado di colpevolezza (art. 13, lettera f).
Mentre, nel codice vigente, la figura della colpa
cosciente si risolve unicamente in una aggravante del reato colposo, nel
presente progetto la colpa grave rappresenta una nozione a cui, in alcuni
settori,
Sotto altro versante, la colpa grave potrebbe
costituire una ipotesi di aggravamento per talune fattispecie colpose (si
pensi, ad esempio, agli omicidi colposi da incidente stradale commessi da
soggetti in stato di ubriachezza), consentendo, da un lato, un maggiore rigore
sanzionatorio ed evitando, dall’altro, proprio in ragione dell’inadeguatezza
della sanzione, di “scivolare” verso il dolo eventuale.
XIII. Ignoranza
ed errore
La disciplina dell'errore e dell’ignoranza è stata
riunita in un unico articolo, calibrato sui possibili oggetti dell'errore o
dell'ignoranza (art.14). Con la lettera a) del primo comma si è inteso
ribadire, onde evitare diverse interpretazioni, che l’errore sul fatto che
costituisce il reato esclude la responsabilità a titolo di dolo (anche se tale
conclusione ben si poteva ricavare dalla stessa definizione di dolo come
esplicitata all’art. 13). Tale proposizione in positivo consente anche di
chiarire che non vi può essere responsabilità a titolo di dolo nei casi in cui
l’errore sul fatto derivi da errore su legge extrapenale.
Quanto alle cause di giustificazione e alle cause
soggettive di esclusione della responsabilità, la disciplina introdotta non è dissimile
da quella attuale (esplicita o comunque mutuata dal diritto vivente). In
particolare la lettera b) del primo comma art. 14 prevede che l’erronea
supposizione di una causa di giustificazione escluda il dolo anche nel caso in
cui derivi da errore su legge diversa da quella penale, ancorché avente ad
oggetto qualifiche giuridiche o elementi normativi.
Quanto all'errore sul precetto penale si è mantenuta
la disciplina prevista dall'art. 5 del codice vigente, come interpretato dalla
Corte Costituzionale, esplicitando i casi di errore scusabile, in linea con le
indicazioni contenute nella sentenza n. 364/88. Per temperare le conseguenze
che una simile disciplina può determinare in relazione ai reati dolosi, nei
casi in cui l'errore o l'ignoranza siano rimproverabili in quanto dovuti a
negligenza – per cui, in definitiva un rimprovero di culpa iuris finisce per fondare la responsabilità dolosa – il
progetto prevede la possibilità, per il giudice, di diminuire la pena qualora
si convinca che l'agente si sarebbe astenuto dalla commissione del reato se si
fosse realmente reso conto della sua illiceità penale.
Su tale scelta ha indubbiamente influito l’esame delle
legislazioni straniere, da cui è emerso che la previsione di una diminuzione di
pena (in misura anche maggiore rispetto a quella prospettata), è presente in molti
ordinamenti stranieri. In Germania, ad esempio, si applica una diminuzione tale
per cui il minimo della pena applicabile è di due anni di reclusione per reati
puniti nel minimo con 5 o 10 anni; di 6 mesi per reati puniti nel minimo con 2
o 3 anni; 3 mesi per reati puniti nel minimo con un anno; il massimo non può
superare i tre quarti del massimo edittale (§49); in Norvegia la pena può
essere fissata sotto il minimo previsto per il reato commesso e può consistere
in una pena di specie diversa. In casi particolari il giudice può anche decidere
per il proscioglimento.
XVI. Cause oggettive di
giustificazione - cause soggettive di esclusione della responsabilità
Ampia è stata la discussione sull’opportunità di
prevedere una distinzione tra “cause oggettive di giustificazione” e “cause soggettive
di esclusione della responsabilità” (artt.15 e 16).
Tale impostazione è fortemente innovativa rispetto
alla sistematica dell’attuale codice che finisce con l’inquadrare,
nell’ambito della generica categoria
delle cause di esclusione della pena, fattispecie tra loro eterogenee, che vanno
dalla incapacità di intendere e volere fino alla mera esenzione personale dalla
sanzione penale.
La previsione di una categoria autonoma di scusanti si
ricollega ad una elaborazione scientifica sufficientemente consolidata,
offrendo un coerente inquadramento dogmatico per alcune ipotesi
legislativamente previste – come lo stato di necessità cogente e la esecuzione
dell’ordine illegittimo insindacabile – che trovano un plausibile fondamento
nel principio di inesigibilità, piuttosto che nei modelli esplicativi
(riconducibili ai princìpi dell’interesse prevalente e dell’interesse mancante)
posti alla base delle vere e proprie scriminanti.
Mentre le cause di giustificazione escludono
l’antigiuridicità intesa come contrasto tra il fatto e l’intero ordinamento
giuridico, determinano la non applicabilità di sanzioni e si estendono a tutti
i concorrenti, la categoria delle cause soggettive di esclusione della
responsabilità fa venir meno esclusivamente la rimproverabilità dell’agente (sottoposto
alla pressione di circostanze psicologicamente coartanti che rendono
inesigibile un comportamento diverso), lascia integra l’illiceità oggettiva del
fatto e l’applicabilità di sanzioni civili ed amministrative e riguarda solo la
persona il cui processo motivazionale è stato condizionato (e non è quindi
estensibile a eventuali altri concorrenti).
L’introduzione nel tessuto codicistico della categoria autonoma delle scusanti permette di
delineare una più rigorosa sistemazione dogmatica delle diverse fattispecie di
esclusione della responsabilità penale, offre una ragionevole soluzione a vari
problemi, non solo di qualificazione, ma anche di individuazione del regime
giuridico applicabile, affiorati in dottrina e in giurisprudenza, consentendo,
ad esempio, di superare l’attuale costruzione legale unitaria dello stato di
necessità e di fornire confini più precisi al "soccorso di necessità".
Permette altresì di non incidere negativamente su princìpi generali che
conducono logicamente ad attribuire rilevanza anche ad ulteriori ipotesi non
prese in considerazione dal codice Rocco (ad esempio l’ esecuzione dell’ordine
privato, l’eccesso di legittima difesa per grave turbamento psichico in
situazioni di rilevante pericolo).
Entrando nel merito delle direttive, l’art. 15 indica
le singole cause di giustificazione. Per quanto riguarda l’esercizio del
diritto, si è ritenuto di confermare la previsione generale contenuta nel
vigente codice penale. II relazione all’adempimento del dovere, si è inteso
riaffermare il principio secondo cui il dovere con efficacia scriminante può
trovare fonte in una norma giuridica,
ovvero in un ordine legittimo della pubblica autorità.
Viene inoltre espressamente ricondotta nell’ambito
delle scusanti, e sottoposta ad una specifica regolamentazione di portata
sensibilmente restrittiva, la fattispecie dell’esecuzione dell’ordine
illegittimo vincolante; viene qualificata come ipotesi speciale di adempimento
del dovere - anche al fine di sottolineare la prevalenza del potere di
coercizione statuale nelle situazioni di conflitto tra cittadini e autorità –
la fattispecie dell’uso legittimo delle armi che era stata configurata come
autonoma causa di giustificazione. Si è ritenuto che l’attuale impostazione
meritasse di essere sottoposta ad una profonda revisione, per allineare la disciplina
della materia ai princìpi che caratterizzano l’ordinamento democratico. In tale
ottica, si è ritenuta ingiustificata la configurazione di una autonoma
scriminante dell’uso legittimo delle armi (che, peraltro, non è riscontrabile
in altre legislazioni europee) e si è inserita la relativa regolamentazione nel
contesto di quella, più generale, riguardante l’adempimento del dovere,
enucleando – in conformità del resto con l’interpretazione giurisprudenziale
maggioritaria - due requisiti che condizionano la legittimità dell’impiego dei
mezzi di coazione: la necessità del ricorso ai mezzi coercitivi e il rispetto della proporzione tra beni in
conflitto nella situazione concreta (art. 15, lettera b). Si è in tal modo
delineata una disciplina conforme alla giurisprudenza della Corte europea dei
diritti dell'uomo, che ha evidenziato che l’uso delle armi, per non determinare
una violazione dell’art. 2 della Convenzione di Roma, deve risultare
assolutamente necessario, deve quindi riferirsi a situazioni in cui l’impiego
di ogni strumento alternativo non produrrebbe effetti utili, e, comunque, deve
essere strettamente proporzionato agli scopi da raggiungere.
La lettera c) dell’art. 15 indica l’ambito di
applicazione del consenso dell’avente diritto, che resta circoscritto al
consenso in relazione a interessi disponibili, e che, con l’esplicitazione del
suo essenziale requisito di validità, consiste nella capacità del consenziente
“di comprenderne il significato e di valutarne l’effetto” (c.d. “capacità
naturale”: da accertare, quindi, caso per caso): regole peraltro implicite
nella vigente normativa. L’ipotesi dell’affidamento nel consenso altrui,
sottesa alla figura del “consenso presunto” (che ha formato oggetto di
divergenti valutazioni da parte della dottrina e della giurisprudenza), è stata
specificamente regolamentata nell’ambito delle scusanti.
In relazione alla “legittima difesa”, nel ridisegnare
la disciplina di questa causa di giustificazione, si è attribuita una centrale
rilevanza all’accertamento del rapporto di proporzione tra difesa ed offesa,
specificando i parametri del relativo giudizio che – alla luce della più
approfondita elaborazione giurisprudenziale – vengono riferiti ai beni in
conflitto, ai mezzi a disposizione della vittima e alle modalità concrete
dell’aggressione. Inoltre, in linea con l’impostazione seguita dalle precedenti
Commissioni ministeriali, si è esclusa l’applicazione della scriminante con
riferimento al fatto preordinato a scopo offensivo, colmando così una lacuna
presente nella norma vigente, rispetto alla quale la giurisprudenza ha operato
una interpretazione correttiva.
La constatazione della natura composita dell’attuale
figura dello stato di necessità, nella quale convivono una ratio di bilanciamento di interessi (ricollegabile alla categoria
delle scriminanti) ed una ratio di
inesigibilità psicologica (tipica della categoria delle scusanti), ha suggerito
di superare la costruzione unitaria di tale fattispecie, e di fornire confini
più ragionevoli al "soccorso di necessità", finora riconducibile ad
una previsione troppo generalizzata. Ci si è quindi orientati verso una
regolamentazione analoga al modello delineato dai §§ 34 e 35 del Codice Penale
tedesco (recepito largamente dal Codice Penale portoghese e da quello polacco)
che opta per una chiara distinzione tra due figure, differenziate nella
struttura e negli effetti: quella dello “stato di necessità giustificante” e
quella dello “stato di necessità scusante”.
In linea con questa impostazione, si è inquadrato
nell’ambito delle cause di giustificazione lo stato di necessità, limitatamente
all’ipotesi in cui, oltre agli altri tradizionali requisiti, sia ravvisabile
una superiorità dell’interesse personale, proprio od altrui, che l’agente
intende salvare, rispetto a quello sacrificato; tale superiorità deve essere
particolarmente rilevante nei casi in cui l'interesse da salvare riguardi il titolare
di uno specifico dovere giuridico di esporsi al pericolo (come, ad esempio, nel
caso dei vigili del fuoco, ecc.).
La "necessità cogente" - radicata in una
situazione di sostanziale equivalenza tra l'interesse da salvare e quello
offeso - è stata, invece, inserita nell’ambito delle scusanti. Nello “stato di
necessità giustificante”, la prevalenza dell’interesse salvaguardato rispetto a
quello leso non permette di restringere la cerchia dei destinatari del
“soccorso di necessità” ed implica la generale liceità del fatto, precludendo
l’applicazione di sanzioni non solo penali, ma anche amministrative o civili,
eccetto quella dell’equo indennizzo prevista dall’art. 2045 c.c., che
rappresenta il modello tipico di sanzione per fatto lecito.
Non si è ritenuto, allo stato, di disciplinare la
scriminante dell’attività medico-chirurgica. Tale scelta è stata determinata,
dopo ampia discussione, sia da orientamenti profondamente diversi emersi nel
corso della discussione (es. riconducibilità al consenso dell’avente diritto o
esclusione della tipicità del fatto in sé?), sia dalle implicazioni con temi di
bioetica, sui quali già è iniziata la discussione in sede parlamentare, ove da
tempo sono state depositati numeroise proposte di legge. Si è ritenuto quindi di
attendere l’orientamento del Parlamento e di rinviare alla parte speciale la
disciplina del fondamento e dei limiti della liceità dell’attività
medico-chirurgica.
L’art.
