Sono 2.487 gli immigrati morti nel Canale di Sicilia dal ’94 ad oggi
percorrendo le rotte che vanno dalla Libia e dalla Tunisia alle isole
di Malta, Pantelleria e Lampedusa, quindi
alla costa sud della Sicilia. Ma anche dall’Egitto e dalla Turchia alla
Calabria. Oltre la metà risulta dispersa, mentre almeno 64 sembrano
essere annegati navigando dall’Algeria alla Sardegna. Nel corso del
2007, poi, nonostante un sensibile calo degli sbarchi, i morti sono
raddoppiati. Questo forse anche perché, per evitare i pattugliamenti,
le imbarcazioni si fanno sempre più piccole e percorrono rotte più
lunghe che, di conseguenza, sono molto più rischiose. I comandanti non
rischiano più né personalmente né
mettendo in gioco i loro uomini. Nella maggior parte dei casi, ad un
certo punto abbandonano l’imbarcazione, lasciando la guida ad
uno degli sfortunati passeggeri che solitamente non ha alcuna
esperienza di navigazione. Tutta questione di fortuna, dunque. Se,
poi, la barca o il gommone su cui viaggia il disperato carico umano
riesce ad incrociare un altro mezzo in mare, può solo pregare che
quest’ultimo decida di fermarsi anche solo per capire la loro
provenienza.
Se subentra la compassione, allora magari i naufraghi
potranno essere tratti in salvo e cominciare a sognare una vita
migliore
di quella sino ad allora condotta.
“Solitamente quando noi avvistiamo queste barche - spiega Piero
Billeci, presidente dell’associazione Pescatori di Lampedusa -
avvisiamo subito la Capitaneria di Porto e aspettiamo che arrivi
una vedetta. E’, però, per noi una gran perdita di tempo e di
denaro perché, per esempio, quando qualcuno di noi ha deciso
di recuperare un cadavere, ha avuto sempre problemi. E, nel
caso in cui incontriamo dei naufraghi, non sempre li carichiamo
a bordo perché è capitato anche il caso di qualche caso di abbordaggio
in alto mare. E’ giusto salvare loro la pelle ma non rischiando
la nostra”. All’associazione di Billeci fanno capo 209
pescatori. “Il primo sbarco lo abbiamo avuto nel ’93 – prosegue
il presidente – e non c’era certo l’organizzazione di oggi.
Gli immigrati
vagavano per l’isola, aprivano le case, rubavano. Ma lo
facevano solo per vestirsi e mangiare qualcosa. Quando lo
Stato ha preso in mano la situazione è sorto il Cpt, una struttura
aperta e disponibile per tutti e non, come si dice, solo per questi
cittadini. Certo, la pubblicità negativa all’inizio c’è stata e continua
in parte ad esserci, ma quando passa l’estate tutti i malumori
si attenuano”.
Nonostante lo neghino, i continui sbarchi di clandestini hanno
sempre creato problemi ai pescatori. Qualcuno minimizza, altri
denunciano i tentativi di criminalizzazione della marineria locale.
“In mare esistono delle leggi tacite, ma anche una solidarietà
che va praticata – aggiunge Attilio Nardo, presidente dell’associazione
Pescatori “San Francesco di Paola” di Porto Palo, a cui
fanno riferimento 130 tra pescatori e armatori, la quasi totalità
della marineria locale siracusana –. Diversamente da altre realtà,
da noi durante l’estate ci sono pochi sbarchi e, quindi, non
abbiamo grosse ripercussioni sull’economia locale. Magari
qualcuno, a forza di sentire questo nome, Porto Paolo, pensa
che si tratti di un posto tremendo. La verità è che abbiamo un
porto in cui non è possibile nascondere nulla e nessuno.
Quando arrivano i clandestini sono costretti a stare necessariamente
in banchina, sotto il sole, il vento o la pioggia, in attesa
di sapere quale sarà il loro destino. Ricordo lo scorso maggio,
ero fuori in barca e via radio abbiamo saputo dell’avvistamento
di un barcone che stavano guidando in porto. Abbiamo assistito
a scene di disperazione allucinanti: gente che si buttava in
mare, che cercava di fuggire. Situazioni che non si vorrebbero
mai vivere”. E sulle voci che dicono che, quando un pescatore
trova un cadavere lo ributta in mare per non avere problemi?
