Stefano Galieni
Nel marzo 2007 una notizia di quelle che avrebbe potuto aprire giornali e notiziari televisivi italiani passò pressoché inosservata nel paese, mentre ebbe grande risalto nel resto d'Europa. Mauro Palma, fra i fondatori della rivista e poi dell'associazione Antigone, era stato eletto presidente del Comitato europeo per la prevenzione della tortura, dei trattamenti e delle pene inumane o degradanti. Non era un caso: in Italia si ignora quasi dell'esistenza di una struttura simile, la si considera un orpello affatto necessario. Tanto è che alla richiesta reiterata di costruire un Comitato italiano sul modello di quello europeo non si sono levate voci di entusiasmo, c'è stato chi ha fatto notare che si sarebbe trattato dell'ennesimo, costoso, inutile baraccone e chi ha alzato le mani dicendo che da noi non esistono alla fonte problemi riconducibili alla tortura istituzionalizzata. Peccato che in numerose occasioni, organismi internazionali super partes, abbiano dedicato pagine o sezioni dei propri rapporti per stigmatizzare quello che è avvenuto e continua a verificarsi in Italia in quelli che sono i «nostri luoghi oscuri» parafrasando James Ellroy.
Diritti e castigo il volume curato da Susanna Marietti e Gennaro Santoro (pp. 256, euro 10) e pubblicato dai Cantieri di Carta per le edizioni Intra Moenia, prova a sollevare il velo ipocrita che occulta una componente in crescita di queste realtà opache. Si tratta di due rapporti (2004 e 2006) sulle istituzioni totali italiane realizzati dal comitato, e arricchiti da alcune riflessioni/interviste inedite di Zygmunt Bauman, Loic Vacquant e Mauro Palma, nonché da vari contributi.
I funzionari del Comitato - il cui acronimo in Italia è per una coincidenza dal forte valore simbolico (CPT) - hanno l'autorità di entrare in qualsiasi momento lo desiderino negli istituti in cui la libertà personale è limitata: carceri, servizi psichiatrici diagnosi e cura, commissariati, questure e, appunto, Cpt. La situazione italiana è da sempre sotto attento monitoraggio, alle visite effettuate (1995, 2000, 2004, 2006) hanno fatto seguito sempre rapporti consegnati alle autorità competenti, zeppe di valutazioni e di raccomandazioni e risposte dei governi che si sono susseguiti negli anni. A leggere i resoconti sembra di veder emergere tutti gli stereotipi di una istituzione totale: punizioni inutili, carenze e disagi che si accaniscono soprattutto sui più vulnerabili. Un campionario di nefandezze che non può essere mitigato dal linguaggio asettico con cui vengono riportati e denunciati casi singoli e collettivi e che lasciano intravedere solo una parte infinitesimale del circuito punitivo. I pestaggi alle manifestazioni di Napoli (marzo 2001), le torture di Genova, le deportazioni in Libia, le condizioni di trattenimento a Lampedusa e le sofferenze inflitte, a volte per ragioni poco chiare in carcere in regime di 41bis, sono solo alcuni fra gli aspetti affrontati.
Nonostante le visite effettuate dal Comitato fossero annunciate, i funzionari si sono trovati ugualmente di fronte a evidenti violazioni delle libertà personali. Il Comitato denuncia ogni elemento critico, ma rileva che in quest'ultima fase molte cose sono cambiate, e sembra iniziato un percorso di messa a trasparenza di luoghi e procedure. Un passo importante ma ancora insufficiente, restano infiniti buchi neri, come il sovraffollamento carcerario, la preponderante reclusione in attesa di giudizio, la insufficiente preparazione degli operatori, un regime insomma che resiste alle modifiche del proprio essere.
Nelle risposte che questo governo ha dato al rapporto pare di scorgere un progetto di rinnovamento culturale che coinvolge i centri di permanenza temporanea - si parla espressamente di riduzione dei tempi di detenzione e del loro numero - e si adombra la possibilità che il disegno di legge fermo dalla scorsa legislatura in Senato - che istituirebbe un Comitato italiano e un difensore civico indipendente dotato di ampi margini di manovra - possa divenire legge effettiva. Ottime intenzioni che rischiano forse di essere messe a dura prova dalle recenti misure sulla sicurezza e sulle espulsioni varate dal governo e dall'intero "pacchetto sicurezza", che finirà presto all'esame del Parlamento. A maggior ragione quindi emerge la necessità di strutture di controllo nazionali, indipendenti dall'esecutivo, che abbiano la facoltà in ogni momento in cui la attività dello Stato si troverà a caratterizzarsi in maniera repressiva, di verificare in che maniera e fino a che punto i diritti umani siano stati salvaguardati, principio etico, culturale e politico basilare per uno stato realmente democratico.
Il pessimismo realista di questi ultimi anni porta a dar ragione a Bauman quando afferma - nella preziosa e densa intervista realizzata per il volume - che gli Stati, non potendo più garantire sicurezza sociale, investono nella promessa, spesso vana di una "sicurezza individuale" riservata a coloro che occupano, all'interno della società, posizioni comunque minimamente garantite. E ha ragione Imma Barbarossa, che nella breve introduzione, focalizza «un vero e proprio cambio di civiltà, di senso comune di massa [...] il concetto di una legalità intesa come difesa di egoismi corporativi. L'imprenditoria della paura che riflette un simile meccanismo, è ben lungi dal produrre sicurezza ma rabbie, infelicità e solitudini».
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