16 indica le singole cause soggettive di esclusione della responsabilità. Per
quanto concerne l’esecuzione di un ordine illegittimo vincolante (comma 1,
lettera a), si è prevista, tra le scusanti, la causa di non punibilità
costituita dalla esecuzione dell’ordine illegittimo non sindacabile della
Pubblica Autorità: in tali casi non viene esclusa l’illiceità del fatto, ma vengono
meno i presupposti di un normale processo motivazionale e la libertà di
autodeterminazione dell’agente. In linea con l’ormai consolidato orientamento
interpretativo della dottrina e della giurisprudenza, si è esplicitato che la
punibilità dell’esecutore non può mai venire meno in presenza di un ordine
manifestamente criminoso. Si tratta di un limite riconosciuto non solo dalla
normativa interna (v. l’art.
Dalla fattispecie dello “stato di necessità
giustificante” è stata distinta quella dello “stato di necessità scusante” che
ha recepito il modello delineato dai §§ 34 e 35 del codice penale tedesco.
L’operatività della causa soggettiva di esclusione della responsabilità attiene
alle ipotesi in cui l'interesse da salvare presenti una sostanziale equivalenza
rispetto a quello offeso. La scusante, dovendo correlarsi alla inesigibilità
psicologica di una condotta diversa, presuppone una rigorosa selezione e dei
requisiti del pericolo, dei beni tutelati e dei beneficiari del soccorso di
necessità. La sfera di applicazione della “necessità cogente”, infatti, resta
circoscritta a specifici beni giuridici di particolare rilevanza (vita,
integrità fisica, libertà personale o sessuale), di cui siano titolari lo
stesso agente, ovvero le persone a lui legate da speciali vincoli affettivi. Si
richiede, inoltre, che il pericolo non sia altrimenti evitabile né
volontariamente causato, e – in rapporto ai beni giuridici diversi dalla vita -
abbia ad oggetto la verificazione di un danno grave. Il soggetto tenuto ad
esporsi al pericolo in virtù di un particolare dovere giuridico, non potrà mai
fruire della causa soggettiva, qualora agisca per salvare sé medesimo. La
scusante, in ogni caso, non fa venir meno l’illiceità extrapenale del fatto.
Si è prevista – in coerenza con le disposizioni
contenute nelle codificazioni di numerosi Stati europei (segnatamente, il § 33 del codice penale tedesco, l’art. 11 di
quello sloveno, l’art. 33 di quello portoghese, il § 13 di quello danese e
l’art. 25 di quello polacco) – una scusante riferita alle ipotesi in cui
l’eccesso dai limiti della legittima difesa sia dipeso da condizioni
psicologiche tali da escludere la colpevolezza per un fatto che in concreto non
è rimproverabile all’agente. Si tratta, precisamente, dello stato di grave
turbamento psichico, timore o panico, insorto in situazioni oggettive di
pericolo per la vita, l’integrità psico-fisica, la libertà personale o la
libertà sessuale dell’agente e degli altri soggetti aggrediti, sorpresi in
luoghi isolati o chiusi o comunque di minorata difesa (art. 16, lettera c).
Tale previsione recupera le esigenze sostanziali sottese alla disciplina
dettata dai commi secondo e terzo dell’art. 52 c.p., inquadrandole, però, in
una categoria dogmaticamente coerente con l’intero sistema codicistico e con il
quadro costituzionale.
Tra le cause scusanti è stata inserita anche la
fattispecie dell’affidamento nel consenso altrui, individuandone i requisiti
nella verosimile utilità obiettiva del fatto commesso per il titolare
dell’interesse, e nella mancanza di un suo dissenso (tale regolamentazione è
conforme a quella prevista dal progetto Pagliaro e dal Progetto Nordio, i quali
tuttavia avevano optato per la qualificazione dell’ipotesi in questione come
causa di giustificazione). Si tratta di una figura ricollegabile alla categoria
del “consenso presunto”, che ha formato oggetto di un ampio dibattito
dottrinale e giurisprudenziale, in cui è stata prospettata l’incidenza di tale
situazione sul dolo, in alternativa all’estensione analogica dell'operatività
dell'art. 50 c.p.
Si è infine ritenuto che, nell’ambito della categoria
delle cause soggettive di esclusione della responsabilità, possa assumere
rilevanza scusante, nei confronti di chi lo esegue, anche l’ordine impartito
nell’ambito di un rapporto di lavoro di diritto privato. Allo scopo di contemperare
la considerazione della condizione psicologica dell’agente con l’esigenza di
non sottrarre in via generale i poteri privati al controllo giurisdizionale, si
è considerato indispensabile specificare i presupposti cui deve restare
subordinata l’efficacia scusante di tale tipo di ordine e cioè la tenuità del
fatto e delle sue conseguenze (lettera e).
La maggioranza della Commissione - pur prendendo atto
della importanza e della delicatezza del problema e della necessità di
regolamentare le cd. “operazioni di copertura” con una normativa di carattere
generale capace di porre limiti e “paletti” al fine di evitare il proliferare
di “scriminanti”, talvolta ingiustificate o non proporzionate alla tutela dei
diritti e delle garanzie individuali e collettive - ha ritenuto non coerente
con le decisioni prese in tema di “cause di giustificazione”, “codificare”
nella parte generale tale materia. Invero, una legittimazione “codicistica” di
tali attività - che dovrebbe prevedere norme di carattere eccezionale e
limitate nel tempo - avrebbe finito per sortire un effetto opposto a quello
auspicato dai proponenti. Tale orientamento non esclude, evidentemente,
l’eventuale inserimento di norme specifiche nella parte speciale, anche sulla
base del dibattito che, sul tema, si sta svolgendo in ambito parlamentare.
XV. Reato
tentato
Le problematiche che si sono poste nel corso del
dibattito sono state sostanzialmente quella della definizione del tentativo,
del suo ambito di applicazione, della compatibilità tra dolo eventuale e
tentativo e del trattamento
sanzionatorio. Così come era avvenuto nell’ambito delle precedenti Commissioni,
e nel dibattito successivo alla presentazione dei relativi progetti, sono
emersi due orientamenti: uno teso a mantenere la vigente formulazione,
ancorando quindi il tentativo alla idoneità e alla non equivocità degli atti,
seppur accentuandone i profili di materialità; l’altro fondato sul momento
dell’esecuzione.
Nel
primo senso si erano espresse
Al fine di stabilire la soluzione preferibile,
nell’ambito di una concezione oggettiva del tentativo legata alla qualità e al
“valore” degli atti posti in essere (e non alla volontà criminosa dell’agente, come
postulato dalle teorie soggettive), il dibattito si è sviluppato soprattutto
sulle seguenti considerazioni:
1) qualunque enunciato voglia accogliersi, il problema
del tentativo gravita inevitabilmente sulla distinzione tra atti punibili, in
quanto espressivi di una volizione materializzatasi con determinate forme o
modalità, e atti non punibili, in quanto privi di tale consistenza: il che vale
quanto affidarsi alla distinzione fra atti esecutivi e preparatori, la cui
carica significativa allude ai medesimi concetti. Problematica che tende ad
assumere, quindi, una portata nominalistica: il che rende illusorio pensare –
dopo oltre due secoli di sforzi della dottrina penalistica – di potere rinvenire la chiave di volta per
una soluzione definitiva.
2) L’espressione ‘atti idonei e (oggettivamente) univoci’
è ormai entrata nel nostro lessico penalistico come sinonimo del tentativo
punibile, ma non per questo è accreditabile di contenuti maggiormente garantistici
rispetto alla formula incentrata sull’inizio dell’esecuzione. Ove poi voglia
ritenersi che l’interpretazione dottrinale e giurisprudenziale abbia proceduto
a realizzare una eterogenesi dei fini, ribaltando il significato di quella
espressione in modo da mantenerla nel solco di una concezione oggettiva, ciò
può valere solo ad accentuare la valenza nominalistica del problema, ma non
certo a riabilitare il vigente art. 56 c.p.
3) A livello di diritto comparato è indubbiamente
prevalente la formula impostata sul principio di esecuzione: essa, infatti, si
rinviene, da un lato, nei codici francese (art. 121-5), spagnolo (art. 16) e
svizzero (art. 21) e, dall’altro lato, nei codici tedesco (§ 22), austriaco (§
15) e portoghese (art. 22). Posto che non sussistono rilevanti differenze fra
ordinamenti che legano il tentativo all’“inizio dell’esecuzione” e ordinamenti
legati al fatto di “accingersi immediatamente” all’esecuzione della
fattispecie, in una prospettiva di armonizzazione comunitaria deve ritenersi
che ogni definizione del tentativo sia destinata a presentare una struttura
incentrata sul principio di esecuzione, come tale nettamente divergente dal
nostro art. 56 c.p.. Non si può del resto negare che i concetti di univocità e
idoneità degli atti mantengano una notevole vaghezza dei contorni. Quanto
all’univocità, come dimostrato anche dall’evoluzione del pensiero di Carrara e
dalle sue oscillazioni tra una percezione di tale concetto come criterio di
essenza ovvero solo probatorio, essa soffre di una inevitabile proiezione
sull’accadimento concreto e di una altrettanto inevitabile sua valutazione alla
luce delle circostanze contingenti (a meno che, ovviamente, non si ritenga
univoco solo l’atto che immediatamente precede – o, addirittura, nel quale
consiste – la consumazione del reato); onde la sua configurazione oggettiva
vale solo ad escludere rilievo alla confessione dell’agente, ma non può
giungere fino a caratterizzare una qualità oggettiva e immutabile della
condotta nel suo grado di prossimità rispetto all’evento (salvo che, con uno
slittamento semantico, la si renda equivalente alla natura “esecutiva” della
condotta).
4) Anche il concetto di idoneità degli atti rimane ben
distinto dalla idoneità dell’azione nel suo complesso e attiene ad una
adeguatezza, nel senso di potenzialità causale, che può caratterizzare anche
atti rientranti nella fase preparatoria del reato.
Tali considerazioni hanno portato alla formulazione di
una direttiva di delega per cui è
punito, con la riduzione di pena da un terzo a due terzi, la condotta di chi, intenzionalmente
e mediante atti idonei, intraprenda l’esecuzione di un reato, o si accinga ad
intraprenderla con atti che immediatamente la precedono, se l’azione non si
compie o l’evento non si verifica.
Le lettere b) e c) dell’art. 17 prevedono l’esclusione
della punibilità del tentativo nei casi di inesistenza dell’oggetto o allorché l’agente,
volontariamente, desista dall’azione, impedisca l’evento o si adoperi, con atti
idonei, per impedire l’evento, anche se esso non si verifichi per una diversa
causa. In tali casi permane la punibilità per gli atti compiuti se, di per sé, costituiscono
reato.
Per quanto concerne il tentativo impossibile, si è
discusso sull’opportunità o la necessità di una siffatta previsione, e si è
ritenuto non necessaria una specifica indicazione nella direttiva di delega,
anche in considerazione del fatto che è stata approvato una norma generale
sulla non punibilità dei fatti inoffensivi
XVI. Circostanze
del reato
La dottrina è pressoché unanime nel ritenere che il
codice vigente affida al giudice un potere discrezionale eccessivo. Ciò
rappresenta il frutto della rinuncia ad una penetrante revisione del profilo
sanzionatorio, che ha portato all’approvazione di alcune riforme tese a fornire
al giudice strumenti di attenuazione delle pene edittali previste dal codice, proprio
in quanto considerate eccessive (reintroduzione delle attenuanti generiche, allargamento
dei confini dell’art. 69 c.p., facoltatività della recidiva, aumento dei limiti
entro i quali è concedibile la sospensione condizionale della pena).
L’aumento dei poteri discrezionali
del giudice ha costituito, se si considerano i livelli di pena previsti dal
nostro ordinamento penale, una risposta alla “non scelta legislativa” sulla
gerarchia dei valori penalmente tutelabili, sulle sanzioni e sulla loro misura.
Tenuto conto delle indicazioni provenienti dai lavori
delle precedenti Commissioni e da quelle provenienti dalla dottrina, si è
prevista:
a)
una tendenziale diminuzione delle circostanze del reato e la contestuale
indicazione espressa della circostanze medesime;
b)
l’adozione di soluzioni che favoriscano la restaurazione di un regime
applicativo conforme ai postulati del principio di colpevolezza e di
determinatezza della fattispecie circostanziale;
c)
la revisione dell’entità degli aumenti e delle diminuzioni in presenza di circostanze
comuni;
d)
la rivisitazione del sistema vigente di calcolo delle circostanze eterogenee;
e)
un ridimensionamento degli effetti della recidiva, con un aumento di pena obbligatorio
per chi, dopo esser stato condannato per un reato doloso, commetta un altro
reato doloso della stessa indole nei cinque anni successivi: il non commettere
un nuovo reato della stessa indole per cinque anni può, infatti, essere
considerato elemento tale da far presumere il ravvedimento del reo e
l’adeguatezza della condanna già subita.
Le circostanze sono fondate sulla valorizzazione di
aspetti di maggiore o minore disvalore del fatto di reato, in una prospettiva
finalistica orientata ad esigenze di retribuzione e/o di prevenzione generale.