“Da quando, nel ’96, c’è stato un importante naufragio, hanno
messo in croce la marineria locale. Bisogna, però, sfatare il
tutto. Il Mauro ha trovato un cadavere impigliato nelle reti e, invece,
di restituirlo al mare, lo ha portato in banchina. La con-
seguenza? Gli hanno fermato la barca e solo dopo 20 giorni è potuto
tornare a lavorare. Nessuno, però, nel frattempo, lo ha risarcito
del denaro perduto. Il Cico, per esempio, tempo fa trovò a 40
miglia un barcone che andava alla deriva. Avvertì la Capitaneria
di Porto che gli disse di rimorchiarlo e andare verso Malta, ma dovette
puntare verso Pozzallo, sempre dietro autorizzazione della
capitaneria, perché i naufraghi si ammutinarono. Una volta arrivato
in porto, fu sequestrato e l’equipaggio considerato alla stregua
degli scafisti. Possono, dunque, i pescatori avere mai fiducia
nelle autorità?”.
Ormai, comunque, è cronaca quotidiana. Mentre la maglia difensiva
dell’Europa diventa sempre più impenetrabile, il mare resta
un colabrodo e continua a mietere vittime. Il 2007 si è chiuso con
un bilancio negativo per gli immigrati che dal Nord Africa attraversano
il Mediterraneo o l’Atlantico sperando di potere accedere al
vecchio continente. Secondo Fortress Europe, i morti in mare nel
2007 sono stati 1684 contro i 1625 del 2006. Soprattutto dicembre
è stato il mese più sfortunato. Tra migranti e rifugiati si sono avute
243 vittime, 120 delle quali nel mar Egeo, 96
diretti alle Canarie, 17 al largo delle coste Algerine,
10 nell’Oceano Indiano. Meno di
50mila, invece, quelli che nel 2007 sono riusciti
ad arrivare in Europa. Questo il dato generale.
Se, poi, andiamo a vedere cosa
succede nel solo Canale di Sicilia, sempre
Fortress Europe fornisce i dati relativi agli immigrati
morti e dispersi nel tentativo di entrare
nel nostro Paese dal 1994 al 2007. Sensibile
la crescita, soprattutto a partire dal 2004
quando i morti sono stati 111, i dispersi 95.
Nel 2005 abbiamo una diminuzione di quanti
hanno perso la vita nel Canale (78), mentre
sale vertiginosamente il numero dei dispersi
in mare (359). L’anno successivo non riusciranno
mai più coronare il loro sogno di una
vita migliore, perché decedute, 96 persone
contro le 206 di cui si sono perse tutte le
tracce. Il 2007 si chiude con 146 morti e 410
dispersi mentre, alla data dell’11 gennaio
2008, si sa solo di un disperso nell’immenso e non sempre benevolo
Canale di Sicilia.
Ad essere stato abbandonato al proprio destino dal comandante
di un peschereccio questa volta è stato un giovane somalo. Un
gommone, con a bordo 60 disperati, stava effettuando la traversata
dal Nord Africa nelle acque a circa 50 miglia a Sud delle isole
Pelagie. Incrociando la rotta di un motopeschereccio italiano, l’immigrato
si è tuffato ed è riuscito a raggiungerlo. L’equipaggio
l’avrebbe, però, respinto e ributtato in mare dopo un’accesa colluttazione,
noncurante di vederlo scomparire quasi subito tra i
flutti. A denunciare l’accaduto sono stati i compagni della vittima,
non appena in salvo al centro di accoglienza di Lampedusa.
Una volta giunto in porto il peschereccio, sono subito iniziate le indagini.
Il 46enne Mariano Ruggiero, capitano dell’imbarcazione, è
stato rinchiuso nel carcere di Agrigento con l’accusa di omicidio.
La vicenda ha suscitato sconcerto tra quegli stessi pescatori che
più volte si sono visti fermare le barche per avere prestato soccorso
ai tanti clandestini che solcano il Canale di Sicilia.
Nota positiva all’interno di un panorama abbastanza sconfortante?
