Kalu ha 34 anni, vive in Italia da 3 anni. Lavora per 500 euro al mese come
venditore ambulante, ma è senza permesso di soggiorno e quando c’è la polizia
deve scappare via con tutta la sua roba per non farsi arrestare. Vende collanine
e orecchini di bigiotteria in una di quelle bancarelle improvvisate per le
strade. Se gli va bene gli sequestrano la mercanzia e lo mandano a casa, ma la
giornata di lavoro è finita, niente soldi per mangiare, niente soldi da mandare
a casa per aiutare la famiglia. Divide una stanzetta con tre concittadini nel
quartiere romano di Centocelle, in quattro pagano al padrone di casa 600 euro al
mese, se non pagano li buttano fuori. Eppure ogni giorno Kalu ringrazia Dio
[Allah] per quello che ha.
Non è sposato e in Bangladesh è un disonore non
esserlo alla sua età. «Da me – dice – la religione ha molta importanza nella
vite delle persone, perciò se tornassi in Bangladesh nella mia comunità tutti si
vergognerebbero di me.» Da una settimana Kalu partecipa al presidio allestito in
Piazza San Giovanni, e cerca di ammazzare il tempo e il freddo bevendo caffè.
Il passaggio del ciclone Sidr che ha colpito il Bangladesh a novembre del
2007 ha causato circa 30 mila morti, ucciso 4 milioni e mezzo di animali;
provocato 8 milioni di senza tetto, senza cibo e generi di prima necessità,
impossibile una stima dei dispersi. Ma l’emergenza colpisce anche il sistema
politico del paese che da moti mesi è nelle mani dei militari: hanno arrestato
molti uomini politici dei partiti avversari, accademici e giornalisti che
manifestavano contro la repressione, per la libertà di parola. Da un anno e
mezzo non esiste alcun governo eletto democraticamente, è vietata in qualsiasi
attività politica indipendente, viene violata la libertà di associazione. Oggi,
dopo il ciclone, mancano riso e grano, circa il 30 percento delle coltivazioni è
andato perduto, gli aiuti umanitari inviati dalle nazioni ricche, compresa
l’Italia, hanno solo tamponato la crisi.
Il 4 Dicembre la comunità bengalese
in Italia ha manifestato per la prima volta davanti al senato. Cinquecento
persone hanno chiesto, anche a nome dei 20 mila bengalesi che vivono in Italia,
aiuto umanitario immediato. Una settimana dopo in Piazza Esquilino, nel cuore
del quartiere interetnico di Roma, è stato allestito il primo presidio
permanente a cui è seguito un incontro tra la sottosegretario all’interno
Marcella Lucidi, quella della solidarietà sociale Cristina De Luca e i
rappresentanti della comunità bengalese. Il 9 gennaio scorso, sempre a Roma, a
chiedere al governo italiano il riconoscimento del loro status sociale
attraverso un permesso di soggiorno umanitario è stato un corteo di 7 mila
bengalesi. Il ministero ha risposto con una circolare che ha sospeso le
espulsioni fino a che non sarà arginata in Bangladesh l’emergenza post ciclone.
Una cittadinanza a metà che non migliora affatto la situazione. Il problema di
non riuscire a trovare onestamente un lavoro resta, l’alternativa è come sempre
il lavoro nero. Le promesse del prefetto Carlo Mosca e del vice prefetto restano
per ora solo sulla carta. Parole di solidarietà ai migranti bengalesi sono
arrivate invece da Gianluca Peciola, assessore dell’undicesimo municipio romano
che dice: «Si tratta di una rivendicazione corretta ma difficile, è necessario
andare avanti con la protesta» e da Stefano Galieni, responsabile per
l’immigrazione di Rifondazione comunista: « Appoggiamo tutte le realtà migranti
e condanniamo gli atteggiamenti delle forze dell’ordine, nel gestire queste
situazioni.»
Nonostante il presidio di Piazza San Giovanni si svolga in
maniera pacifica, senza disturbare gli abitanti della zona, non sono mancati
atteggiamenti razzisti. Alcuni vigili urbani non si sono accontentati di
minacciare lo sgombero immediato del presidio, hanno dovuto anche insultare i
bengalesi, «Facce nere» come tante altre.