In questo senso, si distinguono dagli indici di commisurazione della pena di
cui all’art 133 c.p., diretti più che altro “a ricostruire la personalità
dell’agente, emergente dal fatto e dalle condotta di vita”, e come tali
funzionali ad assecondare maggiormente gli obiettivi di prevenzione speciale e
rieducazione che caratterizzano la stessa funzione della pena nella fase della
concreta irrogazione giudiziale.
Dopo aver esaminato con particolare attenzione la
proposta di eliminazione delle circostanze, si è mantenuta la loro efficacia
ultraedittale soprattutto per la loro capacità di:
1)
esprimere
una maggiore o minore intensità
dell’offesa rispetto al bene protetto dalla norma incriminatrice;
2)
tutelare beni
diversi da quelli protetti dalla norma incriminatrice in caso di condotte
plurioffensive (es. art.61 n.2; 61 n.9; 625 n.2, 576 n.5 c.p.);
3)
precisare
atteggiamenti psichici o caratteristiche tipiche della personalità
dell’offensore che si riflettono sul grado di colpevolezza e sul disvalore
complessivo della condotta.
Si è ritenuto che – mantenendo
l’obbligatorietà della loro applicazione e collocandole nell’alveo della
commisurazione legale della pena - le circostanze possano svolgere ancora oggi
una importante funzione retributiva e generalpreventiva. Tuttavia, anche in
considerazione dell’orientamento di parte della dottrina favorevole all’eliminazione
delle circostanze – e come punto di equilibrio tra le diverse posizioni (basate
su argomentazioni pregevoli) – si è deciso di ridurne il catalogo e di limitare gli spazi di discrezionalità derivanti sia dall’applicazione
delle circostanze che dall’entità degli aumenti o delle diminuzioni di pena.
Le circostanze incidono sulla commisurazione legale
della pena e non sulla commisurazione giudiziale: si sono eliminate quindi le
circostanze indefinite e si subordinata la previsione di tutte le future
previsioni circostanziali al vincolo della determinatezza: ne è conseguita la
preclusione di aggravanti direttamente e scopertamente in contrasto con l’art
25 comma 2 Cost. (si pensi alle aggravanti speciali espresse con le formule
“nei casi più gravi”, “di particolare gravità”, come ad esempio quelle previste
negli artt. 1 legge n. 400 del 1985 che incrimina l’abusiva riproduzione di
opere cinematografiche o per i reati ministeriali data dalla “eccezionale
gravità” del fatto, prevista dall’art 4
L. Cost. 16 gennaio 1989 n.1). Sono situazioni in contrasto con
l’inviolabilità del diritto di difesa, nelle quali sono già stati notoriamente
ravvisati i margini di una potenziale illegittimità costituzionale dei casi
indefiniti di aggravamento della pena.
Per
quanto concerne le attenuanti generiche, partendo dalla considerazione che la
loro funzione si è sempre risolta nell’estemporaneo surrogato di un’adeguata
riforma dei limiti edittali e del sistema sanzionatorio,
Si è
peraltro cercata, non senza perplessità da parte di non pochi componenti della
Commissione, una soluzione meno drastica, quale quella di prevedere una
specifica norma (correttivo di equità) che permetta al giudice di applicare una
diminuzione fino ad un terzo quando la pena in concreto irrogabile risulti
eccessiva rispetto all’effettivo disvalore del fatto (art. 36). Il correttivo
di equità, a differenza delle circostanze attenuanti generiche, è, nelle
intenzioni della Commissione, uno strumento da utilizzare in casi eccezionali e
particolari quali quelli in cui le conseguenze del reato abbiano già
determinato una “pena naturale” ritenuta più che sufficiente in relazione al
disvalore del fatto: l’esempio di scuola è quello relativo a un omicidio
colposo per violazione del codice della strada in cui la vittima, o le vittime,
sono persone legate da forti legami affettivi al responsabile del reato. E’
questo il motivo per cui, nell’ultima versione di tale direttiva, si è voluto
specificare che la diminuzione di pena possa essere applicata, solo quando la
pena inizialmente prevista sia “palesemente eccessiva” rispetto all’effettivo
disvalore del fatto. E si è voluto specificare, proprio per evitare una
interpretazione estensiva, che, in caso
di applicazione del “correttivo di equità” la decisione debba essere
“analiticamente motivata” proprio per evitare qualsiasi indiscriminata
applicazione di una norma di favore, garantendo, anche attraverso il controllo
di legittimità, che la pena sia effettivamente adeguata al caso concreto. E’ stata anche valutata, nell’ambito della
Commissione, la proposta di prevedere, in casi simili, una specifica causa di
non punibilità, in quanto, in casi del tutto particolari, già può essere sufficiente
la “pena” e la “sofferenza” derivanti dalle conseguenze del reato: un’eventuale
altra sanzione non avrebbe alcuna giustificazione proprio in considerazione
della finalità che la pena deve avere ai sensi dell’art. 27 della Costituzione.
Quanto agli effetti delle circostanze ad effetto ordinario,
si prevede - anche in funzione limitativa dello spettro sanzionatorio su cui si
muove il potere discrezionale del giudice nella commisurazione della pena in
concreto - un criterio più restrittivo dell'attuale: l’aumento o la diminuzione
sarà da un sesto a un quarto della pena che il giudice applicherebbe in assenza
di circostanze. In caso di concorso di due o più circostanze aggravanti, ovvero
due o più circostanze attenuanti, ad effetto ordinario, gli aumenti o le
diminuzioni di pena possono essere complessivamente fino alla metà dei limiti
previsti dalla legge per il reato base. Naturalmente, anche questa soluzione si
inserisce in un sistema sanzionatorio rinnovato e caratterizzato da cornici
edittali più contenute.
Per quanto concerne il giudizio di bilanciamento, non
si poteva non prendere atto del fatto l’attuale sistema porta, in concreto, il
giudice ad escludere dal procedimento di commisurazione della pena
significative parti del fatto di reato. I progetti Nordio e Pagliaro
proponevano l’abolizione del giudizio di bilanciamento, imponendo la
valutazione integrale di tutte le circostanze. Secondo il parere di una
Commissione istituita presso
Dopo una approfondita discussione, nel corso della
quale sono state analizzate varie proposte,
Per quanto concerne la recidiva, vari
ordinamenti hanno collocato in modo diverso tale istituto a seconda che allo
stesso fosse dato una finalità prevalentemente “retributiva”, quale fattore
legato alla colpevolezza del soggetto (grado di maggiore capacità a
delinquere), o una finalità di prevenzione speciale, quale connotato di una
maggiore pericolosità del soggetto riscontrabile nella ostinazione a
delinquere.
Tenuto conto delle incertezze applicative e delle
contraddizioni dell’attuale sistema, è sembrato coerente con i principi
costituzionali, e con le ragioni a fondamento dell’istituto, l’adozione di una
soluzione classico-garantistica. Si è così ritenuto di prevedere una recidiva:
a) obbligatoria (per garantire a tutti i recidivi eguale
trattamento e per rispettare il diritto di difesa attraverso precise garanzie
processuali);
b) specifica (in base alla antica convinzione che
recidivo sia solo chi ricade in un reato della stessa natura, in quanto, solo in
presenza di un nuovo reato omogeneo, si può ritenere che la pena sofferta si è
rivelata insufficiente)
c) temporanea (l’astensione dal delitto per un certo
numero di anni depone a favore della sufficienza della pena).
XVII. Concorso
di reati – concorso formale – reato continuato
Varie erano le prospettive, quanto meno
in via astratta, per disciplinare il concorso di reati: utilizzare il criterio del cumulo materiale, quello del cumulo giuridico,
per il quale alla pluralità di reati si applica la pena del reato più
grave congruamente aumentata, ovvero
quello del cd. “assorbimento” per il quale si applica esclusivamente la pena
per il reato più grave.
Al fine di ricondurre a ragionevolezza la tendenza
alla dilatazione della unificazione dei reati, si è ritenuto di ancorare il
riferimento alla “risoluzione criminosa unitaria” anche, ma non solo,
all’indole, alle modalità esecutive e all’arco temporale dell’esecuzione dei
reati (art. 20 lettera b).
XVIII. Concorso
di persone nel reato
La priorità che si è posta
Per evitare clausole generiche, non sufficientemente
determinate, quale quella dell’attuale art. 110 c.p., si è scelto di
individuare nella tipologia del contributo prestato alla realizzazione del
fatto il criterio generale che conferisce rilevanza alla condotta concorsuale,
specificando che concorre nel reato chi partecipa
alla sua deliberazione, preparazione o esecuzione, ovvero chi, determinando o
istigando altro concorrente o prestando un aiuto obiettivamente diretto alla
realizzazione medesima, apporta un contributo causale alla realizzazione del
fatto (art. 20 lettera a).
La vigente disciplina del concorso di persone lascia
configurare forme di responsabilità oggettiva, equiparando contributi
radicalmente diversi dal punto di vista dell’elemento psicologico, come avviene
nel caso previsto dall’art. 116 c.p. Per questa ragione si è ritenuto di fornire
una risposta anche all’esigenza di adeguare il sistema ai princìpi di
colpevolezza e proporzionalità dell’intervento punitivo. Ne è derivata una
disposizione per cui ciascun concorrente deve rispondere del reato nei limiti e
in proporzione al contributo materiale e psicologico offerto alla realizzazione
del fatto.
Il problema della comunicabilità delle circostanze ai
concorrenti è poi stato positivamente risolto facendo riferimento alla
struttura delle circostanze, singolarmente considerate. Dal punto vista della
valutazione delle cause di giustificazione e delle “esimenti” in senso ampio,
sono note le incertezze interpretative concernenti l’attuale art. 119 c.p.,
alle quali era necessario dare una risposta chiara e soddisfacente. Il criterio
di fondo adottato, che ripercorre quello seguito dai precedenti progetti, deve
cogliersi nella struttura oggettiva o soggettiva delle singole situazioni
considerate.
In linea di principio dovrebbero
reputarsi munite di una struttura oggettiva quelle fattispecie di non punibilità
che maturano indipendentemente da particolari coefficienti psicologici,
risultando perciò anche “oggettivamente” accertabili dal giudice; soggettive
quelle che invece presentino tali coefficienti. In quest’ultimo caso, un
effetto di “comunicazione” ai concorrenti non sembra adeguato, perché
lascerebbe valorizzare, a favore di taluni tra i concorrenti, elementi
squisitamente personali, appartenenti ad altri, ai quali soltanto si collega
l’effetto esonerante previsto dalla legge.
In relazione ai casi di desistenza e recesso - istituti che presuppongono impegnative
opzioni di politica penale, concernenti gli strumenti che è utile mettere in
campo per assicurare la tutela dei beni, prospettando al destinatario della
norma i vantaggi di un ritorno alla legalità – non si è condivisa la soluzione
prevista dal codice vigente, che distingue gli effetti della desistenza e del
recesso, affidando all’interprete il compito di tracciare, in concreto, la
linea di confine (scelta che ha assicurato flessibilità, comportando, tuttavia,
carenze di precisione emerse soprattutto in tema di concorso di persone).
Si è quindi scelto di fissare una regola che chiarisca
i presupposti e gli effetti della desistenza volontaria. Si è così precisato
che non è punibile il concorrente che, volontariamente, neutralizzi gli effetti
della propria condotta ovvero impedisca la consumazione, anche quando questa
non si verifichi per altra causa (art.20, comma 1, lettera m). Per il
concorrente che volontariamente ponga in essere atti idonei a impedire la
consumazione del reato, è prevista una diminuzione di pena qualora il reato si
verifichi. In questi ultimi casi, il concorrente sarà punito per gli atti che
costituiscono un reato diverso da quello inizialmente previsto.
XIV. Imputabilità
Altro problema – che riguarda
soprattutto i casi di ubriachezza e di assunzione di sostanze stupefacenti - è
quello dell’utilizzo massiccio di fictiones
iuris, che costituiscono una deroga espressa alla regola che esige, ai fini
della punibilità, la sussistenza della capacità di intendere e di volere al
momento del fatto.
Il codice Rocco, in un’ottica legata ad esigenze
squisitamente preventive, ha dato vita per tali ipotesi ad un sistema di
attribuzione della responsabilità penale sganciato dall’accertamento effettivo
delle condizioni personali al momento della realizzazione del fatto (artt. 92 e
segg. c. p.). Tale disciplina è difficilmente
armonizzabile con il principio di personalità della responsabilità penale e,
soprattutto, con un diritto penale del fatto. Evidente è, infatti, lo iato tra
fatto e colpevolezza, caratteristico dello schema dell’actio libera in causa, tra norma e realtà sottostante, che
costringe il legislatore al ricorso a finzioni giuridiche, le quali a loro
volta finiscono per collidere irrimediabilmente con il principio di
colpevolezza, dando luogo ad ipotesi di responsabilità oggettiva (occulta o
mascherata), che, in quanto tali, vanno rigorosamente bandite dall’ordinamento
giuridico.