Il comandante di un altro peschereccio pugliese, il Salvatore
De Ceglia, è stato premiato lo scorso 20 giugno dall’Alto
commissariato Onu per i rifugiati per avere salvato la vita di
decine di migranti naufragati. Questo uno degli ultimi casi di
cronaca ma sono continui gli avvistamenti di imbarcazioni, stipate
di clandestini, al largo di Sardegna e Sicilia. E nulla sembra,
riuscire a fermare questa ondata di arrivi direttamente dal
mondo della disperazione.
Cittadini del mondo che chiedono solamente di essere accolti
da un paese in grado, almeno quello che credono, di ridare
loro la dignità perduta.
Secondo i dati del Ministero dell’Interno, al 28 agosto del 2007
gli sbarchi in Italia sono stati, comunque, molto minori rispetto
all’anno precedente. Nei primi 8 mesi dell’anno da poco trascorso,
gli stranieri irregolari giunti nel nostro paese sono stati
12.419 contro i 14.511 del 2006, anno che già aveva visto una
leggera flessione rispetto al 2005.
Si ha, poi, un aumento dei clandestini sbarcati
in Sardegna (960 nel 2007) rispetto
alla rotta principale che dalla Libia porta a
Lampedusa. Secondo, poi, un rapporto
dell’Unhcr sulle richieste di asilo nei primi
sei mesi del 2007, sono 2839 le domande
presentate al nostro Paese in modo particolare
da cittadini di Serbia Montenegro,
Nigeria, Afghanistan, Costa D’Avorio e Turchia.
Quelle dei cittadini iracheni sono 109.
”La cosa che dobbiamo ricordare sempre
a tutti - dice Germana Graceffo, della Rete
Antirazzista Siciliana – è che purtroppo i richiedenti
asilo, oltre alla possibilità di attraversare
il deserto, hanno solo questo modo
di arrivare in Europa. La tragedia del mare
è per loro solo l’ultimo scalino, prima di potere
arrivare in Europa, ma quello che c’è
dietro è un’odissea che dura anni.
A fine ottobre siamo andati a Strasburgo in
occasione della discussione in seduta plenaria del Parlamento
europeo sulle misure di sicurezza di contrasto all’immigrazione
clandestina.
Abbiamo fatto un’audizione e una conferenza stampa con alcuni
componenti il Parlamento europeo e abbiamo verificato
che la situazione è ormai grave dappertutto. Eppure, invece, di
trovare le soluzioni, si cerca di dare conto alle vene xenofobe
razziste che non sono mai sparite. Dall’estero ci guardano tutti
vergognati e sconvolti rispetto al nostro immobilismo. Non si é
capito che stiamo combattendo una battaglia di civiltà e chi non
muoverà oggi un dito per fare qualcosa, ne risponderà anche
tra 40 anni sui libri di storia.
Non si può essere connivente con un sistema che uccide ogni
anno centinaia di persone.
E’ ovvio che questi sono morti di serie B. Perché la vita di un
tunisino, di un egiziano, di un ghanese per qualcuno vale un
terzo della vita degli altri.
Ma è una situazione che prima o poi esploderà”.
Isaac Ababio Kwaku viene dal Ghana. E’ nato ad Accra 35 anni
fa e aveva 7 fratelli, 3 dei quali rimasti uccisi insieme al padre
durante le lotte tribali tra clan avversi. Essendo la sua famiglia
di fede cristiano-ortodossa, i conflitti per lui non sono stati mai solo
etnici, ma anche religiosi, tradotti in sistematiche operazioni di pulizia
etnica, un bel giorno sfociate nell’incendio della propria abitazione
in cui morirono, appunto, i suoi familiari. Allora aveva circa
16 anni. Seppure con enormi difficoltà, riesce a conseguire quella
che per noi è la terza media e, dopo un po’ di tempo, comincia a
fare il tassista. Nel 2003 il giovane ghanese viene coinvolto in un
incidente automobilistico e la polizia lo arresta. In quella occasione
riporta delle ferite abbastanza gravi in varie parti del corpo. Subisce
anche delle violenze, viene maltrattato dalla polizia, quasi incolpato
di avere causato l’incidente.
Resta in prigione un solo giorno e poi trasferito agli arresti in ospedale.
