Un comunicato stampa del governo libico ha appena annunciato l’espulsione di tutti i migranti irregolari al momento presenti sul territorio di Gheddafi. Nessuna eccezione neppure per richiedenti asilo e minori. Le stime ufficiali parlano di circa due milioni di persone.
Eppure, verrebbe da dire, c’è stato un tempo in cui - pur con tutte le contraddizioni e la mancanza di garanzia insite nelle politiche di uno Stato così poco democratico - la Libia chiedeva forza lavoro migrante e apriva le sue frontiere a chi proveniva da altri paesi africani.
Ma era un tempo in cui non erano ancora stati attuati i processi di esternalizzazione dei controlli di frontiera, e paesi come l’Italia o la Spagna non avevano ancora armato il braccio della polizia nordafricana, pagata per dare la caccia a gente inerme, o finanziato l’istituzione di galere etniche le cui condizioni di disumanità sono state ormai denunciate da innumerevoli rapporti di associazioni e delegazioni parlamentari. Nonostante questi testi, nonostante le innumerevoli testimonianze di violenze e maltrattamenti, omicidi e torture, stupri e rapine subite dai migranti sul suolo libico, nonostante le prove documentate delle modalità di deportazione effettuate dalla polizia libica verso il deserto, l’Unione europea ha ormai eletto questo paese a primo gendarme ufficiale dei suoi confini sud.
È così che l’Europa dei diritti umani e della moratoria della pena di morte delocalizza al di fuori del territorio di Schengen l’aspetto più violento delle sue politiche.
Da una parte, quindi, la retorica mediatica e i proclami politici ci offrono l’immagine di una nuova realtà, l’Ue, impegnata nella promozione della pace e della giustizia nel mondo, alla ricerca di modelli di cittadinanza e appartenenza alternativi alle ideologie esclusive degli Stati nazionali. Dall’altra, però, tutto ciò che avviene quotidianamente - le ultime direttive comunitarie che avallano le pratiche di deportazione e imprigionamento dei migranti, gli atteggiamenti assunti durante i vertici internazionali e intercontinentali - ci consegna invece il riflesso di una verità molto diversa.
Nei rapporti diplomatici tra gli Stati europei e i paesi dell’area mediterranea e orientale, il vecchio continente sta rivendendo il peggio di sé, compresa la modalità di gestione postcoloniale dei territori e delle popolazioni.
Si rimane inorriditi di fronte a tanta ipocrisia e appare legittimo interrogarsi su che tipo di credibilità possano ancora avere paesi come l’Italia che, fregandosene altamente delle conseguenze sulla vita e sulla morte di milioni di persone ha firmato il 29 dicembre l’ultimo degli accordi con la Libia in materia di “guerra all’immigrazione clandestina”.
Il controllo della mobilità migrante ha ridisegnato gli equilibri geopolitici del Mediterraneo e Gheddafi, ospite d’onore al vertice di Lisbona, ha saputo giocare le sue carte. Ormai riabilitato sul panorama internazionale non deve più temere nulla: nessuno, ad esempio, gli ricorderà ancora che la Libia non ha mai ratificato la convenzione di Ginevra sullo status dei rifugiati.
Quel che sta avvenendo è ancora un’ulteriore conferma del fallimento di progetti come il Partenariato euromediterraneo (all’interno del quale la Libia partecipa come osservatore esterno), nato dalla dichiarata volontà di promuovere un’area di pace, condivisione, sviluppo e implementazione dei diritti umani. Nella dichiarazione di Barcellona, gli accordi economici sarebbero dovuti essere subordinati al rafforzamento di processi democratici. La stessa composizione del gruppo dei paesi chiamati a partecipare (basti pensare che del Partenariato fanno formalmente parte sia Israele che l’autorità palestinese), avrebbe potuto portare alla creazione di un’area di dialogo aperto e alternativo ai meccanismi imperiali esportati dalla potenza atlantica.
Niente di tutto questo è avvenuto e, del resto, è stato chiaro fin da subito quanto squilibrio esistesse tra la sponda sud e la sponda nord del progetto euromediterraneo. Per contare nell’arena geopolitica bisogna sottostare alle richieste europee, e le richieste europee sono motivate solo da valutazioni economiche e politiche assolutamente autoreferenziali nonostante Amato si premuri di affermare, in riferimento alle relazioni dell’Italia con la Libia, che “accordi come questo salveranno la vita di molte persone”.
Eppure dovrebbe essere ormai chiaro che, a dispetto di Frontex, delle deportazioni, delle galere di concentramento, della morte e delle uccisioni, i migranti continueranno ancora ad arrivare fino a noi perché così impone il mercato, e perché, in ogni caso, nessuno potrà mai arrestare le scelte soggettive di milioni e milioni di persone che dove troveranno frontiere sigillate aggireranno semplicemente l’ostacolo rischiando ancora di più.
Ma questo governo, piuttosto che firmare accordi con dittatori che avranno solo conseguenze mortifere, non doveva superare i Cpt? Non doveva cambiare radicalmente la legge sull’immigrazione? Non doveva aprire canali di ingresso legali? Non doveva promuovere l’uscita dalla clandestinità dei migranti presenti sul territorio?
E invece, quel che L’Italia si appresta a fare con grande soddisfazione nei prossimi mesi è restare a guardare, insieme al resto d’Europa, mentre la Libia continua nella sua opera di riscatto agli occhi del mondo e acquista punti per incedere nelle sue rivendicazioni rispetto all’Unione.
Resterà a guardare, l’Italia che ne è complice più di ogni altro, le retate e gli imprigionamenti di massa, le fiamme in cui bruceranno le baracche dei migranti sul suolo libico, le torture che subiranno i rimpatriati nei paesi dai quali avevano cercato rifugio, gli stupri delle donne e delle ragazzine mentre vengono deportate, le morti lente e senza lapidi che costelleranno il deserto.
Oppure no. Neppure guarderà e, in fondo in fondo, non ci sarà nulla da guardare.
Sennò a che sarebbe servito delegare la morte e la violenza lì, al di là del mare?
Alessandra Sciurba
Progetto Melting Pot