Sulla base di tali considerazioni,
a) abolizione del sistema del doppio
binario, che prevede l’applicazione congiunta di pena e misura di sicurezza;
b) abolizione delle finzioni di imputabilità,
che costituiscono una deroga alla regola che esige, ai fini dell’imputabilità,
la sussistenza della capacità di intendere e di volere al momento del fatto;
c) recepimento, quanto al vizio di mente, dei
princìpi fissati dalle Sezioni Unite penali (sent. 9163, Raso, 25.1.2005), con
il conseguente abbandono di un rigido modello definitorio dell’infermità in
favore di clausole aperte, più idonee ad attribuire (a determinate condizioni)
rilevanza anche ai disturbi della personalità;
d)
previsione, nei casi di incapacità di intendere e di volere, di misure di cura
e/o di controllo, determinate nel massimo e da applicarsi in base alla
necessità della cura;
e) applicazione, nei casi di ridotta
capacità di intendere e di volere, di una pena ridotta da un terzo alla metà finalizzata
al superamento delle condizioni che hanno ridotto la capacità dell’agente.
Nel corso della discussione è stato
ampiamente condiviso il concetto per cui l’imputabilità è la capacità di
colpevolezza e, quindi, è presupposto per la rimproverabilità di un determinato
comportamento: capacità di comprendere il significato del proprio comportamento
illecito non significa, però, coscienza dell’antigiuridicità del fatto,
valutata alla stregua della norma incriminatrice, ma più semplicemente
comprensione del suo significato offensivo, nella sua dimensione fattuale
concreta. Tale considerazione ha portato
Tutto ciò è, del resto, in piena
sintonia anche con la funzione di prevenzione generale della pena: la minaccia
della sanzione può, infatti, avere effetti deterrenti solo in quanto il
soggetto è in grado di comprendere le conseguenze sanzionatorie della propria
condotta. Dal punto di vista della prevenzione speciale, la finalità
rieducativa della pena ha senso solo se rapportata alla possibilità della sua
percezione e presuppone che l’autore del reato abbia manifestato ribellione, o
almeno indifferenza, verso il bene giuridico tutelato e, dunque, che sia stato
consapevole di commettere un fatto penalmente illecito.
L’individuazione del concetto di
infermità mentale rilevante per il diritto penale è stato un tema
particolarmente dibattuto negli ultimi trenta anni. Le oscillazioni
interpretative sono state determinate soprattutto dal difficile rapporto tra
giustizia penale e scienza psichiatrica, insorto quando quest’ultima ha
sottoposto a revisione critica paradigmi in precedenza generalmente condivisi
ed ha aperto al pluralismo interpretativo, con la conseguenza che, ad un
indirizzo medico (a sua volta distinto tra un orientamento organicista ed uno
nosografico), si è venuto a contrapporre quello giuridico, che ha allargato la
nozione di infermità rispetto a quella di malattia psichiatrica.
La giurisprudenza di merito e di legittimità, sino
alla sentenza delle Sezioni Unite penali del 9163/05, aveva registrato continue
oscillazioni interpretative. Con tale decisione,
Per evitare di allargare eccessivamente il campo della
non imputabilità,
In conclusione, occorre prendere atto
che la capacità di intendere e volere al momento del fatto, ai fini del giudizio
sull’imputabilità, va accertata in concreto da parte del perito, il quale dovrà
dunque valutare quanto il disturbo mentale abbia inciso sulle capacità
intellettive e volitive dell’agente ed accertare se il reato commesso sia
espressione del disturbo stesso: il giudice dovrà tradurre tale giudizio
empirico in quello giuridico di colpevolezza, cioè di rimproverabilità o meno
del fatto al suo autore.
Per quanto concerne l’autore del reato riconosciuto
semi-infermo il codice vigente prevede una pena ridotta e una misura di
sicurezza nei casi in cui permanga la
pericolosità sociale dopo che la pena sia stata scontata.
Nel campo della semimputabilità, ancor
di più che per i soggetti non imputabili, si contrappongono due esigenze,
quelle generalpreventive di tutela della collettività e quelle terapeutiche e
riabilitative. Premesso che la mera diminuzione di pena prevista dall’attuale
disciplina codicistica per i casi di semi-imputabilità non è per nulla coerente
con le esigenze terapeutiche del semi-infermo, due sono le soluzioni, tra loro
alternative, che sono valutate dalla Commissione.
a) La prima, che ruota sostanzialmente
attorno a due princìpi cardine: 1) l’esaltazione del contenuto
specialpreventivo dell’istituto della sospensione condizionale della pena. Il beneficio
della sospensione della pena sarà infatti subordinato a un percorso
terapeutico, disposto dal giudice sulla base di un accertamento medico-legale che
abbia valutato positivamente le possibilità di riuscita e di efficacia
dell’intervento più idoneo alla rieducazione ed al reinserimento sociale del
reo; 2) la previsione (per le pene superiori a quelle che possono rientrare
nella sospensione condizionale) della liberazione condizionale con effetto
estintivo della parte residua di pena da scontare, con riferimento a condannati
semi-imputabili - segnatamente soggetti affetti da disturbi della personalità -
che già in carcere si siano sottoposti ad un programma terapeutico e che
abbiano accettato di proseguire detto percorso di recupero anche all’esterno
(come misura di sicurezza, che si andrebbe a sostituire, e non ad aggiungere
come nell’attuale sistema del doppio binario, alla pena), sempre a patto che
sussistano apprezzabili chances di
riuscita del trattamento terapeutico.
b) La seconda soluzione, prevede il
ricorso ad una pena (diminuita da un terzo alla metà) caratterizzata in senso
decisamente specialpreventivo, che si avvicina - quanto a contenuto ed a
modalità di esecuzione - alle misure di sicurezza. I punti salienti sono i
seguenti: determinazione della pena in funzione del superamento delle
condizioni che hanno ridotto la capacità dell’agente, in particolare prevedendo
un trattamento terapeutico o riabilitativo; possibile ricorso all’istituto
della sospensione condizionale della pena, subordinata a un trattamento
terapeutico o riabilitativo (sulla falsariga di quanto previsto dalla normativa
sugli stupefacenti); previsione di accesso a misure alternative qualora non
sussistano esigenze specialpreventive o generalpreventive tali da richiedere
l’applicazione di una diversa misura; previsione della possibilità di estendere
la disciplina dei programmi di trattamento alle ipotesi di condanna per reati
commessi da persona in stato di tossicodipendenza o di alcoolismo abituale o in
grave difetto di socializzazio, indipendentemente dall’incidenza sulla capacità
di intendere e di volere (uno degli aspetti innovativi del progetto Grosso): in
tali casi i programmi di trattamento sono rivolti al superamento della
specifica condizione deficitaria.
A larghissima maggioranza
Partendo dallo scioglimento del nesso
ideologico fra condizione organica e disturbo psicopatologico,
Per i minori di età,
Anche sulla base di tali considerazioni
Passando, quindi, alla proposta delle singole misure, si
prevedono diversi tipi di “risposte sanzionatorie” per i non imputabili, evidentemente
diversificate in considerazione della causa di non imputabilità: 1) quelle di
tipo terapeutico per gli infermi di mente, 2) quelle finalizzate alla
disintossicazione per i tossicodipendenti o per gli alcoolisti, 3) quelle
rieducative per i minori (il sistema sanzionatorio per i minori è stato
delegato ad altra specifica Commissione). Si è escluso con decisione il ricorso
agli ospedali psichiatrici giudiziari, anche in quanto la legge 180/78 ha
abolito i manicomi e gli ospedali psichiatrici giudiziari altro non sono che
manicomi criminali.
Nel corso del dibattito è emersa, in
maniera ancor più pressante, la necessità di riforma delle misure per gli
alcoolisti ed i tossicodipendenti, riconosciuti non imputabili, atteso che allo
stato l’intossicato cronico (da alcool o da sostanze stupefacenti) è sottoposto
alle stesse misure di sicurezza previste per gli infermi di mente: non v’è chi
non veda l’assoluta inadeguatezza dell’O.P.G. per i tossicodipendenti o gli
alcoolisti. Occorre, dunque, prevedere nuovi presidi che salvaguardino le
esigenze di cura del singolo, senza tuttavia pregiudicare quelle di tutela
della collettività.
XX. Persona
offesa dal reato
La doverosa attenzione alle persone
offese dal reato ha permeato tutti i lavori della Commissione.
Nell’approfondimento di ogni istituto – e soprattutto allorché ci si è
confrontati sul sistema sanzionatorio e sulla sospensione condizionale della
pena – l’attenzione si è accentrata su soluzioni che tenessero conto, anche a
livello risarcitorio e riparatorio, delle vittime del reato. Nel progetto si
fa, in più punti, riferimento, diretto o indiretto, alla persona offesa o
danneggiata dal reato.
Si è quindi previsto che il codice debba disciplinare
le modalità di tutela della persona offesa dal reato in conformità con quanto
previsto dalla Decisione Quadro del 15 marzo 2001 (2001/220/GAI) e dalla
Direttiva 2004/80/CE del Consiglio d’Unione Europea del 29 aprile 2004 relativa
all’indennizzo delle vittime del reato. Anche se tali Direttive trattano, in
gran parte, problematiche non di competenza del codice penale,
Del resto la necessità di prevedere norme minime sulla
tutela delle vittime del reato era già stata evidenziata nel Consiglio europeo
di Tampere dell’ottobre 1999, cui era seguita la decisione quadro del marzo
2001, che mira a garantire alle vittime, non solo una difesa efficace ma anche
una piena tutela giuridica dei loro interessi, indipendentemente dallo Stato
dell’Unione Europea in cui si trovino. La direttiva 2004/80, adottata anche a
seguito dell’attentato terroristico di Madrid dell’11 marzo 2004, tende a
garantire un risarcimento adeguato alle vittime di qualsiasi reato intenzionale
violento. Nel codice, quindi, dovranno essere previste norme specifiche
finalizzate ad assicurare un risarcimento equo alle vittime del reato.
XXI. Querela,
istanza e richiesta
Le direttive di delega che trattano il tema della
querela seguono le linee di fondo della
disciplina vigente, pur con alcune innovazioni di rilievo. Quale termine per
proporre la querela, si è mantenuto quello attuale di tre mesi, anche se, nella
parte speciale, si potranno prevedere eccezioni, quale quella oggi prevista dall’art.609
septies in caso di violenza sessuale. Si è ritenuto opportuno precisare, a
livello normativo, che tale termine decorre dal giorno in cui l’offeso sia
venuto a conoscenza della realizzazione del reato e che, nel caso in cui la
persona offesa si trovi in stato di obiettiva soggezione nei confronti
dell’autore del reato, il termine decorra dal momento di cessazione di tale
stato (art. 24 lettera b). In caso di pluralità di persone offese, il termine
decorre, per ciascuno dei soggetti offesi, dal momento in cui il la singola
parte lesa sia venuta a conoscenza del reato: la querela proposta anche da un
solo avente diritto produce tuttavia effetti anche nei confronti degli altri
aventi diritto. Il progetto prevede, altresì, la scindibilità degli effetti
della remissione di querela, nel senso che la remissione potrà essere
effettuata solo nei confronti di taluni dei querelati, eventualmente condizionata
a prestazioni risarcitorie o riparatorie (art. 24 lettera l).
XXII. Prescrizione del reato
L’istituto della prescrizione del reato disciplina la
difficile alternativa tra punire o non punire, quando sia trascorso un lungo
periodo di tempo dal fatto. Nel nostro ordinamento, con particolare riferimento
alla prescrizione del reato, tale alternativa è divenuta problematica a causa
di una strutturale sperequazione tra tempi disponibili per il processo penale e
tempi necessari al processo. Si registra cioè una permanente incongruenza tra
il tempo che la prescrizione del reato lascia a disposizione dell’attività
giurisdizionale e l’estensione cronologica di alcune tipologie di procedimenti
penali, caratterizzati dall’elevato numero di imputati, dalla particolare
composizione del quadro probatorio o dalla complessità degli accertamenti
necessari per il giudizio.
Ne è conseguito che la prescrizione ha di fatto subìto
una trasformazione silente a causa del complessivo mutamento del sistema
penale: da strumento eccezionale, volto a conferire implicitamente una
legittimazione tecnica alla permanenza del potere punitivo statale nel tempo, a
congegno continuativo di deflazione e contenimento dell’ipertrofia penale.
1)
Quella prevista, dal 1995, nel nuovo codice penale spagnolo (art. 132, comma 2
c.p.), che stabilisce che tutta la durata del processo debba essere scorporata
dal computo della prescrizione. Il legislatore iberico ha ritenuto
contraddittorio permettere la prescrivibilità di un reato mentre è in corso un
procedimento per accertare le singole responsabilità. Non si è ritenuto di
aderire a questo orientamento in quanto la lentezza dei nostri procedimenti,
derivanti dalla scarsità di risorse umane e materiali disponibili per la
giustizia penale, addosserebbe il peso della inefficienza del sistema penale
esclusivamente all’imputato, generando un processo tendenzialmente illimitato,
che proseguirebbe anche quando l’intera collettività abbia rimosso l’impatto
del reato. Dal punto di vista normativo si violerebbe inoltre in troppi casi il
dettato dell’art. 111, comma 2 Cost., che sancisce il principio della
ragionevole durata del processo.