Una volta uscito decide, però, di andare via, anche perché le
sue condizioni fisiche cominciano ad aggravarsi. Gli stessi medici
gli dicono che ha una grave cardiopatia che deve essere curata
subito, altrimenti morirà. Quindi parte e arriva in Niger dove riesce
a racimolare 150 euro, cifra necessaria per raggiungere un’altra
tappa. Riesce ad arrivare in Libia, pagando 1200 euro per un
posto sul barcone che lo dovrà portare in Italia. Quando Isaac
giunge a Lampedusa, nell’agosto 2007, viene immediatamente
trasportato con l’elicottero di Emergency al Policlinico e operato
d’urgenza a torace aperto per un aneurisma all’aorta. Un intervento
che gli salva la vita. Ora gli operatori del centro di accoglienza
“Concezione”, di cui è ospite, lo seguono con una terapia
farmacologica anche abbastanza pesante per evitare che possano
intervenire problematiche connesse alla cardiopatia. Ben presto
dovrebbe anche ottenere lo status di rifugiato politico o la protezione
umanitaria per gravi motivi medici. Anche se con estrema
difficoltà ed una serie infinita di limitazioni, una volta accolta la sua
domanda di asilo, potrà lavorare e frequentare assiduamente
i corsi di formazione.
Zaccaria viene, invece, dal Darfur. E’ arrivato a Lampedusa
dopo circa 20 giorni di viaggio, fatto in parte via terra attraverso
l’Egitto, in parte via mare. “Sono scappato per problemi politici.
In Sudan non si può fare attività politica mentre io in un certo
senso la facevo, ma non come dicevano loro”. Nella sua città
Zaccaria aveva una piccola scuola per i bambini disagiati e anziani.
Insegnava loro a leggere e scrivere. Proveniva da un
buon ceto sociale e culturale e cercava di dare una mano ai
più bisognosi. “Un giorno arrivò la polizia e mi accusò di fare
politica mentre insegnavo”. E così lo arrestarono, tenendolo in
prigione per una decina di giorni. “Una volta uscito decisi di
scappare, lasciando purtroppo da sola la mia famiglia. Non
avevo, però, alternative. Come me molta altra gente del mio
villaggio è andata via. Prima ho raggiunto l’Egitto con le carovane,
a dorso di dromedario. Circa 12 giorni, a camminare ininterrottamente.
Arrivato a destinazione ho incontrato un mio
compaesano che poteva aiutarmi, ma voleva 3500 dollari.
Quando mi arrestarono la mia famiglia decise di vendere tutto
per darmi una mano. Avevo, quindi, un po’ di soldi messi da
parte. Gliene diedi 3000 e mi ritrovai in un barcone mal odorante,
pieno zeppo di roba di ogni genere, con altre 20 persone
di differente nazionalità. Cominciammo a navigare, chiusi dentro
la stiva. Dopo 4 giorni ci dissero che eravamo in Turchia e
che dovevamo cambiare barca. Ci fecero salire su un gommone,
ci diedero una bussola e ci abbandonarono a noi stessi”.
Il motore, però, improvvisamente si rompe e solo dopo tre
giorni, sicuri ormai che sarebbero morti, i naufraghi vedono in
lontananza una piccola barca tunisina.
“Ci chiesero da dove venivamo e dove stavamo andando. Dissi
loro: ‘in un paese dove c’è democrazia’”. Era una nave militare,
si fermò a 500 metri e i naufraghi furono tratti in salvo. Zaccaria
riesce, così, ad arrivare a Lampedusa dove rimarrà per 12
giorni. “Ci hanno accudito, nutrito e poi portato alla Questura di
Agrigento dove credevo si occupassero di noi. Invece, dopo
un’ora e mezzo, siamo usciti con il decreto di espulsione. Entro
15 giorni dovevamo lasciare l’Italia. Quindi, ciao. E’ la prima
parola che ho imparato qui da voi. Di quel giorno mi ricordo solamente
il freddo e la fame. Nessuno ci diceva niente. Ci sembrava
di impazzire. Chiamai un amico che stava in Italia e che
mi indicò Santa Chiara, a Palermo. Grazie a don Meli ho veramente
ricominciato a vivere. Se oggi posso essere così positivo
è solo grazie all’accoglienza ricevuta in questa città da
quanti credono che sia possibile convivere e condividere mondi
e culture diverse”.
di Gilda Sciortino
Tratto dalla rivista asud’Europa
n. 2, gennaio 2008, Il mercato degli schiavi passa dal canale della morte