2)
Si è poi valutata la proposta di istituire due distinti meccanismi estintivi.
Il primo (prescrizione del reato) opererebbe prima dell’inizio dell’attività
giurisdizionale ed il secondo (prescrizione endo-processuale) regolerebbe la
durata massima del processo, nel caso venisse instaurato. L’esercizio della
prescrizione penale fungerebbe da causa di estinzione della prescrizione del
reato e varrebbe come momento da cui computare la prescrizione dell’azione. Se
il primo regime prescrizionale rimane pressoché invariato rispetto
all’originaria configurazione codicistica, il secondo prevede distinti
intervalli estintivi che valgono per ciascun grado del processo. Non
esisterebbe un tetto massimo della prescrizione ed il limite finale alla durata
del processo si ricaverebbe sommando i termini validi per ciascun grado, che
possono inoltre subire un allungamento in presenza di cause di sospensione, che
però non possono mai dilatare i termini di oltre
3)
Altra proposta esaminata è stata quella contenuta nel disegno di legge 260 del 2001, primo firmatario il sen.
Fassone. Tale disegno di legge delinea, al pari del precedente progetto, una
prescrizione del reato assai simile a quella codicistica precedente alla
riforma ex Cirielli ed una prescrizione del procedimento e prevede un meccanismo di delimitazione temporale
della prescrizione del processo penale. L’autorità giudiziaria avrebbe la
facoltà di rinnovare la prescrizione tramite gli atti di cui all’art. 160 (cui
si aggiungono l’iscrizione nel registro delle notizie di reato e le
impugnazioni), ma tali atti dovrebbero succedersi ad una distanza temporale non
superiore ai due anni l’uno dall’altro. I rilievi che sono stati mossi a tale
proposta si sono incentrati essenzialmente sull’“appiattimento” del termine
biennale per ogni categoria di reato (dai reati bagatellari a quelli di
criminalità organizzata), che sarebbe inoltre identico per tutte le diverse
fasi del processo. È inevitabile, come per il precedente progetto, il contrasto
con il principio della durata ragionevole del processo, anche in quanto il
tempo trascorso durante una delle diverse cause di sospensione della
prescrizione del processo non ha alcun effetto ai fini prescrizionali.
Le riflessioni della Commissione si
sono incentrate soprattutto sul fatto che una razionale riforma di tale
istituto non può non tener conto dei fattori di ineffettività dell’ordinamento
penale e che la scelta tra diverse opzioni non deve essere guidata da una
cornice puramente valoriale: la difesa sociale versus la garanzia del reo. Il piano esclusivamente assiologico è
infatti povero di contenuto informativo per il riformatore alle prese con
concreti problemi di disciplina. Inoltre, a ben interpretare l’esigenza di
difesa della società dal crimine, non si riscontra nessuna implicazione in
ordine alla dilatazione dei termini prescrizionali. In realtà, sia la garanzia
dei diritti di imputati e rei, sia l’effettiva difesa della società
dall’illegalità, puntano al medesimo risultato: l’applicazione della pena in
tempi ragionevoli, comunque quanto più ravvicinati nel tempo alla commissione
del reato. Non si può infatti ritenere efficace un sistema che infligga la pena
a così grande distanza di tempo dai fatti, tanto da non essere più ricordato
dalla collettività: una prescrizione “dilatata” non è strumentale ad un diritto
penale effettivo, ma rappresenta la ratifica di un diritto penale inefficace ed
incerto.
La prescrizione non può essere delineata a prescindere
dal processo penale. Ce lo dice in primo luogo un carattere della disciplina
comunemente predisposta dai sistemi penali: il decorso della prescrizione
necessita solo di un fatto storico potenzialmente qualificabile come reato, a
prescindere dalla concreta esistenza di un fatto tipico e antigiuridico
rimproverabile ad una persona fisica. In altro modo, la prescrizione inizia a
decorrere dal momento in cui si verifica un “reato in senso processuale”, una
situazione suscettibile di verifica processuale e non dal momento eventuale e
successivo in cui di quel reato si rinvenga un autore.
A maggioranza,
1) distinta regolamentazione di due regimi
prescrizionali: uno precedente all’azione penale; l’altro che interviene quando
l’interesse pubblico alla punizione si sia manifestato tramite l’esercizio
dell’azione penale;
2) previsione di termini del primo tipo di
meccanismo prescrizionale proporzionati in funzione della gravità del reato,
valutato sulla base della pena edittale, tenendo conto delle eterogenee
comminatorie edittali presenti nel nostro ordinamento. A maggioranza si è ritenuto
di definire tali termini per classi (numericamente ridotte) di fattispecie,
come previsto dal codice penale prima
dell’attuale normativa, e non sulla base della pena edittale massima prevista
per il singolo reato.
3) dopo l’esercizio dell’azione penale, la
prescrizione deve essere delineata sulla
base dei tempi di accertamento richiesti dalla tipologia del processo (definiti
tramite l’individuazione di limiti temporali ben definiti).
4) indicazioni di cause di sospensione della
prescrizione cd. processuale, tra cui lo svolgimento di perizie di particolare
complessità, rogatorie internazionali, impedimento dell’imputato o del
difensore, dichiarazione di ricusazione ecc.
Ne consegue che la prescrizione non debba più rientrare
tra le cause di estinzione del reato ma tra le cause di procedibilità (ovvero,
come pare orientata
I Commissari dissenzienti, in alternativa, hanno
proposto una disciplina della prescrizione sostanzialmente ricalcata sul
modello degli artt. 157 ss. c.p. previgenti alla legge ex Cirielli, ovvero una
disciplina che si basa sull’entità della pena edittale che viene aumentata in
caso di atti interruttivi e/o sospensivi. Non sono neppure mancate proposte,
anch’esse respinte dalla maggioranza, di considerare unitariamente i tempi del
processo ai fini di un computo globale del termine prescrizionale.
Oltra a quanto stabilito dall’art. 44 del progetto,
era stata approvata la seguente
direttiva, che, data la delicatezza del tema, e considerata la ampia
discussione che vi è stata in Commissione, si ritiene di dover riportare
integralmente:
“ove esercitata l’azione penale entro i
termini indicati, il reato è prescritto qualora
decorrano i seguenti ulteriori termini:
a) cinque anni per la pronuncia del
dispositivo che conclude il primo grado di giudizio;
b)
due anni per la pronuncia del dispositivo che conclude ogni eventuale
successivo grado di giudizio.
Tali termini sono aumentali in misura
non inferiore a un terzo quando si procede in ordine a taluno dei reati di cui
all’articolo 407, comma 2, lettera a), del codice di procedura penale; il corso
della prescrizione si sospende in tutti i casi in cui la sospensione del
processo sia imposta da una particolare disposizione di legge, nonché: a) nel
caso di perizie il cui espletamento sia di particolare complessità e comporti
la sospensione necessaria del processo per un periodo, comunque, non superiore
a sei mesi;b) nei casi di rogatorie internazionali quando sia assolutamente
necessario sospendere il processo;c) durante il tempo intercorrente tra il
giorno della lettura del dispositivo e la scadenza dei termini per l’impugnazione;d)
durante il tempo in cui il dibattimento è sospeso o rinviato per impedimento
dell’imputato o del suo difensore, ovvero su richiesta dell’imputato o del suo
difensore ovvero a causa dell’assenza, dell’allontanamento o mancata
partecipazione del difensore che renda privo di assistenza l’imputato, ovvero
per effetto della dichiarazione di ricusazione del giudice o della richiesta di
rimessione del processo. La prescrizione riprende il suo corso dal giorno in
cui è cessata la causa della sospensione”
Siccome le problematiche relative alla prescrizione
sono stata affrontate anche dalla Commissione ministeriale per la riforma del
codice di procedura penale, e dovendosi necessariamente procedere ad un
coordinamento tra i testi predisposti dalle due Commissioni, peraltro di tenore
simile, si è ritenuto di mantenere nel codice penale la prescrizione del reato
e di demandare al codice di rito la “prescrizione del processo per decorso dei
termini” (direttiva 1.8 della commissione presieduta dal prof. Giuseppe
Riccio).
XXIII. Le pene
Il sistema sanzionatorio si caratterizza una ampia diversificazione
delle pene rispetto a quanto previsto dal codice vigente e per il superamento
della distinzione tra pene principali e pene accessorie.
Le ragioni che
hanno portato a tale scelta sono state molteplici e attengono principalmente ai
seguenti nodi problematici:
a)
l’inefficienza del diritto penale in molti settori, soprattutto quelli non
attinenti alla criminalità comune, dipende oggi essenzialmente dall’indisponibilità
di strumenti sanzionatori in grado di incidere efficacemente in senso
preventivo sugli interessi in gioco. La previsione sistematica della pena
edittale carceraria si è rilevata per molti versi ineffettiva e inefficace,
anche in presenza di condotte particolarmente gravi: da una indagine dell’
EU.R.E.S. (Ricerche Economiche e Sociali) è emerso che dal 1995 al 2005 (prima
quindi del provvedimento di indulto dell’agosto 2006) sono stati inflitti, e
non scontati, oltre 850.000 anni di detenzione. Il rapporto tra anni scontati e
anni di reclusione comminati da sentenze passate in giudicato dimostra che l’indice
di certezza della pena, vale a dire gli anni effettivamente trascorsi in
carcere rispetto a quelli inflitti, ha toccato nel 2001 la punta più bassa
(38,4%) e nel 1995 la punta più alta (44,9%).
Una gamma diversificata delle pene consente di evitare
modalità sanzionatorie che finiscono con l’essere troppo spesso solo simboliche
e di fornire strumenti, di prevenzione e di punizione, particolarmente efficaci
anche in presenza di reati economico-finanziari, ambientali, colposi, ecc;
b)
le pene non detentive consentono di valorizzare l’esigenza che siano annullati
i vantaggi derivanti dal reato: esigenza essenziale ai fini preventivi e, tuttavia,
fino a oggi non adeguatamente considerata. Sanzioni diverse dal carcere sono altresì
particolarmente idonee a fungere da disincentivo rispetto al perseguimento
antigiuridico di un interesse economico, nell’ambito degli illeciti commessi
per finalità di lucro;
c)
la reclusione ha di fatto scarsa efficienza specialpreventiva, come si evince dagli
elevati tassi di recidiva nei casi di esecuzione della pena carceraria non
mediata da strumenti alternativi di reinserimento sociale: il tasso di recidiva
dopo modalità sanzionatorie diverse da quella carceraria risultano di gran
lunga inferiori (circa il 15%, rispetto ad oltre il 70% per chi sconta la pena
in carcere). I costi economici complessivi dell’applicazione di sanzioni non
aventi carattere detentivo risultano, inoltre, molto meno elevati rispetto a
quelli del ricorso al carcere;
d)
l’introduzione di pene non detentive costituisce una modalità attuativa
sostanziale dell’orientamento previsto dall’art. 27, comma 3 della
Costituzione, per cui le pene sono chiamate a favorire l’integrazione sociale
del condannato e non a realizzare la sua espulsione dal contesto della società:
l’orientamento all’integrazione e alla responsabilizzazione non deriva da esigenze
umanitarie, ma è un vero e proprio elemento strategico finalizzato alla
prevenzione. Nulla come l’avvenuto “recupero” del condannato rafforza
l’autorevolezza dei precetti penali e, dunque, la stessa prevenzione generale.
Sulla base di queste premesse – e dell’oggettivo
fallimento, sotto ogni profilo, dell’attuale sistema penale –
Queste le tipologie sanzionatorie proposte:
-
la pena pecuniaria “per tassi” che consente di rendere finalmente disponibile,
ove ne sia adeguatamente garantita l’effettività esecutiva, uno strumento tale
da poter essere modulato, in termini non desocializzanti, sulla base delle effettive
condizioni economiche del condannato e che, non a caso, in molti ordinamenti
europei costituisce la sanzione penale più applicata. La possibilità, che non
si è ritenuto di cancellare, di comminare sanzioni pecuniarie per entità
determinata consente forme di intervento mirato al valore di determinate
operazioni economiche illegali, specie nei casi in cui non siano facilmente
eseguibili provvedimenti di confisca;
-
le pene interdittive che consentono un intervento molto mirato – senza
desocializzazione detentiva e con attenzione a non privare il condannato dei
presupposti necessari per la garanzia dei suoi diritti fondamentali nonché per
l’assolvimento dei suoi doveri sociali e familiari – sui presupposti specifici
di una data condotta criminosa: tale modalità d’intervento si è dimostrata, là
dove è stata applicata, particolarmente efficace per assicurare, in settori
particolarmente delicati (quale quello amministrativo, commerciale ecc.), le
esigenze fondamentali della prevenzione;
- le
pene prescrittive che rappresentano un importante strumento per delineare
percorsi comportamentali conformi alle esigenze di salvaguardia dei beni
fondamentali e per favorire condotte riparative o conciliative (anche
attraverso il lavoro in favore della comunità, la messa alla prova o procedure
di mediazione). Tali pene, anche in
quanto non ne è prevista la sospensione condizionale, possono essere uno
strumento fondamentale per evitare quele senso di impunità, conseguente alla
non effettività della pena, che è spesso il presupposto della recidiva;
- la
pena detentiva, che dovrebbe anche consentire – limitando in maniera stabile la
popolazione penitenziaria – interventi tesi alla risocializzazione più
credibili e mirati rispetto alla situazione attuale, con un attento
monitoraggio della fase del reinserimento sociale, e con conseguente rilevante
diminuzione della recidiva;
-
la detenzione “di massima durata”, non più coincidente con l’ergastolo ma tale
da assicurare una durata assai consistente della detenzione,e in grado di garantisce
dal pericolo della reiterazione di gravi reati e dalla perpetuazione dei legami
di appartenenza a organizzazioni criminali, consentendo nel medesimo tempo un
pur limitato adeguamento della pena alle caratteristiche del caso concreto, in
conformità al principio costituzionale di colpevolezza. Le modalità previste
per tale pena tendono ad assicurare un più facile realizzarsi dello scopo
rieducativo richiesto dalla Costituzione, creando le condizioni affinchè la
cessazione della pena – la cui possibilità è stata ritenuta necessaria dalla
Corte Costituzionale anche in rapporto all’ergastolo – abbia comunque data
certa, seppur secondo termini temporali molto rigorosi che non implicano un
affievolimento dell’intervento sanzionatorio rispetto alla situazione attuale.
Le esigenze di tutela della società sono del resto rafforzate attraverso misure
di controllo specificamente previste per il condannato a pena di massima durata
che torni in libertà. La previsione di una verifica periodica nel corso dell’esecuzione
della pena, che subordina, anche in questo caso, a una specifica serie di
giudizi positivi l’accesso nel lungo periodo a misure alternative, rappresenta
un significativo rafforzamento del controllo sul percorso effettuato in carcere
dal condannato e un importante fattore di stimolo, per il medesimo, alla
revisione delle scelte comportamentali, nell’interesse stesso della prevenzione
generale.
Il confronto su tale tema,
particolarmente delicato, è iniziato dalle problematiche relative alla
costituzionalità o meno della pena perpetua, soprattutto, ma non solo, in
relazione all’art. 27 della Costituzione, secondo cui "le pene non possono
consistere in trattamenti contrari al senso di umanità". Una pena “eliminativa”, che sopprime per
sempre la libertà di una persona escludendola dalla convivenza civile, non può
non essere considerata una pena disumana, anche in quanto finisce col negare la
dignità individuale. Proprio per questo, ad esempio, in Francia, mentre fu
mantenuta dal codice penale del 28.11.1791 la pena di morte, fu escluso
l'ergastolo, giudicato più intollerabile, e si previde, come sanzione più
grave dopo la morte, la pena di ventiquattro anni “di ferri”.
L'ergastolo pone non pochi dubbi di
legittimità costituzionale anche in relazione al principio, parimenti
stabilito dall'art. 27 della Costituzione, secondo cui le pene "devono
tendere alla rieducazione del condannato". E' infatti evidente che, se
per "rieducazione" s'intende, secondo l'opinione unanime della
dottrina, la risocializzazione e il reinserimento sociale del condannato,
l'ergastolo è logicamente incompatibile con la finalità rieducativa della
pena.
Né basta ad escludere questa incompatibilità
la circostanza che la pena dell'ergastolo, come ha affermato
Il
superamento dell'ergastolo è anche un atto di civiltà imposto da ragioni di
carattere etico‑politico. L'ergastolo, infatti, non è assimilabile alla reclusione,
ma è una pena qualitativamente diversa, assai più simile alla pena di morte.
Al pari di questa, è una pena capitale, nel senso della capitis deminutio del
diritto romano, in quanto è una privazione della vita futura, e non solo
della libertà e in quanto è una pena eliminativa che, con l'interdizione
legale, esclude per sempre una persona dal consorzio umano. Equivale,
secondo la definizione che ne dette l'art.18 del codice francese del 1810,
alla "morte civile". D’altra parte, molti Paesi europei non prevedono
la pena dell’ergastolo (Norvegia, Portogallo, Spagna, Slovenia, Croazia,
Bosnia-Erzegovina) e, in altri Stati, il carcere a vita, pur previsto in
astratto, non viene applicato in concreto (Olanda, Polonia, Albania, Serbia,
Ungheria).
Sotto questo aspetto l'ergastolo è in
contraddizione con tutta la migliore tradizione giuridica italiana. L'Italia,
è bene ricordare, può vantare, in materia di pene, una lunga serie di primati
civili. Non è solo il paese di Cesare Beccaria, che per primo contestò la
legittimità della pena di morte. E' anche il primo paese del mondo che abolì,
nel codice toscano del 1786, la pena capitale e nuovamente la soppresse in
tutto il territorio nazionale, con il codice Zanardelli del 1789, mentre
ancora restava in vigore nel resto dell'Europa. Ed è il Paese che più di
tutti si è battuto, si batte, per l'eliminazione o quanto meno la sospensione
della pena capitale. Sarebbe far torto a questa tradizione se quel primato
civile si capovolgesse nel suo contrario: l'Italia, infatti, è rimasta tra i non
molti Paesi dell'Unione europea nei quali la morte civile dell'ergastolo è
ancora in vigore.
Né possono valere, a sostegno dell'ergastolo,
gli argomenti di una sua maggiore efficacia deterrente. La proposta formulata
dalla Commisssione - 32 anni di “detenzione di massima durata”, elevabili fino
a
Già nel 1764, del resto, Cesare Beccaria definiva
l’ergastolo come “pena di schiavitù perpetua” e come pena più dolorosa e
crudele della pena di morte in quanto non concentrata in un momento, ma estesa a tutta
XXIV. Commisurazione
della pena
Anche su questo tema si è tenuto conto delle soluzioni
adottate dalle precedenti Commissioni e da quanto previsto in alcuni
ordinamenti stranieri (es. Portogallo, Germania). L’approfondimento che ne è
seguito ha confermato la difficoltà, per quanto concerne la commisurazione
della pena, di realizzare forme di discrezionalità vincolata e, soprattutto,
orientata a criteri finalistici indicati dal legislatore. E’ quindi parsa
opportuna la previsione, analoga a quella del progetto Nordio, secondo cui “il
giudice motiva analiticamente la determinazione della pena”. Si è deciso inoltre di prevedere, oltre ai
consueti indici fattuali, alcuni criteri finalistici della pena, desumibili
dalle norme costituzionali (artt. 25 e 27 Cost.).
Il riferimento
alla colpevolezza è parso doveroso, rivestendo un ruolo centrale anche in tema
di commisurazione della pena, anche alla luce della interpretazione della
Consulta (sent.364/1988), che lo fanno assurgere a principio guida del diritto
penale moderno. Si è così stabilito – al fine di evitare pene eccedenti la
misura della colpevolezza (ad esempio per esigenze di prevenzione generale e/o
di risposta “esemplare” all’allarme sociale suscitato dal reato) – che la pena,
oltre a dover essere determinata entro il limite della proporzione con il fatto
commesso, deve avere in concreto finalità di prevenzione speciale, con
particolare riferimento al reinserimento sociale del condannato e con
esclusione, quindi, di ragioni di esemplarità punitiva.
XXV. Oblazione
Proprio per questo si è ritenuto di condizionare
l’ammissione all’oblazione – possibile per i reati puniti con pena pecuniaria o
con pena pecuniaria alternativa a pena di specie diversa – alla non permanenza
di conseguenze dannose o pericolose del reato eliminabili da parte dell’agente.
Per collegare l’istituto al disvalore del fatto si è lasciata al giudice la
possibilità di non accogliere la domanda di oblazione in rapporto alla gravità
del fatto: la genericità del dettato normativo potrebbe creare delle
perplessità in relazione all’eccessiva discrezionalità lasciata al giudicante,
ma ragioni di politica criminale hanno determinato
XXVI. Messa
alla prova
Tale istituto, peraltro anticipato da un disegno di
legge governativo in materia di accelerazione del processo, e già approvato
all’unanimità nella scorsa legislatura in sede legislativa dalla Commissione
Giustizia della Camera, oltre a consentire di pervenire all’estinzione del
reato (laddove la rinnovata sospensione condizionale della pena potrà solo
estinguere quest’ultima), avrà sicuramente effetti positivi anche in termini di
deflazione del carico giudiziario (art. 43).
Poiché tale istituto si configura come una probation giudiziale con sospensione del
procedimento, la sua concessione non poteva non essere ancorata alla tipologia
di pena e/o a parametri edittali: in particolare la messa alla prova sarà
possibile solo in presenza di reati puniti con pena diversa da quella detentiva
o con pena detentiva non superiore nel massimo a tre anni. In caso di esito
positivo della prova, il reato si estingue.
Si è previsto, onde evitare la eccessiva cumulabilità
dei benefici, che - se la sospensione del processo con messa alla prova sia
stata concessa per reato punito con pena detentiva - una eventuale successiva
sospensione condizionale della pena non potrà mai essere concessa più di una
volta.
XXVII. Sospensione condizionale e altre cause di
estinzione della pena
I casi di estinzione della pena previsti dal progetto sono:
la morte del condannato, l’indulto, la grazia, la sospensione condizionale
della pena non revocata, la sospensione condizionata di pena residua, le
prescrizione della pena.
Per quanto concerne l’indulto (art.46), si è inteso
risolvere, disciplinandole espressamente, alcune questioni sorte in mancanza di
indicazioni legislative. Si è così precisato che, in caso di concorso di reati,
l’indulto si applichi sulla pena cumulata ai sensi delle disposizioni sul
concorso di reati e, in caso di continuazione e in presenza di reati ostativi
all’indulto, si applichi alla pena
inflitta per i reati non ostativi.
Nel dibattito sulla sospensione condizionale della
pena,
Non vi è dubbio però, come è stato autorevolmente
evidenziato, che “oggi la sospensione condizionale si trova al centro di una
colossale contraddizione. Con i suoi tassi di applicazione che si attestano
alla metà delle condanne inflitte, essa contribuisce ad assicurare la sopravvivenza
del sistema complessivo. Unanime è tuttavia la convinzione nel ritenere che la
sospensione, e la sua eccessiva concessione nella prassi giusiziaria, ha avuto
un ruolo determinante nella ineffettività del sistema penale.
La previsione di sanzioni diverse da quella carceraria
e da quella pecuniaria, e una lettura costituzionalmente orientata della pena,
ha reso necessaria una preliminare verifica del ruolo da attribuire alla
sospensione condizionale della pena nel rinnovato codice penale: se debba
restare un istituto ancorato alla “non necessità” dell’espiazione della pena,
ovvero se allo stesso si intenda attribuire un ruolo effettivo e centrale nel
processo di reinserimento sociale del condannato.
Le soluzioni possibili, tecnicamente, erano due:
prevedere, come in Francia, due diversi istituti (sospensione condizionale
“semplice” e con messa alla prova), ovvero prevedere un unico istituto,
polifunzionale, in cui la sospensione possa, o debba, a secondo dei casi,
accompagnarsi alla messa alla prova.
L’impostazione seguita stabilisce, sul modello di
alcuni Paesi europei (Spagna e Norvegia, ad esempio), che il giudice, nel
mettere alla prova il condannato, possa impartire prescrizioni comportamentali
finalizzate al reinserimento sociale. Le prescrizioni verrebbero
sostanzialmente ad assumere - a differenza delle attuali sanzioni sostitutive
delle pene detentive brevi, concesse senza alcun tipo di prescrizione - una
valenza “sostitutiva” della pena inflitta.
L’affidamento al servizio sociale (o la messa in
prova) dovrà avere un contenuto individualizzato: a tal fine si è prevista la
possibilità che il giudice, dopo la lettura del dispositivo che sancisce la
colpevolezza dell’imputato, possa, se lo ritiene necessario, ad altra udienza, la
decisione sulla sospensione condizionale della pena, e sulle prescrizioni, demandando
ad enti appositi la redazione di una dettagliata relazione sulle condizioni di
vita dello stesso, necessaria al fine della decisione, Con tale previsione non
si è inteso, anche in considerazione della impraticabilità concreta di un
simile sistema, aprire la strada ad una indiscriminata “bifasicità” del
processo, sul modello statunitense (c.d. bifurcated
system, in cui al processo sulla colpevolezza – trial – segue il c.d. sentencing
process, in cui l’attenzione si focalizza sulla “personalità” del
condannato), ma semplicemente dare il tempo e la possibilità al giudice di
calibrare le sue scelte onde consentire una valutazione sulla sanzione più adeguata
al caso concreto e alla personalità dell’imputato.
Nel corso dei lavori,
La sospensione della pena potrà essere concessa in
presenza di sentenze di condanna non superiori a due anni per le pene
detentive. La Commissione, dopo aver deciso di non prevedere la sospensione
condizionale per le pene pecuniarie e per quelle prescrittive, si è a lungo
interrogata sulla scelta più efficace ed equa in relazione alle pene
interdittive. Data la diversità di opinioni, supportate da argomenti meritevoli
di particolare attenzione, si è preferito, in sede di delega, di prevedere una
mera possibilità di prevedere la sospensione, per una sola volta, delle pene
interdittive temporanee, demandando al legislatore delegante un approfondimento
ulteriore, anche in considerazione del fatto che le pene interdittive possono, in casi non rari, risultare
particolarmente desocializzanti.
Quanto alle pene pecuniarie, a fronte della critica
secondo cui la loro non sospendibilità mal si concilierebbe col principio di
ragionevolezza (in quanto sarebbe possibile la sospensione della pena più grave,
quella detentiva, e non la sospensione di quelle meno gravi, pecuniarie o
prescrittive), si è rilevato che la differente funzione delle diverse pene in
termini di politica criminale, che si esprime nella previsione edittale,
determini la possibilità di un trattamento differenziato; per la pena pecuniaria, inoltre, non sussiste
quella necessità di considerare la stessa quale extrema ratio che invece dovrebbe caratterizzare la pena detentiva.
Si sono poi previsti limiti di pena più elevati per la
sospensione della pena sulla base dell’età e delle condizioni personali del
condannato, mutuando sostanzialmente la disciplina da quella attuale.
Come nel codice vigente la concessione del beneficio è
subordinata ad una prognosi favorevole in ordine alla futura astensione dal commettere
ulteriori reati e si è stabilito che la sospensione condizionale della pena
detentiva non possa essere concessa più di una volta, anche se, in
considerazione dell’orientamento della Corte Costituzionale sul punto, si è
mantenuta la possibilità di sospensione della pena anche a chi abbia riportato
una precedente condanna sospesa, qualora la pena da infliggere, cumulata con la
precedente, non superi i limiti di concedibilità (salvo, come si è detto, il
caso in cui sia già stata concessa una sospensione del processo con messa alla
prova per un reato punito con pena detentiva). La sospensione condizionale
della pena deve essere subordinata al risarcimento del danno in favore della
persona offesa, ove ciò sia oggettivamente e soggettivamente possibile, ovvero
all'eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato, secondo le
modalità e i termini indicati dal giudice nella sentenza di condanna.
La sospensione condizionale della
pena sarà revocata se, nei termini stabiliti dalla legge o dal giudice, il
condannato commette un nuovo reato, ovvero viola in modo grave o reiterato gli
obblighi e le prescrizioni imposte, salvo che in tal caso il giudice non
ritenga sufficiente prolungare la prova o modificare le prescrizioni. In caso
di revoca della sospensione condizionale con messa alla prova, dalla pena da
eseguire si deve detrarre un periodo corrispondente a quello di prova eseguita,
secondo criteri di ragguaglio da stabilirsi.
In sostituzione dell’attuale liberazione condizionale,
si è prevista la possibilità di concedere una sospensione “condizionata di pena
residua”, sul modello francese del parole,
che andrebbe ad integrare, sul versante penitenziario, l’istituto della
probation giudiziale (art.50).
Le pene prescrittive e interdittive si estinguono in
cinque anni, la pena detentiva ordinaria si estingue con il decorso di un tempo
pari al doppio della pena inflitta e, in ogni caso, non superiore a 25 anni e
non inferiore a 5 anni (art. 51, lettere b e c). Per le pene di massima durata
non è prevista la prescrizione (art. 52,
lettera d). Anche al fine di evitare dubbi interpretativi, si è precisato che
il tempo di estinzione delle pene prescrittive, interdittive e detentive sia
computato dal giorno in cui diventano eseguibili (art. 51, lettera f).
In relazione alla riabilitazione, vi è stata unanimità
sul mantenimento di tale istituto che ha dimostrato la sua funzione positiva in
relazione al recupero del reo. La riabilitazione, che estingue gli effetti
penali della condanna, può essere concessa decorsi tre anni dal giorno in cui la pena principale
sia stata eseguita (o sia altrimenti estinta) e non sussistano condotte
illecite di rilevanza tale da escludere l’avvenuto reinserimento sociale. Non
potrà, invece, essere concessa nei casi in cui non siano state eliminate le
conseguenze dannose del reato e non vi sia stato adempimento delle obbligazioni
civile derivanti dal reato, salvo che il condannato dimostri di trovarsi nell’impossibilità
di adempiere. La riabilitazione sarà revocata se chi ne ha beneficiato
commette, nei tre anni successivi, un reato doloso.
XXVIII. Sanzioni civili
Per quanto concerne le sanzioni civili ci si è sostanzialmente
riportati al libro VII del codice vigente, con le seguenti modifiche (Art. 54).
Si è però ritenuto di prevedere espressamente che il danno non patrimoniale
venga determinato dal giudice in via equitativa tenendo conto della sofferenza
cagionata dal reato e della natura dolosa o colposa di questo e che ogni reato,
che abbia cagionato un danno patrimoniale o non patrimoniale, obblighi il
colpevole al risarcimento, anche nel caso in cui si accerti la sussistenza
della lesione di interessi legittimi (si sancisce quindi esplicitamente, anche
in sede penale, la risarcibilità degli interessi legittimi). Ulteriore
innovazione è rappresentata dalla previsione espressa della trasmissibilità iure proprio ai prossimi congiunti ed ai
conviventi more uxorio del diritto al
risarcimento del danno. Si è ritenuto necessario, inoltre, disciplinare
analiticamente l’ipotesi in cui il risarcimento e le restituzioni possano
essere richieste da persone giuridiche, enti o associazioni, limitando la
legittimazione di tali soggetti ai soli casi in cui abbiano ricevuto un danno
diretto, economicamente valutabile, ed attinente alle funzioni o scopi da loro
perseguiti.
Altra rilevante innovazione è quella prevista dalla
lettera e) per cui il giudice potrà, in presenza di reati di particolare natura
o gravità - se non vi è stata costituzione di parte civile e la persona offesa ha
espressamente rinunciato all’azione civile o non è stata identificata - disporre
il risarcimento e le restituzioni, quantificando, almeno in misura parziale, la
somma dovuta, che potrà essere accantonata per un certo periodo di tempo in un
fondo di solidarietà a favore delle vittime del reato, salva la definitiva
acquisizione da parte del fondo medesimo. La finalità di tale norma è, tra
l’altro, quella di rendere possibile, con la sentenza di condanna, un obbligo
risarcitorio anche quando, come ad esempio nei casi di criminalità mafiosa, la
non costituzione di parte civile deriva non da una libera scelta della parte
offesa ma da una situazione “ambientale” e/o da minacce o atti di violenza. Il
giudice, con la sentenza di condanna, può altresì disporre l’eliminazione delle
conseguenze dannose o pericolose del reato non riparabili mediante restituzione
o risarcimento, sempre che ciò sia oggettivamente e soggettivamente possibile (art.
54, lettera f).
XXIX.
Confisca
Inizialmente
L’istituto della confisca, infatti, ha attraversato,
negli ultimi decenni, una fase di intenso dinamismo evolutivo, che ne ha
comportato una crescente valorizzazione sul terreno delle strategie di
contrasto della criminalità economica ed organizzata. Recentemente la confisca ha
avuto un nuovo impulso con conseguente estensione sia dei casi di
obbligatorietà della confisca che dei beni confiscabili; è stata altresì
eliminata o attenuata la necessità di un diretto collegamento tra beni
confiscabili e reato commesso.
Una profonda trasformazione è
riscontrabile già in relazione alle forme “classiche” di confisca, costruite
sul modello della figura generale prevista dall’art. 240 c.p. In relazione ad
esse le recenti riforme legislative si sono orientate secondo quattro
linee-guida:
a) la generalizzazione delle ipotesi di
applicazione obbligatoria della misura patrimoniale, al fine di prevenire e
reprimere alcune fenomenologie delittuose tipicamente produttrici di
arricchimento illecito (è questa la soluzione accolta negli artt. 416-bis,
270-bis e 322-ter c.p.);
b) la sottoposizione alla confisca anche
dell’ “impiego” dei proventi del reato (cfr. gli artt. 270- bis e 416-bis
c.p.), allo scopo di contrastare la complessa canalizzazione di risorse
finanziarie e la combinazione di attività economiche legali e illegali, che
sono tipicamente presenti sia nel contesto della criminalità organizzata, sia
in quello del finanziamento del terrorismo;
c) la previsione della confisca di valore (o
confisca per equivalente), e cioè avente per oggetto beni rientranti nella
disponibilità del reo ed aventi un valore equivalente a quelli che derivino dal
reato e di cui non sia possibile l’ablazione (è questa la soluzione accolta
negli artt. 322-ter, 640 quater e 644 c.p., che mirano a potenziare l’efficacia
dell’intervento patrimoniale nel contrasto di alcune gravi forme di
criminalità);
d) il perfezionamento della disciplina di
tutela dei terzi che vantano diritti sulle cose confiscate.
Nell’ambito delle strategie moderne di lotta contro la
criminalità organizzata, il tema delle misure patrimoniali sta assumendo una
sempre maggiore centralità, che si manifesta sia nella dimensione nazionale,
sia in quella europea e internazionale. Solo con strumenti in grado di incidere
in profondità sulle radici economiche del crimine organizzato, e su quella
ampia rete di rapporti finanziari su cui si basa sempre di più la forza e la
capacità di controllo del territorio da parte dei poteri criminali, sarà quindi
possibile contrastare efficacemente organizzazioni criminali che controllano
intere regioni del nostro Paese e che tendono, sempre di più, a espandere il
loro potere.
Sin dall’inizio degli anni ‘80, del resto, l’intervento
patrimoniale è stato considerato come uno snodo essenziale per potenziare
l’efficacia dell’approccio giudiziario al fenomeno mafioso sulla base di un
duplice ordine di motivazioni: la valenza dissuasiva di tipo “sostanziale” e la
particolare funzionalità sul piano “processuale”, in presenza di difficoltà
spesso insormontabili nella raccolta delle prove.
La Commissione ha ritenuto di cercare, attraverso una
regolamentazione ampia dell’istituto, di offrire una risposta a esigenze di
grande rilievo, che vanno dalla creazione di un netto disincentivo alla
commissione di reati (concretizzando l’idea che “il delitto non paga”) alla
tutela del sistema economico di fronte alle gravi alterazioni dovute alle
infiltrazioni di organizzazioni criminali. Alla prospettiva di prevenzione
speciale si affianca così quella della tutela del corretto funzionamento del
mercato e della libertà di concorrenza.
La valorizzazione della confisca, su cui ampio è stato
l’impegno della Commissione, è del tutto coerente con la creazione di un nuovo
sistema sanzionatorio. La crisi di efficienza mostrata dal diritto penale in
numerosi settori - soprattutto quelli concernenti la sfera delle attività
economiche – va affrontata, sempre di più, con strumenti capaci di incidere in
senso preventivo sugli interessi in gioco, annullando i benefici derivanti dal
reato e depotenziando il potere economico delle organizzazioni criminali, in
modo da reciderne i legami con il contesto sociale di riferimento.
La disciplina proposta, assai più articolata di quella
vigente, distingue le diverse ipotesi di confisca, cui corrispondono funzioni
in parte diverse, e propone varie soluzione che tengono conto dei principali
problemi derivanti dalla maggiore importanza che l'istituto dovrebbe acquistare.
e. Quanto al contenuto della disciplina, si è cercato,
anche sulla traccia del lavoro delle precedenti Commisioni, un punto di equilibrio tra le esigenze di
funzionalità e quelle di garanzia e si è tenuto conto delle principali istanze
emerse nel più recente dibattito giuridico, anche a livello internazionale.
Allo scopo di potenziare l’efficacia anche preventiva
della misura patrimoniale, si è prevista l’obbligatorietà della confisca delle
cose servite o destinate a commettere il reato, se appartenenti a uno degli
agenti, sia nel caso di condanna sia nel caso di patteggiamento (art. 55. comma
1, lettere a) b) e c).
In questa, come nelle altre fattispecie di confisca,
la equiparazione della sentenza di applicazione della pena a quella di
condanna, sotto il profilo della irrogazione della misura patrimoniale, porta a
compimento le tendenze già manifestatesi nella più recente legislazione, che ha
esteso a tutte le ipotesi previste dall’attuale art. 240 c.p. l’applicabilità
della confisca nell’ambito del patteggiamento, e ha equiparato i due tipi di
pronuncia anche con riguardo alla operatività delle più significative forme
“speciali” di confisca (cfr. ad esempio l’art. 322 ter c.p.).
Un temperamento al regime dell’obbligatorietà è stato
introdotto per gli oggetti di valore insignificante e per i casi in cui la “pena
ablativa” sia sproporzionata alla gravità del fatto: in tali casi la confisca diviene facoltativa (si è inteso,
in questo modo, recuperare un margine di “discrezionalità guidata” del
giudice).
Una particolare regolamentazione (art. 55, comma 1,
lettera d) è stata riservata alla complessa fattispecie delle cose destinate ad
attività produttiva che abbiano assunto, in concreto, una rilevanza strumentale
rispetto alla commissione del reato. Si tratta, più precisamente, dei casi in
cui il reato è stato realizzato mediante cose, impianti o macchinari sprovvisti
dei requisiti di sicurezza richiesti dalla legge, nell'esercizio di attività
soggette ad autorizzazioni o controlli dell'autorità amministrativa (si pensi,
ad esempio, alla situazione degli impianti industriali utilizzati per
commettere violazioni in materia ambientale, ovvero a quella dei macchinari
realizzati in modo difforme dalle prescrizioni antinfortunistiche).
L’esigenza di rafforzare la tutela dei beni giuridici
posti in pericolo dall’uso di impianti e macchinari privi dei requisiti di
sicurezza, viene, in questo settore, ad accompagnarsi all’opportunità di
recuperare la funzione produttiva degli stessi beni, una volta assicurato il ripristino
delle condizioni di corretta utilizzazione. Si è quindi previsto che la
confisca intervenga soltanto nei casi in cui i suddetti beni siano stati
nuovamente utilizzati senza che sia stata data attuazione alle prescrizioni
impartite dall’autorità amministrativa, o comunque alla “messa in sicurezza”
(comma1, lettera d). Evidentemente, la limitazione all’operatività della
confisca dovrà applicarsi soltanto nei casi in cui vi sia una effettiva
possibilità di allineare la utilizzazione del bene al rispetto degli standards
di sicurezza.
Il secondo comma dell’art. 55 regola i casi di
confisca del prodotto, del prezzo e del profitto di reato. Come era già stato
previsto dai progetti Grosso e Nordio,
si è ritenuto di assimilare, sul piano della regolamentazione, alla fattispecie
del prezzo del reato quelle del prodotto e del profitto. La definizione del “profitto”
è stata modellata, sulla base delle indicazioni contenute nelle fonti internazionali,
sulla nozione di “provento” del reato, secondo le quali esso consiste in “qualunque
bene derivato o ottenuto, direttamente o indirettamente, attraverso la
commissione di un reato” (cfr. l’art. 2 della Convenzione delle Nazioni Unite
contro la criminalità organizzata transnazionale, approvata a Palermo il 16
dicembre 2000). Si tratta dunque di una nozione che è suscettibile di
ricomprendere, in tutte le sue possibili forme, sia il profitto derivato
direttamente o indirettamente dal reato che il suo “impiego”. Per tutti i beni
che rientrano nelle predette categorie è stata prevista l’obbligatorietà della
confisca: non si è infatti ritenuta giustificata la differenza tra prezzo del reato da un lato,
e prodotto, profitto e cose strumentali all'attività criminosa dall'altro (del
profitto del reato è comunque confiscata esclusivamente la parte che non deve
essere restituita al danneggiato).
All’applicazione vincolata della confisca in caso di
sentenza di condanna o di patteggiamento è stata aggiunta la possibilità di
prevedere la confisca obbligatoria degli stessi beni, nella parte in cui non
debbano essere restituiti al danneggiato, nel caso di proscioglimento per
mancanza di imputabilità o per estinzione di un reato, la cui esistenza sia
accertata con la sentenza che conclude il giudizio dibattimentale o abbreviato
(lettera a), comma 2, art. 55, ultimo periodo). Tale soluzione è finalizzata ad
impedire che il delitto “paghi” in situazioni nelle quali la illiceità del
profitto è stata accertata nel corso di un giudizio penale svoltosi nel
contraddittorio delle parti, ma la possibilità di emettere sentenza di condanna
è esclusa per effetto della infermità
mentale del soggetto ovvero di fattori (come la prescrizione) sopraggiunti dopo
la consumazione del delitto ed idonei semplicemente a far venire meno la
punibilità, per ragioni del tutto estranee alla tutela del bene giuridico. Si
tratta, peraltro, di una soluzione già conosciuta dal nostro ordinamento in
ipotesi che hanno avuto un considerevole impatto applicativo. E’ questo, in
particolare, il caso della confisca dei terreni abusivamente lottizzati,
prevista prima dall’art. 19 della L. n. 47 del 1985 e poi dall’art. 44 del
D.P.R. n. 380 del 2001; com’è noto, infatti, tale misura - qualificata da una
parte della giurisprudenza come misura di sicurezza patrimoniale obbligatoria
connessa alla oggettiva illiceità della cosa (Cass. n. 4262 del 4/12/1995) e da
altre pronunce come una sanzione amministrativa applicata dal giudice penale in
via di supplenza (Cass. n. 38728 del 7/7/2004) – si applica indipendentemente
dalla condanna, in tutti i casi in cui la sentenza abbia accertato l’effettiva
esistenza di una lottizzazione abusiva.
Sarà anche possibile eseguire la confisca anche su
altri beni di valore equivalente a quello delle cose che costituiscono il
prezzo o il prodotto o il profitto del reato (fatta eccezione per i beni
impignorabili ai sensi dell’art. 514 c.p.c., necessari per consentire al
condannato la conduzione di una vita dignitosa). Viene estesa a tutti i reati produttivi di
profitto la confisca per equivalente, attualmente delineata dagli artt.
322-ter, 640 quater e 644 c.p., in materia di delitti contro la pubblica amministrazione,
truffa ai danni dello Stato o di altri enti pubblici o aggravata per il
conseguimento di erogazioni pubbliche, ed usura, nonché dall’art. 11 della
legge 146/2006 (ratifica della Convenzione O.N.U. contro il crimine organizzato
transnazionale).
Il terzo comma dell’art. 55 indica le linee direttive
relative alla confisca delle cose intrinsecamente illecite. In conformità alla
vigente disciplina si prevede, da un lato, la obbligatorietà della confisca
delle cose la cui fabbricazione, uso, porto, detenzione o alienazione
costituisca reato, e, dall’altro lato, la possibilità di non disporre la
confisca quando la cosa appartenga a persona estranea al reato e la
fabbricazione, uso, porto, detenzione o alienazione della stessa possano essere
consentiti mediante autorizzazione amministrativa.
Con il quarto comma si prevede l’inserimento nel
codice penale di specifiche norme volte ad adeguare la disciplina prevista dal
codice penale agli obblighi imposti dalla Decisione Quadro 2005/212/GAI del 24
febbraio 2005 del Consiglio dell’Unione Europea, relativa alla confisca di
beni, strumenti e proventi di reato. L’obiettivo è quello di assicurare a tutti
gli Stati dell’Unione Europea norme efficaci che disciplinino la confisca dei
proventi di reato, anche per quanto riguarda l’onere della prova relativamente
all’origine dei beni detenuti da una persona condannata per un reato connesso
con la criminalità organizzata.
Il comma 5 dell’art. 55 prevede lo scioglimento di
organizzazioni illecite e la confisca del patrimonio residuato dalla
liquidazione. Tale norma, che rispecchia una analoga norma prevista dal progetto Grosso, ha la finalità di colpire, con
una misura drastica, le società o associazioni utilizzate esclusivamente o
prevalentemente per la realizzazione di attività delittuose. Il campo tipico di
applicazione della norma dovrebbe essere rappresentato dall’ipotesi della
persona giuridica utilizzata come “schermo” dalla criminalità organizzata. Tale
sanzione è stata prevista quale extrema
ratio per i casi in cui la destinazione dell’attività imprenditoriale sia
essenzialmente illecita, e quindi l’azienda non possa ragionevolmente essere
recuperata: unanime è stata
Per evitare l’elusione della misura patrimoniale, si è
resa esplicita l'irrilevanza di una eventuale intestazione fittizia: ai fini
della confisca, i beni che l'autore del reato abbia intestato fittiziamente a
terzi, o comunque possieda per interposta persona fisica o giuridica, sono
considerati come a lui appartenenti (comma 6). In linea con l’orientamento che si sta sviluppando a
livello internazionale, e per evidenti esigenze di garanzia, si stabilisce che
la confisca non debba pregiudicare i diritti di terzi in buona fede (comma 7).
Data la delicatezza della materia si è stabilito
(comma 3, n. 8) che la regolamentazione prevista dal codice penale in materia
di confisca dovrà rappresentare il quadro generale di riferimento, la cui
efficacia sarà estesa, salvo espressa deroga legislativa, a tutti i casi di
confisca penale disciplinati da norme particolari (resteranno in ogni caso operanti
le disposizioni poste a garanzia dei terzi estranei al reato).
XXX. Responsabilità
degli enti
La Commissione è stata, fin dall’inizio dei propri
lavori, concorde nel ritenere che la responsabilità degli enti dovesse essere inserita nel codice penale. Infatti, con l’entrata
in vigore del decreto legislativo 8 giugno 2001 n. 231 (disciplina della
responsablilità ammministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle
associazioni anche prive di personalità giuridica) l’inedita forma di
responsabilità degli enti è entrata a tutti gli effetti a far parte del nostro
ordinamento penale.
Pur in presenza di dubbi sulla compatibilità di una
responsabilità penale o parapenale dell’ente a fronte del principio di
“personalità” consacrato dall’art. 27 Cost., l’Italia non poteva sottrarsi alla
direttiva prevista dall’art. 2 della Convenzione O.C.S.E. sulla corruzione, sottoscritta a Parigi nel
dicembre 1997, che prevede la diretta responsabilità degli enti collettivi per
i reati consumati nel loro interesse o collegati a tali enti da un rapporto
funzionale. Già da tempo, del resto, anche nel nostro Paese si era sviluppata
una autorevole opinione della dottrina favorevole a prevedere forme di
responsabilità per le persone giuridiche, anche al fine di contrastare più
efficacemente il sempre più diffuso fenomeno della criminalità d’impresa. Invero,
come è stato autorevolmente affermato, si è venuta creando una “realtà che si
esprime e agisce attraverso i propri rappresentanti persone fisiche,
nell’ambito di un rapporto di immedesimazione organica e non già di alterità”.
In questo contesto, l’inserimento della normativa
sulla responsabilità degli enti nel codice penale, pur non condivisa da tutti,
si pone anche quale elemento di garanzia, non potendo, la relativa disciplina,
discostarsi da alcuni princìpi fondanti previsti dalla parte generale del
codice.
La Commissione aveva iniziato ad elaborare alcune
specifiche direttive di delega. Poiché però, nel corso dei lavori, è stata
istituita presso il Ministero altra Commissione con il compito, tra l’altro, di
proporre modifiche al decreto legislativo 8 giugno 2001, si è deciso di limitarsi
a indicare, sul tema, alcuni punti ritenuti qualificanti.
Peraltro, ad avviso della Commissione, la
responsabilità per reato di enti e persone giuridiche - che si è ritenuto di
non dover più definire “amministrativa” - è assolutamente indispensabile per la coerenza
preventiva del sistema, specie alla luce della quantità di reati compiuti non
già nell’interesse specifico della persona fisica che opera nell’ambito di un
soggetto giuridico, bensì nell’interesse dei soci o degli associati. Solo
attraverso una specifica penalizzazione che colpisca anche i soggetti giuridici
– nei casi, evidentemente, in cui il reato risulti compiuto nel loro interesse e
non sia dimostrata una credibile attivazione rivolta al suo impedimento - e,
dunque, solo evitando che soci ed associati possano obiettivamente beneficiare
dei vantaggi di un reato compiuto nell’interesse dell’ente o della
associazione, sarà possibile attivare
una dinamica preventiva realistica, stimolando l’interesse e la disponibilità
all’autocontrollo da parte dei soggetti giuridici.
Nell’ambito
del processo penale potranno, quindi, sulla base della direttiva predisposte
dalla Commissione (art.56), essere chiamati a rispondere gli enti, le società, le
associazioni (anche non riconosciute) e gli
enti pubblici nei limiti in cui esercitano attività economica. Inizialmente si
era prevista l’esclusione della responsabilità – oltre che per lo Stato, le
Regioni, altri enti pubblici territoriali e le Autorità indipendenti – anche
per “gli enti di picccola dimensione”: sia perché, in caso di reato commesso
nell’interesse di enti di piccole dimensioni, normalmente la responsabilità
penale è attribuita direttamente a chi ha una posizione apicale, sia per evitare
il rischio di un sempre maggiore ingolfamento dei Tribunali. A seguito di
alcuni rilievi emersi nel corso del Seminario di Siracusa,
Roma,
19 novembre 2007